ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La nozione di “beni comuni”, nel contesto di una revisione costituzionale degli assetti proprietari previsti dal codice civile[1].
di Paolo Maddalena
La dizione “beni comuni” ha avuto una diffusione senza precedenti ed è entrata nel linguaggio corrente per indicare un bene il cui uso è in qualche modo indispensabile per soddisfare le esigenze quotidiane dei singoli e delle collettività. Ma al di là di questo vago significato, dopo circa venti anni di laboriose ricerche, non ancora si è arrivati a una sua chiara definizione, che, secondo alcuni, si collocherebbe “oltre il pubblico e il privato”: dunque non si sa dove, confermandosi così il diffuso convincimento che si tratta di un “concetto inafferrabile”[2].
Eppure la necessità di chiarire questo concetto, nell’ambito di una revisione della disciplina dei “beni pubblici” sancita dal vigente codice civile, è diventata certamente impellente, specialmente dopo che l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha inserito nello Statuto del Movimento cinque stelle l’obiettivo di dar tutela e vita proprio a questo tipi di beni.
La finalità del presente articolo è proprio quello di dare un contributo alla soluzione di questo problema, ponendo in massima luce che, per dare effettività e tutela ai beni comuni, come sono stati percepiti dalla gente, nonché da numerosa dottrina, non è assolutamente idoneo il “il disegno di legge delega” elaborato dalla Commissione Rodotà” (meglio qualificata “Commissione Mastella-Rodotà”, poiché i suoi membri, i cui pareri prevalsero molto spesso su quelli del Prof. Rodotà, furono tutti nominati dal Ministro della Giustizia Mastella con decreto ministeriale del 21 giugno 2007), il quale, non ostante ciò che si afferma nella “Relazione di accompagnamento”, la quale ripetutamente fa riferimento ai principi costituzionali (esponendo anche considerazioni pienamente condivisibili), presenta mende di vario tipo e soprattutto viola in pieno la nostra Costituzione repubblicana e democratica.
Per rendersi conto della portata negativa di questo disegno di legge, occorre, a nostro avviso, partire dalle circostanze in cui si svolsero i lavori della Commissione.
A tal proposito è da sottolineare che, come si apprende dalla stessa Relazione[3] di accompagnamento al disegno di legge delega, l’esigenza di “riformare il contesto giuridico dei beni pubblici” fu fatta presente, nel 2002, da parte dei professori Sabino Cassese, Antonio Gambaro, Edoardo Reviglio, Ugo Mattei, e, in particolare dal Prof. Giulio Tremonti, Ministro delle finanze, al fine di rendere la disciplina di questi beni (molti dei quali erano stati “privatizzati”) compatibile con la struttura del nuovo “Conto patrimoniale delle amministrazioni pubbliche che era basato sui criteri della contabilità internazionale”, e cioè su “criteri privatistici” e non più su “criteri pubblicistici”, per cui, come agevolmente si comprende, in questa riforma, si sarebbe dovuto eliminare il riferimento alla “proprietà pubblica”, dando invece risalto alla “proprietà privata”. Obiettivo, del resto, pienamente conseguito nel disegno di legge delega in questione, poiché tale disegno ha sancito l’eliminazione del “demanio”, concependolo “non come proprietà demaniale del Popolo”, e quindi inalienabile, inusucapibile e inespropriabile (come oggi prescrive la Costituzione), ma come oggetto di “proprietà privata”, definita “pubblica”, in quanto “appartenente” a una “pubblica amministrazione”. Infatti l’ordinamento giuridico voluto da Carlo Alberto considerava i “beni pubblici” come “appartenenti allo “Stato persona giuridica”, e, in pratica, in proprietà del Sovrano e dei governanti.
Ciò risulta chiaramente da un regolamento di contabilità pubblica, approvato con R. D. n. 3074, del 5 maggio 1885, secondo il quale:“i beni dello Stato (cioè “appartenenti” allo Stato persona giuridica) si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a “titolo di sovranità” (cioè i beni che, originariamente, servono a rafforzare la posizione di chi governa), e formano il patrimonio quelli che allo Stato “appartengono” a titolo di “proprietà privata” (cioè alla pari di tutti i cittadini). Ed è da sottolineare che si tratta di una definizione che ripete letteralmente quanto disponeva l’art. 426 del codice civile del 1865, il quale, come è noto, ricalcava a sua volta la struttura e la matrice ideologica del code civil francese del 1804.
Ed è opportuno ricordare che il criterio “dell’appartenenza” dei beni demaniali a chi governa risale alle origini del demanio stesso, che fu creato con un provvedimento che discendeva dall’alto, cioè dal Sovrano. E’ quanto si legge nel “Liber Constitutionum” del Regno di Sicilia, emanato a Melfi, da Federico II, nel 1231[4], il quale precisa che il “demanio” (termine, che proviene dalla parola latina “dominium”, inteso, questa volta come “dominio regio”), nacque dalla necessità di “riservare” al Sovrano la “proprietà” (da considerare sempre “in senso privatistico”), di quei beni di maggiore interesse pubblico, proprio al fine di maggiormente tutelarne la sovranità.
In sostanza, siamo di fronte a una “eterogenesi dei fini”, poiché, il disegno di legge in parola, agendo secondo l’ordinamento vigente all’epoca dell’emanazione del codice civile (cioè sotto l’impero dello Statuto albertino), in realtà, senza che il lettore se ne accorga, finisce per produrre i suoi effetti sull’ordinamento vigente, con conseguenze fortemente dirompenti. Infatti, l’abolizione del “demanio”, non riguarda più “i beni dello Stato persona giuridica individuale”, e quindi i governanti che tale sovranità esercitano, ma il vigente “Stato comunità”, i cui “i beni demaniali” sono funzionali alla vita civile e ordinata di tutti i cittadini. E, al riguardo, è da tener presente che la Costituzione non si limita a stabilire “l’appartenenza della sovranità” al Popolo, ma prosegue indicando anche i “fini” che lo “Stato comunità” deve perseguire, per cui “i beni pubblici” in questione servono, non solo per garantire la “sovranità” di questo tipo di Stato, e quindi la sua “identità” e la sua “esistenza”, ma anche per raggiungere detti fini, che sono chiaramente indicati dal secondo comma dell’art. 3 Cost., secondo il quale “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, nonché dall’art. 4 Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, allo scopo di consentire a essi “di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Insomma, i fini da perseguire sono: “la libertà” e “l’eguaglianza” di tutti i cittadini; la loro effettiva “partecipazione” all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; la “effettività del diritto al lavoro”; il diritto di svolgere “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Ed è in questo quadro, che l’art. 42 Cost. sancisce che la “proprietà” non è soltanto “privata”, come nell’ordinamento voluto dallo Statuto albertino, ma è “pubblica e privata”, intendendo per ”pubblica”, come subito avvertì Massimo Severo Giannini[5], per l’appunto “la proprietà collettiva demaniale” del Popolo. A questo punto emerge con grande chiarezza il passo falso compiuto da questo disegno di legge. Esso, pur riconoscendo lo stretto collegamento esistente tra i beni pubblici e l’esercizio dei diritti fondamentali, ha tolto al Popolo sovrano i “mezzi economici”, che allo stesso servono per tutelare i “diritti fondamentali” e per perseguire gli altri fini ai quali abbiamo fatto cenno. Basta riflettere sul fatto che di detti “beni pubblici” diventano “titolari” singole pubbliche amministrazioni o addirittura singoli soggetti privati.
Un risultato sorprendente e in diretto contrasto con quanto la stessa Relazione di accompagnamento ai lavori della Commissione aveva affermato in ordine al perseguimento dei citati “diritti fondamentali” e dello “svolgimento della persona umana”. In effetti, risulta estremamente chiaro che detto disegno di legge ha completamente deragliato dai binari che avrebbe dovuto percorrere, quelli del vigente ordinamento costituzionale, e si è collocato sui binari di un ordinamento giuridico di matrice napoleonica, del tutto superato dal nuovo ordinamento previsto dalla nostra Costituzione, facendo in modo che le sue disposizioni normative corrispondessero alle idee della vecchia cultura borghese, oggi fatta propria dal pensiero unico dominante del neoliberismo.
Insomma questo continuare a parlare di “proprietà pubblica” come “proprietà privata” della “pubblica amministrazione”, anziché come “proprietà collettiva del Popolo”, risulta chiaramente come un fuor d’opera. In effetti la “Repubblica”, lo “Stato comunità”, previsto dall’art. 1 della Costituzione, è praticamente messo da parte come se non esistesse, mentre l’elemento costitutivo della Repubblica, cioè il “Popolo”, cui appartiene la “sovranità”, viene spogliato degli strumenti economici a lui originariamente appartenenti a titolo di sovranità.
Ed è da sottolineare che viene fuori una “classificazione puramente descrittiva”, che fa leva sul concetto di “appartenenza” alla pubblica amministrazione o ai privati, piuttosto che alla “natura” dei beni, come si voleva far credere. Infatti, come si legge nella Relazione, i beni sono distinti “in beni comuni (intendendosi per tali beni “le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona”), beni pubblici e beni privati”, mentre i “beni pubblici” sono classificati in: beni pubblici “ad appartenenza pubblica necessaria”, in beni pubblici “sociali”; e beni pubblici “fruttiferi”, precisandosi che: “i beni a appartenenza pubblica necessaria” sono “quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli Enti pubblici territoriali”; “i beni sociali” sono quei beni, “le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona”; “i beni pubblici fruttiferi” sono i beni, “che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti del diritto privato”. A cosa serva questa classificazione è difficile dirlo. Quello che è certo è che si prendono le mosse dai beni già “appartenenti” alla pubblica amministrazione e da questa “destinati” a determinati fini. Date le premesse, ci saremmo aspettati una classificazione dei beni “in base alla loro natura”, per risalire al loro “regime giuridico”, per stabilire cioè quali beni dovessero essere considerati fuori commercio, in quanto proprietà del Popolo, e quali beni in commercio. Invece ci troviamo di fronte a una classificazione che, in buona sostanza, prende atto di quanto già deciso dallo Stato, anche in ordine alla “alienabilità o inalienabilità” dei beni.
La eterogenesi dei fini, tuttavia, non si ferma qui. Infatti, nel definire “bene giuridico” la “cosa materiale o immateriale” le cui “utilità” possono essere” oggetto di diritto”, il disegno di legge in questione esclude ancora una volta la “proprietà collettiva del Popolo” e, in particolare, pone nel nulla il significato da dare alla dizione “proprietà pubblica”, che è espressa nell’art. 42, primo comma, primo alinea, della Costituzione”.
Non può sfuggire inoltre che la Relazione parla di “titolarità (cioè di proprietà) diffusa” dei beni pubblici, espressione che non avrebbe senso se non si pensasse, anche questa volta, alla “proprietà pubblica demaniale” del Popolo, nelle sue articolazioni territoriali, mentre la Relazione stessa dà al termine “diffusa” l’inconcludente significato di una “proprietà privata, appartenente a singoli soggetti o a singole amministrazioni pubbliche”.
L’eterogenesi dei fini appare ancora nell’affermazione secondo la quale sarebbe stata “garantita in ogni caso la fruizione collettiva”, la quale può esistere solo se si ammette una “proprietà collettiva” dei beni, e non se si fa riferimento, come si legge nella Relazione, ai beni in proprietà privata di singoli individui o di pubbliche amministrazioni.
Né risponde a verità che sarebbe stata adottata “una disciplina particolarmente garantista, idonea a nobilitare (i beni comuni) e a rafforzare la (loro) tutela”, poiché si è escluso, in modo eclatante, che l’azione di restituzione o di risarcimento del danno possa essere esercitata dai cittadini, singoli o associati, considerati, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come “parti” del Popolo, affermandosi che dette azioni spettano allo Stato pubblica amministrazione, cioè a un singolo soggetto pubblico, secondo quanto prescrive il ricordato Statuto albertino, che, come si è ripetuto, assegna la sovranità allo Stato persona giuridica.
Si potrebbe andare avanti nell’annoverare le molteplici contraddizioni e errori riscontrabili in questa proposta di legge delega, ma si ritiene di aver detto abbastanza, per far capire che non è possibile parlare di beni comuni, se si elimina la “proprietà collettiva demaniale” del Popolo sovrano e si fa ricorso, violando la Costituzione, alla sola nozione della “proprietà privata”.
Ben diversa dovrebbe essere la riconsiderazione della disciplina dei beni pubblici, se davvero si tenessero presenti i principi e le norme della nostra Costituzione.
Innanzitutto, c’è da precisare che la definizione di “bene in senso giuridico” deve essere tale da comprendere, oltre ai beni che possono essere oggetto di diritti individuali, anche i beni che possono essere oggetto di diritti collettivi, e pertanto occorre aggiungere alla definizione di cui al vigente art. 810 del codice civile anche il riferimento ai beni che sono oggetto di “tutela giuridica”. Si pensi alla biosfera, agli ecosistemi, alla comunità biotica, ecc., i quali sono certamente beni, ma non rientrano affatto in detta definizione. Occorre poi, ovviamente, far riferimento, non solo alle cose materiali, ma anche alle cose immateriali, tra le quali rientrano i servizi, le servitù pubbliche, e cosi via dicendo
A questo punto, la cosa più importante da porre in evidenza è che la Costituzione, nel sancire il passaggio dallo Stato persona allo Stato comunità, non solo ha dichiarato, all’art. 1 Cost., che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e che “la sovranità appartiene al Popolo”, ma anche chiaramente precisato, nel descrivere “l’Ordinamento della Repubblica”, cioè dello “Stato comunità” (artt. 55 ss.), che fanno parte di quest’ultimo: a)il Parlamento,b) il Presidente della Repubblica, c) il Governo e la Pubblica amministrazione, d) la Magistratura, e) le Regioni, le Province e i Comuni, f) la Corte costituzionale. Ed è estremamente ovvio che agli istituti appena elencati non può darsi altro nome se non quello di “Organi” della Repubblica. Questo, a nostro avviso, risulta da una lettura non preconcetta delle disposizioni costituzionali. Del resto, quasi tutti gli autori identificano lo “Stato comunità”, con lo “Stato ordinamento”, in tal modo implicitamente riconoscendo che tutti gli istituti appena elencati non possono essere altrimenti denominati se non “Organi” della Repubblica o dello Stato comunità che dir si voglia.
Sennonché, non si capisce bene per quale ragione, la dottrina[6]ritiene, di solito, che possono essere definiti “Organi” dello Stato comunità soltanto “gli organi che assolvono funzioni obiettive e neutrali, quali la funzione costituente, quella legislativa, quella giurisdizionale, quella del pubblico ministero, o assolvano altre funzioni di direzione suprema dello Stato (funzioni di governo), oppure espletano talune funzioni ausiliarie (di consiglio o di controllo) in veste obiettiva e neutrale”.[7]Insomma, quello che è escluso è, in pratica, la “pubblica amministrazione””, che persegue interessi pubblici concreti. A nostro sommesso avviso, questa esclusione non ha ragion di esistere e si spiega solo con il tentativo di far sopravvivere, come autonomo soggetto giuridico, lo Stato amministrazione, cioè lo Stato persona giuridica, che il Sandulli ama denominare “Stato apparato”. Sembra proprio che si tratti, più che di una questione di carattere propriamente giuridico, di una necessità, si direbbe psicologica, di non porre in secondo piano una nozione di Stato sulla quale si sono affaticati per secoli generazioni di giuristi, filosofi e politologi. Ma dal punto di vista della logica giuridica, e soprattutto alla luce dei principio costituzionali, si tratta, invero, di un gravissimo errore, foriero di infinite complicazioni, che invece diventano tutte superabili, se si accetta che la “pubblica amministrazione” e quindi lo “stato persona”, sopravvive nell’ordinamento costituzionale, come “Organo”, sia pur dotato di soggettività giuridica, dello “Stato comunità.
Alla luce di quanto appena detto, si può ben comprendere la portata dell’affermazione di cui all’articolo 42, primo comma, primo alinea, secondo la quale la “proprietà” non è più quella alla quale faceva riferimento lo Statuto albertino e, di conseguenza, il nostro codice civile, e cioè soltanto “privata”, ma è “pubblica e privata”. Una volta stabilito che la “Repubblica” è uno “Stato comunità”, è in ultima analisi il “Popolo sovrano”, ne consegue che la proprietà di quest’ultimo, che non è un ”soggetto singolo” come lo “Stato persona giuridica”, ma un “soggetto plurimo”, non può che essere “pubblica” e cioè, come avvertì Massimo Severo Giannini, “proprietà collettiva”, o “comune” che dir si voglia. E si tratta, ovviamente, di una “proprietà” di tutti, e quindi inalienabile, inusucapibile e inespropriabile, poiché è chiaro che un bene che già appartiene a tutti non può essere alienato a singoli. Per cui la definizione appena data, sempre seguendo Giannini, va completata con l’aggiunta della parola “demaniale”. Insomma la “proprietà pubblica” è la “proprietà collettiva demaniale” del Popolo sovrano. E se si pensa che alle origini, come ha da tempo dimostrato il Niebuhr[8], l’unica forma di proprietà conosciuta dai giureconsulti romani era soltanto la “proprietà pubblica” del Popolo, e che la “proprietà privata” si è formata per successive “cessione” ai singoli da parte dell’intero Popolo, non dovrebbe essere difficile capire che la nostra Costituzione, forte dell’esperienza romanistica (tra i costituenti c’era l’illustre romanista Giorgio La Pira), è stata capace di dare amplissimo respiro alle esigenze del Popolo, proprio creando la nozione di “proprietà pubblica” in contrapposizione a “proprietà privata”.
E, a ben vedere, è proprio la permanenza nell’ordinamento costituzionale dello Stato persona come “Organo” dello Stato comunità, che consente di dar vita e sostanza alla “proprietà pubblica”. La “proprietà pubblica”, intesa correttamente come “proprietà collettiva demaniale”, non può che essere “gestita” dallo “Stato persona”, cioè, in ultima analisi dai “pubblici uffici che devono essere organizzati secondo disposizioni di legge , in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (art. 97 Cost.). E non è tutto. Occorre che a tale gestione concorrano liberamente i cittadini, singoli o associati, in virtù del loro “diritto fondamentale” alla “partecipazione dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.).
La “proprietà privata”, come ci aiuta a capire il seguito del primo alinea dell’art. 42 Cost. “appartiene” invece “allo Stato (persona), a enti o a privati”, se e in quanto si tratti di “beni economici”. E anche in questo secondo caso, quando si tratta di soggetti pubblici, è assicurato ai cittadini il loro diritto di partecipazione alle scelte della pubblica amministrazione.
E qui viene in evidenza la distinzione gaiana tra”beni fuori commercio” e “beni in commercio”. Appare chiaro, dopo quanto detto, che “fuori commercio” sono i beni che appartengono a tutti e sono oggetto di “proprietà collettiva demaniale”, mentre i beni in commercio sono tutti gli altri beni non necessari per l’esistenza e la vita del Popolo (art,. 36 Cost.). Tali beni sono definiti “commerciabili”, o, come acutamente dispone il citato articolo 42 Cost. “economici”, per il semplice fatto che i “beni fuori commercio”, essendo fuori mercato, non possono avere una “valutazione economica”, una valutazione che deriva dalla “scambio”, mentre quelli in commercio hanno sempre un loro “prezzo”, determinato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Alla luce di quanto appena detto, appare evidente che “l’originaria appartenenza” di tutti i beni (in sostanza ll “territorio” e quanto la natura e gli uomini sul territorio producono), proietta i suoi effetti anche sulla proprietà privata, mantenendo vivo l’obbligo dei privati di rispettare gli interessi e i diritti che tutti i cittadini conservano su detti beni[9]. Si ricordi, innanzitutto, che la “proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, per cui, se tale funzione viene meno, viene meno anche la tutela del diritto di proprietà, e il bene, come avviene per i “beni abbandonati”, torna là da dove era venuto, cioè nella “proprietà pubblica” del popolo e, quindi, dello Stato comunità. E si ricordi ancora che, secondo l’art. 41 della Costituzione “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Si tratta di principi imperativi di ordine pubblico economico , la cui violazione comporta, ai sensi dell’art. 1418 del codice civile, la dichiarazione della “nullità” dell’atto, senza limiti di tempo.
Una proiezione del’originaria ”proprietà pubblica” del Popolo deve poi rinvenirsi nei “vincoli” posti a carico dell’utilizzo da parte dei privati proprietari di quei beni che presentano caratteri di preminente interesse pubblico. Si tratta dei vincoli urbanistici, ambientali, paesaggistici, di sicurezza, e così via dicendo.
Alla luce di quanto appena esposto, dovrebbe risultare evidente che una rilettura in senso costituzionalmente orientata delle norme civilistiche sui beni pubblici, dovrebbe comportare una nuova definizione di “proprietà privata” e una nuova definizione di “demanio”, eliminando la spuria categoria del cosiddetto “patrimonio indisponibile”, per arrivare a una credibile nozione ermeneutica dei “beni comuni” e della loro tutela.
Quanto alla nuova, impellente, definizione della “proprietà privata”, l’attuale art. 832 del codice civile, secondo il quale “il proprietario gode e dispone della cosa in modo pieno e esclusivo”, dovrebbe essere conformato alla Costituzione e recare la seguente definizione: “il proprietario gode della cosa, assicurandone la sua funzione sociale. Dispone della cosa in modo da non contrastare l’utilità pubblica e di non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Una definizione di questo genere, agevolerebbe senza dubbio il recupero di quei beni pubblici che sono stati “privatizzati” e sottratti fraudolentemente alla proprietà del Popolo, per cederli nelle mani di speculatori italiani, e soprattutto stranieri, a danno di tutti i cittadini e, in genere, dell’economia nazionale.
Quanto alla nuova definizione del “demanio”, è evidente che occorre rinunciare a una elencazione tassonomica e ricorrere a una definizione ermeneutica, che indichi i “criteri di individuazione” dei beni demaniali, piuttosto che una loro elencazione, la quale è di fatto impossibile. In questa prospettiva, occorre tener presente il carattere dinamico della nostra Costituzione, il cui fine, come si è già sottolineato, è quello del libero svolgimento della persona, la sua partecipazione alla vita pubblica, l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, l’esercizio dei diritti fondamentali (art. 3, comma 2, Cost.), nonché il progresso materiale e spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.). Appare allora evidente che una definizione dei criteri di individuazione dei beni in proprietà pubblica dovrebbe far riferimento ai beni che per le loro caratteristiche sono in grado di garantire, non solo la “sovranità” dello Stato comunità, e quindi la sua “esistenza” e la sua “identità”[10],ma anche il perseguimento di detti fini, e soprattutto l’esercizio dei diritti fondamentali.
In questo quadro, appare evidente che certamente fanno parte del demanio, costituzionalmente inteso, la biosfera, il territorio, l’ambiente, l’ecosistema, i beni paesaggistici e storici, i limiti posti alle proprietà private a tutela del paesaggio, dell’ambiente, dei centri storici, ecc., il demanio naturale di cui all’art. 822 del codice civile (unitamente a quelli della stessa natura collocati nel secondo comma dell’art. 826 dello stesso codice), nonché i beni che, ai sensi dell’art. 43 della Costituzione, dovrebbero essere in mano pubblica, e cioè le industrie strategiche, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia e le situazioni di monopolio.
La disciplina dei beni pubblici in proprietà collettiva demaniale dovrebbe inoltre sancire, non solo la “inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità”, a suo tempo prevista dal codice civile per i beni demaniali di antica memoria, ma anche la loro “non sdemaniabilità”, trattandosi di beni la cui funzione, come si è più volte ripetuto, è quella di salvaguardare la stessa identità e esistenza dello Stato comunità, nonché l’esercizio dei diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo.
Quanto alla tutela dei beni di cui si parla, è ovvio che i primi strumenti sono nelle mani del governo e della pubblica amministrazione, i quali possono far ricorso al cosiddetto golden power, al potere cioè di porre nel nulla gli atti contrari all’utilità pubblica, nonché alla “nazionalizzazione” delle industrie strategiche, le quali non sono affatto vietate dai Trattati europei, come sovente erroneamente si crede, ma sono la via maestra per la ricostituzione del nostro “patrimonio pubblico” ignobilmente ceduto a terzi mediante le micidiali “privatizzazioni”. E’ inoltre da tener presente, come del resto si è già detto, che, in base al combinato disposto degli articoli 2, commi 1 e 2; 3, comma 2; 4, comma 2; 118, comma 4, anche i cittadini, singoli o associati, possono agire davanti al giudice, in via sussidiaria, come “parti della Comunità”, e chiedere, o la restituzione del bene, oltre il risarcimento del danno, o la inibizione di turbative al loro godimento. Questa, come agevolmente si nota, è certamente una tutela “particolarmente garantista e rafforzata”, molto diversa da quella, molto parziale, prevista dalla ricordata delibera della Commissione Mastella-Rodotà.
A questo punto appare fin troppo evidente che la nozione di ”beni comuni”, se a essa si vuol dare il contenuto che la speculazione dottrinaria degli ultimi decenni ha voluto loro attribuire, viene a coincidere perfettamente con la nozione dei “beni pubblici” del Popolo sovrano. Si potrebbe dire che “i beni pubblici o comuni” sono quei beni che assicurano l’esistenza e l’identità degli elementi costitutivi dello Stato comunità, e cioè del “Popolo” e del “territorio”, nonché l’esercizio da parte di tutti i cittadini dei “diritti fondamentali”.
E’ opportuno, tuttavia, anche specificare che, nell’ambito dei “beni pubblici o comuni”, è possibile individuare una ristretta categoria di beni per i quali, più che mai è importante la “partecipazione” dei cittadini. Si tratta di beni, per il cui “uso” particolarmente alta è l’interesse di “singole comunità”. Ciò si è verificato per l’utilizzo degli spazi pubblici, delle zone verdi, dei beni abbandonati e soprattutto per le servitù pubbliche e gli usi civici e collettivi, urbani e rurali. D’altro canto, non può dimenticarsi che gran parte delle teorizzazioni sui beni comuni, a cominciare da quelle del premio nobel Elinor Ostrom[11], hanno riguardato l’attività delle persone in relazione a quei beni per i quali risulti opportuno, non l’intervento dello Stato, ma quello di singole collettività, costituendo i cosiddetti “commons”.
E’ da sottolineare, comunque, che, in casi del genere, è possibile fare un discorso che riconosca alle “collettività” soltanto la “gestione” dei beni di cui si parla, ma non la “loro proprietà”, la quale, per i motivi ai quali si è fatto riferimento, non può che appartenere al Popolo, considerato nelle sue diverse articolazioni territoriali (art. 114 Cost.). Le proprietà collettive, come gli usi civici, le magnifiche regole, le comunanze emiliane, e così via dicendo, sono retaggi di un passato, quando tutto il mondo era costituito da un villaggio, ma ben diversa è la loro posizione in un’epoca in cui tutto il mondo è diventato un villaggio[12]. Parlare di “domini collettivi”, come fa la legge 20 novembre 2017, n. 168, ha senso solo perché serve a far sì che determinate zone conservino la loro destinazione agricola o forestale, ma non per il fatto che i discendenti degli antichi coltivatori di quelle terre siano considerati “comproprietari” di esse. Infatti non è rara l’ipotesi che questi terreni siano gestiti da SPA, che li fanno coltivare da terzi, e poi pagano annualmente ai cosiddetti “proprietari collettivi” delle somme più o meno corrispondenti a determinate quote del raccolto di funghi, castagne o semplici legnami. Non è chi non veda che una situazione del genere si configura più sotto l’aspetto di un privilegio, che non di un reale diritto.
Dopo quanto abbiamo detto, ci sembra che il lungo discorso su cosa siano i beni comuni viene definitivamente a concludersi. E’ inutile cercare varie definizioni e creare vaghe categorie “oltre il pubblico e il privato”. La realtà dell’ordinamento costituzionale vigente è chiara e definita: i beni, o sono in “proprietà privata”, o sono in “proprietà pubblica” (art. 42 Cost.), e, in uno Stato comunità la “proprietà pubblica” coincide perfettamente con la ”proprietà comune”, che spetta al Popolo a titolo di sovranità. La verità era là, nella lettura non preconcetta degli articoli 1 e 42 della Costituzione, e le abbiamo girato intorno per tanti anni senza accorgerci, mentre non sono stati pochi gli illustri giuristi, che, anziché leggere il codice civile alla luce della Costituzione, hanno letto quest’ultima alla luce delle norme del codice civile, emanato, come tutti sanno, sotto l’impero dello Statuto albertino.
Questa conclusione è di estrema importanza. Infatti oggi la “proprietà comune” del Popolo, i cosiddetti “beni comuni”, costituiti principalmente, come si è accennato, dai beni artistici e storici, dal paesaggio (art. 9 Cost.), nonché dalle industrie strategiche, dai servizi pubblici essenziali, dalle fonti di energia e dalle situazione di monopolio (art. 43 Cost.), una volta quasi sempre appartenenti allo Stato o a Enti pubblici territoriali, sono stati cinicamente “privatizzati”, si è fatto in modo cioè, che, attraverso la fraudolenta trasformazione dell’Ente pubblico in una SPA, essi passassero dalla “proprietà comune” del Popolo sovrano a lestofanti di ogni genere, oltre che a multinazionali e a operatori finanziari di varia estrazione[13]. Il refrain “privato è bello”, “meno Stato e più privato”, non ha tolto la ricchezza nazionale a uno Stato persona giuridica, considerato come un terzo soggetto rispetto ai cittadini, ma al Popolo intero, che è elemento strutturale e essenziale dello Stato comunità. I licenziamenti sono sempre più frequenti, la vita dei lavoratori è considerata di nessun valore, rispetto alla prospettiva di guadagno del datore di lavoro, che apre e chiude le fabbriche a proprio piacimento, oppure le delocalizza, o addirittura ne provoca il fallimento, gettando sul lastrico intere famiglie e facendo crollare l’economia nazionale. La forbice tra ricchi e poveri si è spaventosamente allargata[14] e i poveri assoluti hanno raggiunto i sei milioni di persone, mentre i poveri in povertà gravissima hanno superato i dieci milioni. E questo perché, come detto, l’intero patrimonio della Nazione è stato maledettamente “privatizzato”. E’ ora che il Popolo sovrano, spogliato del suo “patrimonio comune” faccia sentire forte la sua voce, ricordando che tutti i governi, succedutisi dall’assassinio di Moro in poi, hanno sempre seguito il pensiero neoliberista, tagliando ramo per ramo tutta la struttura dello Stato comunitario e democratico. Chi ha sbagliato paghi. E tutti sappiano che l’attuale sistema economico predatorio, cinico, illecito e incostituzionale, che ci ha ridotto alla miseria, deve essere abbattuto e che, come previsto dal titolo terzo della Parte prima della Costituzione è da ritenere legittimo soltanto un sistema economico di stampo keynesiano, che produca lavoro e ricchezza e non disoccupazione e miseria come quello attualmente seguito.
Siamo stati derubati del nostro “patrimonio comune”, costituito da “beni comuni”, e in “proprietà pubblica” di tutti i cittadini, a titolo di sovranità, ed è ora di riprenderci tutto quello che ci è stato illecitamente tolto[15]. La Costituzione è dalla nostra parte. E’ l’ultima vera arma che abbiamo, e le sue molteplici violazioni, da parte di politici traditori della Patria, non ha scalfito la sua esistenza e il suo vigore, essendo stata confermata plebiscitariamente dal referendum sull’acqua del 2011 e dal referendum sulla “deforma renziana” del 2016. E, lo si ricordi, coloro che professano le idee neoliberiste, che arricchiscono i ricchi e impoveriscono i poveri, non sono degni di governare l’ Italia.
1 Relazione da me svolta, in data 7 luglio 2021, all’interno del Seminario sui beni comuni, organizzato dal Dipartimento ionico dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. Fondamento di tale relazione è stato il mio ultimo libro “La rivoluzione costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica”, Ed, Diarkos, 2020. Di grande aiuto mi è stato l’apporto tratto dalla lettura dell’articolo di Salvatore Settis “A titolo di sovranità”, in Leone Maddalena Montanari Settis, Ed. Einaudi, 2013; del libro dello stesso Autore, “Paesaggio, Costituzione, Cemento”, Ed. Einaudi, 2010; del libro di Tomaso Montanari, “Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la crisi che verrà”, Ed. Marco Vigevani e associati, 2014 e del libro di Nicola Capone, “Lo spazio e la norma”, Ed. Ombre Corte, 2020.
[2] Il Rodotà avverte che: “l’attenzione rivolta ai beni comuni non si risolve tutta nella costruzione di una nuova categoria di beni”, S. Rodotà, “Il terribile diritto”, Ed. Il Mulino, 2013, pp. 464 ss.
[3] In Atti del Ministero della giustizia del 15 febbraio 2008.
[4] Sull’argomento, vedi: P. Maddalena, Il territorio bene comune degli Italiani, Ed. Donzelli, Roma, 2014, p. 56 s.
[5] M.S. Giannini, “I beni pubblici”, Ed. Bulzoni, 1971, rist. 1981, p. 47.
[6] A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Ed. Giuffrè, 1969, p. 5,
[7] A.M. Sandulli, o. c., l. c.
[8] B. G. Niebuhr, “Romische Geschichte”, Berlin, 1811, I, pp 245 ss.
[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra, Ed. Adelphi, 2011, p. 24, afferma che “ogni occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata, pienamente libera del singolo”.
[10] L’identità dello Stato comunità è garantita dalla tutela dei beni artistici e storici. Vedi Emanuele Petracca, “Una identità in vendita”, Ed. Primiceri, 2021.
[11]E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990. Traduzione italiana: Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006
[12] P. Grossi, “Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria. Ed. Giuffré, 1977.
[13] M. Mazzuccato e M. Jacobs, “Ripensare il capitalismo”, Ed. Laterza, 2021.
[14] Joseph E. Stiglitz, “La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla”, Ed. Einaudi, 2016.
[15] P. Ferrero, “La truffa del debito”, Ed. Derivapprodi, 2014.
Gli incarichi legali della p.A. e le “mobili frontiere” dell’equo compenso.
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa. 2. Il quadro normativo di riferimento. 3. L’equo compenso dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione. 4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021. 5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa. 6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
1. Premessa
Con ricorso notificato il 10 gennaio 2021 un operatore economico aveva impugnato il provvedimento adottato dal Comune di Cernusco sul Naviglio per l’affidamento di un servizio di valore superiore ai 2,2 milioni di euro. In vista della Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il Comune l’11 febbraio 2021 ‒ quindi dopo ben trenta giorni dalla notifica ‒ interpellava a mezzo mail cinque professionisti affinché entro il giorno successivo (sic!) formulassero un preventivo dei costi per la difesa in giudizio dell’Ente nella fase cautelare e in quella di merito.
Nella propria comunicazione, peraltro, l’Amministrazione indicava in 2,2 milioni di euro il valore della causa, parametrandolo al valore dell’appalto contestato.
Acquisiti, quasi ad horas, i preventivi di taluni dei legali interpellati, l’Ente affidava l’incarico alla professionista che aveva offerto il minor prezzo.
Uno dei legali che avevano formulato l’offerta insorgeva innanzi al Tar Lombardia contro l’affidamento, deducendo l’illegittimità dei relativi atti sotto diversi profili, tutti riconducibili alla violazione della disciplina in materia di “equo compenso” [1].
Alla Camera di Consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il ricorso veniva deciso con la sentenza in forma semplificata n. 1071/2021 che si inserisce nel vivace dibattito sui criteri e sulla misura del compenso per le prestazioni rese dai professionisti in favore delle pubbliche Amministrazioni.
2. Il quadro normativo di riferimento
Occorre ricordare che, come è noto, per effetto del c.d. “decreto Bersani” (d.l. 4 luglio 2006, n. 223) sono stati eliminati i limiti tariffari inderogabili per le prestazioni professionali, in favore di un sistema liberalizzato[2] nel quale le parti possono negoziare il valore della prestazione d’opera intellettuale e pattuire un compenso omnicomprensivo.
Per quanto riguarda, in particolare, la professione forense, la legge professionale[3] (di seguito l.p.) ha sancito la regola della libera negoziazione del compenso[4], individuando il riferimento ai c.d. “parametri” (introdotti con d.m. n. 55/2015) per le ipotesi in cui il corrispettivo per le prestazioni professionali non sia stato determinato in forma scritta nonché “in ogni caso di mancata determinazione consensuale” (art. 13, comma 6, l. n. 247/2012).
Il quadro normativo è stato arricchito dall’art. 13 bis l.p., rubricato “equo compenso e clausole vessatorie”, a mente del quale nei rapporti professionali regolati da convenzioni “unilateralmente predisposte” da soggetti economicamente forti ‒ imprese bancarie e assicurative, nonché imprese di grandi dimensioni ‒ ed aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di assistenza, rappresentanza e difesa in giudizio, deve essere comunque garantito al legale un equo compenso[5].
In particolare, “ai fini del presente articolo si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametriprevisti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6” (art. 13 bis, comma 2)[6].
Sono considerate vessatorie le clausole che determinano “anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato” (comma 4), con la conseguente possibilità per il professionista di agire in giudizio per ottenere la declaratoria della relativa nullità (comma 8) e la determinazione giudiziale del compenso secondo i parametri individuati dal d.m. (comma 10).
Con l’art. 13 bis l. n. 247/2012 (introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 1, d.l. 16 ottobre 2017, n. 148), il legislatore ha inteso apprestare direttamente nella legge professionale una tutela per l’avvocato che versa in una situazione di squilibrio contrattuale allorquando si trovi ad accettare incarichi proposti da grandi imprese, banche o assicurazioni.
Nello stesso articolo 19 quaterdecies d.l. n. 148/2017, al comma 3, il legislatore, senza innovare l’impianto della legge professionale, ha affermato, tuttavia, un ulteriore principio in forza del quale “la pubblica Amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti.
La precisa volontà del legislatore del 2017 di disciplinare autonomamente i rapporti dell’avvocato con le imprese “forti” (art. 19 quaterdecies, comma 1) o con la p.A. (art. 19 quaterdecies, comma 3), induce a ritenere che le due fattispecie non siano sovrapponibili e assolvano a funzioni differenti.
La prima, come si è già sottolineato, risponde all’esigenza di protezione di un soggetto (l’avvocato) che, per quanto qualificato ed “informato”, si trova in posizione di debolezza negoziale sul mercato dei servizi legali richiesti da committenti che, per la numerosità e la continuità nel tempo degli incarichi, potrebbero imporre condizioni eccessivamente svantaggiose.
L’art. 19 quaterdecies, comma 3, invece, non disciplina direttamente e puntualmente i rapporti tra l’avvocato ed il cliente-p.A., ma impone all’Ente di garantire il rispetto di una regola (di congruità del compenso professionale) che assurge, addirittura, a “principio” direttamente correlato ai principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia dell’attività amministrativa.
3. L’ “equo compenso” dell’avvocato e la garanzia dell’efficacia della difesa dell’Amministrazione.
Nei rapporti tra Amministrazione e difensore esterno, la quantificazione non irrisoria del corrispettivo è ritenuta strumentale al buon andamento che, allorquando l’Ente sia coinvolto in controversie legali, può essere assicurato dall’opera dell’avvocato.
Ritiene il legislatore che, solo attribuendo un compenso “equo”, l’Amministrazione possa assicurarsi, sul libero mercato dei servizi legali, le prestazioni dei professionisti più capaci e che, d’altro canto, questi ultimi, in virtù di un compenso ragionevole e sufficientemente remunerativo, possano essere incentivati anzitutto ad accettare l’incarico proposto dall’Ente e, di conseguenza, a profondere il massimo sforzo nell’esecuzione dello stesso.
Solo per tal via il venir meno del sistema tariffario non si risolve in un detrimento per l’Amministrazione. Questa, essendo ex lege tenuta a “garantire il principio dell’equo compenso”, potrà legittimamente orientare la scelta del professionista esterno anche verso difensori che ‒ nonostante vantino, in ipotesi, una consistente clientela privata (evidentemente per la qualità dei propri servizi) ‒,potrebbero essere indotti ad accettare l’incarico pubblico in ragione di un compenso che non sia esiguo o, peggio ancora, meramente simbolico.
L’obbligo di garantire il principio dell’equo compenso mette così l’Amministrazione nelle condizioni di competere ad armi pari con altri soggetti per assicurarsi i servizi dei professionisti più capaci, con evidente vantaggio per l’interesse pubblico.
4. La pronuncia del Tar Lombardia n. 1071/2021.
La sentenza in esame, tuttavia, non distingue la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra professionista e “cliente forte” (art. 13 bis l.p.) dalla disciplina rivolta alle pubbliche Amministrazioni (art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017). Anzi, nel sovrapporre la prima alla seconda, finisce per svilire il chiarissimo dettato normativo.
Il T.a.r. Lombardia riconosce, correttamente, che “l’applicazione della disciplina dell’equo compenso, in quanto eccezione al principio pro-concorrenziale della libera pattuizione del compenso spettante al professionista, di cui all’articolo 13, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, soggiace a precisi limiti soggettivi, ovvero l’appartenenza del cliente alle categorie delle imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni”, ma compie poi un salto logico ‒ che mina il successivo ragionamento ‒ allorquando estende sotto il profilo soggettivo l’applicazione della norma anche alle pubbliche Amministrazioni.
L’erronea equiparazione della p.A. al “cliente forte” ‒ operata nonostante la chiara distinzione delle due ipotesi nel d.l. n. 148/2017 ‒ ispira le successive considerazioni del giudice amministrativo.
In particolare, il Collegio estende al caso portato alla sua attenzione considerazioni che potrebbero validamente fondare una decisione relativa alla quantificazione del compenso nei soli rapporti tra professionista e imprese bancarie, assicurative o di grandi dimensioni.
È senz’altro vero, infatti, che “la disciplina dell’equo compenso non trova (…) applicazione ove la clausola contrattuale relativa al compenso per la prestazione professionale sia oggetto di trattativa tra le parti”; e che “la tutela avanzata della debolezza del professionista, a fronte del potere di mercato del cliente forte, può essere reclamata anche ove il professionista sia posto in condizione di incidere sul contenuto della clausola relativa al compenso professionale, come si verifica nelle fattispecie riconducibili al principio generale di abuso di dipendenza economica, di cui all’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, ovvero, in coerenza con la previsione del «significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato», contenuta nell’articolo 13-bis, comma 2, di «un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi»”.
Non è altrettanto vero, tuttavia, che la medesima situazione (escludente l’applicabilità del principio dell’equo compenso) si verifica “nelle fattispecie di formazione della volontà dell’Amministrazione secondo i principi dell’evidenza pubblica, ove l’Amministrazione non imponga al professionista il compenso per la prestazione dei servizi legali da affidare”.
In altri termini: se la disposizione prevede semplicemente ed in via generale che la p.A. “garantisce il principio dell’equo compenso”, non può propugnarsi un’interpretazione che finisce per circoscriverne l’applicabilità ai soli casi in cui l’Amministrazione abbia predeterminato il compenso imponendolo al professionista.
La disposizione, infatti, come si è già osservato, è volta a tutelare l’interesse pubblico ad una difesa efficace della p.A. (quale portato del richiamato principio di buon andamento), non di certo a tutelare l’avvocato quale contraente debole.
L’interpretazione in forza della quale allorquando sia il professionista a quantificare il proprio compenso, non sussisterebbe il potere-dovere dell’Amministrazione di garantire che lo stesso sia “equo”, stride con la lettera e con lo spirito della norma e finisce per avallare condotte potenzialmente lesive di quell’interesse pubblico che il legislatore ha voluto tutelare.
In relazione a questo profilo la sentenza in commento muove da una premessa non condivisibile, allorquando afferma che “la disciplina dell’equo compenso è rivolta a tutelare la posizione del professionista debole e non l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale, la quale si realizza attraverso il rispetto dei precetti contenuti nel codice deontologico, che impongono al professionista di non offrire la propria prestazione in cambio di compensi lesivi della dignità e del decoro professionale, nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza (articolo 9, comma 1, del Codice deontologico forense) e dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le istituzioni forensi (articolo 19 del codice deontologico forense)”.
In realtà, la disciplina dell’equo compenso nei rapporti tra Amministrazioni e avvocato non è volta a tutelare né il contraente debole, né l’indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale. Essa, piuttosto ‒ come dianzi rilevato ‒ è ispirata dall’interesse acché (anche) riconoscendo un compenso non vile al proprio difensore, la p.A. sia messa nelle condizioni migliori, in riferimento al mercato dei servizi legali, per accedere ad una difesa efficace e possa, per tal via, tutelare al meglio l’interesse pubblico.
Il Tar Lombardia, dunque, sembra non mettere a fuoco gli esatti termini della questione allorquando afferma che, nel caso di specie, il compenso previsto tra Comune e avvocato designato non è “idoneo né a determinare un significativo squilibrio contrattuale a carico [del legale] né ad esporre il Comune al rischio di un successivo intervento correttivo del giudice civile”.
L’accertamento dello squilibrio contrattuale e l’intervento correttivo del giudice sono previsti, infatti solo nei rapporti tra avvocato e “cliente forte” (art. 13 bis, comma 10, l.p.), mentre nel caso di specie il giudice amministrativo avrebbe dovuto accertare soltanto se il compenso pattuito tra le parti potesse considerarsi equo, e dunque, se l’Amministrazione avesse rispettato il principio introdotto dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017.
Il ricorrente, nel dedurre la violazione di legge in riferimento a tale disposizione nonché all’art. 13 bis l.p., aveva paventato la possibilità che l’affidamento dell’incarico per compensi irrisori rispetto all’attività da svolgere esponesse il Comune al rischio di attività difensive non adeguate.
Ma, secondo il Tar lombardo, non esiste il rischio che il professionista, in ragione del compenso “non equo”, possa profondere nella trattazione dell’affare un impegno non adeguato. Ciò in quanto l’art. 1176, comma 2, c.c. impone che nelle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza, che il debitore è sempre tenuto a garantire, debba esser valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Anche in questo caso l’argomento non può essere condiviso.
Come è noto, le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono considerate “di mezzi” e non “di risultato”, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo[7].
Tale principio, tuttavia, attiene alle modalità di esecuzione del contratto, non già alle regole che presiedono alla scelta del professionista da parte dell’Amministrazione e al conseguente instaurarsi del rapporto tra questa e il difensore designato.
In altri termini: se il legislatore ha inteso vincolare l’Amministrazione all’osservanza del principio dell’ equo compenso, non si può concordare con il Tar allorquando afferma che il semplice obbligo di diligenza ex art. 1176 c.c. “elimina in radice i dubbi che la qualità della prestazione professionale possa essere condizionata dall’entità del compenso offerto”.
Tale interpretazione finisce per affidare al solo (e generale) obbligo di diligenza quella particolare cura per l’interesse pubblico che il legislatore ha voluto prevedere con la più volte richiamata norma di cui al art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. 148/2017.
La tesi sostenuta dal Tar, dunque, appare non esente da rilievi non solo (o non tanto) perché rappresenta un vulnus per gli interessi della categoria forense[8], ma in quanto si pone in contrasto con una scelta ordinamentale ispirata a ragioni di massima garanzia di un’efficace difesa delle pubbliche Amministrazioni, rispetto alla quale l’osservanza del principio dell’equo compenso appare servente.
Il Tar Lombardo si richiama espressamente ad un orientamento giurisprudenziale che affermerebbe “la compatibilità con la disciplina dell’equo compenso persino delle procedure di affidamento di incarichi professionali gratuiti”.
Il primo precedente richiamato è la nota sentenza con la quale il Tar Lazio nel 2019 aveva ritenuto legittimi gli atti di affidamento a titolo gratuito di incarichi di consulenza in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze[9]. In quel caso, tuttavia, il giudice amministrativo aveva rigettato il ricorso, osservando che la disciplina sull’equo compenso non impedirebbe al professionista di rendere gratuitamente la propria prestazione, ben potendosi immaginare che questi possa “trarre vantaggi di natura diversa, in termini di arricchimento professionale” e curriculare. Nell’argomentare del Tar Lazio, però, merita di esser richiamato il passaggio in cui si afferma che la disciplina dell’equo compenso deve “intendersi nel senso che, laddove il compenso in denaro sia stabilito, esso non possa che essere equo”. Dunque, per il giudice romano, l’incarico può anche essere gratuito, ma se è conferito a titolo oneroso, il relativo compenso deve essere equo.
Il Tar milanese richiama, poi, una sentenza che non solo ha dichiarato l’illegittimità di un appalto pubblico di servizi di architettura e ingegneria a titolo gratuito, ma ha rimarcato ‒ ancorché a livello di mero obiter dictum ‒ la diretta riconducibilità dell’equo compenso ai principi enunciati dagli art. 35 e 36 Cost.[10].
La tesi sostenuta dal Tar Lombardia nella sentenza breve che si commenta, sembra, così, essere smentita da un’interpretazione letterale e teleologica della legge, ma anche da quella giurisprudenza richiamata dallo stesso Collegio a fondamento della propria decisione.
5. P.A. ed equo compenso del professionista nella giurisprudenza amministrativa.
Nella giurisprudenza amministrativa, d’altro canto, sembra non agevole la ricostruzione di un orientamento univoco.
Il Consiglio di Stato, ad esempio, ha ritenuto legittimi gli atti con i quali era stato affidato (al valore simbolico di un euro) un appalto pubblico di servizi relativi alla redazione di uno strumento urbanistico, osservando che sussisterebbe addirittura una “preferenza”, nell’ordinamento dei contratti pubblici, per un’accezione ampia e particolare dei “contratti a titolo oneroso” e in forza della quale sarebbero ammissibili procedure che prevedano offerte gratuite allorquando dall’aggiudicazione il contraente possa trarre (ad esempio sotto il profilo reputazionale e curriculare) “un’utilità economica lecita e autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’Amministrazione appaltante” [11].
In un altro caso sono stati annullati gli atti di una gara per l’affidamento del servizio di assistenza giuridico-legale di un Comune, osservando come l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista assumesse rilievo sia in relazione all’esiguità del compenso indicato quale base di gara, sia con riguardo alla stessa legittimità dalla procedura comparativa avviata[12].
Del pari, sempre richiamando il principio dell’equo compenso, è stata sospesa, in sede cautelare, l’efficacia di un avviso pubblico con il quale un Comune aveva preannunziato la costituzione di un elenco di professionisti esterni cui affidare incarichi di difesa dell’Ente, prevedendo un compenso “pari allo zero” per le controversie di valore inferiore a € 500[13].
Ancor di recente, il Tar Marche ha annullato gli atti relativi alla selezione pubblica per l’incarico di “sindaco unico” di una società partecipata a fronte del quale era stato offerto un compenso forfetario e fisso notevolmente inferiore a quello equo dovuto secondo i vigenti parametri[14]. In quel caso il Collegio ha richiamato gli artt. 35 e 36 della Costituzione e, pur ricordando l’applicabilità del principio dell’ equo compenso alla p.A., ha preferito equiparare la pubblica Amministrazione ad un “contraente forte” piuttosto che valorizzare il ruolo autonomo che il principio riveste nei rapporti tra professionista ed Ente pubblico[15].
6. Discrezionalità amministrativa e motivazione: alla ricerca di un punto di equilibrio tra esigenze di contenimento della spesa pubblica e interesse dell’Amministrazione a una difesa efficace.
Dall’analisi svolta sembra trarsi conferma che il principio dell’equo compenso nei rapporti professionali tra avvocato e Amministrazione risponde al più volte ricordato interesse pubblico ad una difesa efficace, realizzato anche attraverso la possibilità per l’Ente di assicurarsi (pattuendo un corrispettivo non irrisorio) le prestazioni di avvocati più richiesti sul libero mercato dei servizi legali.
Ciò, tuttavia, non deve indurre a ritenere che sussista un obbligo per le Amministrazioni di attenersi in maniera rigida e inderogabile ai parametri di cui al d.m. 55/2014.
Se così fosse, infatti, si finirebbe per reintrodurre surrettiziamente quel regime tariffario che l’ordinamento ‒ con una chiarissima scelta, frutto anche delle spinte del diritto dell’Unione ‒ ha inteso superare sin dal 2006[16].
D’altro canto, non può ignorarsi che l’ordinamento, sebbene ad altro proposito, “considera equo il compenso determinato nelle convenzioni (…) quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri” (art. 13 bis, comma 2, l.p.).
Ed allora, il punto di equilibrio del sistema ‒ nella dialettica tra l’interesse pro-concorrenziale sotteso all’abolizione delle tariffe professionali[17] e l’interesse pubblico a una difesa efficace dell’Ente ‒ può essere individuato nel legittimo esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione. Questa, infatti, pur essendo tenuta a rispettare il principio dell’equo compenso, dispone di un margine di scelta nel valutare se, secondo le peculiarità del singolo caso, il corrispettivo negoziato con il professionista (o da questi offerto in una procedura comparativa) risulti equo.
Anzitutto, ed anche in ossequio al principio generale delineato dall’art. 36 Cost., l’equità dovrà esser parametrata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Mentre la valutazione sulla “qualità” (di una prestazione professionale non ancora resa) non può esser effettuata compiutamente al momento dell’affidamento dell’incarico, quella relativa al profilo quantitativo ben può essere eseguita ex ante. Pertanto, nella propria valutazione l’Ente dovrà accertare che per ciascuna fase del giudizio sia riconosciuto al difensore un compenso, dovendo escludere (nel caso di procedure comparative tra più offerte), la proposta che preveda un compenso pari a zero per taluna delle fasi[18].
D’altro canto, lo stesso d.m. n. 55/2014, delinea un sistema nel quale sono significativi i margini di discrezionalità nella determinazione del corrispettivo. Basterà ricordare, infatti, che “ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate”; e che, in ordine alla difficoltà dell’affare, assumono rilievo taluni elementi valutativi, tra i quali, ad esempio, la sussistenza di contrasti giurisprudenziali (art. 4, comma 1). Nella liquidazione giudiziale, inoltre, il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle che possono essere “di regola” aumentati fino all’80 per cento, o diminuiti “in ogni caso non oltre il 50 per cento”. Deve rimarcarsi, peraltro, che per effetto delle modifiche introdotte con il d.m. n. 37/2018, la discrezionalità del giudice nel ridurre il compenso rispetto ai parametri è stata notevolmente ridimensionata, se è vero che, ad esempio, la riduzione (che prima era ammessa “di regola” fino al 50 per cento) nell’attuale formulazione può essere disposta “in ogni caso non oltre il 50 per cento”[19].
Anche nella determinazione del valore della controversia sussiste un certo margine di apprezzamento. In proposito, si deve avere riguardo non in maniera rigida ed automatica all’entità della domanda, ma al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando il valore risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o della legislazione speciale (art. 5, commi 1 e 2). Sotto altro profilo, le controversie di valore “indeterminabile” si ritengono “di regola” di valore non inferiore a euro 26 mila e non superiore a euro 260 mila, pur sussistendo la possibilità di considerarle nello scaglione fino a 520 mila euro.
Può, quindi, ritenersi che, fermo restando il limite di carattere quantitativo (legato alla necessità di valorizzare tutte le fasi della controversia), l’Amministrazione abbia l’obbligo di motivare ‒ in ossequio al generale principio di trasparenza, espressamente richiamato anche dall’art. 19 quaterdecies, comma 3, d.l. n. 148/2017 ‒ in ordine alla “equità” del compenso stabilito.
Nella motivazione l’Ente dovrà rendere espliciti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che conducono all’individuazione di un determinato valore della controversia e a ritenere equo il compenso in concreto riconosciuto. La motivazione dovrà esser tanto più approfondita allorquando l’Ente si discosti dai parametri ministeriali “medi” e dalle relative soglie numeriche di riferimento che, sebbene non siano vincolanti né inderogabili, “costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale”[20].
Anche in questo caso la motivazione assolve ad un’essenziale funzione di garanzia non solo per i destinatari del provvedimento, ma, a livello sistemico, per l’interesse pubblico che deve essere incessantemente curato dall’Amministrazione attraverso decisioni che siano (ed appaiano) legittime e proporzionate[21].
Non è il decoro della professione forense a venire direttamente in rilievo sebbene, sia detto in questa sede solo per inciso, l’avvocatura ‒ in quanto garante di un diritto fondamentale quale la difesa in giudizio e per il ruolo essenziale che assume “nel dinamismo della funzione giurisdizionale”[22] ‒meriterebbe talvolta maggiore considerazione da parte del legislatore[23], ma soprattutto dell’Amministrazione e della magistratura.
L’interesse da preservare, piuttosto, attiene all’essenzialità del ruolo della difesa tecnica e qualificata anche in favore delle Amministrazioni, per evitare che le sempre vive ragioni di contenimento della spesa pubblica conducano a scelte auto-lesioniste che ‒ valorizzando tout court il prezzo più basso ove non, addirittura, la gratuità dell’incarico ‒ collocherebbero le Amministrazioni al di fuori del novero dei clienti “desiderabili” per i professionisti più richiesti sul mercato dei servizi legali.
La logica pro-concorrenziale ‒ che ha condotto all’abolizione delle tariffe ‒ deve esser tenuta ben presente anche nella riflessione sul tema che ci occupa: se è vero che il mercato deve potersi auto-regolare sicché debbono essere liberalizzati i corrispettivi dovuti per l’attività professionale, su quello stesso mercato l’Amministrazione deve avere il potere-dovere di competere ad armi pari con altri potenziali fruitori di servizi legali.
Solo in questo modo i soggetti pubblici potranno assicurarsi le prestazioni di difensori che ‒ senza esser necessariamente interessati al (presunto) prestigio e all’arricchimento curriculare che potrebbe astrattamente derivare dalla difesa di un Ente in una determinata controversia ‒ ambiscono, del tutto legittimamente, a trarre un’adeguata remunerazione dalla propria prestazione d’opera intellettuale.
Attraverso una puntuale osservanza del nuovo “principio dell’equo compenso” ‒ la cui valenza generale merita di essere, in sintesi, rimarcata ‒ potrà garantirsi che le esigenze di riequilibrio finanziario si armonizzino con altri principi fondamentali dell’azione amministrativa[24].
[1] Si tratta dell’avv. Maurizio Zoppolato del Foro di Milano che ringrazio per il fecondo scambio di opinioni intercorso sul tema che ci occupa.
[2] L’abolizione del sistema tariffario costituisce il portato dell’applicazione, anche al settore delle prestazioni d’opera intellettuale, dei principi pro-concorrenziali di matrice europea. In proposito, con sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, la Corte di giustizia ha affermato che le regole deontologiche relative ad una determinata professione che indicano come criteri di commisurazione delle parcelle del professionista “oltre alla qualità e all’importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, costituiscono una decisione di un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, che può avere effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno”. Sul punto, cfr. anche Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[3] Legge 31 dicembre 2012, n. 247, “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”.
[4] Ai sensi dell’art. 13, comma 3, l. n. 247/2012 “La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.
[5] G. Alpa, L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi , in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, in consiglionazionaleforense.it, 2018, 5 ss.; E. Minervini, L’equo compenso degli avvocati e degli altri liberi professionisti, Torino, 2018; S. Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione remediale nell’abuso dell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 299 ss.; M. Filippelli, Equo compenso per l’avvocato (voce), in Treccani.it, 2019.
[6] Nella originaria formulazione, introdotta dal ricordato art. 19 quaterdecies, comma 1, del d.l. n. 148/2017 , il compenso era considerato equo “quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri”. L’art. 1, comma 487, lett. a) della l. 27 dicembre 2017, n. 205 ha modificato la disposizione, sicché attualmente si considera equo il compenso non solo “proporzionato (…)” ma anche “conforme ai parametri”. Secondo G. Colavitti, Equo compenso, nuovi parametri e tutela costituzionale del lavoro degli avvocati, in AA.VV., La disciplina dell’equo compenso, cit., 29: “Con la formulazione originaria, del livello dei parametri il giudice doveva ‘solo’ tenere conto, ai fini della valutazione circa l’iniquità del compenso, ora, ben più rigorosamente, è equo il compenso conforme ai parametri, e quindi è iniquo quello non conforme”.
[7] Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18612.
[8] Secondo E. Novi, Demolito l’equo compenso: per il Tar l’avvocato deve lavorare bene a basso costo, in ildubbio.it (1 maggio 2021), la sentenza in esame “legittima e autorizza, in rapida successione: l’automortificazione professionale, lo schiavismo piramidale degli studi costretti a sottopagare i giovani collaboratori, la ricerca di incarichi non in nome della sostenibilità ma in ossequio all’urgenza di restare comunque su piazza e di non screditarsi agli occhi di altri committenti forti”.
[9] Tar Lazio – Roma, sez. II, sentenza 30 settembre 2019, n. 11411. Per alcune notazioni critiche, cfr. A. Rota, Lavoro gratuito per la p.A.: “un’opportunità per arricchire il curriculum”, in Riv. it. dir. lav., 2020, 145 ss. Sul lavoro gratuito nelle pubbliche Amministrazioni, cfr. M. Barbieri, Il sinallagma nei contratti di lavoro per le pubbliche amministrazioni: un percorso storico-critico, Bari, 2018, spec. 117 ss.
[10] Tar Calabria – Catanzaro, sez. I, 2 agosto 2018, n. 1507, secondo cui la disciplina sull’equo compenso, ancorché non applicabile alla vicenda dedotta in quel giudizio, lascia “emergere come nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. Non a caso, l’art. 35 Cost. tutela il lavoro ‘in tutte le sue forme e applicazioni’, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro. Ebbene, la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con se vantaggi curricolari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto a un equo compenso”. È il caso, tuttavia, di ricordare che la giurisprudenza ha sovente affermato l’inapplicabilità della garanzia dell’art. 36 Cost. ai lavoratori autonomi (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2015, n. 22701; Cass. civ., sez., lav., 25 gennaio 2017, n. 1900). In senso contrario, cfr. G. Colavvitti, Equo compenso, cit., 31, per il quale “l’articolo 35 esprime l’obbligo della Repubblica di tutelare ogni forma di lavoro, in qualunque ambito essa si svolga, ed in qualunque modo si presenti. È pertanto difficile accogliere la tesi di chi ha ridottola sfera di applicazione dell’articolo 35 al solo lavoro salariato. Deve invece ritenersi che l’articolo si riferisca a tutte le forme di lavoro, sia esso autonomo, dipendente, professionale”. Dello stesso A., cfr. anche La libertà professionale tra Costituzione e mercato. Liberalizzazioni, crisi economica e dinamiche della regolazione pubblica, Torino, 2012; Id., “Fondata sui lavoratori”. Tutela del lavoro autonomo ed equo compenso in una prospettiva costituzionale, in Riv. AIC, n. 1/2018 1 ss. Tra gli autori che, in passato, hanno ritenuto applicabile anche al lavoro autonomo il principio di cui all’art. 36 Cost., cfr. C. Lega, Principi costituzionali in tema di compenso del lavoro autonomo, in Giur. it., 1960, I, 343 ss.; G. Giacobbe, Professioni intellettuali (voce), in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1078 ss.
[11] Cons. St., sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, con nota di C.M. Chiarelli, Appalti pubblici di servizi a titolo gratuito: nota a Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017, n. 4614, in Federalismi.it, n. 18/2018, 1 ss. I giudici di Palazzo Spada nell’occasione hanno precisato che “l’effetto, indiretto, di potenziale promozione esterna dell’appaltatore, come conseguenza della comunicazione al pubblico dell’esecuzione della prestazione professionale, appare costituire, nella struttura e nella funzione concreta del contratto pubblico, di cui qui si verte, una controprestazione contrattuale anche se a risultato aleatorio, in quanto l’eventuale mancato ritorno (positivo) di immagine (che è naturalmente collegato alla qualità dell’esecuzione della prestazione) non può dare luogo ad effetti risolutivi o risarcitori”.
[12] Tar Sicilia – Palermo, sez. III, 6 febbraio 2017, n. 334 ove si ricorda ‒ richiamando Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238 ‒ che “il principio secondo cui in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione è già insito nell’ordinamento ed è previsto nell’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, precisando che tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo professionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale”.
[13] Tar Campania ‒ Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.
[14] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761.
[15] Tar – Marche, sez. I, 9 dicembre 2019, n. 761: “quando il cliente è un contraente forte - ovvero, come nella specie, la pubblica amministrazione - la pattuizione del compenso professionale incontra il limite del rispetto del principio dell’equo compenso (inteso, si ribadisce, come proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione), che va armonizzato con le esigenze di riequilibrio finanziario e non recedere rispetto ad esse (TAR Campania Napoli, sez. I, ordinanza n. 1541 del 25 ottobre 2018)”.
[16] È opportuno ricordare che in data 22 novembre 2017 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 22 della legge 10 ottobre 1990 n. 287, ha deliberato l’invio di una segnalazione (AS 1452) ai presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché al Presidente del Consiglio dei Ministri, avente ad oggetto alcune disposizioni previste nel d.l. n. 148/2017 e nel disegno di legge di conversione dello stesso. In particolare, l’Autorità ha rilevato che: “Il descritto intervento normativo, ove attuato nei termini proposti, determinerebbe (…) un’ingiustificata inversione di tendenza rispetto all’importante ed impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio e a favore del quale l’Autorità si è costantemente pronunciata. Si tratta, infatti, di misure che, al di là delle motivazioni che le vorrebbero giustificare, ripropongono appieno gli stessi problemi concorrenziali che l’Autorità ha avuto in più occasioni modo di segnalare in tema di tariffe minime (…) In conclusione, l’articolo 19 quaterdecies del ddl in esame, in quanto idoneo a reintrodurre nell’ordinamento un sistema di tariffe minime, peraltro esteso all’intero settore dei servizi professionali, non risponde ai principi di proporzionalità concorrenziale, oltre a porsi in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.
[17] Corte di giustizia, sentenza 18 luglio 2013, in causa C-136/12, nonché Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238.
[18] Sul punto, cfr. Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483, ove si afferma: “In tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014 (…) il giudice deve solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (Cass. n. 2386 del 2017; Cass. n. 26608 del 2017; Cass. n. 29606 del 2017; Cass. n. 89 del 2021). In particolare, non sussistendo più il vincolo legale della inderogabilità dei minimi tariffari, i parametri di determinazione del compenso per la prestazione defensionale in giudizio e le soglie numeriche di riferimento costituiscono criteri di orientamento e individuano la misura economica standard del valore della prestazione professionale, per cui il giudice è tenuto a specificare i criteri di liquidazione del compenso solo in caso di scostamento apprezzabile dai parametri medi (Cass. n. 30286 del 2017; Cass. n. 6296 del 2019; Cass. n. 20183 del 2018; Cass. n. 10343 del 2020). Resta, tuttavia, ferma la necessità che il giudice proceda alla liquidazione di tutte le prestazioni che, in base alle fasi indicate nel citato d.m. n. 55, art. 4, e secondo gli scaglioni esposti nelle tabelle allegate al medesimo d.m. n. 55, l’avvocato abbia effettivamente reso nel giudizio, dandone specificamente conto in motivazione”.
[19] Di analogo tenore è la modifica che ha condotto alla novella dell’art. 4, comma 1, quarto periodo e art. 4, comma 4 del d.m. n. 55/2014.
[20] Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2021, n. 14483.
[21] Una diversa funzione, evidentemente, è assolta dalla motivazione della decisione giudiziale sull’entità del compenso. Secondo Cass. civ., sez. VI, 10 dicembre 2020, n. 28113, infatti, “solo in caso di scostamento apprezzabile dai valori medi della tabella allegata al d.m. n. 55 del 2014 il giudice è tenuto ad indicare i parametri che hanno guidato la liquidazione del compenso; scostamento che può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma in quest’ultimo caso fermo restando il limite di cui all’art. 2233 c.c., comma 2, che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione (in tale prospettiva, cfr. Cass. n. 25804/2015, Cass. n. 24492/2016 e Cass. n. 20790/2017)”.
[22] Corte cost., 18 marzo 1957, n. 46.
[23] Si deve concordare con G. Colavitti, Equo compenso, cit., 26 secondo il quale storicamente “la disattenzione per il comparto del lavoro professionale è andata di pari passo con una vasta produzione normativa di tutela del lavoro subordinato da un lato, e, dall’altro lato, con una altrettanto ampia azione di sostegno ed incentivazione del mondo delle imprese, lasciando i professionisti italiani in una condizione di ontologica minorità, senza le tutele del lavoro dipendente, e senza le misure promozionali del comparto delle imprese”.
Nella legislatura in corso sono state presentate numerose proposte di legge volte ad ampliare la portata applicativa della vigente disciplina in materia di equo compenso. In particolare, sono in corso d’esame, in sede referente, presso la II Commissione, Giustizia, della Camera dei Deputati, i disegni di legge nn. C. 301 (on. Meloni), C. 1979 (on. Mandelli e altri), C. 2192 (on. Morrone e altri), C. 3058 (on. Di Sarno e altri), C. 2741 (on. Bitonci e altri). Per una prima analisi si rinvia al dossier predisposto dal Dipartimento Giustizia del Servizio studi parlamentare che reca le schede di lettura relative agli atti 301, 1979, 2192.
Con particolare riguardo al compenso dovuto dai soggetti pubblici, l’art. 3 della proposta di legge C. 2192, da una parte, estende la garanzia dell’equo compenso anche alle prestazioni rese in favore degli agenti della riscossione, dall’altra, tuttavia, prevede che, in relazione a quelle prestazioni, i compensi siano dimezzati.
[24] Tar Campania, Napoli, sez. I, ord. 25 ottobre 2018, n. 1541.
L’improcedibilità non è la soluzione
di Giorgio Spangher
1. Se c’è ancora qualcuno che non ha capito che politica e giustizia penale sono strettamente connesse, le vicende di questi ultimi tempi sono decisive.
Esaurite le audizioni davanti alla commissione giustizia, che meriterebbero un commento a parte, tanto sono state illuminanti, resta il nodo politico, essendo gli altri profili, certamente non secondari, ma marginali rispetto all’approvazione della legge.
Riavvolgiamo il nastro.
Dal giorno in cui Bonafede e la Bongiorno hanno legato il tema della prescrizione alla riforma, il vincolo tra questi due elementi non si è più sciolto.
Il blitz di Bonafede con la legge spazzacorrotti, complice il differimento dei suoi effetti, ha avviato la procedura di delega della riforma del processo penale che negli sviluppi politici (mediazione per la mutata maggioranza politica) ha incorporato la riforma, appunto, con legge ordinaria della prescrizione (ecco perché, come detto, i due elementi sono anche oggi collegati). Assunte numerose audizioni, prodotti numerosi emendamenti, in attesa delle proposte del relatore e della approvazione del testo per l’Aula della Camera, interveniva il cambio del Governo, una nuova Ministra, le indicazioni vere o presunte del PNRR. La nuova ministra incaricava una commissione (Lattanzi) di elaborare proposte emendative del testo Bonafede. Invero, non si tratta e non potrà trattarsi di una riforma globale del processo penale, ma solo di interventi emendativi di quel testo, anche se, volendo, qualche spazio potrebbe essere adeguatamente sfruttato. Sull’impianto della proposta di legge delega AC 2435 (Bonafede) si sono innestate, Come ipotesi di emendamenti l’elaborato della Commissione Lattanzi ed ora come veri emendamenti, sempre al disegno di delega Bonafede, quelli del Governo, che in parte tengono conto della proposta della commissione Lattanzi (che non ha quindi valore normativo, ma solo culturale, alla quale il Governo che l’ha istituita ha potuto attingere).
2. Cercando solo di evidenziare alcuni aspetti delle diverse proposte che possano mettere in risalto alcuni elementi identitari delle stesse, questi posso essere così schematicamente indicati.
Per quanto attiene alla proposta Bonafede (AC 2435) fra le numerose direttive si prevedeva: l’inserimento del comma 1 bis dell’ art 190 c.p.p. in materia di rinnovazione della prova dichiarativa per mutata composizione del collegio; la monocraticità dell’appello del rito monocratico; la necessità di una nuova procura per appellare; le regole di giudizio fattuali per l’archiviazione e per la sentenza di non luogo; la proposta sugli effetti della sospensione della prescrizione, dopo la sentenza di primo grado.
Anche con riferimento alla proposta Lattanzi, sempre al solo fine di indicare alcuni elementi identitari, possono segnalarsi: le modifiche al sistema sanzionatorio, decisamente molto ampie: numerosi percorsi procedurali, connotati da una significativa premialità; l’introduzione di motivi predeterminati per proporre appello; l’esclusione della legittimazione del pubblico ministero ad appellare.
Dando seguito a quanto anticipato, la Ministra ha deciso di tener conto solo in parte dell’elaborato Lattanzi. I suoi emendamenti, a seguito del passaggio in Consiglio dei ministri, sono diventati gli emendamenti del Governo tra i quali sempre soltanto a fini identificativi si segnala: la conferma delle modifiche al sistema sanzionatorio; la riduzione della premialità per accedere ai riti speciali; la conferma dell’attuale appello; l’ampliamento della competenza del giudice monocratico; l’improcedibiltà per superamento dei temi fissati per la celebrazione dei giudizi di impugnazione.
A parte va segnalato l’incremento delle risorse umane e materiali, l’informatizzazione degli uffici giudiziari e l’avvio del processo telematico.
Tentando una qualche sintesi, sicuramente approssimativa, ma capace di cogliere l’essenza delle citate proposte si può dire che: la riforma Bonafede si caratterizza per un impianto connotato da autoritarismo costruito su condizionamenti delle attività difensive e dei decongestionamenti processuali accompagnati dalla compressione delle garanzie.
La relazione Lattanzi prospetta un sistema sanzionatorio low cost per una criminalità medio bassa, a non elevata intensità, che accompagni exit strategies anticipatrici della fase del giudizio, così da decongestionare progressivamente il carico giudiziario, indotte anche dalla riduzione delle ipotesi di accesso all’ appello.
Per quanto attiene agli emendamenti Cartabia è agevole riscontrare che sono ridimensionate le soglie di pena della premialità, vengono confermate le soppressioni delle previsioni dell’ AC 2435 citate in precedenza, non viene riformato il giudizio di appello (con conseguente riequilibrio tra deflazione processuale e sviluppi del processo nel merito).
Il limite di tutte le proposte è costituito dal mancato alleggerimento delle fattispecie incriminatrici per le quali il legislatore affida impropriamente al processo il compito dell’ accertamento e dello smaltimento. Senza intervento in questa direzione, però, qualsiasi riforma è destinata a esiti deludenti.
3. Entro questi schemi si inseriscono le proposte di superamento della riforma della prescrizione targata Bonafede e, soprattutto, il fine pena “mai” a seguito dei giudizi di impugnazione
Varie le ipotesi sul tappeto: sospensione della prescrizione per un tempo definito e successiva ripresa del suo decorso, con recupero anche del tempo sospeso; sospensione della prescrizione per un tempo definito e successiva riduzione di pena o indennizzi per il prosciolto; cessazione della prescrizione e, dopo un tempo definito, una declaratoria di improcedibilità.
E’ stata scelta allo stato quest’ ultima soluzione: una partita in due tempi, cioè, prescrizione del reato (di natura sostanziale) e prescrizione del processo (di natura processuale)
La soluzione adottata , al di là della terminologia (procedibilità o proseguibilità) suscita notevoli perplessità al di là dell’ ibridismo tra i due orologi.
In un primo periodo corre solo la prescrizione sostanziale e, solo se questa non matura, si procede con quella processuale esclusivamente per la fase delle impugnazioni. Conseguentemente, un processo breve, come quello immediato, potrà essere dichiarato improcedibile per superamento dei termini del giudizio di gravame, ed uno di durata non ragionevole e non prescrittosi potrà continuare il suo corso per il tempo previsto per la fase di gravame.
Naturalmente questo dato condizionerà i comportamenti processuali tra rinuncia al gravame e richieste di concordato.
Invero, la prescrizione processuale può essere concepita come dato complessivo della durata del processo ma non può operare solo nell’ ultimo miglio dello stesso anche perché ha effetti più rilevanti di quella sostanziale e può intervenire molto prima dell’ altra che, esclusa la fase delle indagini preliminari, è del tutto assente in Cassazione e residuale in appello.
Si caducano le decisioni di condanna e di proscioglimento, le misure cautelari personali e reali, le pene accessorie le disposizioni civili, anche quelle provvisoriamente esecutive. Se riconosciuta nel giudizio di rinvio, la decisione travolgerà il giudicato parziale sulla responsabilità.
La decisione di improcedibiltà esclude l’applicazione della art 129 c.p.p. consente, però, il recupero del materiale probatorio nel giudizio civile e nel procedimento di prevenzione.
Considerata la sua immediata operatività, con l’approvazione della legge, andrebbe chiarito se l’improcedibilità operi anche per l’appello delle sentenze di non luogo e per l’appello della parte civile per i soli interessi civili.
Oltre a queste riserve di fondo, ove si volesse mantenere questa scelta, vanno da subito evidenziate non poche criticità che la previsione è suscettibile di determinare: forti differenziazioni tra i distretti, in relazione ai carichi processuali; possibile discrezionalità nelle decisioni di quali fascicoli trattare e quelli da far prescrivere; effetti pregiudizievoli per i processi che hanno esaurito il primo grado; effetti pregiudizievoli per gli imputati assolti e per le vittime che devono riniziare l’azione civile; condizionamento psicologico sul giudice e, comunque, rischi di accelerazioni decisorie; ristrettezza del tempo in caso di conversione dei ricorsi in appello; eccesso di discrezionalità nella valutazione della complessità che consente l’ ampliamento dei termini; mancate considerazioni sui processi davanti alle Corti di Assise di appello.
Come anticipato, alcuni correttivi potranno essere subito introdotti con effetto retroattivo, se verrà confermata la natura processuale della previsione. Il timore, invece, è che si introducano previsioni restrittive solo per far funzionare il meccanismo, con conseguenze negative di sistema: ampliamento progressivo delle ipotesi di reato che possano prevedere tempi più lunghi; spostamento del momento dal quale far decorrere il tempo di definizione dei giudizi di impugnazione; l’introduzione di filtri alle impugnazioni ed estensione delle cause di inammissibilità; recupero della ipotesi della collegialità solo a domanda nel rito monocratico.
Resta una domanda; a fronte di non pretestuose riserve, perché questo accanimento per una proposta quando la Commissione Lattanzi, incaricata dalla Ministra, ne ha prospettato un’altra che è poi condivisa largamente (Lattanzi, Lupo, Manes solo per citare chi si è espresso) e sulla quale con qualche variante non dovrebbe essere impossibile convergere?
Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, prosegue oggi la serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, si è lieti di presentare adesso quella a Giovanni Tizian, classe ‘82, giornalista collaboratore del progetto editoriale “Domani”, autore di numerosi saggi-inchiesta, fra cui Libro nero della Lega (Laterza 2019), Gotica. ‘Ndrangheta, Magi e camorra oltrepassano la linea (Round Robin Editrice, 2911), La nostra guerra non è mai finita. Viaggio nelle viscere della ‘Ndrangheta e nella memoria collettiva (Mondadori, 2013), Il clan degli invisibili (Mondadori, 2014), Rinnega tuo padre (Laterza, 2018).
Giustizia e comunicazione. 10) Intervista di Giuseppe Amara a Giovanni Tizian
La professione del giornalista d’inchiesta ed il confronto con la società liquida, connotata da una frenetica e consumistica acquisizione di notizie che spesso pecca di approfondimento e riflessione. Come cambia l’indagine del giornalista, la sua rappresentazione all’esterno?
La maggiore difficoltà del giornalista oggi è confrontarsi con un’informazione diffusa, parcellizzata, frammentata. I social network hanno cambiato radicalmente il panorama e l’informazione. I lettori si informano principalmente sulle piattaforme come facebook e twitter. Qui però si trovano spesso informazioni non verificate.
Il giornalista invece è quel professionista che le notizie le verifica, le filtra e solo dopo le offre al lettore. Il giornalista all’esterno deve continuare ad apparire così, altrimenti perde la sua funzione primaria di mediatore tra i fatti e il lettore. In questo senso, proprio per la complessità di oggi di comunicare i risultati delle indagini, diventa un lavoro ancor più difficile, perché tutto si presta alla polemica, all’attacco. Ma il giornalista deve raccontare senza aggettivi ciò di cui viene a conoscenza. Il cronista non dà giudizi, riporta fatti.
Altra cosa è l’opinionista. Dunque, a maggior ragione oggi il giornalista nel raccontare o rivelare fatti oggetto di inchieste deve usare la massima cautela senza esasperare toni o prendere posizioni, soprattutto stando attento a entrambe le parti coinvolte nell’indagini.
Dal suo punto di vista, oggi, la magistratura si deve far carico dell’onere della comunicazione? Deve spiegare il significato delle decisioni assunte affinché al fruitore dell’informazione possa giungere a un chiarimento sulla complessità del tecnicismo giuridico che, talvolta, conduce a risultati inattesi? E questo, è un diritto o un dovere?
Ritengo che la magistratura abbia il diritto di comunicare all’esterno attività concluse in un certo senso. Del resto anche negli altri paesi avviene quando si chiude un procedimento che riguarda fatti rilevanti per la società. Penso alla fine delle indagini dell’Fbi negli Stati Uniti, alle conferenze stampa di chi indaga sugli attentati in Europa per informare passo dopo passo i cittadini, c’è insomma la necessità di comunicare eventi che riguardano reati gravi alla comunità.
Non credo però nel dovere, penso sia più un diritto, che coincide con quello del cittadino a essere informato.
Quindi comunicazione della magistratura come diritto alla conoscibilità ed alla comprensibilità delle decisioni assunte?
Sì, la giustizia è un ambito troppo delicato perché sia tenuta al riparo dalla conoscenza dei cittadini.
Oggi, ritiene che la magistratura sappia comunicare? E quali suggerimenti, un tecnico della comunicazione, come Lei, ritiene di avanzare, sia allorquando pensiamo alla comunicazione tramite conoscenza del provvedimento giudiziario, sia quando si pensa a quella istituzionale?
Sui provvedimenti giudiziari ritengo che la conferenza stampa sia uno strumento ancora valido, tuttavia ritengo che sia necessario mettere a disposizione dei cronisti il materiale senza scatenare la categoria in una lotta alla ricerca delle carte. Mi spiego: se ci fossero protocolli chiari su come richiedere i documenti non segreti a disposizione delle parti per raccontare al meglio tutta la storia si eviterebbero rapporti personali tra toghe e cronisti e questi ultimi sarebbero garantiti tutti allo stesso livello, senza preferenze personali.
Sulla comunicazione istituzionale: credo che in questo campo sia necessaria una maggiore apertura verso le comunità, anche attraverso un uso più massiccio dei canali social, tramite figure specializzate in questo, sempre giornalisti che sappiano parlare a un pubblico più ampio.
Un recente sondaggio parla di una riduzione significativa della fiducia nella magistratura. Secondo Lei, può aver influito anche un certo tipo di comunicazione?
Più che la comunicazione ritengo che ad avere influito siano gli scandali che hanno coinvolto il Csm e singoli magistrati in giro per l’Italia. La comunicazione non mi pare abbia avuto un ruolo centrale.
Ritengo anche che dopo gli scandali, sì, la comunicazione abbia peccato di poca concretezza nel senso che i cittadini si aspettavano rotture radicali con il passato che non sono state percepite come tali.
E come recuperare questo vulnus?
Si recupera con la credibilità, mostrando determinazione nel voler cambiare il sistema. Non è inseguendo il populismo giudiziario che si fa piazza pulita di ciò che c’era prima. Il cambio deve essere culturale, i danni di ciò che è accaduto non si vedono solo a Roma, ma anche in quei territori difficili e complessi dove per costruire un rapporto di fiducia con i cittadini c’è voluto tempo, tanto troppo tempo. Anche lì gli scandali, attraverso i media, hanno prodotto una perdita di fiducia. E capite bene che in quei luoghi dove si combatte corpo a corpo contro i clan la credibilità è fondamentale.
Nella sua esperienza professionale, come il lavoro della magistratura ha inciso ed aiutato le sue inchieste e come le sue inchieste ha avuto modo di percepire abbiano inciso ed aiutato il lavoro della magistratura?
C’è il lavoro di cronista giudiziario, che segue le attività dei tribunali e delle procure. Ma poi c’è un lavoro di inchiesta autonomo, che è quello che preferisco: ritengo che il giornalismo debba arrivare prima della magistratura, svelando fatti nuovi che possono avere interesse anche per chi indaga nelle procure.
La comunicazione e l’attività del magistrato per la formazione della coscienza della legalità, nel suo impegno civile, quali effetti ha percepito e quali limiti ravvisa?
Ha contribuito molto a diffondere l’idea che le mafie non sono un problema solo delle toghe, ma che vanno combattute con uno sforzo collettivo della società. I giudici scrivono le sentenze, i pm fanno le indagini, i cittadini devono vigilare sul territorio ognuno nel suo ambito, devono essere esigenti con chi governa il territorio, chiedere conto di comportamenti poco chiari anche se non penalmente rilevanti: faccio sempre l’esempio del sindaco che il cronista becca a cena con il mafioso, l’incontro non è reato ma è accettabile socialmente? Spero che per molti cittadini non lo sia, ma per altri purtroppo lo sarà.
In alcuni casi però ritengo che il protagonismo sia nel giornalismo sia nella magistratura abbia prodotto un effetto contrario, cioè di creare degli eroi a cui delegare tutto il lavoro di lotta alle mafie, alla corruzione, alle illegalità in generale.
A cosa pensa in particolare e quale una possibile soluzione?
Non c’è una soluzione che ho in mente, ma solo la convinzione che se tutti facciamo la nostra parte il paese migliora, se tutti ci convinciamo che, per dire, l’evasione è un danno per tutti perché ruba risorse allora è già una buona base di partenza. Idem per mafia e corruzione. Ma spesso non c’è questa convinzione diffusa.
Il giornalista d’inchiesta ed il magistrato. Due vite spese per la ricerca di una società più giusta. C’è un filo che unisce le due funzioni? Posso chiederle quando e come mai ha deciso di indagare e di scrivere?
Il filo c’è solo quando il lavoro del giornalista incrocia l’attività del magistrato. Il cronista non deve accusare nessuno, fa emergere fatti, circostanze e racconta cose che possono non avere una rilevanza penale. Il magistrato si occupa di reati. Poi è vero, spesso si incrociano.
Ho deciso di scrivere per curiosità verso il mondo, verso le cose che rimanevano nella penombra. Ma anche perché ritengo che dare voce a chi non ce l’ha sia una forma di giustizia.
Il “dialogo tra le Corti” e le prestazioni di sicurezza sociale[1]
di Luigi Cavallaro
Il diritto dell’Unione Europea è materia tanto rilevante quanto ancora incerta nei suoi presupposti dogmatici. Né c’è da meravigliarsene: è disciplina giuridicamente “giovane”, se paragonata alla tradizione millenaria del diritto civile o a quella secolare del diritto costituzionale e del diritto processuale; e siccome giovani siamo stati tutti, tutti ricordiamo che la gioventù è un tempo in cui la vigoria del corpo spinge alla prassi, cioè alla trasformazione della realtà, piuttosto che alla riflessione su di essa.
Ma tutti ricordiamo anche che non si dà una netta linea di demarcazione tra gioventù e “maturità”, che è il nome altisonante con cui coloro che giovani non sono più chiamano quell’età in cui, oltre a “fare”, s’incomincia a ragionare su quel “fare”: sui suoi obiettivi, sui presupposti per raggiungerli, sulla loro compatibilità con altri che pure ci siamo dati. E accade così anche per il diritto dell’Unione Europea: che dopo la stagione faustiana dell’“azione” ha preso anch’esso a interrogarsi sui suoi presupposti e fondamenti, nel tentativo di districare la selva di problemi che tutt’intorno, mentre correva a perdifiato, gli era cresciuta.
È mia personale opinione che la fortuna che ha arriso all’espressione “dialogo tra le Corti” si debba all’indubbia capacità di dissimulazione di molti di questi problemi: che riguardano non soltanto il rapporto tra ordinamenti giuridici differenti, quali indubbiamente sono il diritto dell’Unione, da un lato, e gli ordinamenti degli Stati membri, dall’altro, ma prima ancora i conflitti tra i valori che rispettivamente ispirano l’uno e gli altri e, se l’espressione non suona troppo irriguardosa, perfino i conflitti di classe che ne stanno alla base. Cercherò di spiegare il perché avvalendomi di un recentissimo esempio.
Due lavoratori extracomunitari che vivono in Italia, ma i cui familiari risiedono nei Paesi di rispettiva provenienza, convengono in giudizio l’INPS, chiedendo la corresponsione degli assegni familiari. L’Istituto resiste, invocando l’art. 2, comma 6-bis, d.l. n. 69/1988 (conv. con l. n. 153/1988), che esclude dal diritto agli assegni familiari i lavoratori stranieri i cui congiunti non abbiano residenza effettiva nel nostro Paese, a meno che non sussista un criterio di reciprocità con il Paese di provenienza o la materia sia regolata da apposita convenzione internazionale. I giudici di merito accolgono nondimeno la domanda, richiamando le direttive dell’Unione Europea nn. 103/2003 e 98/2011: le quali, fissando il principio di parità di trattamento tra lavoratori nazionali ed extracomunitari, imporrebbero al nostro Paese il divieto di discriminare gli stranieri rispetto ai cittadini italiani, ai quali, invece, gli assegni sono corrisposti indipendentemente dal fatto che i familiari risiedano nel nostro Paese.
L’INPS ricorre quindi per la cassazione di entrambe le sentenze, denunciandole per violazione di legge. Ma la Cassazione vuol vederci chiaro circa l’effettiva portata della norma europea, e solleva altrettante questioni pregiudiziali d’interpretazione alla Corte di Giustizia: chiedendole, in particolare, se la parità di trattamento sancita dalle direttive in questione debba estendersi anche ai casi di specie, la cui peculiarità, come s’è detto, è data dall’essere il nucleo familiare dei lavoratori stranieri residente all’estero[2].
La Corte di Giustizia risponde da par suo[3]: e nel compiere la dovuta esegesi delle direttive, interpreta in modo estensivo la portata del principio di parità di trattamento, privando di valore ermeneutico quei “considerando” delle direttive che apparentemente potevano circoscriverne la portata, e in modo specularmente restrittivo la possibilità per gli Stati membri di introdurre deroghe. E conclude asserendo che il diritto dell’Unione “osta” ad una normativa nazionale come quella invocata dall’INPS per negare la corresponsione degli assegni.
Chiamata a dare esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, la Corte di cassazione reputa però di non poter procedere alla “disapplicazione” della legge italiana e solleva un incidente di costituzionalità. Le ragioni si leggono per esteso nelle ordinanze nn. 9378 e 9379 dell’8 aprile scorso, ma ai nostri fini interessano le valutazioni in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale: che sono quelle in cui la Cassazione prova a dire la sua su come deve dialogarsi tra le Corti in questa materia e perché.
Ad avviso del Collegio, infatti, le direttive in questione non possiedono alcuna “efficacia diretta” che possa giustificare la disapplicazione (o meglio, la non applicazione) della norma interna con esse contrastante: e ciò perché il diritto dell’Unione non regola direttamente la materia dei trattamenti di famiglia. Il precetto di parità di trattamento, infatti, impone bensì agli Stati membri di non trattare diversamente i congiunti del lavoratore straniero non residenti nel nostro Paese, ma non consegna al giudice interno una disciplina in grado di sostituirsi integralmente a quella nazionale; di conseguenza, la “disapplicazione” della norma interna con esso contrastante «altro non realizzerebbe che una modifica della norma nazionale mediante la sostituzione del criterio della reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della parità di trattamento»; si tratterebbe insomma «di un intervento di tipo manipolativo» della norma nazionale, ovviamente inibito al giudice comune e che solo la Corte costituzionale può realizzare.
Le ordinanze in questione sono state subito oggetto di attenzione critica da parte della dottrina: e in verità, anche di giudizi severi[4]. «Assai poco condivisibili», si è detto delle considerazioni della Corte, «ed anzi senz’altro scorrette»: sia dal punto di vista del collegamento instaurato tra disapplicazione e riparto di competenze, che si è denunciato come «errato», sia dal punto di vista della sussistenza di residui margini di discrezionalità del legislatore nazionale nell’attuazione delle direttive, lapidariamente liquidato come «fuorviante». E nel rimarcare l’erroneità dell’approdo, si è ovviamente auspicata una dichiarazione d’inammissibilità della questione da parte della Corte costituzionale: unico rimedio per «ripristinare i corretti termini» della vicenda e tornare «a prendere sul serio il diritto dell’Unione»[5].
Chi scrive di quel Collegio ha fatto parte: e oltre a reputare affatto legittimo che la dottrina si sia espressa in modo critico, nemmeno si meraviglia dell’asperità dei toni, ben sapendo quanto il tema dell’immigrazione sia connotato da precomprensioni ideologiche che rendono pressoché impossibile un pacato confronto. Una cosa sola ci tiene a dire, per chiarezza: in Cassazione, il diritto dell’Unione lo si prende sul serio, sempre; ed è proprio per ciò che i dubbi talora affiorano là dove altri pretendono di trovare nient’altro che certezze.
E vorrei provare a dar voce a questi dubbi aprendo anzitutto proprio il volume che qui siamo chiamati a presentare: e leggendone le pagine che riassumono incisivamente e con nettezza i cardini dell’intervento dell’Unione Europea in materia di sicurezza sociale[6]. Ricordandoci, in primo luogo, che la “politica sociale”, nel cui ambito rientrano la previdenza e l’assistenza sociale, appartiene al novero delle “competenze concorrenti” dell’Unione Europea, cioè di quelle competenze che le sono attribuite solo ed in quanto gli obiettivi enunciati dai Trattati non possono essere conseguiti a livello di singoli Stati membri; e che, di conseguenza, pur essendo la sicurezza sociale inclusa tra gli ambiti di azione dell’Unione, la competenza in materia non può essere esercitata in modo da compromettere «la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale», né da «incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso», come dice testualmente l’art. 153 TFUE: si tratta infatti di ambiti normativi che hanno implicazioni dirette sul bilancio dei singoli Stati membri, al cui equilibrio peraltro essi sono tenuti per rispettare altre e non meno cogenti disposizioni contenute negli artt. 126 ss. TFUE.
È per ciò che i principali interventi regolatori che si rinvengono nella nostra materia sono i regolamenti che concernono la definizione del regime previdenziale applicabile ai lavoratori migranti nell’ambito dell’Unione, al fine di risolvere i possibili conflitti di disposizioni interne in tema di iscrizione, pagamento dei contributi e calcolo delle prestazioni: si tratta, infatti, di disposizioni finalizzate a preservare la fondamentale libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, che potrebbe essere pregiudicata in assenza di regole che garantiscano la conservazione e il cumulo dei periodi assicurati presso i singoli Stati membri; e che rientrano pertanto a pieno titolo nell’ambito del principio di sussidiarietà nei cui limiti l’Unione può legiferare allorché sia dotata di competenza concorrente.
Ora, se questa premessa è vera, ne vengono talune implicazioni di non poco momento. Fin dalla sentenza nota come Granital, la Corte costituzionale ha chiarito che il diritto nazionale incompatibile con una norma dell’Unione può non trovare applicazione nella specifica fattispecie concreta sub iudice solo se le disposizioni del diritto dell’Unione «soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità», vale a dire «solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità [oggi all’Unione] si estrinseca in una normazione compiuta»[7]. Ma, come abbiamo appena ricordato, una “normazione compiuta” di diritto dell’Unione nella materia degli assegni familiari non esiste: esiste solo un principio di parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni previdenziali tra lavoratori che appartengono all’Unione e lavoratori che non vi appartengono. Ciò significa che, in questo caso, la norma dell’Unione viene invocata per opporsi ad una norma nazionale, espunta la quale la situazione soggettiva torna ad essere (come solo può essere) disciplinata dall’ordinamento interno, che non è stato oggetto di disapplicazione alcuna.
Si tratta di un fenomeno che la dottrina francese ha chiamato “invocabilité d’exclusion”[8]: e vale a designare il caso in cui il singolo, pur non essendo destinatario di situazioni soggettive garantitegli direttamente dall’ordinamento dell’Unione, invoca una norma di diritto dell’Unione per richiedere un controllo di legittimità di una norma di diritto interno, onde beneficiare di una modifica dell’ordinamento interno che sia favorevole ai suoi interessi. La Corte di Giustizia lo ha espressamente teorizzato fin dalla sentenza Becker[9], allorché ha osservato che, quando le disposizioni di una direttiva appaiono precise e incondizionate, il singolo, in mancanza di provvedimenti d’attuazione, può valersene «per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato»[10]. E si tratta chiaramente di fattispecie differenti; e se c’è un ambito nel quale questa diversità si coglie nitidamente è proprio la materia dei diritti a prestazione, i quali – come tutti i diritti sociali – in tanto possono essere garantiti in quanto esistano procedimenti amministrativi preordinati all’accertamento dei requisiti ed enti tenuti all’erogazione delle prestazioni, ciò che a sua volta presuppone l’esistenza di leggi e, soprattutto, corrispondenti stanziamenti di bilancio: che sono, nella specie, tutti statali e non già dell’Unione Europea.
Non indugerò qui sul fatto che la dottrina si è a lungo interrogata (e s’interroga ancora) circa la possibilità di ricomprendere l’invocabilité d’exclusion tra le fattispecie in cui l’ordinamento dell’Unione possiede “efficacia diretta”, giungendo a soluzioni differenti (e prevalentemente negative)[11]: mi limito a ricordarlo giusto per scansare alla Corte di cassazione l’accusa di non prendere “sul serio” il diritto dell’Unione. D’altra parte, è indiscutibile che la Corte di Giustizia, nonostante il formale ossequio ai principi elaborati dalla sentenza Simmenthal[12], è progressivamente pervenuta ad ancorare la disapplicazione al (solo) principio del “primato del diritto UE”, senza più porsi soverchi problemi di efficacia diretta o indiretta delle norme dell’Unione (emblematici i casi noti come Lucchini e Taricco)[13]. Ma se è vero che, ad onta di ogni pretesa “monistica” più o meno ascrivibile alla dottrina del “primato”, la nostra giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i rapporti tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale sono fondati sul riparto di competenze (ed è per ciò che al giudice comune non è attribuito alcun potere di dichiarare le leggi statali “viziate” per contrasto con il diritto dell’Unione, bensì soltanto di verificare quale sia la norma competente a disciplinare la fattispecie, non applicando quella che “competente” non è)[14], possiamo davvero giungere ad una “disapplicazione” in conseguenza di un “controllo di legittimità” della norma interna alla stregua del diritto dell’Unione?
Detto altrimenti: pur volendo concedere che le direttive posseggano “effetti diretti” anche quando funzionano come parametro di legittimità dell’azione degli Stati membri (come appunto nel caso dell’invocabilité d’exclusion, in cui per definizione non esiste un diritto dell’Unione che possa dirsi integralmente “sostitutivo” della normativa interna)[15], chi può essere chiamato a “produrre” la norma interna diversa da quella originariamente preposta a governare la fattispecie? Il giudice comune? Oppure, in un sistema come il nostro, in cui il controllo di legittimità degli atti normativi è accentrato, si tratta di un compito riservato alla Corte costituzionale?
Ecco, in estrema sintesi, i dubbi per i quali la Corte di cassazione, nelle ordinanze di cui qui s’è cercato di dare conto, ha ritenuto che il “dialogo” precorso con la Corte di Giustizia non fosse esaustivo e ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, affinché dicesse la sua: e prima di tutto, ovviamente, se si tratta di dubbi che hanno ragion d’essere o meno.
Non sta a me dire se, come sostenuto da altra dottrina[16], l’episodio possa essere considerato come espressione di un “contromovimento” della Cassazione rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” dell’integrazione europea attraverso il diritto; per quel poco che vale il mio parere, mi sembra piuttosto di poter suggerire che, se si conviene che i conflitti tra norme statali e sovranazionali in materia di sicurezza sociale vanno riconosciuti per ciò che realmente sono, vale a dire conflitti politici o, per usare l’irriguardosa espressione di poc’anzi, conflitti di classe[17], cautela e grande attenzione sono doverose per gl’interpreti, in questo campo più che mai.
[1] Testo rivisto dell’intervento tenuto al webinar “Le politiche europee di supporto all’occupazione in periodo pandemico e gli effetti sull’ordinamento italiano” (28 maggio 2021), in occasione della presentazione del volume di F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2021.
[2] Si tratta di Cass. (ord.) 1 aprile 2019, nn. 9021 e 9022.
[3] CGUE, 25 novembre 2020, C-302/19 e C-303/19.
[4] S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in “Questione Giustizia”, 6 maggio 2021.
[5] Ibid.
[6] A. Pizzoferrato, La sicurezza sociale, in Carinci, Pizzoferrato, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, cit., p. 428 ss.
[7] Così Corte cost. 5 giugno 1984, n. 170, in motivazione.
[8] Cfr. al riguardo D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali, Milano, Giuffrè, 2018, spec. p. 213 ss.
[9] CGUE, 19 gennaio 1982, C-8/81.
[10] Ibid., § 25. Da notare che, come rileva puntualmente Gallo, op. cit., p. 215 n., “ovvero” qui vale nel senso di “oppure”, come risulta dalle versioni francese e inglese della sentenza.
[11] Si ricorderanno, in particolare, le opinioni negative di J.A. Winter e S. Amadeo, opportunamente richiamate in Gallo, op. cit., p. 239: secondo il primo, in casi del genere il diritto dell’Unione creerebbe «limited effects», dissociati da veri e propri «claimable rights»; non dissimilmente, per il secondo, esso non avrebbe vere e proprie «ricadute soggettive» sugli individui. V., rispettivamente, J. A. Winter, Direct Applicability and Direct Effect. Two Distinct and Different Concepts in Community Law, in “Common Market Law Review”, 1972, spec. p. 437; S. Amadeo, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, Giuffrè, 2002, spec. p. 174.
[12] CGUE, 9 marzo 1978, C-49/78.
[13] Si vedano rispettivamente CGUE, 18 luglio 2007, C-119/05, e CGUE, 8 settembre 2015, C-105/14, e la nota “saga” seguita a quest’ultima, su cui v. almeno M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, Jovene, 2017, p. 63 ss.
[14] Lo ricorda opportunamente A. Guazzarotti, Logica competenziale dell’UE e sindacato diffuso sulle leggi: alle origini del riduzionismo della Costituzione italiana, in “Diritto pubblico comparato ed europeo”, 2019, spec. p. 805.
[15] È la tesi di Gallo, op. cit., p. 241 ss., ripresa in Id., Effetto diretto del diritto dell’Unione Europea e disapplicazione, oggi, in “Osservatorio sulle fonti”, n. 3/2019 (disponibile all’indirizzo: http//www.osservatoriosullefonti.it).
[16] Guazzarotti, Integrazione europea attraverso il diritto? Due recenti ordinanze della Cassazione in tema di assegni familiari per i lavoratori extra-UE, in “lacostituzione.info”, 10 maggio 2021.
[17] Sulle conseguenze economiche delle politiche di apertura delle frontiere perseguite dall’Unione Europea, in termini di indebolimento del potere contrattuale dei salariati autoctoni e di aggravamento delle condizioni generali di vita dei ceti popolari, v. la perspicua analisi di A. Barba, M. Pivetti, Il lavoro importato. Immigrazione, salari e Stato sociale, Milano, Meltemi, 2019, che suggeriscono di ricercare in questa direzione le ragioni strutturali della crescente (ancorché certo non commendevole) ostilità delle popolazioni europee nei confronti del fenomeno migratorio.
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