ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Lara Trucco
“Domenega passá, 10 corrente, à unn’oa doppo mezogiorno,
moiva in Pisa l’illustre letterato, o sommo filosofo e grande patriöta
Giuseppe Mazzini, nòstro concittadin.
L’Italia in gran parte a va debitrice à Lê, perché coi sò scriti,
coi so 50 anni d’apostolato, o l’à fato nasce e
cresce inti italien o sentimento de nacionale indipendensa”.
(Da “O Balilla” del 1872)
1. Prof.ssa Trucco, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “ riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni le suscita, da accademica impegnata su diversi fronti della società civile?
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
1. Innanzi tutto, un doveroso grazie a Giustizia insieme per la mia partecipazione a questa riflessione collettiva sui “doveri dell’uomo” in occasione delle celebrazioni mazziniane.
Si tratta all’evidenza di un impegno assai stringente a cui non potrebbe farsi fronte nello spazio di poche righe, senza considerare, poi, l’estrema complessità della figura del grande genovese di non facile decifrazione già quando Egli era ancora vivo e avvolta in una sorta di mito.
Quel che però pare certo, nella nostra prospettiva, è che, dell’eredità rivoluzionaria del 1789, Egli fosse tra i pochi che avesse continuato a coltivare il binomio tra diritti e fraternità, laddove il trionfo degli ideali individualisti e borghesi avrebbe messo in primo piano solamente i primi. E da questo punto di vista non può non apprezzarsi il paradigma mazziniano su cui poggia lo stesso dato costituzionale (art. 2) che, se da un lato, guarda all’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” come centro di imputazione giuridica del riconoscimento e della garanzia da parte della Repubblica dei “diritti inviolabili” (art. 2 Cost.), dall’altro “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (Domanda 1).
2. Venendo più da vicino alla storia dell’Apostolo del nostro Risorgimento, ci si avvede anche del fatto che le tensioni che condussero alla riunificazione politica dell’Italia vibrassero nella sostanza su due lunghezze d’onda diversa, quasi di tipo religioso in Mazzini e più aderente agli interessi della classe proprietaria e mercantile dominante in Cavour e di conseguenza più radicali e destabilizzanti (rivoluzionarie e repubblicane) nel primo e più realiste e conservatrici nel secondo (classiste e monarchiche). Ma sarà lo stesso afflato religioso a far divergere la prospettiva di Mazzini anche da quella di Marx, basata sul materialismo storico (cfr. infra).
Per il grande genovese, dunque, vigeva la consapevolezza che solo la condivisione di “un credo potente” avrebbe potuto avere qualche chance di traguardare la «meta fissata al progresso umano» della rigenerazione sociale “dal basso”, insieme all’idea dell’esistenza di una “legge morale superiore per tutti e sorgente del dovere di tutti” (G. Mazzini, I doveri).
Solo “in” ed “attraverso” essa, infatti, si sarebbe potuto innescare l’impeto interiore e fisico che avrebbe potuto rendere disponibili al sacrificio della vita per la propria Patria, ovvero al martirio (G. Mazzini, Fede e avvenire). Detto altrimenti, solo la sacralizzazione della politica, e con essa la trasposizione della simbologia religiosa nella dimensione sociale avrebbe potuto indurre a quella sorta di immedesimazione cristologica facendo considerare la vita una missione doverosa per il progresso in prospettiva dell’umanità. E, nell’immediato, a radicare la propria identità “di popolo” libero dall’oppressione interna e straniera (v. l’associazionismo rivoluzionario interno) ed in prospettiva europeo (v. l’associazionismo rivoluzionario europeo), nell’affermazione dei valori unitari e repubblicani (in senso ampio considerati).
È pertanto in questa chiave che va vista l’abnegazione dello stesso Mazzini per l’assolvimento di una intensa attività pedagogica di educazione alla propria “religione civile” ovvero all’insegna di un «principio educatore del dovere» (G. Mazzini, Doveri, cit.), mosso in ciò dalla convinzione che «la rivoluzione dei doveri avrebbe dovuto produrre un’educazione non egoistica, ma improntata alla fratellanza» (cfr., sul punto, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale). Quelle stesse attività e convinzioni che gli sarebbero costate le critiche di eccessivo idealismo e teologismo nella prospettiva marxista (F. De Giorgi, Millenarismo educatore). E, per contro, a sostenere il giudizio negativo di Mazzini sull’ateismo, in quanto destinato al fallimento della propria azione rivoluzionaria perché troppo debole nei rapporti di forza specialmente di tipo economico, e conflittuale sul piano politico e sociale così da rendere incomponibile anche nel più lungo periodo un ordine sociale democratico (R. Sarti, Mazzini).
4. Ebbene, quanto rilevato basta a considerare Giuseppe Mazzini vittima del suo tempo? O non piuttosto un uomo eccezionalmente fuori dal suo tempo, che è poi la sorte di ogni profeta e di ogni visionario: quella di essere emarginato in vita e misconosciuto quando le sue idee siano ormai entrate nella normalità delle cose? Ovviamente non ci si riferisce alle vessazioni concretamente subite che fanno di lui certamente un perseguitato se non un martire della causa italiana.
4.1. Così, quanto al “pensiero”, può pensarsi che Mazzini si sia trovato “rivoluzionario” a fronte del suo essere invero “democratico”.
Il suo pensiero e la sua azione, infatti, possono dirsi antesignani di quella concezione “servente” dei doveri destinata dipoi ad affermarsi, a distanza di tempo, negli stati democratici (cfr. infra). Concezione “servente” che nella sua epoca ancora attendeva di vedere l’edificazione di condizioni ambientali idonee ad ospitare quei diritti fondamentali, ed in prospettiva “inviolabili” dell’uomo (Domanda 6).
Su questa base, pare possibile ritenere che, ad oggi, Egli avrebbe ritenuto naturale lottare per il mantenimento e la promozione in una prospettiva interna e sovranazionale della pari dignità sociale e dell’eguaglianza davanti alla legge, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; nonché “per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (il richiamo del nostro dettato costituzionale è qui evidente).
Per diverso ma connesso profilo, può pensarsi che Egli avrebbe biasimato quelle forme organizzative che, pur proclamando nobili ideali, si rivelino a conti fatti meri strumenti di gestione personalistica e conservatoristica del potere. Ancora e più nello specifico, può ritenersi che, ad oggi, il pensatore genovese avrebbe sostenuto le ragioni della rappresentanza femminile (anche) nei luoghi di potere, ritenendola a tutti gli effetti “dovuta” (basti pensare all’importante ruolo svolto di promozione dei diritti della donna condotto dal movimento della “Giovine Europa” da Egli stesso fondata) (Domanda 8).
4.2. Venendo poi all’azione, pare possibile vedere in Mazzini la figura di un intellettuale non alieno dal mettersi personalmente in gioco (si ricordi il suo ruolo nella Repubblica romana e i suoi contatti con Garibaldi al momento dell’acquisizione del regno borbonico).
Per altro verso, risuonano purtroppo come ancora attuali le parole contenute nel suo “proclama” ai militari in partenza per la guerra in Crimea:
«Quindicimila tra voi stanno per essere “deportati” in Crimea.
Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Il clima, la mancanza di strade, la difficoltà degli approvvigionamenti in una terra esaurita già dagli eserciti e che non può provvedersi se non per la via d’un mare incerto, tempestoso, difficile, uccidono quei che non sceglie palla nemica. Su 54.000 inglesi che lasciarono la terra loro, 40.000 non rispondono più alla chiamata. Breve tempo dopo cominciato l’assedio al quale vi chiamano, il soldato era a mezza razione. Gli stenti sono tali che i più avvezzi ed induriti tra i soldati francesi d’Affrica prorompono in tumulti e rivolte …» (G. Mazzini, Proclama per la Crimea all’esercito piemontese, 1855).
4.2. Un ulteriore rilievo che si vuol fare è costituito dalla “doppia anima” che caratterizzò il suo essere religioso: e, cioè, la religione come fatto politico e sociale (ovvero “strumento” di potere) e la religiosità come atto, invece, di fede individuale (ovvero come “credo” interiore), che lo condusse a formulare l’auspicio della laicità dell’entità statuale nel suo complesso.
Del resto, il cosmopolita non fece velo del proprio allontanamento dalle religioni incentrate intorno ad autorità ecclesiastiche e, per contro, del suo avvicinamento, ad una forma di deismo (che, peraltro, all’epoca aveva già avuto sviluppo in vari paesi europei ed in territorio statunitense) razionalista e, se si vuole, sentimentale, comunque distante da forme di ateismo ed agnosticismo e teso ad unire “in fratellanza”.
Poco o nulla, dunque, può pensarsi, di “contraddittorio”, come invece, ad un certo punto, parve ammettere (un altro sacrificio?) lo stesso Mazzini (G. Mazzini, I doveri, cit.)…ma, semmai, all’opposto, una mirabile lucidità di pensiero e coerenza d’azione votata ai propri supremi fini.
Ad un tale riguardo, si vuole ancora ricordare il prezzo che si trovò a scontare, in termini di privazione della libertà personale, all’indomani del suo sostegno alla conquista dello Stato pontificio, come quando considerò il Papato la «base di ogni autorità tirannica» (G. Mazzini, I doveri, cit.). E la sanzione che gli fu inferta quando, allora studente, rifiutò di sottostare alle norme di stampo religioso all’epoca vigenti nella facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo genovese. Ed, ancora e per diverso profilo, alla rinuncia a deputato che Egli fece per non dover giurare fedeltà alla monarchia, mantenendo così fede ai propri ideali repubblicani, i quali si sarebbero, peraltro, visti trasfusi, sia pur per breve, nella “Repubblica romana”.
4.3. Lasciando ancora libera la nostra immaginazione, vogliamo credere che, ad oggi, Mazzini avrebbe distinto (vorrei dire: “si sarebbe potuto permettere di distinguere”) i doveri derivanti dal credo religioso individuale, rispetto a quelli scaturenti dal piano politico e sociale, riconnettendo i primi alla matrice morale ed i secondi, invece, al principio di solidarietà sociale di cui ragiona appunto la nostra Costituzione.
Di qui una concezione della cultura dei “doveri” giuridicamente come sostrato alla condizione stessa di cittadinanza e di “collante” dello “stare insieme” ordinamentale, all’insegna della tolleranza e del rispetto della dignità reciproca e dell’intera “umanità” (Domanda 4).
Una religione, infine, se si vuole, dell’uomo nel sociale, che laicamente anticipa il nostro “stato costituzionale” …e cioè, di quella “casa” (cfr. infra) che sarebbe stata destinata a propiziare l’armonica e pacifica l’esistenza delle generazioni successive ed attuali (Domanda 9), motivandosi pertanto, nel pensiero mazziniano, l’intrapresa di forme di “disobbedienza civile” nei casi in cui dell’“edificio” vengano minati i pilastri portanti (si legga: i valori fondamentali) (Domanda 5).
5. È opportuno ricordare ancora, nel quadro del liberalismo statutario “liberale” (cfr. supra), la dottrina della sovranità nazionale fosse fuorviante rispetto alla realtà di un’unica classe sociale effettivamente dominante. Del resto, la vigenza del suffragio ristretto sarebbe bastata a minare alle fondamenta il principio di sovranità popolare e con esso stesso la vigenza di uno stato democratico. È noto anche come in un tale contesto vigesse una sostanziale coincidenza della dimensione istituzionale con quella privatistica incentrata sul Code civil, che portava i concetti di “dovere” e di “obbligo” ad identificarsi, vedendosi in essi perlopiù degli ostacoli all’affermazione di quel perno della concezione proprietaria “delle cose” che era il “diritto soggettivo”. Con un simile assetto il quadro giuridico risultava nelle sue grandi linee coerente nel rispecchiare sostanzialmente lo “stato di cose” sul piano politico e sociale, portando lo stesso Mazzini a biasimare il “Diritto” – quel “Diritto” – dell’individuo borghese, esaltando per contro la dimensione del dovere avente per fine la società è l’umanità piuttosto che il singolo (cfr. sul punto, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi, cit.) (Domanda 7).
Persino con il generale ripensamento della stessa forma di Stato, seguita alla caduta del fascismo ed alla Seconda guerra mondiale, si sarebbe però stentato a prendere atto della necessità di un cambiamento di paradigma (anche) nella e della sfera dei “doveri” (S. Romano, “Frammenti di un dizionario giuridico”). E ciò, a nostro avviso, in ragione fondamentalmente del condizionamento che l’ancora viva “paura del tiranno” continuava ad avere nel dibattito che andava svolgendosi (anche, si noti, in Assemblea costituente, dove si è detto che il pensiero mazziniano “non ebbe presa”). Così che la più attenta dottrina avrebbe a più riprese messo in guardia sulla confusione che si stava continuando a fare tra le due “situazioni soggettive di svantaggio” del “dovere” e dell’“obbligo”, lamentando, in particolare, che «la scienza giuridica per molti secoli» ed almeno dai tempi della pandettistica, non avesse in sostanza che «discusso intorno ad esse», in quanto figure certamente attinenti a «situazioni fondamentali sotto il profilo economico e sociale» di rilievo, ma ormai di per sé sole insufficienti a dar conto delle trasformazioni indotte dalla Costituzione repubblicana (M.S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo).
Insomma, andò emergendo allora come la fungibilità dei due concetti (di “dovere” e di “obbligo”) che era stata funzionale a perpetuare nel tempo l’omologazione dei rapporti, rispettivamente, di ordine civilistico ed istituzionale in epoca liberale (v. supra), risultasse contraddire, però, giunti a quel punto, le nuove coordinate costituzionali di natura democratica, le quali avrebbero richiesto ora di vederli mantenuti su piani distinti al fine di dar conto della complessità ordinamentale derivante dal principio di sovranità popolare. In quest’ottica, quindi, può inquadrarsi l’attenzione delle tesi istituzionaliste nel dimostrare che «non sempre e taluno vorrebbe dire mai» diritto e dovere potrebbero dirsi due termini veramente «correlativi», in quanto se non altro a dimostrare l’«insufficienza se non l’erroneità» di una simile posizione dovrebbe bastare la «evidente» constatazione, sul piano logico, dell’esistenza di doveri a cui non corrisponderebbero diritti e, viceversa (S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, cit.). Ritenendosi più adeguato affermare semmai la correlazione oppositiva (pur sempre nella direzione “strumentale” di cui si diceva per l’innanzi) tra “diritto soggettivo” ed “obbligo”, nonché, ad un più alto livello teorico, tra “libertà” e “dovere” (nei rapporti soggettivi), e “potere” (nei rapporti istituzionali).
6. In quanto si è detto, dunque, l’importanza del contesto. Segnatamente, della distinzione – come si è visto, tutt’altro che scontata – tra i contesti non democratici, rispetto ai quali può presumersi la vigenza di concezioni dei doveri di segno imperativista (ed al limite autoritario) ad arginare le libertà; e quelli, invece, di caratura democratica in cui, all’opposto, deve presupporsi la funzione servente dei doveri rispetto ai medesimi diritti di libertà, sulla base del principio di solidarietà sociale: in un senso, cioè, funzionale alla trama di relazioni che accompagnano la realizzazione del principio di massima espansione delle libertà individuali ed in fondo all’integrazione ed allo sviluppo della società stessa nel suo complesso imponendosi qui il principio che vuole che gli interessi dei singoli siano indirizzati verso un’armonica convivenza della collettività (Domanda 2).
Del resto, è la stessa giurisprudenza costituzionale, proprio in casi concernenti doveri inerenti alle forme ed ai modi giuridicamente rilevanti di “stare insieme”, a dare conferma della centralità del principio solidaristico quale «base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (Corte cost. sent. n. 75 del 1992; sent. n. 500 del 1993; sent. n. 155 del 2002; sent. n. 309 del 2013; sent. n. 119 del 2015; sent. n. 131 del 2020). Così da portarci con una certa apprensione e per inciso a rilevare l’estrema delicatezza di dichiarati stati emergenziali nel nostro Paese in mancanza di una chiara definizione del relativo perimetro “spaziale” e “temporale” nella Carta, trattandosi di situazioni in cui (come purtroppo abbiamo avuto modo di sperimentare nel periodo pandemico) la sfera dei doveri risulta dilatabile nell’“interesse della collettività” sino ad affermarsi come preminente sul terreno delle libertà, forte del fondamentale obbiettivo di garantire la sopravvivenza degli stessi “abitanti” di quella “casa” ordinamentale tanto cara a Mazzini (Domanda 3).
Peraltro, è un ulteriore atto di immaginazione a portarci a considerare l’importanza del sostrato culturale che inerisce allo stesso principio di solidarietà sociale: segnatamente, il rilievo della sua sufficienza a far stare insieme una società che ne risulti completamente impregnata, al limite prescindendosi dalla vigenza di norme giuridiche.
Del resto, è stata la drammatica esperienza pandemica a dimostrare la forza e financo l’imprescindibilità di un siffatto principio in quei casi che vedano il diritto impossibilitato a stare dietro “gli eventi”, disciplinandone i presupposti e dirigendone gli esiti. Così da portare anche il Presidente della Repubblica ad evidenziare l’inesistenza «[s]enza solidarietà» di «una vera comunità in cui vivere e convivere», data la nostra dipendenza gli uni dagli altri «in ciascun Paese, in ciascun luogo, in ciascuna città, in ciascun borgo, in ciascuno Stato, nella comunità internazionale» (S. Mattarella, intervento del 29 novembre 2021); nonché ad ammonire, in un discorso che ad oggi pare proiettarsi da una tragedia all’altra, sul fatto «che la cooperazione internazionale e la solidarietà non sono soltanto opzioni possibili bensì esigenze risolutive», potendocisi «salvare soltanto agendo tutti insieme”, muovendo dalla convinzione che «in ogni ambito delle relazioni internazionali approcci esclusivamente nazionali non abbiano speranza di successo» (S. Mattarella, intervento del 16 dicembre 2021).
7. È ancora la Consulta a dare conferma, su varie dimensioni relazionali (v. infra), della natura “servente” dei doveri sanciti dalla Carta alla libera esplicazione dei diritti nella cornice costituzionale vigente.
7.1. Al proposito, di sicuro interesse è il terreno in cui si muovono legami di solidarietà, perlopiù di tipo affettivo, “spontanei” e per questo solidamente instaurati. Qui il discorso per certi versi risulta ribaltato, rivendicandosi in prima battuta la possibilità di beneficiare di certi doveri, attraverso il riconoscimento di norma di un determinato status, in vista di affermare determinati diritti di libertà, col risultato complessivo di espansione di entrami i versanti, in forza di una sorta di “effetto trascinamento” reciproco tra diritti e obblighi (al punto da arrivarsi a parlare di vigenza di un “diritto-dovere” unitariamente inteso).
Di rilievo in questo discorso, peraltro significativamente assai battuto (anche) dalla Corte costituzionale, è la “vita di coppia”, e la relativa «volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri» (sent. n. 281 del 1994). Il riferimento corre, in particolare, alla giurisprudenza sulle forme di convivenza more uxorio (sent. n. 8 del 1996; sent. n. 2 del 1998; e, successivamente, ex multis, sent. n. 140 del 2009 e Corte cost. n. 213 del 2016) e sulle unioni omosessuali, da cui «i connessi diritti e doveri» (sent. n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014). Interessanti, al riguardo, sono anche i casi in cui la Consulta ha escluso l’invocabilità della clausola “dei doveri inderogabili di solidarietà” quando il «riconoscimento pleno iure» della formazione sociale non possa essere effettuato (Corte cost. sent. n. 183 del 1988 e sent. n. 158 del 1991).
7.2. Un ulteriore campo in cui si vede il principio solidaristico innervare i rapporti intrattenuti dall’homme situé nelle formazioni sociali “ove si svolge la sua personalità” è quello concernente situazioni soggettive di particolare vulnerabilità.
Qui la giurisprudenza che vede in provvidenze «in forma indiretta» (leggi: il permesso mensile retribuito) una «valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale» da parte dello Stato sociale (sent. n. 213 del 2016). Qui, altresì, l’affermazione della «doverosità» delle formazioni scolastiche circa l’adozione delle misure di integrazione e sostegno (nel caso di specie, a soggetti portatori di handicaps), col conseguente obbligo in capo ai competenti organi scolastici, nello specifico, «di dare attuazione alle misure che, in virtù dei poteri-doveri loro istituzionalmente attribuiti […] possano già allo stato essere da essi concretizzate o promosse» (sent. n. 215 del 1987). Qui, ancora, la centralità del principio solidaristico in materia penale, segnatamente, sia durante l’esecuzione penitenziaria del reo, alla luce del principio rieducativo, sia, d’altro canto, dopo l’espiazione della pena, al momento, cioè, del suo reinserimento nella società ed il relativo «recupero alla solidarietà sociale» (sent. n. 409 del 1989).
Più in generale, di perdurante interesse, sempre tenuto conto di quanto si è detto, è quella giurisprudenza in cui la Consulta ha ricollegato agli stessi «doveri di solidarietà sociale» il principio generale della “collaborazione civica”, confermando «secondo i casi» l’obbligo o la facoltà dei cittadini di svolgere le attività richieste «con carattere di assoluta e urgente necessità, nel comune interesse, per far fronte ad eventi rispetto ai quali, data la loro eccezionalità o imprevedibilità, le autorità costituite non siano in grado di intervenire con la necessaria tempestività, oppure in misura sufficiente al bisogno» (sent. n. 89 del 1970).
7.3. Proseguendo nell’analisi ci si imbatte nel «valore inderogabile della solidarietà» collegato all’obbligo tributario, quale linfa vitale del «finanziamento del sistema dei diritti costituzionali», i quali, come rimarcato dalla Corte, necessitano perdurantemente di «ingenti quantità di risorse per divenire effettivi» (da ultimo, sent. n. 120 del 2021; sent. n. 288 del 2019; e di segno analogo, in precedenza, ex multis, sent. n. 119 del 1964).
In quest’ottica, particolare attenzione la merita una recente decisione in cui la Corte, nel pronunciarsi in punto di “appropriatezza” dell’autonomia impositiva regionale ha teso a rimarcare – si noti, anche rifacendosi ad altri ordinamenti europei – il dato di «doverosità», sul piano costituzionale, «di una diffusa tutela dell’ambiente quale bene comune» acconsentendo, su questa alla previsione da parte delle autonomie regionali, di tributi ambientali propri e autonomi tra cui «quelli funzionali alla tutela dei beni comuni di carattere ambientale» (sent. n. 82 del 2021).
Inoltre, va quantomeno menzionato il ruolo svolto dell’adempimento dei doveri di solidarietà sociale nel bilanciamento tra i diversi interessi e valori in campo in materia pensionistica (ex artt. 2 e 38 Cost.) (sent. n. 201 del 1986 ed in senso analogo sentt. n. 62 del 1977; n. 132 del 1984 e n. 133 del 1984; si veda, inoltre, più di recente la famosa sent. n. 70 del 2015).
Ancora, un richiamo va fatto al passaggio motivazionale contenuto in una delle due sentenze cd. gemelle (la n. 348 del 2007) in cui è stato proprio valorizzando la «stretta relazione» tra funzione sociale del diritto di proprietà e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale» che la Corte ha avvertito sul rischio di pregiudizio per la tutela effettiva di diritti fondamentali che potrebbero verosimilmente arrecare «[l]ivelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse», con la conseguenza di fare da «freno eccessivo» alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.
7.4. Tornando, per concludere, a considerare idealmente la dimensione in cui si mosse il pensiero mazziniano, si vorrebbe richiamare l’attenzione sul “dovere di difesa della Patria”.
Valore ritenuto dalla Corte «di altissimo significato morale e giuridico», e da collocarsi per ciò stesso «al di sopra di tutti gli altri» (sent. n. 53 del 1967; sent. n. 11 del 1998; sent. n. 409 del 1989) epperò – e qui veniamo al punto – parimenti intercettato dal cambiamento di paradigma impresso dal principio solidarista. È stato ed è, in particolare, considerandosi un siffatto “dovere” come una specificazione dei doveri di solidarietà sociale che, nel nostro ordinamento democratico, si è visto (rectius: potuto vedere) un vettore di identità civica e di integrazione, capovolgendosi dunque, così, l’approccio difensivo e di chiusura del passato (v. infra).
Di qui, facendo comunque attenzione a rimarcare della norma il sommo «significato morale e giuridico», il riconoscimento, nondimeno, ad opera del giudice costituzionale, della possibilità «che una legge ordinaria imponga anche a soggetti non cittadini, o addirittura stranieri, in particolari condizioni» la prestazione del servizio militare (sent. n. 53 del 1967, cit.). Ciò che è valso a maggior ragione per gli apolidi, valorizzandosi, anche qui, la norma costituzionale che «parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza» (Corte cost., sent. n. 172 del 1999). Così che, per questa strada, in tempi più recenti nell’affrontare la questione del «giuramento» circa l’osservanza della Costituzione e delle leggi, la Corte è arrivata a vedere nella norma concernente il “dovere di fedeltà alla Repubblica” una «concreta espressione», per lo straniero, della «manifestazione solenne di adesione ai valori repubblicani» (sent. n. 258 del 2017).
Di particolare interesse, dal nostro punto di vista, è l’interrelazione che, una volta superatane la obbligatorietà, la Corte avrebbe instaurato tra lo stesso servizio militare ed il servizio civile proprio «alla luce del principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Costituzione», rinvenendo nei due la «matrice unitaria» data dal fatto di costituire entrambi «forme di adempimento volontario» del ridetto dovere di difesa della Patria (sent. n. 228 del 2004). Il passo successivo sarebbe consistito quindi nell’estensione (pur sempre all’insegna dei «valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente») anche ad altre attività aventi comunque «finalità di solidarietà sociale» (ad es. attività di cooperazione nazionale ed internazionale, e di salvaguardia e tutela del patrimonio nazionale), considerandole parimenti ed al contempo «un adempimento» ma anche «un’opportunità» di «integrazione e di formazione alla cittadinanza» (ancora sent. n. 119 del 2015).
Ecco un tassello di quella “Patria” da intendersi in senso mazziniano come «casa dell’uomo e non dello schiavo» (G. Mazzini, Ai giovani d’Italia, cit.).
Prime richieste di arresto per i crimini di guerra commessi nella Georgia all’epoca dell’occupazione russa*
di Ezechia Paolo Reale
Il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha richiesto in data 10/03/2022 alla Camera Preliminare l’arresto di tre persone accusate di crimini di guerra per i fatti accaduti nell’Ossezia meridionale, in Georgia, nell’agosto del 2008, durante il conflitto nel quale le forze armate dell’Ossezia meridionale, regione che reclamava l’indipendenza per rientrare nella sfera di influenza della Russia, aggredirono, con l’appoggio delle forze armate russe, il territorio della Georgia infierendo sulla popolazione civile.
Le accuse sono quelle di deportazione; detenzione illegale; tortura, trattamenti inumani, violazione della dignità personale e cattura di ostaggi nel contesto dell’occupazione del territorio della Georgia da parte della Russia.
Il Procuratore della Corte ha aggiunto di aver acquisito evidenze di condotte analoghe durante le investigazioni preliminari sulla situazione in Ucraina, presumibilmente in relazione ai fatti precedenti l’invasione russa, e di essere profondamente preoccupato per le segnalazioni di crimini internazionali commessi nel corso delle attuali ostilità in Ucraina.
I tre accusati sono il Luogotenente Generale Mikhail Mindzaev, dal 2005 al 2008 Ministro degli Interni del governo di fatto della autoproclamata, e non riconosciuta dalla comunità internazionale, Repubblica dell’Ossezia del Sud; Gamlet Guchamazov e David Sanakoev, conosciuto come “Ombudsman”, all’epoca dei fatti rispettivamente responsabili degli istituti di detenzione e del rispetto dei diritti umani.
Le accuse erano inizialmente rivolte anche contro il Maggiore Generale Borisov, vicecomandante delle truppe aerotrasportate russe, successivamente deceduto, circostanza che non ha consentito di procedere nei suoi confronti.
La richiesta di arresto per i tre accusati è stata resa possibile dalla circostanza che la Georgia ha ratificato lo Statuto di Roma, cioè il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale, il 5/9/2003, così consentendo la giurisdizione della Corte sui crimini commessi nel suo territorio a decorrere dal 1/12/2003.
Inoltre, il Procuratore, che aveva iniziato ex officio le investigazioni preliminari, è stato autorizzato nel 2016 dalla Camera Preliminare ad aprire un’indagine formale sulla situazione in Georgia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel contesto di un conflitto armato di carattere internazionale.
La stessa Camera aveva avuto la possibilità, prima di concedere l’autorizzazione, di valutare i memoriali ricevuti nel dicembre del 2015 da ben 6.335 vittime.
Attendendo le decisioni della Camera Preliminare sulle richieste di arresto e i successivi passi della Procura, può dirsi che, pur se giunte con un considerevole ritardo rispetto ai fatti, le conclusioni cui è sinora giunta la giustizia internazionale dovrebbero oggi costituire anche un forte monito per coloro che sono attivamente impegnati nelle ostilità originate dall’invasione russa dell’Ucraina.
*Si rinvia a La giustizia penale di fronte alle guerra, dello stesso autore.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Vladimiro Zagrebelsky
Nella proposta di revisione costituzionale l’Alta Corte sostituirebbe le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione quanto al sindacato sulle sentenze disciplinari emesse dalla Sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Con riferimento a questa previsione incuriosisce la circostanza che si ritenga di rimediare alla caduta di immagine del Consiglio operando su compiti affidati alle sezioni Unite civili della corte di Cassazione.
1. Quali sono le criticità rilevate in ordine al sindacato delle Sezioni Unite civili sulle sentenze emesse alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che fanno ritenere il sindacato dell’Alta Corte preferibile rispetto a quello delle Sezioni Unite?
Dalla relazione che accompagna il disegno di legge costituzionale non si traggono motivi di critica del funzionamento del ricorso alle Sezioni Uniti civili della Cassazione contro le sentenze disciplinari del Consiglio Superiore della Magistratura. In effetti ci si potrebbe aspettare una argomentazione in proposito, magari preceduta da una analisi della giurisprudenza prodotta dalla Cassazione in campo disciplinare. L’intenzione sottostante l’inserimento in Costituzione del nuovo istituto chiamato Alta Corte sembra prescindere da disfunzioni attribuite al ricorso in Cassazione. È vero che c’è menzione di recenti avvenimenti e polemiche riguardanti la magistratura ordinaria e le modalità seguite dal CSM nella assegnazione degli incarichi direttivi. Ma in nulla tali fatti e l’uso fattone nella polemica politica hanno a che vedere con il tenore della proposta di modifica costituzionale. Presente fin dall’inizio ormai decennale delle discussioni riguardanti l’attuale proposta è invece l’intenzione di istituire una forma di unificazione delle giurisdizioni; senza peraltro mettere in discussione il sistema vigente della separazione. Non sembra esistere nesso con la denunziata “crisi della magistratura”, qualunque ne sia il contenuto e intendendo riferirsi alla magistratura ordinaria (e supponendo che le altre magistrature ne siano esenti). Infatti simile problema riguarda la fase antecedente alle impugnazioni e concerne oggetto e metodo delle decisioni del CSM. Questo aspetto è di centrale importanza, ma non considerato dal disegno di legge. Con riferimento alla forma di unificazione delle magistrature proposta dal disegno di legge, la soluzione proposta dal disegno di legge è intenzionalmente parziale, ma può essere interessante egualmente. A condizione però che la attribuzione alla Alta Corte della competenza a giudicare le “controversie riguardanti l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti, dal Consiglio della magistratura militare e dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria; nonché sulle controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi riguardante i magistrati”, implichi per tutti i magistrati l’unificazione delle regole disciplinari (e i canoni deontologici), quelle delle incompatibilità, ecc. Dal testo della proposta questo non si trae direttamente, anche se se ne dovrebbe ritenere la coerente e positiva conseguenza.
2. L’ultimo comma dell’art.105 bis della proposta di revisione costituzionale, nel disegnare la competenza del nuovo organo giurisdizionale, fa riferimento alle “controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi riguardanti i magistrati. Questo amplissimo genus della materia non eccede la finalità che la proposta intende perseguire?
Certo si tratta di un insieme di provvedimenti eterogenei. Un accertamento sul numero e sulla natura dei provvedimenti che sono impugnati, vuoi davanti alle Sezioni Unite civili della Cassazione, vuoi davanti a giudice amministrativo gioverebbe ad una valutazione della ragionevolezza della proposta. Quanti sono impugnati annualmente, tra i tanti emessi? Di che cosa si tratta? E poi, vi sono provvedimenti che possono esser criticati (es. la massa di valutazioni positive e promozioni in magistratura, le autorizzazioni concessa a incarichi extra-giudiziari), ma che ovviamente non vengono impugnati. Ed anche le più criticabili assegnazioni di incarichi direttivi potrebbero non essere oggetto di impugnazione, per i più vari motivi ed anche perché chi potrebbe lamentarsene è stato o sarà altrimenti accontentato. Inutile quindi l’esistenza niente meno che di una Alta Corte.
Le sentenze disciplinari del CSM, come quelle degli altri organi considerati dal disegno di legge, e i vari provvedimenti che, in sede di impugnazione, si vogliono assegnare alla nuova Alta Corte, devono poter essere impugnate davanti ad un giudice indipendente e imparziale. In questo senso sono la Costituzione (artt. 24, 113), la Convenzione europea dei diritti umani (artt. 6/1 Conv., 117 Cost.) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 47, 117 Cost.). L’indipendenza e imparzialità del giudice dei provvedimenti riguardanti i giudici è oggetto di ripetuta e rigorosa giurisprudenza da parte della Corte di giustizia dell’Unione e della Corte europea dei diritti umani. Per l’utilità che hanno nel trarre i principi relativi alla garanzia giurisdizionali per i provvedimenti riguardanti i giudici, richiamo della Corte di giustizia le sentenze C-619/2018 (Commissione c. Polonia) del 24 giugno 2019, C-192/2018 (Commissione c. Polonia) del 5 novembre 2019; C-585/18 (A.K. c. Krajova Rada Sadownictwa) del 19 novembre 2019; C-791/19 R e C-791/19 (Commissione c. Polonia) rispettivamente dell’8 aprile 2020 e del 15 luglio 2021; C‑83/19, C‑127/19, C‑195/19, C‑291/19, C‑355/19 e C‑397/19 (Asociaţia Forumul Judecătorilor din România e altri c. Inspecţia Judiciară e altri) del 18 maggio 2021, e quelle della Corte europea, tra le altre, Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo, 21 giugno 2016, §§ 144-165, 176-215; Paluda c. Slovacchia, 23 maggio 2017, §§ 45-55; Denisov c. Ucraina, 25 settembre 2018, §§ 66-72; Gudmundur Andri Astradsson c. Islanda, 1° dicembre 2020, §§ 211-290; Kövesi c. Romania, 5 maggio 2020, §§ 152-158; Eminagaoglu c. Turchia, 9 marzo 2021, §§ 53-82, 89-105. La recentissima Grzęda c. Polonia, 15 marzo 2022 riguarda un caso particolare, ma può essere utile per i principi generali che ricorda.
Questa Alta Corte è un giudice (speciale)? La sua composizione non pone problemi alla luce dei principi elaborati in sede europea, che l’Italia deve osservare? Il fatto che la composizione sia ricalcata su quella della Corte costituzionale non dice nulla in proposito, tanto diversa è l’attività dei due organi (significativo tra l’altro è il fatto che la Corte costituzionale non giudichi su ricorso diretto individuale).
Un dettaglio nel disegno di legge sembra allontanare la nuova Alta Corte dai principi che reggono le istituzioni giudiziarie: in sede di impugnazione la Corte è in composizione plenaria, con la partecipazione quindi dei tre componenti la Corte in primo grado? Nessuna incompatibilità? La composizione e l’intero meccanismo di questa nuova istituzione sembra tesa ad ottenere, per una via diversa, il risultato voluto da chi propone la modifica della composizione del CSM, inserendo una quota di componenti nominati dal presidente della Repubblica. Più ragionevole ed efficace sarebbe operare direttamente sulla composizione del CSM (e degli altri organi citati nel disegno di legge): più ragionevole e più esplicito, anche se le performances degli ambienti esterni alle magistrature non consentono, qui ed ora, di credere che un maggior peso laico possa dare risultati migliori. Si pongono però altre domande, che riguardano il tipo di controllo che svolgerà l’Alta Corte in sede di impugnazione delle sentenze disciplinari e dei provvedimenti amministrativi assegnati alla sua competenza. Un controllo di stretto diritto o un controllo di merito? E si pensa con il nuovo organo di dar risposta alla questione del controllo della motivazione dei provvedimenti impugnati e del vizio di eccesso di potere? E superare i problemi che suscita la giurisprudenza del giudice amministrativo, in presenza dell’art. 105 Cost.?
3. La creazione di un organo giurisdizionale che erode tanto la giurisdizione del giudice ordinario che quella del giudice amministrativo non rischia di delegittimarne la funzione di garanzia e di complicare il sistema di tutela giurisdizionale fondato non solo sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi ma anche sulle modalità di tutela offerte dai diversi plessi giurisdizionali, lasciando prefigurare difficoltà non marginali all’atto della definizione delle regole che dovrà avere il processo innanzi all’Alta Corte?
Io vedo le cose diversamente. Mi pare necessario interrogarsi sulla natura degli atti del CSM (e degli altri organi considerati dal disegno di legge). Molti provvedimenti sono o possono divenire quasi automatici, strettamente disciplinati da regole anelastiche (ad es. certi trasferimenti orizzontali). Ma altri dovrebbero essere riconosciuti come altamente discrezionali (con le conseguenze che ne derivano anche per ciò che riguarda le impugnazioni e il ruolo del relativo giudice). Lo richiede l’interesse pubblico che è in gioco, senza che possa avere peso preponderante l’interesse personale dei magistrati che concorrono per l’assegnazione. È la composizione dell’organo competente a decidere che spinge in quella direzione. Che senso ha strettamente vincolare con una rete di norme di varia natura un organo che assume legittimità nella elezione dei suoi componenti come il CSM, presieduto dal presidente della Repubblica? Perché, a che fine il CSM è così composto? Dalla sua composizione e dalla collegialità delle sue decisioni derivano, come conseguenza, le modalità della ricerca della maggioranza che consenta di decidere. Le assegnazioni ai vari incarichi –gli incarichi direttivi in particolare, ma non solo- implicano valutazioni non neutre della professionalità dei magistrati. È ora d’uso richiamare l’esigenza che il CSM consideri solo “il merito” quando debba scegliere tra più candidati. Ma, a parte la difficoltà di accertare il merito e -prima ancora- di definirlo con riferimento alla grande varietà delle funzioni svolte dai magistrati, pretendere che questa sia la soluzione è illusorio. È esperienza comune che possono essere in competizione magistrati non distinguibili sul piano del “merito” e che tuttavia promettono di agire (soprattutto se si tratti di incarichi direttivi) in modo diverso. Diverso per le correnti culturali che legittimamente e utilmente percorrono la magistratura, e quindi i modi di intendere la funzione giudiziaria, i disegni organizzativi degli uffici, gli stessi orientamenti giurisprudenziali, ecc. Illusorio e negativo sarebbe ignorare questa realtà, che peraltro preme e costringe il CSM ad acrobazie motivazionali, per nascondere la vera ratio della decisione e, con analoga tecnica argomentativa, consente al giudice amministrativo di sostituirsi al CSM. In ordine a queste questioni, se, come credo, hanno senso, l’istituzione dell’Alta Corte è una risposta? In ogni caso occorre dar risposta al tipo di giurisdizione che si vuole assegnare alla Alta Corte (dopo aver pensato se ha senso l’attuale tendenza ad ingabbiare il CSM in mille regole e criteri che si pretendono oggettivi).
4. Non ci sono criticità, secondo lei, con riferimento alla previsione che magistrati possano essere eletti dal Parlamento, come componenti dell’Alta Corte? Ciò, ad esempio, non potrebbe sollecitare, determinare o far apparire che esistano contatti, non trasparenti, tra magistrati e politica ovvero non potrebbe fa pensare a possibili opacità analoghe a quelle emerse dall’Hotel Champagne, ossia le stesse opacità che incrinano la fiducia dei cittadini e che la legge stessa intende combattere?
Certo. Si tratta di un sistema che spinge ovviamente i magistrati che lo vogliano a rendersi graditi sia ai gruppi parlamentari, sia anche al presidente della Repubblica. Rende naturali fenomeni di vassallaggio, già osservati e deplorati ad esempio del sistema spagnolo, che anche su questo punto ha subito diverse riforme.
5. Attraverso quali percorsi l’Alta corte dovrebbe riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini- magistrati e restituire prestigio alla magistratura?
Non vedo alcun effetto su quel terreno. Qualche indicazione positiva -ma da esplicitare e sviluppare- può derivare sul piano della deontologia, da rendere unitaria di tutti i magistrati, a qualunque giurisdizione appartengano. Ma soprattutto ad altro occorrerebbe pensare: al reclutamento dei magistrati, ai requisiti culturali e di esperienza, alla formazione, alla valutazione della loro condotta in vista della destinazione alle varie funzioni, alla scelta dei dirigenti degli uffici e ai poteri/doveri loro assegnati. Questi sono i temi, interconnessi, che possono introdurre alla soluzione del problema che nasce dalla difficile convivenza di principi ineludibili come sono quelli della indipendenza e della responsabilità dei magistrati (ordinari, amministrativi, contabili, tributari, militari).
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Editoriale
Come si legge nel preambolo alla proposta al disegno di legge di revisione costituzionale in tema di Modifiche al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di istituzione dell’Alta corte n. 2436 XVIII legislatura, l’intervento di riforma si pone come obiettivo quello di offrire uno strumento per il superamento della crisi della magistratura.
Intervento divenuto urgente – come apertis verbis si legge nel preambolo – per i recenti fatti di cronaca, l’accenno è chiaramente alle conversazioni intercettate all’Hotel Champagne (intercorse tra magistrati, consiglieri in carica del CSM, ex consiglieri del CSM e parlamentari, di cui uno magistrato e ex consigliere del Csm) nonché delle conversazioni via chat successivamente pubblicate.
Insomma è lo scandalo Palamara e la scoperta del c.d. sistema, che rende urgente, secondo i proponenti, la revisione costituzionale.
Tra i molti strumenti adottabili, sempre secondo preambolo, per riaffermare il prestigio della magistratura – che non dimentichiamolo non solo deve essere ma deve anche apparire autonoma e indipendente – ovvero la fiducia dei cittadini gravemente incrinata dallo scandalo Palamara, la proposta è quella dell’istituzione di un’Alta Corte.
Organismo a composizione varia che intenderebbe allocare un consistente contenzioso in materia di provvedimenti disciplinari ed incarici direttivi o semidirettivi in un ambito diverso da quello della giustizia ordinaria e amministrativa, in una prospettiva anch'essa moralizzatrice apertamente orientata ad evitare, nelle premesse, che i giudicanti possano essere condizionati da condizionamenti ambientali di vario tipo.
Un organo autonomo con funzioni disciplinari e di controllo dei provvedimenti adottati dal Consiglio superiore della magistratura, in ambito organizzativo e di gestione delle carriere, ma non solo anche con funzioni disciplinari e di controllo dei provvedimenti degli analoghi provvedimenti adottati dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti, dal Consiglio della magistratura militare e dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
La pluralità di questioni che una proposta di questo tipo solleva sono evidenti e, per questo, Giustizia insieme ha deciso di aprire un forum, raccogliendo le riflessioni di cinque protagonisti del mondo della giustizia, della politica e dell’Accademia, in modo di coagulare attorno ad alcune domande una cornice al cui interno collocare l’ipotesi di riforma.
Verranno di seguito pubblicate le interviste di Paola Filippi e Roberto Conti a Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, Anna Rossomando, Vice Presidente del Senato e prima proponente del disegno di legge costituzionale n. 2436, a Pierantonio Zanettin, capogruppo alla Camera di Forza Italia, a Maria Alessandra Sandulli, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università La Sapienza di Roma, a Giuseppe Campanelli, professore diritto costituzionale dell’Università di Pisa ed a Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione nazionale magistrati.
Costruire la pace attraverso il diritto. Il ruolo della Corte Penale Internazionale
di Maria Grazia Giammarinaro
Sommario: 1. L’invasione dell’Ucraina e la Corte Penale Internazionale - 2. Il crimine di genocidio - 3. I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra - 4. Un nuovo Tribunale ad hoc per il crimine di aggressione all’Ucraina? - 5. Una riflessione conclusiva da una prospettiva giusfemminista.
1. L’invasione dell’Ucraina e la Corte Penale Internazionale
In questi giorni terribili, in cui la forza delle armi sembra avere del tutto oscurato e sconfitto il principio di legalità, è opportuno chiedersi se la Corte Penale Internazionale possa svolgere un ruolo di riconoscimento delle responsabilità per i crimini commessi nel corso dell’invasione dell’Ucraina e per l‘invasione stessa, un’aggressione illegittima e non provocata, che ha già causato migliaia di morti anche tra la popolazione civile, ivi compresi tanti, troppi bambini e bambine.
La Corte Penale Internazionale (CPI) è stata istituita a seguito dell’approvazione nel 1998 del c.d. Statuto di Roma, che stabilisce l’elenco dei crimini di sua competenza e le sue regole di funzionamento. Si tratta della prima Corte Penale Internazionale con competenza generale, mentre le Corti che hanno giudicato i crimini commessi nella ex-Jugoslavia[1], in Ruanda,[2] a Timor Est[3] e in Sierra Leone[4] erano Tribunali ad hoc, istituiti post-factum.
I crimini che rientrano nella giurisdizione della CPI sono i c.d. core crimes - genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra - ed inoltre il crimine di aggressione. Mentre i core crimes proteggono diritti fondamentali delle persone coinvolte nel conflitto, il crimine di aggressione è per eccellenza il crimine contro la pace, ed insieme ai core crimes costituisce la stessa ragione d’essere della Corte Penale Internazionale. Tuttavia per il crimine di aggressione l’attivazione della giurisdizione della Corte è sottoposta a limiti molto restrittivi, come si dirà meglio più avanti. Si tratta di un grave vulnus alla potenziale efficacia dell’azione e delle decisioni della Corte, che già spinge taluni, tra cui il Presidente Zelenski, a chiedere l’istituzione di una Corte ad hoc competente per l’aggressione all’Ucraina.
Il Procuratore Generale della Corte, il britannico Karim Asad Ahmad Khan, ha aperto un’indagine per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.[5] Anche soltanto in base alle notizie provenienti da open sources, emerge che i bombardamenti russi hanno colpito zone residenziali lontane da obiettivi militari, edifici pubblici e ospedali, tra cui l’ospedale pediatrico di Mariupol, e perfino colonne di cittadini in fuga dopo l’apertura di corridoi umanitari o in fila per il pane. L’enorme quantità di bersagli civili colpiti in queste settimane di guerra è già sufficiente a dimostrare che non si è trattato di errori, ma di una strategia di attacco - peraltro tristemente sperimentata in Siria[6] - che mira a terrorizzare la popolazione e indurla alla resa.
Occorre chiedersi perché, almeno in queste due e in altre guerre recenti o ancora in corso come quella in Yemen, i bombardamenti e gli attacchi armati abbiano sistematicamente colpito, al pari degli obiettivi militari e dei luoghi della produzione di beni materiali, anche i luoghi della riproduzione sociale, cioè le case, le scuole, gli ospedali. Proprio questi luoghi vengono oggi individuati, consapevolmente o inconsapevolmente, come la riserva di energia di una popolazione, ciò che in definitiva la rende più forte e coesa. Quelli della riproduzione sociale sono i luoghi in cui alberga quel senso profondo della vita che costituisce la più irriducibile opposizione alla violenza. Forse per questa ragione proprio quei luoghi diventano i bersagli privilegiati, ciò che è necessario abbattere, sfigurare, sventrare, per affermare il dominio del più forte.
Dunque, vi sono certamente i presupposti indiziari per l’inizio di un’indagine penale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel frattempo si è attivata anche la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), organo dell’ONU,[7] sulle accuse di genocidio ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio.[8] Nella sua richiesta alla CIG di attivare un procedimento contro la Federazione Russa, l’Ucraina ha affermato di essere stata accusata falsamente di avere compiuto atti di genocidio nelle regioni separatiste di Luhansk e Donetsk nel 2014 e successivamente, e ha chiesto misure provvisorie contro la Russia. Nel suo ricorso l’Ucraina ha accusato la Federazione russa di pianificare atti di genocidio in Ucraina, nonché di uccidere intenzionalmente ed infliggere lesioni gravi ai membri della nazionalità Ucraina. Le misure provvisorie sono poi state adottate il 16 marzo scorso, quando la CIG ha ordinato alla Federazione russa di assicurare che qualsiasi unità militare o irregolare da essa diretta o sostenuta, e qualsiasi organizzazione o persona che possa essere soggetta al suo controllo o alla sua direzione, si astenga dal compiere atti di aiuto alle operazioni militari in corso.[9] Il crimine di genocidio è dunque implicato nell’azione sia della CPI sia della CIG.
2. Il crimine di genocidio
Il termine “genocidio” fu coniato per descrivere i crimini commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. La definizione giuridica fu formulata per la prima volta nel 1948, nella Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Il delitto è definito dall’art. 1 della Convenzione come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra. In base all’art. 2 della Convenzione, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”. La definizione di genocidio è stata trasfusa negli Statuti delle Corti ad hoc, e poi nello Statuto della CPI.[10] Oltre all’elemento oggettivo, è necessario che esista “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. L’intento di commettere genocidio può essere dedotto da fatti e circostanze rilevanti, come la commissione di altri atti diretti sistematicamente contro un gruppo, la dimensione delle atrocità commesse, il fatto di prendere di mira sistematicamente certi individui per il fatto di appartenere al gruppo in questione, o la ripetizione di atti distruttivi o discriminatori.[11]
Al fine di valutare l’esistenza del crimine di genocidio o del tentativo di genocidio nelle regioni separatiste del Luhansk e del Donetsk, occorrerebbe provare innanzi tutto che le comunità asseritamente prese di mira costituiscano un gruppo protetto, ovvero che abbiano un’identità distinta da quella dei presunti aggressori dal punto di vista nazionale, etnico, razziale o religioso. Già tale presupposto sembra difficile da rintracciare, poiché è scontato che tra ucraini e separatisti russofoni non vi è una diversa identità etnica né razziale né religiosa. Quanto alla diversa identità nazionale, considerare le comunità separatiste come entità nazionali diverse dall’Ucraina equivarrebbe a considerare legittimo il recente riconoscimento di Mosca delle regioni separatiste come repubbliche autonome, e fare retroagire il presupposto della diversa identità nazionale alla situazione del 2014. Inoltre occorrerebbe provare, oltre ai fatti materiali, anche il dolo specifico consistente nell’intenzione di distruggere in tutto o in parte le comunità russofone. Benché sia probabile che nelle regioni separatiste siano stati commessi atti di violenza da entrambe le parti in conflitto, allo stato delle conoscenze non sembra che le dimensioni e la qualità di tali fatti possano configurare il crimine di genocidio o di tentato genocidio ai danni di popolazioni russofone. In ogni caso nel 2014 era stata aperta un’inchiesta della Procura CPI, i cui risultati verrano ora utilizzati nell’ambito della più vasta indagine ora annunciata dal Procuratore, che dovrà necessariamente estendersi a tutti gli atti diretti contro la popolazione commessi nel territorio dell’Ucraina, e alla loro qualificazione giuridica, ivi compreso il crimine di genocidio.
3. I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra
I crimini contro l’umanità sono elencati e parzialmente definiti dallo Statuto di Roma. La lista comprende l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù anche nel contesto della tratta di esseri umani, la deportazione, l’imprigionamento o altre forme di privazione della libertà, la tortura, lo stupro e altre forme di violenza sessuale, la persecuzione di un gruppo, la sparizione forzata, l’apartheid, e altri atti inumani diretti a provocare intenzionalmente gravi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale. Il presupposto oggettivo dei crimini contro l’umanità è che essi siano commessi come parte di un attacco diffuso o sistematico contro una popolazione civile per ragioni nazionali, politiche, etniche, razziali o religiose, laddove “diffuso” si riferisce alla sua natura su larga scala, e “sistematico” alla natura organizzata degli atti di violenza e alla improbabilità che essi siano accaduti in modo casuale.[12] L’elemento soggettivo è costituito dalla conoscenza da parte dell’imputato del contesto, e del fatto che i propri atti formano parte dell’attacco, senza necessità che il colpevole condivida i propositi o i fini del più ampio attacco.[13] Inoltre l’elemento psicologico non deve necessariamente coprire l’elemento addizionale che il fatto sia commesso per ragioni nazionali, politiche, etniche o razziali o religiose, vale a dire che non deve essere provato uno specifico intento discriminatorio.
Con riferimento all’elemento oggettivo, nel caso dell’invasione dell’Ucraina le informazioni provenienti dalle open sources portano a ritenere - come si è già detto - che gli attacchi alle popolazioni civili, in specie i bombardamenti contro obiettivi non militari quali quartieri residenziali e ospedali, per essere stati compiuti su larga scala e in modo organizzato, non possano essere considerati casuali. In relazione alla punibilità dei colpevoli, di particolare importanza è la prova della responsabilità non solo dell’autore materiale degli atti, ma anche dei superiori gerarchici. In proposito l’art. 28 dello Statuto di Roma prevede due presupposti della punibilità dei capi. Il primo è che l’imputato sia un comandante militare, ovvero che lo stesso abbia agito di fatto come un comandante militare. In secondo luogo, si richiede che le forze armate siano sotto il suo effettivo comando o autorità, e controllo. Il comportamento omissivo rilevante ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale si verifica quando l’imputato non ha esercitato un controllo adeguato sulle forze armate a lui sottoposte, ovvero ha omesso di prendere le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per prevenire la commissione del crimine contro l’umanità, o per reprimerlo, o per presentare la questione alle autorità competenti per le indagini e l’azione penale. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, il dolo consiste nel fatto che l’imputato conosceva, o che avrebbe dovuto avere conoscenza degli atti criminali che le forze a lui sottoposte stavano per commettere. Orbene, nel caso dell’Ucraina la più alta autorità statale della Federazione russa, nella persona del Presidente Putin, ha pubblicamente rivendicato l’invasione - sia pure denominata “operazione speciale” - annunciandone a più riprese la prosecuzione. Per quanto riguarda i singoli crimini, vanno applicati i sopra indicati criteri di attribuzione di responsabilità penale lungo la catena di comando, fino ai più alti livelli della gerarchia militare e statale.[14]
I crimini di guerra sono numerosi e dettagliatamente elencati nello Statuto di Roma. Rispetto ai crimini contro l’umanità, i crimini di guerra presentano il diverso elemento materiale consistente nel nesso tra il presunto crimine e il conflitto armato. Con riferimento all’invasione dell’Ucraina, i crimini che vengono soprattutto in evidenza sono quelli previsti dall’art. 8 lett.(i) “dirigere deliberatamente attacchi contro proprietà civili e cioè proprietà che non siano obiettivi militari e (iv) lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, e lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale (…).
La CPI esercita la sua giurisdizione solo se lo Stato nel cui territorio è stato commesso il crimine è uno Stato parte della Convenzione. Né la Federazione russa né l’Ucraina hanno ratificato lo Statuto della Corte. Tuttavia in questo caso la giurisdizione della Corte si incardina - per i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio - a seguito dell’accettazione della giurisdizione da parte dell’Ucraina per i crimini commessi sul suo territorio, depositata nel 2014 e reiterata senza limite di tempo nel 2015.
4. Un nuovo Tribunale ad hoc per il crimine di aggressione all’Ucraina?
Diversamente, per il crimine di aggressione non sembra esistere alcuno spiraglio per affermare la giurisdizione della CPI. L’aggressione è definita dallo Statuto di Roma come “pianificazione, preparazione, scatenamento o esecuzione, da parte di una persona che sia in grado di esercitare un controllo effettivo o di dirigere l’azione politica e militare dello Stato, di un atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite.” La Risoluzione dell’Assemblea Generale 3314, nel 1974, aveva definito l’atto di aggressione come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato o in ogni altra maniera contraria alla Carta delle Nazioni Unite”. Azioni qualificanti l’aggressione sono l’invasione o l’occupazione militare, il bombardamento, il blocco dei porti e delle coste, l’invio di bande di mercenari. E’ evidente la rilevanza del crimine di aggressione nella situazione attuale della guerra in Ucraina.
Tuttavia il crimine di aggressione fu incluso nello Statuto di Roma in un clima molto conflittuale, giacché alcuni Stati si opponevano alla sua introduzione. D’altra parte occorre ricordare che Stati Uniti, Russia e Cina non hanno ratificato lo Statuto. Il compromesso finale fu che l’attivazione della giurisdizione della Corte per il crimine di aggressione sarebbe stata rinviata a successivi emendamenti allo Statuto. In base ai c.d. emendamenti di Kampala adottati nel 2017, dopo quasi venti anni dall’apertura alla firma dello Statuto, la giurisdizione per il crimine di aggressione è stata attivata con la Risoluzione dell’Assemblea degli Stati parte del 15/12/2017, entrata in vigore il 17/07/2018.
Tuttavia il testo emendato dello Statuto sottopone l’attivazione della giurisdizione a limiti molto ristretti, e sembra pertanto scontato il difetto di giurisdizione della CPI per il crimine di aggressone.[15] L’istituzione di una Corte ad hoc sembra allo stato l’unica opzione praticabile se si vuole sottoporre a giudizio l’aggressione all’Ucraina in quanto tale, al di là dei singoli crimini commessi nel corso dell’invasione. La soluzione avrebbe l’aspetto negativo di delegittimare la CPI, proprio nel momento in cui il Procuratore assume un’iniziativa tempestiva sul conflitto in corso. Inoltre sulle Corti ad hoc ha gravato l’ipoteca di essere istituite post-factum, e dunque di sottrarsi al principio fondamentale di diritto penale nullum crimen sine lege. Per la verità a partire dall’istituzione del Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia, è stato verificato che tutte le norme incriminatrici avessero un riscontro in norme precedentemente contenute nel diritto internazionale e nel diritto interno dei principali sistemi legali. Da questo punto di vista, dunque, e date le drastiche restrizioni imposte alla CPI sul crimine di aggressione, l’istituzione di una Corte ad hoc potrebbe essere accettabile. Tuttavia tale soluzione non sembra allo stato indispensabile. Infatti, in base allo Statuto di Roma e alla giurisprudenza delle Corti Internazionali, in particolare della ICTY, la responsabilità di comando per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra può raggiungere - e di fatto ha raggiunto - i più alti livelli della gerarchia militare e dello stesso ordinamento statale.[16]
5. Una riflessione conclusiva, in una prospettiva giusfemminista
Il femminismo si è storicamente impegnato per l’accertamento e la punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi contro le donne durante i conflitti e in tempo di pace. A seguito delle atrocità commesse in Bosnia, nello Statuto di Roma sono stati introdotti i delitti di stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza di gravità comparabile.[17] Il femminismo ha dato un contributo rilevante al riconoscimento di un fatto che è oggi patrimonio della coscienza collettiva, vale a dire che le guerre contemporanee prendono di mira soprattutto i civili, e tra questi le donne, che sono colpite da forme efferate di violenza sessuale, vere e proprie armi di guerra di particolare potenza in quanto volte a distruggere la coesione e dunque a indebolire drammaticamente le comunità avversarie. E’ opportuno in proposito ricordare che gli stupri e i delitti di schiavitù sessuale commessi durante la seconda guerra mondiale sono stati oggetto di una rimozione collettiva per decenni, e che solo recentemente sono stati sottratti all’oblio, grazie anche all’impegno femminista. In questo processo di ricerca della verità, la richiesta di riconoscimento di quanto era accaduto allora, e quanto è accaduto poi nella ex Jugoslavia, in Ruanda, in Congo, in Iraq e in Siria - per citare solo alcune delle guerre recenti - e l’accertamento delle relative responsabilità, sono stati e restano tuttora le rivendicazioni centrali delle vittime e delle associazioni di donne che le hanno sostenute. Solo ristabilendo la verità, infatti, è possibile ricostruire una prospettiva di pace e di convivenza. La straordinaria esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica[18] ne è un esempio storico.
Il pensiero femminista ha da tempo sviluppato una riflessione profonda sulla nozione di vulnerabilità come attributo di tutti gli esseri umani, che per il fatto di avere un corpo sono esposti alla ferita e alla perdita. La vulnerabilità come attributo della vita stessa, fa sì che ciascuna/o di noi sia consegnato all’altra/o, in un rapporto originario di dipendenza reciproca.[19] L’interdipendenza di tutti gli esseri umani, resa evidente dalla globalizzazione - dai suoi grandi meriti come dai suoi grandi disastri - richiede che lo sguardo rimanga puntato sulla convivenza possibile tra persone e popolazioni diverse, ma simili quanto alla comune vulnerabilità.[20] Se la vulnerabilità “situazionale” provocata dalla coercizione, dalla discriminazione e dallo sfruttamento[21] è la conseguenza della violenza e del dominio, la risposta deve essere un’azione fondata sulla comune e inevitabile vulnerabilità umana, e sulla solidarietà che ne è il corollario. Assistiamo in questi giorni ad un’arroganza della forza, che tuttavia si scopre meno efficace di quanto si ritenesse. I bombardamenti sui luoghi della riproduzione sociale come le case e gli ospedali, dicono che si vuole colpire la vita stessa per affermare la propria volontà con la violenza. A questa arroganza, un’ultima manifestazione storica della politica di potenza, si deve opporre una volontà di pace. Secondo il diritto internazionale, qualsiasi popolazione ha il diritto di difendersi da un’aggressione armata. Tuttavia un canale per la risoluzione alternativa e pacifica del conflitto deve sempre essere tenuto aperto.
Nel corso dei negoziati, che si spera portino a una soluzione diplomatica in tempi non troppo lunghi - poiché ogni giorno di guerra è un giorno di sofferenza e di perdite inaccettabili - è utile che venga attivata la giurisdizione internazionale inclusa quella penale? La costruzione di una prospettiva di pace è affidata innanzi tutto ai negoziati internazionali in corso; una soluzione possibile non deve necessariamente basarsi sullo status quo ante - del resto il Presidente Zelensky ha mostrato di essere aperto a discutere sullo statuto di neutralità del Paese - ma certamente deve basarsi sul ripristino della legalità internazionale e sulla piena sovranità dell’Ucraina. In questo percorso, quale può essere il ruolo del diritto?
Il diritto è sempre lo strumento del più debole, che una persona vulnerabile, vittima di sofferenze e perdite irreparabili, deve poter sempre invocare. Impotente dinanzi all’uso della forza su larga scala e costretto a recedere, il diritto ha tuttavia una missione da compiere: riconoscere che gli atti commessi ai danni delle popolazioni civili sono crimini, che hanno dei responsabili, mostrarli al mondo e chiamarli con il loro nome. Solo il riconoscimento può fare sì che l’auspicata soluzione diplomatica non sia un “appeasement”, una pura e semplice ratifica del fatto compiuto attraverso l’uso della forza, foriero di ulteriori atti di aggressione, ma un accordo giusto e duraturo. Dunque, sì, la Corte Penale Internazionale ha un ruolo da svolgere anche per garantire un futuro di pace, e deve svolgerlo con il sostegno di tutti gli Stati c.d. like-minded, tra cui i Paesi europei e tra questi l’Italia, che alla fine degli anni ’90 si impegnarono per la sua istituzione.
*Magistrata in pensione, già United Nations Special Rapporteur on trafficking in persons especially women and children.
[1] Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, istituito il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza dell'ONU. E’ stata la prima Corte penale internazionale istituita dopo la Corte Penale che celebrò il processo di Norimberga, creata con l’accordo di Londra del 1945.
[2] Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR) istituito nel 1994.
[3] Special Panels della Corte del distretto di Dili, noti come Tribunale speciale per Timor Est, istituito nel 2000.
[4] Corte Speciale per la Sierra Leone, istituita nel 2002.
[5]https://www.rainews.it/articoli/2022/02/la-corte-penale-internazionale-indagher-la-russia-per-crimini-di-guerra-264111d5-7a84-4c0a-ab13-c12d3b8f3fb7.html
[6] Tra le numerose fonti, cfr. C. Del Ponte, Gli Impuniti.I crimini in Siria e la mia lotta per la verità, Milano, Sperling & Kupfer, 2018.
[7] La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) fu fondata nel 1945. A differenza della Corte Penale Internazionale (CPI), che giudica sulla responsabilità penale degli individui, la principale funzione della CIG è dirimere le controversie internazionali tra Stati membri delle Nazioni Unite che abbiano accettato la sua giurisdizione, oltre che di fornire l’interpretazione del diritto internazionale e fornire pareri all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
[8] https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/crimini-di-guerra-il-procuratore-della-corte-penale-internazionale-apre-un-indagine-contro-la-russia_46780134-202202k.shtml
[9] https://www.icj-cij.org/public/files/case-related/182/182-20220316-PRE-01-00-EN.pdf
[10] Tuttavia nello Statuto di Roma non è stata riprodotta la punibilità della cospirazione per commettere genocidio.
[11] Cfr. fra le altre, ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement, para 2073, che richiama ICTR, Bagosora et al. Trial Judgement, para 2116; ICTR, Sereomba Appeal Judgement, para 176.
[12] ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement, para 2087, che richiama fra gli altri ICTY, Kunarac et al. Trial Judgement paras 428-429; ICTY, Kunarac Appeal Judgement, para. 94.
[13] ICTR, Ndindiliyimana et al. Trial Judgement para 2088, che richiama ICTR, Setako Trial Judgement para 476; ICTR Bagosora et al. Trial Judgement, para 2165; ICTR, Media Appeal Judgement, para 920.
[14] Il 24 marzo 2016, la III Camera della ICTY ha condannato Radovan Karadžić per genocidio nell’area di Srebrenica nel 1995 e per persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, atti disumani (trasferimento forzato) terrore, attacchi illegali sui civili e presa di ostaggi. E’ stato assolto per l’imputazione di genocidio in altre municipalità della Bosnia and Herzegovina (BiH) nel 1992. La Corte ha ritenuto che Karadzic abbia commesso questi crimini attraverso la sua partecipazione in quattro JCEs (Imprese criminali collettive): la prima comprendeva un piano comune per rimuovere i Bosniaci Musulmani e I Bosniaci Croati dai territori che i Serbo-bosniaci reclamavano per sé, attraverso la commissione di delitti in varie municipalità del territorio della BiH; la seconda aveva lo scopo di sviluppare una campagna di tiri mirati e e bombardamenti contro la popolazione civile di Sarajevo, volta a seminare terrore tra i cittadini; la terza impresa criminale aveva lo scopo di prendere in ostaggio personale dell’ONU allo scopo di costringere la NATO a cessare i bombardamenti aerei contro bersagli serbo-bosniaci; la quarta aveva lo scopo di eliminare i Bosniaci Musulmani di Srebrenica nel luglio 1995. La sentenza ha ritenuto la responsabilità di Milosevic anche come capo militare e superiore gerarchico, e dunque ha attinto la più alta autorità statale della Republika Serpska, di cui dal dicembre 1992 Karadzic era stato Presidente e Comandante delle Forze armate. https://www.irmct.org/en/cases/mict-13-55#:~:text=On%2024%20March%202016%2C%20Trial,on%20civilians%20and%20hostage%2Dtaking.
[15] C. Pividori, Crimine di aggressione, Dossier del Centro Diritti Umani “Antonio Papisca”, Università degli Studi di Padova.
[16] Cfr. n particolare, le imputazioni elevate contro Slobodan Milosevic (IT-02-54), Presidente della Repubblica Federale di Yugoslavia dal 1997 al 2000 e deceduto nel 2006 prima della sentenza. https://www.icty.org/en/case/slobodan_milosevic#ind Cfr. anche la decisione di primo grado e di appello contro Radovan Karadzic, cit..
[17] I crimini di violenza sessuale perpetrati durante la guerra nella ex Jugoslavia sono stati giudicati dal Tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia (ICTY). In un documento preparato da quella Corte nel 2010, si afferma che la metà dei capi d’accusa del Tribunale riguardava atti di violenza sessuale, e la maggioranza di tali accuse aveva portato a condanne non soltanto degli esecutori materiali, ma anche, per complicità o responsabilità di comando, di comandanti di centri di detenzione, di comandanti militari intermedi, come di quelli posti ai vertici della catena gerarchica di un esercito o di autorità civili locali e centrali, e perfino dei quelle poste al vertice dell’organizzazione statale. Risultati analoghi si sono registrati dal Tribunale per il Ruanda e dalla Corte Speciale per la Sierra Leone. https://www.icty.org/x/file/Outreach/sv_files/DPKO_report_sexual_violence.pdf
[18] La Truth and Reconciliation Commission fu fondata nel 1995, ed ebbe la propria sede a Città del Capo. Il mandato era di raccogliere e registrare le testimonianze di coloro che si erano resi colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell'apartheid, o di coloro che erano stati le vittime di tali violazioni, con la possibilità di concedere l'amnistia a chi avesse confessato i suoi crimini.
[19] J. Butler, Precarious life. The powers of mourning and violence, Trad. it. Vite Precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Roma, Meltemi.
[20] Il pensiero femminista recente ha molto lavorato sulla nozione di vulnerabilità, facendone la base di una critica al soggetto di diritto neutro, astratto e indipendente Cfr. in particolare M. Fineman, The Vulnerable Subject and the Responsive State, in Yale Journal of Law and Feminism, 20/2008, 1; Pariotti, Vulnerabilità e qualificazione del soggetto: implicazioni per il paradigma dei diritti umani, in O. Giolo, B. Pastore, Vulnerabilità. Analisi multidisciplinare di un concetto, Roma, 2018. B. Pastore, Viola, Zaccaria, Le ragioni del diritto, Bologna, 2017; M.G. Bernardini, Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari tra filosofia del diritto e Disability Studies, Torino, 2016.
[21] M.G. Giammarinaro, L. Palumbo, Vulnerabilità situazionale, genere e diritti umani, in G. Gioffredi, V. Lorubbio, A. Pisanò (a cura di), Diritti umani in crisi? Emergenze, disuguaglianze, esclusioni, Pacini Giuridica.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.