ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’indipendenza del giudice dipendente del MEF, ossimoro di una riforma che gioca d’azzardo
di Francesco Tundo*
Sommario: 1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento. - 2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo. - 3. Il nuovo status del giudice tributario. - 3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia. - 4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione. - 4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest? - 5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini. - 5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie. - 6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
1. Premessa: “fuori i secondi”, è il momento del Parlamento.
Il Disegno di Legge AS 2636, presentato in Senato dal Governo il 1° giugno 2022, è stato salutato dai primi commentatori con parole di grande apprezzamento e toni addirittura enfatici. Ad un esame più ponderato, tuttavia, ne sono emerse le criticità, opportunamente messe in luce dagli studiosi e dagli osservatori più attenti, così come nel corso delle audizioni informali del 28 giugno dinanzi alle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanze.
È indubbio che il dibattito intorno all’assetto della Giustizia Tributaria ha subito un’intensa accelerazione, anche per il fatto che la riforma rientra fra i traguardi individuati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Prima ancora del PNRR, tuttavia, nel corso di questa legislatura si è potuto assistere ad una formidabile osmosi culturale tra Accademia, operatori del settore e iniziative parlamentari. Tanto fermento riformista è stato accompagnato da un grande protagonismo del Parlamento, ove peraltro le numerose proposte di legge presentate nel corso della legislatura, sia alla Camera che al Senato, rivelano un inedito comune sentire circa gli elementi strutturali che dovrebbero caratterizzare la Giustizia Tributaria. Un protagonismo da salutare con grande favore. Perché segna una centralità del Parlamento nella materia tributaria che, auspicabilmente, dovrebbe ulteriormente consolidarsi. E anche perché le iniziative del Parlamento scaturiscono all’esito di un lungo ed articolato débat public che conferisce ad esse maggior valore.
Anche il Governo ha dato riscontro alla necessità di un intervento. Dapprima, nel 2021, con l’istituzione di una Commissione presso i Ministeri della Giustizia e dell’Economia, la quale, come noto, non ha purtroppo prodotto una relazione unitaria. Poi con i lavori di una seconda Commissione (singolarmente definita “tecnica”, come se quella precedente avesse avuto una natura diversa), che hanno portato al Disegno di Legge qui in esame. È verosimile ritenere che l’insormontabile difficoltà di conciliare le posizioni delle due anime della Commissione precedente abbia contribuito all’esito non pienamente soddisfacente del Disegno di Legge governativo, per effetto della ricerca di una sintesi sostanzialmente impossibile.
Il fatto è che, più che questioni di tecnica giuridica, delle quali dirò in appresso, siamo al cospetto di rilevanti scelte politiche, che non possono che aver luogo in Parlamento. In un Parlamento che ha ormai acquisito una piena consapevolezza delle determinazioni da assumere, essendo altresì all’esame delle medesime Commissioni molti dei disegni di legge di iniziativa parlamentare. Sono molto chiare le opzioni, le posizioni in campo, le opinioni degli studiosi, le istanze e le “pretese” delle parti interessate. Sono persino stati smascherati gli opportunismi di chi ha intravisto, nell’imminente riforma, inaspettate opportunità professionali e ha provato a piegare l’interesse collettivo a fini di vantaggio di una sola parte.
È, insomma, il momento che gli addetti ai lavori, i tecnici, i portatori di interessi di categoria, gli “oscuri funzionari di gabinetto” dei quali così tanto diffidava Enrico Allorio[1], lascino il campo al dibattito parlamentare perché siamo innanzi ad un vero e proprio bivio nelle scelte attinenti al modello di tutela dei contribuenti dalle pretese del fisco e dunque, a pieno titolo, nell’ambito delle grandi valutazioni politiche.
2. Le urgenze del PNRR e la macchina del tempo.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una graduale erosione dell’area delle tutele giurisdizionali, a tutto beneficio del rafforzamento delle prerogative delle Agenzie fiscali, che oggi vanno ben oltre la loro missione originaria e si ergono persino a giudici dei loro stessi atti. Ciò concorre a far sì che il numero delle liti davanti ai giudici sia in costante diminuzione. Ma c’è di più e non sempre i numeri spiegano tutto. Il fatto è che tra l’aumento delle liti potenziali concordate direttamente con gli stessi uffici e l’esorbitanza a vario titolo delle attribuzioni delle Agenzie, il contribuente è stato surrettiziamente indotto, nel tempo, ad una percezione, per così dire, strabica dei suoi diritti, convincendosi che il modo migliore per farli valere sia di rivolgersi al medesimo ente che lo sottopone ai controlli e che contesta il suo operato. Niente di più sbagliato.
In uno Stato di diritto il cittadino deve, prima di tutto, poter contare su un giudice imparziale ed indipendente e ciò anche nella materia fiscale. Oggi, invece, corriamo il rischio che, con il pretesto del PNRR e dell’urgenza delle riforme da esso richieste, la tutela rispetto alle pretese del fisco venga definitivamente consegnata alla stessa amministrazione pubblica che spicca le contestazioni. Il progetto governativo, infatti, sembra l’ultimo miglio di un percorso che, come la macchina del tempo, ci riporta a sorpresa alla situazione del secolo scorso, quando le Commissioni Tributarie erano articolazioni interne alla stessa Amministrazione e i contribuenti non avevano alcun giudice al quale rivolgersi. E’ un prezzo troppo alto, che non ci possiamo permettere di pagare. Occorre dunque che il Parlamento ponga rimedio: è ancora possibile.
3. Il nuovo status del giudice tributario.
Il DDL 2636, più che costituire l’attesa riforma ordinamentale della Giustizia tributaria, si limita ad una revisione dello status dei giudici. Una misura indubbiamente di grande rilievo e a lungo attesa ma che attiene ad una sfera molto limitata delle possibili aree di intervento. Si tratta, insomma, di un intervento più circoscritto rispetto alle prospettive offerte dalle iniziative parlamentari che invece delineano, tutte, ipotesi di riforma di ben più ampio respiro.
Tengo a sottolineare che, a mio avviso, la Giustizia Tributaria ha dato buona prova: è noto che i giudizi, nella fase di merito davanti alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, sono assai più rapidi rispetto a quelli innanzi alla Giustizia ordinaria. Non è, tuttavia, solo una questione di numeri, dato che anche la qualità delle sentenze tributarie di merito è apprezzabile e le Commissioni Tributarie si sono rese protagoniste dell’inaugurazione di filoni giurisprudenziali che talvolta sono culminati con mutamenti di indirizzo della Corte di cassazione.
Tuttavia la complessità sempre crescente del diritto tributario impone ormai un impegno a tempo pieno e dunque l’introduzione del giudice assunto a tempo indeterminato mediante concorso è da accogliere con indubbio favore.
3.1. L’inconcepibile esclusione dal concorso dei laureati in economia.
Proprio sul concorso che dovrebbe portare all’assunzione dei nuovi Giudici tributari s’incentra, tuttavia, un primo, evidente, inciampo del progetto governativo.
Il DDL 2636 reca una disciplina (eccessivamente) minuziosa per accedere ai ranghi dei futuri magistrati tributari e, in essa, stringenti requisiti per la partecipazione al concorso, che fanno unicamente riferimento alla laurea in giurisprudenza, così escludendo implicitamente altre competenze ed altri percorsi di studio e di laurea, e in particolare quelli in economia.
Una siffatta preclusione non è coerente con la natura del diritto tributario, il quale richiede competenze necessariamente sincretiche: oggi non si può giudicare se non si conoscono il diritto tanto quanto i bilanci e i principi contabili, l’economia aziendale, la fiscalità internazionale e così via. A chi l’ha proposta, a chi l’ha scritta e a chi la difende, occorrerebbe dare da leggere i lavori della Costituente. Ezio Vanoni, che non faceva parte della sezione competente in materia di giustizia, chiese di prendervi parte per porre in luce le esigenze attinenti alla difesa dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, che a suo avviso non erano adeguatamente tutelate. Sviluppando una serie di considerazioni ancora oggi straordinariamente attuali, concluse per l’opportunità di una giurisdizione tributaria che fosse idonea a contemperare l’esigenza di rapidità del giudizio con la competenza giuridica e le cognizioni tecniche richieste al Giudice in una materia così peculiare come il diritto tributario[2].
Inoltre, ai propugnatori della conseguente iniziativa che, ostentando una certa sicumera, pretenderebbero l’esclusiva delle difese tecniche davanti alle Commissioni Tributarie, quasi spettassero loro per diritto divino, cercando di escludere i dottori commercialisti, gioverebbe leggere la costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Quest’ultima ha sempre sostenuto che il diritto di difesa garantito dall’art. 24, Cost. è diversamente modulabile dal legislatore, che può disciplinarne l’esercizio secondo valutazioni discrezionali, con il solo limite della non irrazionalità delle scelte[3].
Se l’esclusione dei laureati in economia è priva di senso, ciò vale a maggior ragione in un momento in cui i piani di studio delle Scuole di Economia offrono percorsi formativi che, in certi casi, possono essere addirittura più idonei di altri ad assicurare le conoscenze tecniche e a creare la forma mentis per l’esercizio della funzione giurisdizionale tributaria. Aprire la possibilità di partecipare al concorso a più classi di laurea avrebbe un effetto benefico sulla composizione dei futuri collegi, le cui competenze sarebbero altrettanto composite, così come le materie sulle quali essi dovranno pronunciarsi.
S’impone dunque un intervento emendativo sul punto, accompagnato in parallelo da una revisione delle materie indicate quali oggetto del relativo concorso che, oltre a non essere pienamente condivisibili (si pensi alla singolare previsione del “diritto internazionale privato” o del diritto penale tout court!), sembrano delineate più per dare una giustificazione plausibile alla circoscrizione dell’accesso ai laureati in giurisprudenza che per prefigurare una competenza professionale idonea all’esercizio della funzione giurisdizionale in materia tributaria.
4. Un’ipoteca sulla credibilità della Giurisdizione.
Se un indubbio passo in avanti del DDL 2636 è costituito dalla professionalizzazione del Giudice tributario, è sul terreno dell’indipendenza dei Giudici – che costituisce la più preziosa materia prima della giurisdizione – che la riforma risulta, purtroppo, molto deludente.
Il cordone ombelicale col Ministero dell’Economia è unanimemente ritenuto inopportuno e da recidere. Non è un caso che proprio in questa direzione vadano tutti i progetti di legge parlamentari, che prevedono il passaggio della Giustizia Tributaria alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia. Non è un caso, soprattutto, che non vi sia alcun sostenitore dell’opportunità della permanenza organica nel MEF dei futuri magistrati tributari di ruolo che abbia avuto il coraggio di sostenere la sua posizione a viso aperto né, oggettivamente, alcuna plausibile ragione di siffatta appartenenza organica.
I futuri magistrati, a differenza di quelli attuali, saranno selezionati con concorsi governati dal Ministero dell’Economia e, non si possono usare perifrasi, diventeranno addirittura dipendenti di quest’ultimo, il quale concorrerà persino al controllo ispettivo sulle modalità di esercizio della giurisdizione.
Insomma, siamo dinanzi ad un’opzione che determina un impoverimento della caratura giurisdizionale degli organi preposti alla tutela e, al contempo, imprime una sterzata verso un assetto burocratico-amministrativo. Esattamente il contrario degli obiettivi dichiarati. Esattamente il contrario delle aspettative di tutti, dagli studiosi ai componenti del Parlamento che hanno avanzato proposte di legge tutte in direzione opposta, alle categorie professionali. Esattamente il contrario della soluzione più logica e più coerente con il percorso di revisione costituzionale che ha connotato le commissioni tributarie lungo tutta la storia repubblicana.
Tale situazione è più gravemente compromessa nella misura in cui il DDL 2636 finisce per indebolire le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, negandogli quella funzione di di contrappeso all’ingerenza del potere politico caratteristica di tutti gli organi di autogoverno e, nel nostro caso, di argine alla pervasività del MEF.
Si tenga ad esempio conto che – ferma restando l’attuale disciplina degli artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 545 del 1992 – il DDL istituisce un “Ufficio ispettivo” presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, volto secondo la Relazione illustrativa a “garantire una vigilanza efficace sull’attività giurisdizionale svolta presso le Commissioni tributarie, disponendo ispezioni nei confronti del personale giudicante”. Tuttavia, all’istituzione di tale Ufficio non si accompagna una riserva a esso in via esclusiva delle attribuzioni in materia, e anzi la Relazione precisa che “[d]etto Ufficio può svolgere attività congiunte con il competente Ufficio Audit della Direzione della Giustizia Tributaria del Dipartimento delle Finanze, al fine di effettuare i controlli di rispettiva competenza”.
Non si vede perché istituire presso il Consiglio di Presidenza un apposito Ufficio Ispettivo senza trasferire allo stesso attribuzioni oggi di competenza del MEF, ciò che avrebbe avuto un significativo effetto di miglioramento dell’indipendenza dei giudici tributari.
Del resto, non è un lapsus calami che nel DDL governativo rimanga anche la secolare denominazione di “commissioni tributarie”, a differenza di tutte le proposte parlamentari, che optano per “tribunali” e “corti d’appello”. Queste ultime sono denominazioni più coerenti con la natura di giudici veri e propri, più volte confermata dalla Corte costituzionale, ma che oggi rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Non è una questione puramente formale, quella della denominazione, perché concorre alla “retrocessione” alla natura amministrativa degli organi giudicanti, quando invece avrebbe dovuto confortarne la definitiva consacrazione giurisdizionale.
Il problema è che tutto ciò non è il frutto della volontà parlamentare e dunque di quella “popolare”, che, infatti, propugnano una soluzione diametralmente opposta.
La ragione è nota a tutti: è il Ministero dell’Economia che non intende rinunciare al rapporto organico con chi decide le cause che riguardano le sue Agenzie fiscali. L’interesse alla tutela delle entrate pubbliche, tuttavia, non può fare premio su tutto, non può pretermettere le regole dello Stato di diritto. C’è di più: è assai evidente come su questo specifico tema vi sia un preoccupante dualismo tra Parlamento e Ministero, che merita di essere risolto al più presto.
Intendo essere molto chiaro: l’appartenenza organica della giurisdizione tributaria al Ministero dell’Economia e delle finanze, che è la controparte sostanziale dei contribuenti, per mezzo delle sue Agenzie, è inconciliabile con i requisiti di indipendenza, terzietà, imparzialità del Giudice ed è incompatibile con la Costituzione.
La pervicacia nel perseguire la soggezione dei Giudici al MEF mette in gioco l’incolumità di tutto l’impianto. Dirò di più: la mia sensazione è che con questa scelta si compia un vero e proprio azzardo, essendo facile prefigurare numerose questioni di legittimità costituzionale che nei prossimi anni determineranno una vasta incertezza, una vera e propria ipoteca sul futuro dei giudici tributari, che potrà minare la credibilità della giurisdizione e renderla instabile.
4.1. Un giudice sottoposto a tutela: cui prodest?
Non è un caso, insomma, che le opinioni prevalenti degli studiosi, degli operatori e tutti i progetti di legge parlamentari, vadano in direzione opposta al DDL governativo e prevedano il passaggio dei futuri giudici di ruolo alla Presidenza del Consiglio o al Ministero della Giustizia.
In breve, il DDL 2636 prende le distanze da quel progressivo percorso di giurisdizionalizzazione della Giustizia tributaria che costituisce la cifra distintiva della sua storia, ossia quel percorso che parte da lontano e che con passaggi incrementali – in una graduale e virtuosa azione congiunta del legislatore e della Corte costituzionale – ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale e la conformità a Costituzione. Siamo a ottant’anni esatti dalla pubblicazione del “Diritto processuale tributario” di Allorio, che guardava a un primo sistema processuale che già nel 1942 si era allontanato dal contenzioso amministrativo. Da allora in avanti, e soprattutto dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, abbiamo assistito a quella che potremmo definire una “revisione progressiva”, che ha via via superato il vaglio della Corte Costituzionale e ha contemperato i limiti dell’art. 102, Cost.
Una revisione progressiva che non in pochi mesi, ma in alcune decine di anni, ha portato alla situazione attuale, con graduali interventi su un sistema che non è immodificabile purché ciò avvenga ad opera del Parlamento (cfr. Corte cost. 41/1957) e, aggiungerei, “non forzando la mano” al Parlamento.
La professionalizzazione del Giudice, insomma, è l’ultimo passo di un cammino che parte da lontano e che con un’azione congiunta, meglio, “combinata” del legislatore e della Corte costituzionale, ha consentito di consacrarne la natura giurisdizionale.
Ma nel momento in cui è conclamata la natura giurisdizionale delle Commissioni, e – soprattutto - i giudici sono assunti a tempo indeterminato, allora il tema dell’indipendenza del Giudice – in tutte le sue sfaccettature – diviene decisivo. Ed è proprio su questo che il DDL non raccoglie la sfida, anzi incrementa la sfera d’influenza del MEF sulla Giustizia Tributaria.
Calamandrei sosteneva che il giudice diventa strumentum regni nei regimi totalitari[4]. Non è il nostro caso, certo, ma rimane il fatto che il progetto governativo delinea un giudice sottoposto alla tutela di chi, per missione istituzionale, ha più dimestichezza con le entrate pubbliche che con i delicati equilibri tra i poteri dello Stato e tra questi e i cittadini.
Attenzione, peraltro, a dare credito alle strumentali accuse di disfattismo rivolte a chi insiste per il distacco dal MEF della giustizia tributaria: la riforma non sarebbe affatto impedita da questa misura, tutt’altro. Per passare ad un altro Ministero e rendere la riforma conforme a Costituzione è sufficiente un emendamento “prelevato” da uno qualsiasi dei molti progetti di legge che pendono in Parlamento.
5. La Corte di Cassazione e l’eterogenesi dei fini.
Occorre rammentare che l’obiettivo perseguito dal DDL e fissato, prima ancora, dal PNRR, è quello di alleggerire l’imponente carico di lavoro della Sezione tributaria della Corte di cassazione e il conseguente efficientamento delle tempistiche della Giustizia Tributaria
Senonché, è proprio la più efficace misura per raggiungere tale obiettivo – ossia l’istituzione per legge di una Sezione tributaria della Corte, composta anche dai nuovi Giudici tributari – a mancare nel DDL 2636. Se fosse adottata, si potrebbe consentire, tra l’altro, di diventare giudici della Cassazione (tributaria) anche ai futuri magistrati tributari di ruolo. Questo garantirebbe loro un lungo periodo di studio e preparazione sul campo prima di approdare alla Suprema Corte e sarebbe il modo migliore per assicurare un più efficace esercizio della funzione nomofilattica.
Con il DDL invece sono purtroppo destinati a diventare giudici della Sezione Tributaria della Cassazione, come accade già ora, solo magistrati che nel corso della loro lunga e qualificante esperienza non hanno mai praticato, nemmeno per un giorno, il diritto tributario, che invece richiede anni di studio e di dedizione professionale.
Se le cose rimarranno così come sono, poi, c’è anche da interrogarsi sulle conseguenze di un soffitto di cristallo così rilevante alla carriera dei futuri magistrati tributari: che tipo di appeal potrà esercitare questa professione per i più meritevoli e capaci di essi? Verosimilmente scarso, costituendo semmai una sorta di “parcheggio professionale” in attesa di un approdo presso un’altra, più gratificante, magistratura e dunque un continuo turn over, che significa un livello di qualificazione al di sotto degli standard necessari.
5.1. Il rinvio pregiudiziale omnibus e la mozione di sfiducia preventiva alle Commissioni Tributarie.
Il DDL 2636 costituisce un curioso caso nel quale uno strumento processuale – mi riferisco al rinvio pregiudiziale di cui all’art. 2, comma 2, lett. g), del DDL, che inserirebbe un nuovo art. 62-bis all’interno del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – determina ripercussioni ordinamentali.
A norma dell’art. 62-bis, cit., al ricorrere di particolari condizioni, le Commissioni Tributarie di primo o secondo grado potranno, d’ufficio, investire direttamente la Corte di cassazione della “risoluzione di una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia”.
Ritengo che l’istituto, per come è stato configurato, sia meritevole di miglioramento.
Esso non richiede in alcun modo un impulso di parte, e questo potrebbe comportare una violazione dell’art. 25, Cost., nella misura in cui priva le parti del proprio Giudice naturale. Ciò, in particolare, una volta che si raffronta tale istituto con quello pensato dal legislatore processualcivilistico e inserito fra i criteri direttivi della legge delega n. 206 del 26 novembre 2021. I due strumenti risultano, sulla carta, speculari fra loro: simile è il meccanismo di funzionamento, così come le ragioni che ne giustificherebbero l’introduzione nei rispettivi sistemi processuali. Tuttavia, se si raffrontano le due disposizioni, emerge una differenza strutturale assai significativa, che rischia di compromettere l’istituto processuale tributario.
La differenza sta in ciò, che se i requisiti previsti per il rinvio pregiudiziale tributario risultano fra loro alternativi – come si evince dal fatto che il comma 1 dispone che il rinvio è esperibile se “ricorre almeno una delle seguenti condizioni” – quello previsto dalla legge delega è subordinato al ricorrere di tutte le condizioni ivi previste congiuntamente.
Che nell’ambito processualcivilistico i requisiti debbano sussistere congiuntamente si evince oltre che dal dato letterale della norma anche dalla Relazione finale della Commissione Luiso – la quale aveva appunto proposto l’introduzione del rinvio pregiudiziale – ove si legge che il rinvio opererebbe “in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto”.
Una siffatta differenza, oltre a dilatare oltremisura l’ambito di applicazione del rinvio in ambito tributario, ne tradirebbe anche la ratio.
È infatti evidente che nell’ambito processualcivilistico l’intervento della Corte di cassazione si porrà alla stregua di una extrema ratio, con riguardo a ipotesi nelle quali – data la necessaria sussistenza di tutti i requisiti richiesti dalla norma – una pronuncia di legittimità risolverebbe una questione di diritto nuova, di seria difficoltà interpretativa, nonché dal carattere “seriale”. In altri termini, il “ribaltamento” dell’ordine processuale si giustificherebbe vista l’eccezionalità e particolarità della questione sottoposta alla Suprema Corte e alle sue vaste ripercussioni per una platea assai ampia di interessati.
Viceversa, in ambito tributario, lo scollamento fra i vari requisiti priva l’istituto della sua identità originaria e finisce per tradirne la natura atteso che, più che riguardare fattispecie eccezionali, esso potrebbe trovare sempre applicazione.
Lo iato strutturale fra i due istituti è ulteriormente dilatato dal fatto che – oltre che disgiungere i requisiti previsti per esperire il rinvio – il DDL scinde il requisito previsto in maniera unitaria dalla legge n. 206 del 2021, di cui al punto 1.1. della lett. g) – secondo il quale la questione dev’essere “esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza” – in due differenti requisiti, fra loro distinti, di cui alle lett. a) e b) dell’art. 62-bis.
Dunque, anche tale scissione, se valutata unitamente al carattere alternativo dei requisiti previsti per l’esperibilità del rinvio pregiudiziale tributario, finisce per dilatarne ulteriormente l’ambito di applicabilità, atteso che basterebbe a tal fine una questione la presenza di una questione “nuova” – lett. a) – oppure esclusivamente di diritto nonché di particolare importanza “per l’oggetto o per la materia” – lett. b).
Lo spettro della disposizione è talmente ampio da poter riguardare, virtualmente, qualsivoglia controversia fiscale: pertanto, un siffatto strumento processuale potrebbe semmai portare all’ulteriore ingolfamento della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, anziché giovare alla celerità del processo – e ciò impatterebbe, a cascata, anche sul rispetto del canone della ragionevole durata del processo, essendo facile ipotizzare una ricaduta negativa sulle tempistiche per l’ottenimento della pronuncia di merito.
A ciò si aggiunga che alla pervasività delle ipotesi di rinvio si accompagna un rilevante effetto ordinamentale, costituito da una vera e propria mozione di sfiducia (preventiva) verso il nascente magistrato tributario, che peraltro porta a intravedere anche una possibile menomazione dell’autonomia del Giudice (qui inteso sia come ordine sia come Giudice individualmente considerato), che invece dovrebbe essere soggetto solo alla legge (art. 117 Cost.).
Insomma: un caso classico di eterogenesi dei fini, al quale però appare possibile porre rimedio, quantomeno “allineando” esattamente la struttura e i presupposti del rinvio pregiudiziale tributario a quello processualcivilistico.
6. L’assenza di una disciplina transitoria e la verosimile paralisi della Giustizia tributaria.
Da ultimo, mi preme soffermarmi brevemente sull’assenza, nel DDL 2636, di disposizioni transitorie che consentano di traghettare adeguatamente l’attuale assetto della Giustizia tributaria, senza gli effetti traumatici derivanti da difetti di coordinamento, nella graduale successione fra gli attuali giudici tributari e quelli che saranno assunti tramite i futuri concorsi.
È evidente che il numero dei magistrati da assumere tramite concorso non sarà sufficiente a coprire le vacanze degli attuali giudici tributari, e a ciò si aggiunga che i vertici delle Commissioni Tributarie sarebbero decapitati ipso iure a causa del limite a settant’anni fissato dal DDL per l’uscita dal servizio, determinando un grave nocumento all’ordinato svolgimento delle attività di Giustizia nel periodo transitorio. Occorre dunque apportare una certa gradualità nella fissazione dei limiti di cessazione del servizio
Ritengo inoltre che sarebbe opportuno prevedere – oltre alla riserva di posti del 15% nei primi tre bandi di concorso già dedicata dal DDL agli attuali Giudici Tributari non togati, che mi pare una misura francamente irrisoria – una procedura di interpello analoga a quella già contemplata dal DDL con riferimento ai magistrati togati, per permettere l’assorbimento nei nuovi ruoli anche dei magistrati tributari (oggi) non togati con più esperienza e più competenze.
*Ordinario di diritto tributario – Alma Mater Studiorum, Università di Bologna.
[1] E. Allorio, La scienza, la pratica, il buonsenso e il processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1946, I, 182 ss.
[2] V. Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconto sommario della seduta di mercoledì 18 dicembre 1946, 51.
[3] Per tutte: Corte cost., ord. 20 maggio 1998, n. 210 (pres. Granata, red. Marini).
[4] P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, 70.
Tutela cautelare monocratica: il Consiglio di Stato torna ad affermare l’inappellabilità del decreto cautelare reso ex art. 56 c.p.a. (Nota a Cons. Stato, Sez. IV, n. 1962 del 2022)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa: la questione dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico. – 2. La vicenda e la decisione del Consiglio di Stato. – 3. L’analisi del dato normativo. – 4. L’orientamento favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico. – 5.L’orientamento opposto sposato dal Presidente della IV Sezione. – 6. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il ruolo del giudice. – 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: l’appellabilità del decreto cautelare monocratico.
Il decreto del Consiglio di Stato in commento si inserisce nell’ambito del dinamico dibattito in corso in seno alla giurisprudenza amministrativa sul tema dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico pronunciato ai sensi dell’art. 56 c.p.a. Invero, sebbene il secondo comma di tale articolo preveda che, in caso di richiesta cautelare connotata da estrema gravità e urgenza – tali da non consentire la dilazione sino alla camera di consiglio – il Presidente del T.A.R. (o un magistrato da lui delegato) possa provvedere con decreto motivato non impugnabile, sono molteplici le pronunce della giurisprudenza amministrativa che hanno, invece, riconosciuto uno spazio all’appellabilità di tali decreti. In particolare, decisioni in questo senso si sono accresciute durante il periodo pandemico appena trascorso, nell’ambito del quale i decreti cautelari presidenziali hanno ricoperto un ruolo di primo piano nella tutela degli interessi legittimi affermati dai vari ricorrenti[1].
Diversamente, con il decreto che si sta annotando, la Sezione Quarta del Consiglio di Stato, si pone in linea con quella giurisprudenza che, volendo superare i precedenti orientamenti di altre Sezioni, asserisce la non impugnabilità dei decreti cautelari monocratici resi ai sensi dell’art. 56 c.p.a[2]. Specificamente, in questa occasione, la Quarta Sezione fonda la dichiarazione di inammissibilità del decreto cautelare monocratico sulla base di una interpretazione strettamente letterale della norma codicistica richiamata, nonché sul principio della piena soggezione del giudice alla legge di cui all’art. 101 della Costituzione.
Nonostante la linearità del ragionamento sviluppato dal giudice, si ritiene di dover svolgere, però, delle considerazioni a margine della decisione, soprattutto in relazione all’assenza di un qualsivoglia riferimento al generale principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Ciò premesso, al fine di comprendere al meglio le questioni sollevate dalla pronuncia in commento, si impone, anzitutto, l’esigenza di ripercorrere brevemente le vicende che hanno condotto alla sua emanazione.
2. La vicenda e la decisione del Consiglio di Stato.
La vicenda origina dal ricorso presentato da un’amministrazione comunale per l’annullamento dell’ordinanza con cui il Presidente della Provincia di riferimento aveva autorizzato lo stoccaggio temporaneo e speciale di alcuni rifiuti rimpatriati dall’estero presso il territorio del Comune ricorrente. In particolare, con il medesimo atto di ricorso, il ricorrente aveva, altresì, richiesto, la concessione di misure cautelari urgenti ex art. 56 c.p.a., al fine di ottenere quantomeno la sospensione dell’efficacia dell’ordinanza e, dunque, di evitare lo stoccaggio dei 213 container di rifiuti nel sito locato entro il territorio comunale.
Il Presidente del T.A.R. competente, però, ritenendo insussistenti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza cautelare e, nello specifico, considerando del tutto generiche le ragioni di tutela della salute pubblica, dell’ambiente e dell’ordine pubblico prospettate dal ricorrente, nonché la prevalenza dell’interesse ad una rapida ed efficace definizione della vicenda mediante il trasferimento dei rifiuti, procedeva al respingimento della medesima istanza, nonché alla fissazione, per il mese successivo, della Camera di Consiglio per la trattazione in sede collegiale[3].
Di conseguenza, il ricorrente procedeva all’impugnazione del decreto così pronunciato dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, però, come preannunciato, ne dichiara l’inammissibilità.
Nel dettaglio, il Presidente della Quarta Sezione, dopo aver rilevato trattarsi dell’impugnazione di un decreto reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a. e, dunque, espressamente qualificato, dal relativo comma 2, come non impugnabile, al fine di motivare la pronuncia di inammissibilità, procede a richiamare (pressoché integralmente[4]) il decreto del Presidente della Quinta Sezione del 18 febbraio 2022, n. 798.
Invero, quest’ultimo aveva ribadito l’espressa affermazione di non impugnabilità del decreto di cui all’art. 56 c.p.a. da parte della disposizione codicistica, nonché la previsione, da parte del comma 4, dell’efficacia del decreto fino alla trattazione in sede collegiale, periodo in cui, peraltro, è sempre passibile di revoca o modifica su istanza delle parti. Il decreto richiamato, inoltre, sottolineava come anche per i decreti cautelari ante causam, concessi ai sensi dell’art. 61 c.p.a., sia prevista la non impugnabilità accompagnata dalla possibilità di riproporre l’istanza. Infine, esso invocava quanto stabilito dall’art. 62 c.p.a., a chiusura del sistema, circa la previsione dell’appellabilità delle ordinanze cautelari (e, pertanto, non dei decreti), da leggere alla luce del principio di stretta tipicità legale del sistema delle impugnazioni.
Il Presidente della Quarta Sezione procede, inoltre, ad invocare il principio di soggezione del giudice alla legge enunciato dall’art. 101 Cost. In particolare, in ragione di tale principio, egli afferma come in presenza di una preclara formulazione testuale della normativa applicabile, l’unico strumento idoneo a prospettare una differente esegesi è rappresentato dalle sentenze manipolative di accoglimento della Corte costituzionale, potendo solo questa modificare il diritto oggettivo nazionale.
In aggiunta a ciò, ai fini di completezza della parte motiva, viene sottolineato come non si rivengano nemmeno profili di abnormità dell’appellato decreto che possano implicare una non sussunzione dello stesso nelle maglie della fattispecie legale di cui all’art. 56 c.p.a.
Infine, il giudice procede alla fissazione della camera di consiglio in sede di appello (in data successiva alla camera di consiglio fissata in prime cure), ritenendo, comunque, necessaria la garanzia di esercizio dei poziori poteri cognitori di pertinenza del Collegio.
3. L’analisi del dato normativo
Onde comprendere al meglio la portata del dibattito giurisprudenziale sorto intorno al tema dell’appellabilità dei decreti cautelari monocratici, si ritiene di muovere dall’analisi della disciplina legislativa sul punto. Essa è oggi contenuta all’interno dell’articolo 56 del codice del processo amministrativo, il quale regola l’eventualità in cui la richiesta cautelare, per l’estrema gravità e urgenza della situazione, non possa attendere la fissazione della camera di consiglio. In tali casi la norma prevede, dunque, la possibilità di derogare al principio di collegialità delle decisioni nel processo amministrativo, richiedendo al Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale competente l’adozione di misure cautelari provvisorie prima della trattazione della domanda cautelare da parte del Collegio.
In realtà, tale possibilità non ha rappresentato una novità del Codice del Processo Amministrativo, essendo stata, infatti, prevista una forma di tutela cautelare monocratica già nell’ambito dell’art. 21 co. 9 L. Tar, introdotto dalla L. 21 luglio 2000, n. 205[5]. A differenza della disciplina previgente, la quale contemplava la possibilità che il Presidente del Tar provvedesse anche in assenza di contraddittorio, però, il codice del processo amministrativo ha imposto l’attuazione del contraddittorio, sebbene in una forma limitata[6]. Invero, gli unici adempimenti richiesti al ricorrente sono rappresentati dalla notifica (anche via fax) del ricorso all’amministrazione resistente e ad almeno uno dei controinteressati, il cui perfezionamento deve essere verificato dal Presidente o da un magistrato da lui delegato. Peraltro, qualora per cause non imputabili al ricorrente non sia possibile accertare il perfezionamento delle notificazioni, il Presidente può comunque provvedere, fatto salvo il potere di revoca. Inoltre, i soggetti a cui sia stata notificata la richiesta cautelare possono richiedere di essere sentiti dal Presidente anteriormente al decreto, fuori udienza e senza formalità[7].
In ogni caso, una volta emanato il decreto cautelare ricorrendone i presupposti[8], il procedimento cautelare si incanala in quello ordinario affinché possa trovare il suo esito definitivo nell’ordinanza collegiale. In tal senso, si spiega anche la disposizione codicistica che prevede che il decreto mantenga la sua efficacia fino alla camera di consiglio di cui all’art. 55 co. 5 c.p.a.
Quanto ai rimedi esperibili avverso il decreto presidenziale, il Codice prevede espressamente la possibilità per le parti notificate di richiederne la revoca o la modifica fintanto che esso conserva la sua efficacia. Stando alla lettera dell’art. 56, co. 4, invece, il decreto presidenziale non è impugnabile con l’appello al Consiglio di Stato. Sul punto, però, la giurisprudenza amministrativa ha sviluppato orientamenti differenti.
4. L’orientamento favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico.
Nonostante l’espressa previsione legislativa dell’inappellabilità del decreto cautelare monocratico, si sono registrate varie pronunce del Consiglio di Stato che, andando oltre il dato normativo, ne hanno ritenuto ammissibile l’impugnazione. Ciò, peraltro, a dimostrazione della centralità assunta dalla tutela cautelare nel processo amministrativo[9].
In particolare, come già evidenziato in premessa, pronunce in tal senso si sono susseguite durante il periodo pandemico in cui i procedimenti cautelari, per espressa previsione legislativa, sono stati decisi con il rito di cui all’art. 56 c.p.a. per espressa previsione dell’art. 84 del D.L. 18/2020. Al proposito è stato, peraltro, osservato come “l’apporto della giurisprudenza del Consiglio di Stato in questo senso può essere letto quale intervento di costruzione del provvedimento cautelare in risposta alle esigenze della società”[10].
Anche prima dell’insorgere della pandemia, però, si erano registrate delle pronunce di tale tenore. Specificamente, con il decreto monocratico 5971 del 2018[11], la quinta Sezione del Consiglio di Stato, facendo leva sul principio della indefettibilità della tutela cautelare nel corso di qualsiasi fase e grado del processo desumibile dall’art. 24 della Costituzione e dagli artt. 6 e 13 della CEDU, aveva accolto l’appello presentato avverso un decreto monocratico del Tar Emilia Romagna che non aveva concesso la misura cautelare richiesta dal ricorrente. In particolare, la Sezione aveva affermato che “l'appellabilità del decreto monocratico del Presidente del T.A.R. va considerata ammissibile esclusivamente quando vi siano eccezionali ragioni d'urgenza, tali da rendere irreversibile - per il caso di mancata emanazione di una misura monocratica in sede d'appello - la situazione di fatto, a causa del tempo che intercorre tra la data di emanazione del decreto appellato e la data nella quale è fissata la camera di consiglio per l'esame della domanda cautelare, da parte del T.A.R. in sede collegiale”.
Il Consiglio di Stato aveva, dunque, operato una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 56 c.p.a., volta a consentire non un appello indiscriminato dei decreti monocratici presidenziali, ma una possibilità di impugnazione, secondo ragionevolezza, nei casi in cui esso rappresenti l’unico strumento di tutela effettiva del ricorrente. Ciò al fine di garantire il principio di indefettibilità della tutela cautelare.
Sulla stessa scia di questa decisione, decreti più recenti del Consiglio di Stato hanno considerato ammissibile l’appello nei confronti di quei provvedimenti che, in casi eccezionali, siano qualificabili come “decreti meramente apparenti”, avendo soltanto la veste formale di decreti ma un contenuto sostanzialmente decisorio[12]. Nell’opinione del Consiglio di Stato, in particolare, ciò accade quando la decisione monocratica di primo grado possa potenzialmente definire in maniera irreversibile la questione oggetto del giudizio.
Ancora, all’inizio del periodo pandemico, il Presidente della III Sezione, pronunciandosi sull’appello proposto avverso un decreto presidenziale che rigettava l’istanza di sospensione cautelare dell’ordine di quarantena obbligatoria, ha asserito come “il decreto monocratico presidenziale del T.A.R., adottato ai sensi dell'art. 56 c.p.a., è appellabile nei soli casi in cui l'effetto del decreto presidenziale produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e dovendo tale bene della vita corrispondere ad un diritto costituzionalmente tutelato dell'interessato”[13].
Allo stesso modo, in una precedente occasione, il Consiglio di Stato, pur dichiarando nel caso di specie inammissibile l’appello, essendo stato escluso ogni pericolo di perdita definitiva del bene della vita direttamente tutelato dalla Costituzione, aveva implicitamente sposato la tesi per cui quando ciò accada l’appello deve essere esaminato[14].
Deve osservarsi, inoltre, come tali pronunce si pongano in linea con quella risalente giurisprudenza del Consiglio di Stato che, nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, affermò l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze dei T.A.R. aventi ad oggetto la sospensione dei provvedimenti impugnati, nonostante il silenzio della l. 1034/1971 sul punto[15]. In particolare, l’Adunanza Plenaria n. 1 del 1978 asserì come l’impugnabilità di tali ordinanze dovesse essere desunta, non tanto dalla loro veste formale, quanto invece in base alla loro natura decisoria, ovverosia alla loro capacità di produrre effetti assimilabili a quelli della sentenza. E, poiché, l’ordinanza cautelare “risolve, in contraddittorio tra le parti, una specifica controversia (eseguibilità o meno dell’atto prima dell’esaurimento del relativo giudizio di impugnazione), cioè un conflitto di pretese[16]”, la stessa va ritenuta impugnabile.
Si ritiene doveroso menzionare, altresì, la sentenza con cui la Corte costituzionale, sulla base del principio del doppio grado di giudizio, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della L. n. 1 del 1978 nella parte in cui escludeva l’appellabilità al Consiglio di Stato delle ordinanze cautelari dei T.A.R.[17]. Invero, la Consulta, da un lato, richiamando l’art. 125 Cost. aveva asserito come il principio del doppio grado di giurisdizione fosse applicabile anche al settore amministrativo e, dall’altro, sottolineato come anche il procedimento cautelare, in quanto intimamente connesso con il processo di merito, dovesse consentire la soddisfazione dell’interesse meritevole di tutela.
5. L’orientamento opposto sposato dal Presidente della IV Sezione.
Come precedentemente descritto, con l’occasione che ha dato origine al decreto che si commenta, il Presidente della IV Sezione del Consiglio di Stato avverte, invece, l’esigenza di riaffermare l’inappellabilità dei decreti monocratici cautelari. A tal fine, individua nella sottoposizione dei giudici alla legge di cui all’art. 101, co. 2, Cost. un punto essenziale della motivazione. Nello specifico, il Presidente sottolinea come soprattutto nei casi di una chiara formulazione letterale delle norme, non sia possibile da parte del giudice una esegesi differente (o, meglio, contraria), evidenziando inoltre, come l’unico strumento interpretativo idoneo a modificare il diritto oggettivo nazionale sia rappresentato dalle sentenze di accoglimento (pur se manipolative) della Corte costituzionale.
Tale decreto si inserisce, pertanto, nell’ambito delle decisioni che escludono l’appellabilità dei decreti cautelari monocratici. Queste hanno nel tempo fatto leva su diverse motivazioni, evidenziate anche da commenti della dottrina. In particolare, oltre ad aver sottolineato la chiarezza del dato normativo espresso, è stato evidenziato come tale eccezionale misura cautelare monocratica presidenziale “ha funzione strettamente interinale prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio e che il relativo «decreto» è per legge «efficace sino a detta camera di consiglio», che costituisce la giusta sede per l’esame della domanda cautelare”[18].
Inoltre, deve rilevarsi come la pronuncia di un decreto da parte del Presidente di una delle Sezioni del Consiglio di Stato possa comportare delle problematiche di ordine pratico, dovendosi considerare la possibile sovrapposizione tra la pronuncia monocratica cautelare in grado di appello e quella collegiale in primo grado.
Addirittura, più recentemente, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia ha emesso una pronuncia di non luogo a provvedere in relazione ad una impugnazione avente ad oggetto un decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a. evidenziando come non via sia luogo a provvedere sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti e non essendoci alcuna possibilità per il Presidente di esercitare poteri non previsti da disposizioni legislative[19].
Infine, attenta dottrina ha osservato la volontà del legislatore nel senso della non appellabilità dei decreti presidenziali monocratici sia emersa con chiarezza anche nella vigenza dell’art. 84 del Decreto c.d. “Cura Italia”[20]. Infatti, anche in tale caso, l’appellabilità di tali provvedimenti, inserita dapprima nello schema, è stata espunta dalla versione definitiva del decreto.
6. Il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il ruolo del giudice.
Deve rilevarsi come la pronuncia in commento, motivando la sua decisione esclusivamente sulla base dell’interpretazione letterale della norma e del principio di sottoposizione del giudice alla legge, evita di operare qualsivoglia riferimento al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Tale principio, però, volendo utilizzare la celebre espressione di Chiovenda, è la “vivida stella che irradia la sua luce sull'intero sistema”, volta ad assicurare “tutto quello e proprio quello" che il processo mira a garantire[21] e, come tale, non può non guidare l’attività dei giudici. Del resto, è proprio su questo principio che si fondano le teorie a sostegno dell’appellabilità dei decreti cautelari nei casi eccezionali precedentemente descritti.
In questo senso, dunque, si deve osservare come, se è pur vero che una pronuncia della Corte costituzionale potrebbe risolvere la situazione in maniera chiara, è il giudice del caso concreto a essere chiamato a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale. In relazione a ciò, peraltro, essendo le richieste cautelari connotate da gravità e urgenza, è evidente come l’esperimento di un incidente di costituzionalità (con le sue relative tempistiche) vanificherebbe qualsiasi effettività della tutela per il richiedente.
Ecco, quindi, che pur concordandosi con l’affermato principio di sottoposizione del giudice alla legge e, dunque, con impossibilità per questi di andare contro l’espresso dato normativo, si ritiene che l’esigenza di effettiva tutela richiesta dal ricorrente non possa, comunque, passare in secondo piano, essendo il giudice chiamato a garantirla in ogni situazione.
Potrebbero, pertanto, essere apprezzabili le richiamate pronunce a favore dell’impugnabilità di tale tipo di decisioni, che hanno tentato di delineare dei confini per l’appellabilità dei decreti cautelari monocratici senza utilizzare un approccio netto nel senso dell’ammissibilità delle impugnazioni, ma provando a limitarle ai casi di natura decisoria dei provvedimenti, nonché di compromissione definitiva della situazione concreta. Al proposito, però, non può sottacersi l’effettivo rischio di vanificazione del principio di certezza del diritto, connessa alle differenti qualificazioni dei casi concreti da parte dei singoli giudici.
Inoltre, non può non considerarsi anche come le risalenti (e citate) pronunce dell’Adunanza Plenaria e della Corte costituzionale, volte a consentire l’appello delle ordinanze cautelari nel silenzio della legge, abbiano fondato le loro motivazioni proprio sul fatto che le disposizioni di interesse non contenevano divieti e limiti espressi all’impugnazione. Quanto all’articolo 56 c.p.a. deve, invece, ribadirsi come esso contenga una espressa previsione di inappellabilità dei decreti presidenziali monocratici. In questo senso, effettivamente, l’osservazione della pronuncia in commento circa l’impossibilità per il giudice di operare una interpretazione contra legem è più che pertinente.
7. Considerazioni conclusive.
È evidente come la questione dell’appellabilità dei decreti cautelari monocratici sia tuttora aperta nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, la quale continua a far registrare orientamenti opposti in seno alle differenti Sezioni, a prescindere dalla parentesi rappresentata dalla vigenza dell’art. 84 del D.L. 18/2020 del periodo pandemico. Ciò, del resto, conferma la perdurante sussistenza di questioni controverse nell’ambito della tutela cautelare del processo amministrativo[22].
Sarebbe, dunque, alla luce delle considerazioni sopra svolte, auspicabile un intervento del Legislatore sul punto o, quantomeno una pronuncia chiarificatrice dell’Adunanza Plenaria. Invero, l’esistenza di orientamenti così contrastanti (o, addirittura, opposti) potrebbe comportare delle diversificazioni rilevanti nella tutela degli interessi dei consociati, i quali, a seconda della Sezione competente, troverebbero forme di tutela contrapposte. È evidente come ciò possa produrre una intollerabile situazione di disparità di trattamento.
Inoltre, come già osservato, questioni problematiche sorgono anche in relazione al principio della certezza del diritto, messo a dura prova dalle differenti opinioni delle varie Sezioni del Consiglio di Stato.
[1] In particolare, si sta facendo riferimento all’art. 84 del D.L. del 17 marzo 2020, n. 18 (“Cura Italia”), il quale, per il periodo ricompreso tra l’8 marzo 2020 e il 15 aprile 2020, oltre ad aver disposto la sospensione di tutti i termini relativi al processo amministrativo, nonché il rinvio delle udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti, ha previsto che “i procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all'articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”.
[2] Tra gli altri, si menzionano i decreti presidenziali n. 6534 del 2021 e n. 798 del 2022 (quest’ultimo richiamato nella sua parte motiva dallo stesso decreto che qui si sta annotando).
[3] Tar Campania, Sez. dist. Salerno, 23 aprile 2022, n. 174.
[4] L’unica affermazione non condivisa del richiamato decreto è quella relativa alla esclusione della necessità di fissare “una inconfigurabile trattazione in sede camerale-cautelare in grado di appello”.
[5] Esso affermava che “prima della trattazione della domanda cautelare, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, contestualmente alla domanda cautelare o con separata istanza notificata alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie. Il presidente provvede con decreto motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il decreto è efficace sino alla pronuncia del collegio, cui l'istanza cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile. Le predette disposizioni si applicano anche dinanzi al Consiglio di Stato, in caso di appello contro un'ordinanza cautelare e in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata”.
[6] Sul punto, per una riflessione più approfondita, si veda R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. n. 205/200 al Codice del Processo Amministrativo, Giuffré editore, Milano, 2010, pp. 208ss.
[7] In dottrina tale contraddittorio viene qualificato come embrionale e deformalizzato (F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, II ed., Dike giuridica, Roma 2020, pp. 1541ss.).
[8] Sebbene l’articolo 56 c.p.a. menzioni espressamente soltanto il presupposto del periculum in mora, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere necessaria una ricognizione, anche se sommaria, del fumus boni iuris da parte del giudice. Diversamente opinando, si contraddirebbe il fondamentale principio di strumentalità della tutela cautelare, potendosi attribuire, seppur temporaneamente, situazioni di vantaggio non giustificate dall’esigenza di garantire l’esito della decisione finale. Sul punto A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, XIII ed., Giappichelli Editore, Torino, 2019, pp. 285 ss.
[9] In particolare, R. LEONARDI, ha affermato che “la centralità assunta dalla tutela cautelare nel processo amministrativo ha dato vita a un continuo susseguirsi di norme e di orientamenti giurisprudenziali, nazionali ed europei, che nel tempo ne hanno cambiato profondamente, e continuano a farlo, la fisionomia e i contenuti.” (R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. n. 205/200 al Codice del Processo Amministrativo, Giuffré editore, Milano, 2010, p. 3).
[10] I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[11] Cons. St., Sez. V, decreto monocratico, 7 dicembre 2018, n. 5971.
[12] In questo senso, Cons. St., Sez. III, decreto monocratico, 10 marzo 2021, n. 1224.
[13] Cons. St., Sez. III, 30 marzo 2020, n. 1553.
[14] Cons. St., Sez. III, 27 aprile 2020, n. 2294.
[15] Il dibattito giurisprudenziale era sorto a causa dell’articolo 28, co. 2, della L. 1034/1971, il quale prevedeva l’appello in Consiglio di Stato per le sentenze emesse dai T.A.R., nulla disponendo, invece, quanto alle ordinanze. Sul tema si veda, A. DE SIANO, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in Federalismi.it, 8 gennaio 2020.
[16] Cons. St., Ad. Pl., 20 gennaio 1978, n. 1.
[17] Corte costituzionale, 14 gennaio 1982, n. 8.
[18] Così, Cons. St., Sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015.
[19] C.g.a., Sez. giuris., 25 agosto 2020, n. 624. Sul punto si veda M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione del’art 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid–19, 31 marzo 2020.
[20] I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[21] G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960.
[22] Come osservato da F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell'amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in Osservatorio Emergenza Covid-19, 13 marzo 2020, anche le norme dettate nel periodo di emergenza in tema di tutela cautelare “non rispondono ad alcun principio e si disperdono in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento”.
Ricordare le stragi del ’92 per riflettere intorno alla magistratura. Un nuovo alfabeto per la giustizia
di Roberto Conti*
…ci sono delle verità – frantumi, come di specchio, di una ignota verità – che, una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»
[L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, in Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2019, Vol. II, Tomo II, 972]
Sommario: 1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992. - 2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia? - 3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società. - 4. Una, nessuna, centomila verità per Sciascia e per la giustizia. - 5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992.
Rileggere le stragi alla luce del sistema-giustizia e iniziare a cominciare a praticare un alfabeto nuovo nel quale compaiono (devono comparire) termini non nuovi ma percepiti, sentiti ed utilizzati come davvero nuovi.
Dunque, una prospettiva, quella che qui si vuol proporre, nuova - come nuovo e delicato è il momento che il sistema-giustizia sta vivendo -.
Oggi non possiamo più limitarci a celebrare le stragi e chi ha sacrificato il bene supremo della vita in nome della giustizia, ma abbiamo il dovere di interrogarci sul se questo sistema sia degno di quei sacrifici ed in generale adeguato a quello che la società civile si aspetta da noi.
Una prospettiva, dunque, diversa da quella celebrativa di cui - a dire il vero - siamo tutti un po’ stanchi, e molto più riflessiva, intesa (nelle intenzioni di chi parla) ad offrire a chi ascolta - e molti di coloro che ascoltano sono anch’essi a vario titolo ed a seconda delle diverse funzioni protagonisti di questo stesso sistema - non tanto risposte definitive quanto punti di riflessione, interrogativi e magari qualche prospettiva concreta.
Il coinvolgimento della Scuola della magistratura è, del resto, dimostrativo della volontà di offrire (recte, di provare ad offrire) una ragionata analisi del sistema giudiziario, di ciò che va, di ciò che non va e di ciò che potrebbe o dovrebbe andare meglio, in una prospettiva di effettività e concretezza, ben fuori da stentoree e ripetitive rievocazioni delle vicende che hanno portato alle stragi del 1992.
Il titolo di questa giornata è prodigo di consigli, poiché l’idea di accostare il mondo della giustizia a quello dell’arte e della letteratura è sicuramente vincente per tante ragioni. La contemporanea presenza in questi luoghi della mostra “Arte e diritti umani” organizzata dall’Associazione Pegaso in collaborazione con il Fai e l’Università Cattolica in mostre itineranti - ospitata proprio in questo museo[1] - è testimonianza vivente di quanto il mondo del diritto non sia un aliud rispetto alle arti e alla cultura, ma con esso debba stabilmente “camminare”.
Appunto questa è la prospettiva che intendo offrivi: quella di ragionare su quelle che sia e debba essere oggi la “cultura della giurisdizione”.
Per compiere questo itinerario è splendido attingere alle opere, ai racconti, ai resoconti giornalistici e alla storia politica di Leonardo Sciascia[2], e lo è in questo momento particolare per plurime ragioni.
Sciascia, anzitutto, ha vissuto di giustizia pur non essendo giudice o avvocato; per questo nel tempo le sue riflessioni, ancora oggi attuali come ci ricorda Gabriella Luccioli nella sua riflessione su La strega e il capitano[3], sono state volta a volta premonitrici, vaticinatrici di temi, problemi e mali della giustizia, culminando in quello storico convegno tenutosi a Racalmuto nel 1986 intitolato “Il problema della giustizia”.
Per altro verso, proprio in quel medesimo contesto temporale e territoriale si sviluppava e prendeva corpo parallelamente - anche se con percorsi non pienamente sovrapponibili - l’esperienza giudiziaria ed umana di Rosario Livatino che ha sacrificato la sua vita a pochi chilometri da questi luoghi meravigliosi sulle “questioni che ruotano attorno alla giustizia”.
In quel convegno Leonardo Sciascia, nella sua Racalmuto, il 27 aprile 1986 dichiarò di sentirsi ossessionato dalla giustizia.
Di seguito si cercherà di affrontare tre nodi problematici che affaticano chi vive di giustizia. Incertezza ed imprevedibilità del diritto, ruolo del giudice e diritto alla verità senza volere offrire risposte ma, semmai, cercando di mettere insieme dei punti di riflessione che possano essere di utilità a chi ascolta.
Una premessa è tuttavia necessaria ed è quella che, a sommesso giudizio di chi parla, chi abbia l’ardire di porsi come interprete fedele e autentico del “dire” di Sciascia finirebbe, in definitiva, per tradirlo, mistificando il senso delle sue ricerche e dimenticandone il pensiero e soprattutto il senso finale della sua ricerca della e delle verità.
Quando Sciascia afferma di avere detto “qualche inoppugnabile verità”, ma al contempo di avere in altre occasioni fallito, “ma mai in malafede”, sembra voler dire che per rispondere al quesito finale - Chi può mai trovare la verità? - è il procedere per approssimazioni, per dati esperienziali, a dare alimento alle passioni, senza le quali una moderna democrazia non può vivere, pur con le contraddizioni ed i nodi problematici che non sempre potranno sciogliersi.
Camminare con Sciascia in questo itinerario vuol dire porsi lontano dall’offrire dotte certezze ma, per quel nulla che vale, dare testimonianza di quello che Giovanni Fiandaca, rileggendo Sciascia, ha descritto come “bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia”[4].
2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia?
Più volte si richiama Sciascia per criticare l’attuale assetto della giustizia ed il bilanciamento fra giustizia e potere politico, al punto che si sarebbe realizzato uno sbilanciamento in favore della prima in danno del secondo, assecondando l’idea che la giustizia vesta i panni del legislatore senza averne alcuna legittimazione democratica. E ciò anche su temi eticamente sensibili - si pensi alle questioni che ruotano attorno al fine vita - che dovrebbero, invece, suggerire atteggiamenti prudenti della giurisdizione a pena di mettere in discussione i capisaldi della democrazia e lo stesso art. 101 Cost. La produzione sciascia viene intesa come inno alla legalità fondata sulle leggi alle quali il giudice non deve nè può, per Costituzione, sostituirsi. Anche di recente si è parlato, autorevolmente, di “decostruzione del sistema” che vedrebbe nel diritto giurisprudenziale[5] la prima causa di un ordinamento ormai inesorabilmente orientato verso l’eclissi del diritto, per dirla con il Prof. Castronovo. Insomma, espressioni, queste ultime che fanno il paio con l’idea, espressa in modo molto più crudo, di chi[6] ha stigmatizzato posizioni anche interne alla magistratura[7] e di una parte della dottrina[8] definite “eversive”, capaci per l’appunto di condurre ad uno stravolgimento dei principi costituzionali[9].
Il percorso che sembra tracciare Sciascia viene a volte richiamato per sostenere questa necessità di restringere i confini del potere giudiziario - innaturalmente da quest’ultimo estesi - per riportarli dove naturalmente essi hanno necessità di albergare, e ciò proprio in una prospettiva di salvaguardia di un’esigenza di certezza ed eguaglianza.
A me pare anche in questo caso molto importante partire da Sciascia ed affermare che se il giudice deve essere dall’altro lato del potere e contrastarne i vizi, ciò deve potere fare confrontandosi con la complessità del sistema ma anche e soprattutto con la centralità dell’uomo e dei valori che esso incarna.
Ora, l’attuale contesto della giustizia è aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge con prese di posizione che odorano, a volte, di scontri epici fra guelfi e ghibellini ed altre assumono il sapore di vere e proprie crociate, spesso condizionate dal risultato finale al quale perviene il decisore o pensatore di turno.
Il discorso parte da lontano e qui si può soltanto provare a sintetizzarlo, sopratuttto a beneficio delle generazioni di giuristi più giovani.
Fu infatti la presa di posizione della magistratura associata espressa in occasione del Congresso tenutosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965 a dare una spinta decisiva al tema dell’interpretazione conforme a Costituzione e alla piena efficacia della Carta costituzionale. In quella occasione si abbandonò la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese affermando che «il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico–costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione». In quella stessa circostanza si affermò che « spetta pertanto al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».
In questo sostrato culturale, allora condiviso dalla giusridizione, attecchì il tema del rapporto sempre più stretto fra giudice comune e Corte costituzionale, costruito per un verso attorno alla dottrina del “diritto vivente” capace di valorizzare in modo significativo il ruolo del giudiziario nell’individuazione del contenuto della norma impugnata e, per altro, verso, sull’invito rivolto ai giudici da parte della Corte costituzionale affinché questi facciano uso dei loro poteri interpretativi, privilegiando la lettura delle norme conforme ai principi costituzionali. Da qui una fase di grande fermento nella giurisdizione comune, investita di un significativo potere di intervento, in alternativa al giudice costituzionale concorrendo ad importanti operazioni di trasformazione dell’ordinamento repubblicano.
Accanto a questo fenomeno si è andato sviluppando, in modo non sempre articolato, il rapporto sempre più stretto fra giudice comune e fonti e Corti sovranazionali, sviluppatosi essenzialmente in ambito giurisprudenziale, ancora una volta per effetto di importanti grand arret della giurisprudenza costituzionale- sentenza Granital (Corte cost.n.169/1984) e sentenze gemelle nn.348 e 349 del 2007- che sono state occasionati dal crescente ed incisivo seguito goduto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti umani presso il giudice comune. Il processo in atto in corso vede emergere una tendenza al riaccentramento del ruolo della Corte costituzionale a scapito della funzione del giudice comune, individuandosi in ogni caso delle significative affinità fra l’attivismo del giudice comune nella protezione dei principi fondamentali scolpiti dalle Carte dei diritti ed il ruolo proattivo di quello costituzionale. Ecco qui sintetizzate le due prospettive che guardano a questi fenomeni in modo dicotomico e dunque come espressive vuoi di un suprematismo giudiziario da arginare, vuoi di una democrazia giudiziaria non eliminabile in un sistema costituzionale dinamico quale sarebbe quello italiano. Queste prospettive sopra tratteggiate, d’altra parte, si scontrano con un sistema giudiziario fortemente orientato a fronteggiare il tema della durata dei processi, della scarsità delle risorse organizzative, della crisi del “sistema giustizia” prodotta dalla crisi pandemica che, seppur capace di determinare uno scatto in avanti verso forme di efficienza commendevoli, sembra a volte implicitamente muovere dal postulato che le tematiche qui esposte debbano riguardare in via prioritaria le “Alte giurisdizioni” e non il giudice di merito.
Come uscire da questo impasse?
La scommessa sta, forse, più che nella ricerca del tarlo dell’una o dell’altra posizione, piuttosto nell’aprirsi alla ricerca di un equo contemperamento fra l’avanzare di un costituzionalismo sociale ( C. Caruso, Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, in Giustiziainsieme, 2 luglio 2022) e globale, nel quale assumono crescente peso e significato i principi fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza con altri principi ed interessi di pari rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione tirannica se non quello della dignità, come ci ricorda, di recente, Gabriella Luccioli, nel suo delizioso scritto dedicato al fine vita-Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022). E fa certo riflettere la posizione espressa di recente da chi, appunto, ha per tanto tempo valorizzato il ruolo del giudiziario nella protezione dei diritti fondamentali ed oggi si soffermi sul carattere camaleontico del ruolo di giudici- per il vero, soprattutto di quelli costituzionali – per evidenziarne l’innaturale propensione verso la funzione normativa[10].Quasi a volere confermare che il continuo processo di osmosi fra legge, giudici e giustizia porti i diversi "volti" ad assumere sembianze innaturali perchè innaturalmente considerate come sovrapponibili.
Quando si affronta il tema del rapporto fra legge e giudice a volte, forse, non ci si sofferma adeguatamente sulla complessità[11] – di Sciascia, della società, del suo dinamismo, della conformazione dei “diritti” – , sempre più difficile da imbrigliare in formule astratte e/o all’interno delle categorie, le quali non possono nè devono certo in alcun modo essere elise od eliminate, ma vanno continuamente sottoposte ad un lavorio di ponderazione in modo che esse risultino attualizzate ed adeguate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite del nuovo rappresentato dall’attualità, in cui i confini crollano progressivamente a favore di una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona alla luce delle tutele nient'affatto soggettive dell'interprete, ma considerate al più alto livello della normazione costituzionale e sovranazionale.
Ed allora, quando Sciascia insiste sul ragionamento che dovrebbe star dietro alla giustizia, egli pensa dunque a quel diritto vivente burocraticamente rassicurante e certo, geometrico e meccanico che si aggancia alla regola, figlio di quel giuridicismo di cui parla, sapientemente, Giovanni Fiandaca nella sua indagine a proposito di Sciascia e la giustizia[12], ovvero pensa ad un diritto ragionato, pensato, complesso, variegato, capace di superare le derive formalistiche e - se vogliamo - il testo normativo in nome della ricerca del contesto?
Forse l’ideale di giudice al quale Sciascia sembra ispirarsi è quello che, pur nel rigoroso rispetto della legge cerca di ritrovare, di scoprire, di “inventare” il comando della legge onde evitare l’irreparabile, l’ingiustizia, la violazione dei diritti e della dignità dell’uomo, come e quanto chi ha sacrificato la vita per la giustizia ci ha insegnato.Il che è poi quello che suggeriva l'ultimo Calamandrei-P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Opere giuridiche – Volume I – Problemi generali del diritto e del processo, Roma 2019,604-quando ricordava che l’infinita ricchezza del casellario rappresentato dal sistema delle fonti scritte lascia spesso spazio al vuoto ed alla necessità di aggiungere una casella supplementare da parte del giudice attraverso l’interpretazione senza che ciò integri opera di creazione, essendo piuttosto “ricerca, nella legge generale e astratta, di qualche cosa che c’è già per volontà del legislatore, e che si tratta non di creare ex novo, ma di scoprire e riconoscere”
Tornano così alla mente, con una vena di tristezza, le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi, di recente, a ricordarci, nella prefazione[13] a Il Mestiere del giudice[14] che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”
Parole da comprendere e riflessioni da assimilare con consapevolezza dagli operatori di giustizia.
3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società
La crisi della giustizia della quale parecchio si discute impone di chiedersi cosa c’è e cosa dovrebbe esserci nella valigetta del giudicesecondo Sciascia, visto che nella sua opera è ricorrente la figura del decisore, accanto a quelle dell’avvocato e dell’investigatore.
Un mestiere, quello del giudice duro, difficile, oneroso e per il quale la riconosciuta indipendenza - anche economica - della funzione da ogni altro potere reclama livelli di professionalità e accortezza assai elevati, ai quali Sciascia sembra tenere in modo particolare.
Un giudice che Sciascia avrebbe voluto “schivo e silenzioso com’era”, amando “la giustizia schiva e silenziosa, non petulante, la giustizia che non fa spettacolo, la giustizia piena di pudore, la giustizia che alberga nell’animo di tanti anonimi giudici, tanti «piccoli giudici» che ogni giorno, nella sofferenza e nell’angoscia, soli con la propria coscienza, decidono della sorte dei loro simili”[15].
Quello stesso magistrato dovrebbe essere, anche d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo ma anche – e soprattutto – di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza…[16] –capace di esercitare quella funzione tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendo conto.
Ora, questo giudice, caro a Sciascia, che si contrappone ai poteri non essendone egli parte, ha necessità non soltanto di essere compreso nella difficoltà del suo giudicare, ma anche di essere salvaguardato e protetto da visioni distorte del sistema che lo fanno sempre e comunque “colpevole” degli esiti distonici del giudizio di colpevolezza nei diversi gradi di giudizio, in tal modo finendo col tradire i capisaldi del sistema, nel quale i diversi gradi di giudizio e le diversità di valutazioni fra giudici rispetto ad uno stesso processo sono fisiologici e non patologici.
Ciò che a volte oggi si rappresenta come fallimento del sistema-giustizia non è, spesso, che la fisiologica dimostrazione che un sistema democratico non può e non deve affidarsi alla voce di un solo giudice, ma ha necessità di prevedere delle possibilità di revisioni del giudizio, in qualunque senso esse si orientino. Non è questo forse il modo migliore per esercitare in modo autonomo indipendente e democratico la giustizia?
Se, per converso, si dovesse aderire al pensiero di chi considera la disomogeneità fra i diversi gradi di giudizio come “errore”[17] sarebbe logico rispondere che la soluzione capace di eliminare in radice gli errori è quella di impedire le impugnazioni, in modo da realizzare l’unica verità possibile.
Ma è davvero questo l’obiettivo che le persone ragionevoli devono perseguire ed avere come orizzonte, ovvero occorre rafforzare, al di là dei singoli ruoli, l’idea stessa di una giurisdizione attrezzata professionalmente alla quale partecipano in modo paritario e, ciascuno nel proprio ruolo, i diversi protagonisti del processo?
Ora questa protezione del ruolo del giudiziario che qui si invoca ab externo la magistratura intanto ha il diritto di pretendere in quanto essa si mostri adeguata, umanamente e professionalmente, al suo ruolo e, appunto, portatrice di quella professionalità che giustamente l’avvocatura spesso reclama non nel proprio interesse. E su questo tema avvocatura e magistrature devono camminare unite, perché esso non può che riguardare anche la classe forense che è l’altra faccia della medaglia della giustizia.
4. Una nessuna centomila verità, per Sciascia e per la giustizia.
Esiste una verità sul tema della giustizia o esistono tante verità?
In generale, può dirsi che il diritto alla verità rivolto a disvelare il mai conosciuto rispetto ad eventi tragici che hanno segnato la storia individuale (delle persone) e collettiva del Paese si riempie di contenuti e dimensioni plurali, pur ancora da compiutamente definire nelle quali si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto tra loro la prospettiva individuale – della o delle vittime – e quella collettiva, che vede in gioco lo Stato-persona – tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili –, ma anche lo Stato-collettività, al cui interno si collocano la polis, gli studiosi, i letterati, le associazioni del terzo settore[18]. È qui che dovrebbe emergere, secondo Sciascia, un “bisogno” diffuso di conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso. Dunque, un “dovere di verità”.
Una Verità che segue una prospettiva ontologicamente bifronte, per l’un verso indirizzandosi quasi inconsapevolmente verso la dimensione primaria della persona, che è appunto rappresentata dalla sua dignità e, per altro verso, elevandosi a metro universale della democrazia dei Paesi e dei loro processi, alimenta un’ansia di tutele effettive che l’ordinamento giuridico ha l’obbligo giuridico di perseguire[19].
Il panorama reale della giustizia non sempre si è dimostrato capace di offrire verità appaganti, ancorché essa sia fondata sull'applicazione della legge, considerata per molto tempo espressione unica di verità[20] alla quale si affianca il processo come luogo naturale (e per molti considerato unico) in cui si accerta la verità (processuale) per il tramite del giudicato.
In Sciascia le verità hanno una dimensione davvero plurale, spesso richiamate come metafora del presente e che “una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»”.
A volte l’assenza di giustizia e verità pare anche essere o voler essere critica feroce e impietosa, rivolta a quella parte di società che non sembra affatto preoccupata della verità.
Sciascia critica gli attori della giustizia, ma prim’ancora censura l’umanità e l’assenza di valori che non sembrano trovare adeguato posto e tutela al suo interno, tanto da suscitare l’intervento del letterato che rilegge o a volte riscrive la storia. Al punto che la crisi della giustizia nasconde la crisi dell’uomo, del suo sfuggire ai grandi temi che lo circondano, del suo appiattirsi ed acconciarsi a false verità di comodo, del suo fermarsi sulla soglia della verità, del disinteresse per il senso ultimo che il tema giustizia evoca, quello della dignità e del rispetto dell’uomo[21].
Questo pessimismo coinvolge in pieno il pianeta giustizia, attorno al quale ruotano da sempre plurime verità.
Verità che coinvolgono il mondo dell’informazione, del pubblico ministero, dell’avvocatura e delle vittime, oltreché ovviamente del potere politico.
Alle spalle di ciascuna verità rappresentata vi è un fascio di valori che innervano la nostra società e costituiscono la spina dorsale della democrazia, tra loro continuamente intrecciandosi. Valori contrapposti che devono confrontarsi in una prospettiva che non può essere tirannica, ma che deve tendere alla comprensione del ruolo che ciascun costruttore di verità, in questa rappresentazione dei problemi che abbiamo inteso offrire, deve avere.
Qual è dunque la verità, quella del giornalista chiamato ad esercitare una funzione che è ben espressa attraverso l’espressione “cane da guardia” della democrazia che si ritrova nella giurisprudenza della Corte Edu, tanto importante quanto delicata muovendosi in territori fragili nei quali le verità sono in progress, oppure quella del P.M. che ha a cuore primariamente le vittime di reati e l’obiettivo di salvaguardare la società per garantirne la sicurezza - chiamato non ad individuare i colpevoli, ma a raccogliere gli elementi in base ai quali il giudice dovrà verificare se gli imputati hanno realmente commesso i reati loro contestati -, oppure quella dell’avvocato che difende l’indagato/imputato o parte offesa con tutte le sue abilità professionali per raggiungere, nel pieno ed effettivo contraddittorio con il P.M., l’obiettivo della sua giustizia che è quello di trovare gli elementi capaci di dimostrare o smontare l’accusa che gli viene mossa o, ancora quella, quella del giudice, che al termine di questo percorso si conclude con una sentenza emessa in nome del popolo italiano, destinata a diventare giudicato?[22]
Il carattere poliedrico delle verità ha dunque centri di imputazione diversi che appaiono alimentarsi vicendevolmente e in modo inesauribile, al punto che risulta difficile individuare il confine fra le une e le altre.
Ed in questa ricerca in continuo divenire la sfera della vittima con tutta la sofferenza, il dolore, lo strazio che spesso la caratterizza va compresa, protetta, aiutata e tutelata.
Il grido di verità[23] che Fiammetta Borsellino[24] ed i suoi familiari alimentano, elevando “…la propria storia famigliare e le vicende della Sicilia al rango di altre grandi tragedie della storia e chiedono per questo che vengano affrontate con dignità, come meritano i traumi collettivi di una Nazione” [25], rinforza l’idea che la verità sia un valore che appartiene allo stesso tempo ad alcuni e a tutti, senza tempo, senza dimensione e per questo capace, quando tocca questioni vitali per il Paese e la società che tali li avverte, di riattivare il dolore e con esso l'esigenza di conoscenza non solo per appagare la vittima, diretta o indiretta, ma anche il popolo che sente la necessità di conoscere, a sua volta, quella verità. Il passaggio che lei ha fatto a proposito della ricerca della verità anche attraverso i carnefici di suo padre è stato straordinario. Anche un maledetto assassino può morire con dignità se contribuisce alla verità ed in questo percorso il ruolo della vittima non può trovare parole per essere descritta in tutta la sua portata transepocale. Ecco perché, allora, la verità non può a volte essere compressa e ridotta al contesto giudiziario, ma va oltre, o può comunque andare oltre.
E sono proprio le vicende ancora oggi oscure sulla strage di Via D’Amelio e sul più grosso depistaggio della storia giudiziaria italiana[26] ad aggrovigliarsi nel meraviglioso libro di Piero Melati[27] dedicato appunto all’amore della verità nel quale, non occasionalmente, si intrecciano le storie di vita di Paolo Borsellino e Sciascia, e non solo per quell’ormai famoso articolo sui professionisti dell’antimafia e per quella storica fotografia che ritrae i due seduti a pranzo, ma anche per la testimonianza postuma di Agnese Borsellino riportata da Melati (224) nel dire che Sciascia, parlando dei professionisti dell’antimafia, aveva in parte torto, ma in parte no, sono lì a testimoniare un “dovere di verità” sui tanti buchi neri che tante, tantissime vittime – spesso anonime e non conosciute dal grande pubblico - attendono di disvelare ed illuminare nell’interesse loro e della società. Disvelamento che, d’altra parte, potrebbe non arrivare dal processo penale per effetto della prescrizione[28] e che apre ulteriori scenari, collegati alla ricerca di luoghi diversi ove inseguire la verità.
5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
Ma, è questo il punto, parafrasando le parole di Sciascia in un suo articolo pubblicato sul Corriere della sera del 26 gennaio 1987: Chi ha il coraggio di bussare alle porte della verità? Quanti sono disposti realmente ad incanalarsi in quel percorso aspro? Quanto l’ansia della verità viene insegnata, condivisa, compresa, studiata? Quanto il mondo “non giudiziario”, la scuola, le istituzioni culturali si impegnano, oggi, per ricercare la verità riconoscendone il valore? Quanto va approfondito il tema del “dovere” di dire la verità, di ricercarla attraverso la storia che nutre la giustizia?
Quanto, per la parte che le spetta essa magistratura è pronta a riscattarsi anche agli occhi della società in nome della quale amministra la giustizia? Quanto essa intende mettersi al servizio della verità e non già del potere e ad essere, in definitiva, disobbediente[29] fino al punto da incarnare un atto di opposizione civile[30]?
Se il bisogno di giustizia di Sciascia, la sete di giustizia si manifesta tutta in opposizione al dominio del potere, sicché per esercitarla al meglio non bisogna essere potere[31], ma contropotere al servizio di un’idea, di un bisogno insopprimibile, il problema della giustizia sorge quando il giudice tende o è percepito esso stesso come potere e non come servitore, fallendo così miseramente la sua mission[32].
A me pare che occorra guardare al mondo della giustizia tenendo presente un nuovo alfabeto, nel quale campeggiano, come espressioni cardinali, quelle di dignità della persona, verità, leale cooperazione, formazione, etica, coraggio, responsabilità e fedeltà alla Costituzione[33].
A me pare che per unire le diverse verità che ruotano attorno al pianeta giustizia, tutte pienamente legittime e legittimate ad essere rappresentate al corpo sociale con le forme che alle stesse appartengono, occorra anzitutto una leale cooperazione che deve innervare i rapporti e le relazioni fra i diversi “costruttori di verità” lasciando ai margini la prospettiva della gerarchia e della logica "dell'ultima parola" figlia di quella del controllore e del controllato. E ciò anche sui temi spinosi e non sempre colti nella giusta prospettiva, dei rapporti fra sindacato di costituzionalità e interpretazione costituzionalmente orientata, della disobbedienza del giudice di merito alle decisioni della Cassazione e financo della Corte costituzionale e dei giudici sovranazionali, come ci è capitato di evidenziare in passato[34].
Una leale cooperazione che non può tralasciare l’esigenza di una formazione continua ed incisiva- sempre più comune con l’Avvocatura- capace di cogliere al fondo i nodi problematici e, appunto, favorendo la capacità di ragionare.
Quando Sciascia invocava che ogni magistrato in formazione potesse e dovesse conoscere direttamente l’odore e il sapore del carcere per sapere gli effetti del suo agire esprimeva un concetto tanto banale quanto centrale per chi vive di giustizia ed oggi dimostra quanto siano vitali e necessari per il buon giudicare livelli sempre più approfonditi di conoscenza effettiva, efficace, profonda.
Un’esigenza di leale cooperazione che deve lasciare ai margini atteggiamenti assolutisti, onniscienti, a volte supponenti e boriosi, di coloro che, pur in assoluta buona fede legittimamente portatori ed espressivi di una di quelle verità di cui qui si è detto la contrabbandano come “la verità unica”[35].
Tutto questo impone una grossa dose di coraggio in tutti i protagonisti del sistema: giornalisti coraggiosi, capaci di scavare alla ricerca dei fatti, avvocati coraggiosi, lontani da atteggiamenti di sudditanza psicologica o di (in)sofferenza nei confronti del decisore di turno, magistrati inquirenti e giudicanti, a loro volta garanti coraggiosi della correttezza dei compiti loro demandati, i primi nello svolgere legalmente l’attività del P.M. ed i secondi chiamati a giustificare la decisione assunta attraverso la sentenza. E senza che il cerchio possa dirsi definitivamente chiuso quando uno dei costruttori di verità abbia disvelato l’impostura che altri hanno spacciato per verità, anche se giudizialmente accertata.
Ma accanto al coraggio occorre una notevole e comune dose di responsabilità.
Quanto al giudiziario, se il magistrato è “privo del coraggio di mettersi in gioco anche – laddove necessario – esponendosi in prima persona farebbe bene a cambiare mestiere”, per dirla con Antonio Ruggeri.
Occorre parimenti che il magistrato abbia “mentalità ispirata al senso del limite e alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascun operatore deve essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto”.
E se il giornalista deve avere il coraggio di affondare le sue ricerche per scoperchiare il malaffare, i comportamenti ostruzionistici ed aggressivi della nostra società soprattutto quando in gioco ci sono i diritti del più vulnerabili, deve essere anche perfettamente consapevole che la sua mission mette a rischio la reputazione dei soggetti individuati all’interno delle notizie e inchieste e, ancora, richiedere che una notizia emersa in fase di indagine debba essere seguita dalle notizie che riguardano gli sviluppi della vicenda giudiziaria, poiché non si è realmente “cani da guardia” della democrazia quando si danno solo notizie degli arresti e si tace o, peggio, si relega al trafiletto, la notizia dell’assoluzione.
Ogni condotta, ogni atteggiamento irresponsabile che non sia improntato al principio di leale cooperazione attenta alla credibilità del sistema nel quale siamo tutti parte, giudici, avvocati, giornalisti, legislatore, in modo che l’inosservanza di questo canone da parte dell’uno finisce col ricadere inesorabilmente sull’altro, minando la credibilità della giustizia.
Leale cooperazione vuol dire dunque che ciascuno nel proprio ruolo sia portato a cogliere nella prospettiva di quei mondi diversi costretti a convivere che c’è del buono nell’altro, di utile, di costruttivo, di necessario.
In definitiva quale conclusione sul mondo della giustizia mi sento di offrire.
A me pare che sia il momento di comporre in modo autenticamente nuovo i tanti ponti e muri[36] che vediamo innanzi a noi, attraverso un modo nuovo col quale ricercare un confine appagante fra le esigenze di sé e quelle degli altri.
La ricerca di un’alternativa reale alla prospettiva che intende eliminare l’uno e scegliere l’altro a favore di un approccio che, attingendo alle risorse di mente e di cuore, si sforza di mettere “insieme” l’un costruttore di verità rispetto e “con l’altro”, rimanendo ben incanalati alla risorsa preziosa, anche se aspra, onerosa e fastidiosa, del confronto e del dialogo. Rifuggire, dunque, da schematismi astratti e, soprattutto, da coloro che si ergono a tutori dell’uno o dell’altro corno della questione e si fanno portatori di un’unica e sola “verità” rifiutando "a prescindere" l'asprezza e durezza del confronto, invece di indirizzarsi verso la ricerca delle cause delle verità plurali che spesso si fronteggiano.
Il che non vuol certo nè deflettere dall'idea che della funzione ciascun ordine ha nè negare la necessità di affrontare le questioni nodali del nostro tempo con alla base alcune idee cardine non negoziabili, quali la tutela dei diritti fondamentali, il rispetto della Costituzione e la fedeltà ad essa, la salvaguardia dello Stato di diritto, i diritti di difesa, ma molto più semplicemente invitare tutti ad un approccio capace di ascoltare le diverse prospettive per coglierne ciò che di buono e vero esse potrebbero avere.
Insomma, ricordando Giorgio La Pira, occorre più che mai “osare l’inosabile”, investire su tutto ciò che è prodotto del pensiero umano per trarne forza e alimento e fondere, dunque, i ponti con i muri piuttosto che porsi in una prospettiva che vede il bianco nel ponte e il nero nel muro, superare l’idea stessa che sia sufficiente eliminare il muro, invece ponendo le basi per una linea di azione e di pensiero capace di capire le ragioni del muro per poterlo valicare insieme a chi, con onestà, ne ha rappresentato le esigenze.
Perseguire, dunque, per quanto possibile un ragionevole accomodamento fra le diverse prospettive ed i diversi volti della giustizia[37] che proprio la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione – sent. n.24414/2021- ha di recente individuato come Grundnorm per risolvere conflitti apparentemente insanabili in ambito religioso senza deflettere mai dall’idea di stare dalla parte della persona umana e dei valori che essa riflette e, soprattutto, della sua dignità.
Oggi, tra le tante verità spetta dunque alle persone di buon senso, sulle gambe delle quali vivono i mondi dell’informazione e della giustizia, del Pubblico Ministero e dell’avvocatura[38], orientare le proprie condotte alla cooperazione leale e franca ed all’affermazione dello Stato di diritto come bene primario che appartiene indivisamente a tutti i protagonisti, nella consapevolezza che ciascuna delle verità che ciascuna istituzione od ordine perseguono ha una sua ineludibile dignità, necessaria e vitale per la democrazia, senza la quale saremmo tutti meno liberi, meno consapevoli, meno coscienti. Ciò a patto che queste verità siano perseguite, ricercate, inventate – nel senso grossiano del termine - in modo eticamente corretto[39], andando così a definire un mosaico composto da tante tessere che in via tendenziale ambiscono a una verità finale. Una volta raggiunta, questa verità potrebbe essere posta in discussione nuovamente da uno di quei mondi ove si riuscisse a dimostrare che essa è stata "poco vera" perché alla verità si era anteposta, magari evocando (a sproposito) la ragion di Stato, l’impostura.
Ecco la lezione sciasciana ultima che mi pare possa costituire coscienza di questa giornata.
Una continua e strenua ricerca della verità, alimentata dal perenne valore del dubbio che non ne scalfisce la rilevanza, ma aiuta a renderla più ricca, più consapevole, più adeguata alla società del nostro tempo.
Tocca dunque impegnarsi in una continua ricerca, non in astratto ma in concreto, in vivo e non in vitro, del limite per ricercare il quale occorrono appunto, confronto, conoscenza, formazione degli avvocati e dei magistrati quanto più comuni e, con un occhio orientato al mondo del giornalismo, tutele forti ed effettive nei confronti di chi è chiamato ad esercitare quella professione, troppo spesso indecorosamente costretta a svolgere il ruolo centrale di cui qui si è detto, con retribuzioni e forme contrattuali che lasciano stupefatti per quanto cozzano con il concetto di dignità.
Raggiungere le migliori verità possibili perché ciascuno possa ricostruire in modo consapevole la sua verità, al punto da giungere alla conclusione finale che esiste un diritto alla verità inscindibilmente collegato al dovere di verità che una comunità deve perseguire, attraverso un percorso tortuoso e complesso.
Un futuro di sole apparenti "incertezze" che è anche futuro di maggiore consapevolezza del ruolo degli attori della giustizia attraverso il rispetto reciproco.
Un tempo che credo sia e debba essere il tempo del coraggio responsabile, eticamente ed umanamente corretto che, sotto l’ombrello di chi ha perso la vita per la giustizia come oggi i morti che ricordiamo, può forse davvero rappresentare un obiettivo tangibile e realizzabile e rendere la giustizia sempre più credibile e, soprattutto, degna di chi la vita per questa giustizia l’ha donata e guarda dall’alto al presente ed a chi ha raccolto quell’eredità.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata dall’ANM Palermo, dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte di appello di Palermo e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento il giorno 8 luglio 2022 presso il Museo Griffo di Agrigento. Un particolare ringraziamento va all’ANM distrettuale di Palermo, nelle persone di Clelia Maltese e Maria Teresa Maligno, nonchè al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento e per esso alla Presidente Avv. Vincenza Gaziano.
[1] FAI e Progetto Genesi: Arte e diritti umani. Una nuova frontiera Intervista di Roberto Conti a Ilaria Bernardi e Giuseppe Taibi, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2022.
[2] Per una riflessione più articolata su Sciascia e giustizia sia consentito il rinvio a R.G.Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Un omaggio a Leonardo Sciascia dalla comunità dei giuristi, Cacucci, 2021, in Giustiziainsieme, 2 settembre 2021.
[3] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, in Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R. G. Conti, Bari-Milano, 2021, 127.
[4] G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021. Il punto è richiamato da A. Ruggeri, In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustiziainsieme, 26 maggio 2022.
[5] T. Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in Giustiziainsieme, 24 maggio 2022. Il tema è stato ripetutamente ripreso su Giustizia Insieme con scritti di G. Montedoro -Derrida, il giudice, il fare giustizia-, G. De Amicis- Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze-, A. Cosentino - Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio-e, da ultimo, B. Montanari - “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica -.
[6] R. Bin, - Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n.2, 2019, 251.
[7] È lo stesso R. Bin a citare, in tema, R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino 2017, 75 ss.
[8] R. Bin, nel saggio indicato alla nota 6, si riferisce anche ai molti scritti di A. Ruggeri, citando, fra gli altri, Trasformazioni della costituzione e trasformazioni della giustizia costituzionale, in Osservatorio sulle fonti, 2/2018, 1 ss. Il confronto fra i due Autori è proseguito in Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Intervista di R. Conti ad Antonio Ruggeri e Roberto Bin, in Giustiziainsieme, 10 aprile 2019.
[9] V., sulla questione esaminata nel testo e su posizioni dicotomiche rispetto a Bin, A Ruggeri, Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie, in Consultaonline,2019, f.3, 16 dicembre 2019, 713 e 714 in note 26 e 30.
[10] A. Ruggeri, Il giudice-camaleonte e la salvaguardia dei diritti fondamentali, in Gruppodipisa, 12 luglio 2022.12 Luglio 2022
[11] Sul tema della complessità che ruota attorno al ruolo del diritto e della giustizia ed alal rilettura di Sciascia nei saggi di Irti e Lipari contenuti nel volume "Diritto verità giustizia" cit., insiste ora, ripetutamente M. Perrino, Rileggere Sciascia attraverso "Diritto verità giustizia" in Giustiziainsieme,25 maggio 2022. F. Messina, Il diritto alla verità. Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari”, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2020.
[12] G. Fiandaca, La giustizia secondo Leonardo Sciascia, in Todo Modo, 2019, 157, 160. Indagine di recente ripresa in occasione del webinar organizzato dall’Università di Palermo in memoria di L. Sciascia il 15 aprile 2021 sul tema Leonardo Sciascia tra giustizia sperata e giustizia negata: una ambivalenza irriducibile,
[13] P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020.
[14] AA.VV., Il mestiere del giudice, cit.
[15] G. Tranchina, Leonardo Sciascia, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 30.
[16] L. Sciascia, Per la responsabilità dei magistrati, in Corriere della sera, 7 agosto 1983, poi in A futura memoria, (se la memoria ha un futuro), in Opere, 1246.
[17] Sul punto v. le interessanti riflessioni di A. Mori, Chi sbaglia paga... Ma quand'è che il giudice sbaglia?, in Questionegiustizia, 7 luglio 2022 e, a proposito del concetto di "grave anomalia" introdotto dalla riforma Cartabia in tema di ordinamento giudiziario, in itinere, R. Magi, La delega Cartabia in tema di valutazioni di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura , in Questione giustizia, 13 luglio 2022.
[18] Straordinario si sta rivelando l’apporto di Libera e dei tantissimi costruttori di verità che ne alimentano incessantemente le attività ormai senza confini e che, quotidianamente e silenziosamente, si battono per raggiungere la verità per quei tantissimi familiari di vittime della criminalità organizzata che ancora attendono di avere la loro verità- https://www.libera.it/documenti/schede/libera_diritti_vittime_manifesto_2020_2.pdf-.
[19] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, in Criminalia, 2015, 23: “Prendendo ora in considerazione una dimensione per certi versi più specifica, ma di valenza non meno generale, va sottolineato che il principio di verità si configura come condizione essenziale per l’effettività dell’ordinamento giuridico. Se è vero, come pare indubbio, che le norme giuridiche, singolarmente e nel loro insieme, sono destinate a regolare i comportamenti dei consociati, pare altrettanto evidente che questa finalità verrebbe completamente frustrata qualora i cittadini pensassero che la violazione delle norme non comporterebbe alcuna conseguenza o provocherebbe conseguenze del tutto casuali, e qualora non vi fosse nessuna ipotesi credibile circa le conseguenze delle condotte dei singoli, siano esse conformi o contrarie a quanto prevedono le norme giuridiche. In altri termini, l’effettività dell’ordinamento giuridico si fonda sull’ipotesi che il sistema sia in grado di stabilire la verità rispetto a tali condotte, dato che solo in questo caso le relative conseguenze sarebbero conformi a ciò che l’ordinamento prevede”
[20] L. Salvato, Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021, in Giustizia insieme, 1 aprile 2022. In diversa prospettiva, P. Grossi, Sulla odierna “incertezza” del diritto, in Giustizia civile, n.4/2014 (anche in https://giustiziacivile.com/giustizia-civile-riv-trim/sulla-odierna-incertezza-del-diritto).
[21] V. il saggio dedicato a Sciascia da G. Tranchina, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 19.
[22] Sul tema delle plurime verità ritorna, di recente, B. Montanari, “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica, in Giustizia insieme, 8 luglio 2022, cit.
[23] V. F. Borsellino: “Troppi depistaggi sulla morte di mio padre”, in https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2018/07/17/news/strage_borsellino_domande_fiammetta-202035147/. V., infatti, la recente Relazione approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia sul depistaggio di Via D’Amelio, 19 dicembre 2018:”Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità.”
[24] Proprio rispetto alla vicenda ricordata nel testo sembrano straordinariamente calzanti le riflessioni di S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit., 220: “Lungo questo cammino, nella costellazione dei diritti, compare quello che forse meglio d’ogni altro esprime la novità e il distacco dal passato – il diritto al lutto. Qui la ritrovata verità, la restituzione della memoria rimuovono quello che era stato l’indicibile, il nascosto, l’invisibile. L’impossibilità di elaborare il lutto, perché la conoscenza era negata o impedita o preclusa a ogni parola detta in pubblico, ha rappresentato la forma più profonda di violenza, un’altra delle tante negazioni dell’umanità di persone che abbiamo conosciuto”.
[25] P. Melati, Paolo Borsellino, cit., 228: “La stessa cosa, spesso impavidamente, Sciascia ha fatto nei suoi libri. Ed è questo che hanno fatto anche i figli del giudice. Hanno combattuto per avere diritto di parola e l’hanno infine ottenuto. Così ancora oggi, a trent’anni dalla strage, possono invocare verità e giustizia, ..Hanno scelto un grande scenario, quello delle verità storiche, in luogo di protagonismi, compromessi e vantaggi di piccolo cabotaggio…”.
[26] A. Balsamo, Mafia. Fare memoria per combatterla, Milano, 2022, nel quale le più note e nebulose vicende di mafia vengono attentamente rilette alla luce dei diritti alla verità e alla speranza.
[27] P. Melati, Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Milano, 2022. L’Autore intreccia i giorni precedenti e gli anni successivi vissuti dalla famiglia Borsellino con il pensiero sciasciano, ricordando non soltanto i saggi c e le raccolte- fra tutte, A futura memoria- nei quali si intrecciano i temi del ricordo e della memoria dello scrittore-105- ma anche i pensieri di Agnese Borsellino sul rapporto del marito con Sciascia, i luoghi che furono testimoni degli assassini dei giudici Saetta e Livatino quanto della bellezza di quello stesso territorio in cui si intrecciano i percorsi letterati degli scrittori agrigentini con lo storico anatema di Papa Giovanni Paolo II contro la mafia-108 ss.-
[28] Sul tema della prescrizione rispetto a crimini di particolare rilevanza per le vittime e la società ci eravamo soffermati in R. G. Conti, Il diritto alla verità, fra amnistia, prescrizione e giurisprudenza nazionale della Corte edu e della Corte interamericana dei diritti umani, in Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, a cura di R. Romboli e A. Ruggeri, Torino, 2019, 237.Da qui il rinnovato interesse verso forme e luoghi alternativi nei quali ricercare la verità, evocandosi le esperienze delle commissioni sulla verità - v. A. Lollini, Desmond Tutu e l’esperienza della Commissione Sudafricana per la verità e la riconciliazione, in Giustiziainsieme, 9 aprile 2022 - o quella delle commissioni parlamentari d'inchiesta - sulle quali di recente A. Balsamo, Commissioni d'inchiesta per le verità sulle stragi, Repubblica, 17 luglio 2022 -.
[29] V., sul significato dell’espressione giudice disobbediente nel contesto dei doveri nascenti dalla Costituzione Il giudice disobbediente nel terzo millennio. Intervista d. R.G. Conti a G. Silvestri, V. Militello e D. Galliani, in Giustiziainsieme, 5 giugno 2019.
[30] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, 221: “Dunque far emergere la verità, raccontare la realtà quale essa è e quale non trova spazio in quella ufficialità che è occupata dal potere, costituisce un importante atto di opposizione civile.”
[31] L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, - pubblicato su Il giornale, anno I, n.12, dicembre, 1986, pp-9-210) - Appendice a Diritto verità giustizia, (cit.,153: “…Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi quietudine, al dubbio.”. …E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia… deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estravertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio”.
[32] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Milano, 2014, 224: “occorre che i magistrati non si lascino corrompere o non siano omologati al potere.”
[33] Sia consentito il rinvio a precedenti riflessioni in R. G. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?, Roma, 2019, 33 ss.
[34] V., volendo, le conclusioni all’intervista indicata alla nota 27.
[35] Il pensiero va, anche, alle recenti vicende che hanno visto una larga parte della magistratura non accogliere l’idea che fosse lo sciopero il “mezzo” per rappresentare le assolutamente legittime riflessioni critiche sulla riforma della giustizia in itinere. Un fatto, quest’ultimo che, al di là delle motivazioni variegate alla base dell’astensione, sembra in generale dimostrativo di un desiderio di impostare in modo nuovo le relazioni, osando il confronto anche se aspro, quanto più plurale e perciò autentico.
[36] Ponti v. muri, o muri e ponti, Editoriale, Giustizia insieme, 20 dicembre 2022.
[37] R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2021.
[38] S. Sotomayor, Il mio mondo amatissimo. Storia di un giudice dal Bronx alla Corte Suprema, Bologna, 2022, 285: “..non considero pubblici ministeri e avvocati difensori nemici naturali, per quanto comune sia questa visione all’interno e all’esterno della professione legale. Sono semplicemente figure con due ruoli diversi, che devono essere ricoperti entrambi per raggiungere un fine più nobile: mettere in pratica lo stato del diritto Nonostante i due ruoli siano opposti, la loro esistenza dipende dalla condivisa accettazione del giudizio della legge, indipendentemente da quanto i due fronti mirino al risultato sperato Ciò non significa negare che a guidare gli sforzi di entrambe le parti sia la voglia di vincere, né sostenere una qualche semplicistica equivalenza tra accusa e difesa: piuttosto, si tratta meramente di sottolineare che, alla fine, per fare un buon servizio sia all’accusato che alla collettività, l’integrità del sistema deve essere posta più in alto rispetto ai fini più vantaggiosi per l’una o l’altra fazione”.
[39] V., di recente, sul tema dell'etica delle funzioni giudiziarie le ricchissime osservazioni di A. Nappi, Etica, deontologia e funzioni giudiziarie: tra efficienza, percezione ed effettività, in Questionegiustizia, 18 luglio 2022.
La Cassazione disconosce la scientificità della c.d. sindrome da alienazione parentale. Commento a Cass. Civ. 24 marzo 2022 n. 9691
di Ilaria Boiano
Con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022 la Suprema Corte ha annullato la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, pronunciata dal Tribunale per i minorenni di Roma e confermata dalla Corte di appello nei confronti di una donna che da anni ormai insieme al figlio minorenne vive nella paura di provvedimenti ablativi a causa dell’operatività indisturbata nei procedimenti affrontati del costrutto ascientifico dell’alienazione parentale e di tutti i suoi derivati, che agisce come espediente giudiziario per limitare fino a recidere la genitorialità delle donne.
Questo contributo, dopo una breve panoramica della motivazione dell’ordinanza del 24 marzo 2022, n. 9691, non intende ripercorrere norme, giurisprudenza o dottrina, ma nello spirito perseguito da Giustizia Insieme di promozione del confronto tra magistratura, avvocatura, studiosi del diritto e società civile quale pratica irrinunciabile, intende condividere un’esperienza.
In questo momento in cui una nuova riforma in materia è ormai quasi integralmente operativa e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne documenta la grave vittimizzazione di donne e figli nei giudizi in tema di responsabilità genitoriale, ritengo necessario porre delle domande per l’avvio di un percorso di autentica autocritica del diritto delle relazioni familiari così come oggi in concreto è praticato all’interno delle aule giudiziarie, asservito a logiche corporativiste che piegano il concetto del “superiore interesse del minore” tenendo ben presente che leggi e giurisprudenza devono confrontarsi con la vita delle singolarità concrete soggette non solo all’autorità giudiziaria, ma anche a un’assistenza legale spesso spregiudicata e ad altre discipline che hanno invaso il diritto.
Un tentativo questo motivato dall’auspicio della riscoperta di un umanesimo giuridico di cui poche tracce si intravedono, paradossalmente, proprio nella pratica giudiziaria che del “troppo umano” è chiamata a occuparsi. Le domande poste non troveranno di certo risposte esaustive, ma solo tentativi di riflessioni che partono dall’esperienza, storica fonte del diritto che merita oggi di vedersi restituita dignità.
Sommario: 1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022 - 2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari? - 3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
1. I principi di diritto affermati dall’ordinanza n. 9691/2022
Il provvedimento in commento interviene nel contesto di una vicenda familiare e processuale molto articolata, tuttavia sempre più comune dinanzi agli uffici giudiziari: una donna decideva di interrompere la relazione sentimentale con il compagno a causa di una dimensione di vita comune connotata da forme di controllo coercitivo che le rendevano la vita dolorosa, e chiedeva la regolamentazione dell’affidamento del figlio minore dinanzi al Tribunale ordinario.
Mentre la donna lamentava profili di inadeguatezza del padre, questi, attribuiva alla madre del bambino comportamenti ostativi all’esercizio della sua genitorialità avvalorati anche in sede di valutazione delle competenze genitoriali da parte di consulente tecnico d’ufficio.
Ogni richiesta di approfondimento sui comportamenti paterni posta dalla madre è stata negli anni sistematicamente ignorata oppure ritenuta pregiudizialmente indicativa di un’incapacità della stessa di garantire l’accesso del figlio al padre.
Come sempre più spesso accade su indicazione dell’avvocatura, il padre giungeva a richiedere al Tribunale per i minorenni la decadenza della responsabilità genitoriale della donna solo sulla base di presunti ostacoli materni alla sua paternità e il conseguente collocamento del figlio in una struttura extrafamiliare.
Il tribunale per i minorenni di Roma, dopo una prima decisione di allontanamento del minore e suo collocamento presso il padre con educatore domiciliare permanente poi annullato dalla Corte di appello di Roma nel gennaio 2020, pronunciava la decadenza della responsabilità genitoriale della signora e il collocamento extrafamiliare del minore, ciò senza ascoltare la sua volontà.
La Suprema Corte, annullando suddetta decisione confermata dalla Corte di appello di Roma nel luglio 2021, ha ribadito la necessità di un bilanciamento nell’individuare le misure da adottare nei giudizi riguardanti la responsabilità genitoriale e la tutela della cosiddetta bigenitorialità tra il risultato atteso e l’impatto delle misure sul complessivo equilibrio psicofisico dei minori, in un’accezione del superiore interesse del minore che sia in concreto declinata a partire dalla prospettiva dei bambini e delle bambine e non già nella cornice rivendicatoria degli adulti, come già chiarito nel medesimo caso dalla Corte di appello di Roma con ordinanza n. 2 del 2020 che annullava una prima volta l’allontanamento del minore dalla madre.
La sezione I civile ha cassato, inoltre, la decisione della Corte di appello di Roma poiché, scrivono gli Ermellini, ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche svolte nel corso del procedimento, tutte improntate alla cornice dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico.
La Suprema Corte evidenzia ancora una volta, sulla scorta dell’apparato motivazionale dell’ordinanza del 17 maggio 2021, n. 13217, che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”. Il collegio osserva, inoltre, che il diritto alla bigenitorialità così come ogni decisione assunta per realizzarlo non può rispondere a formula astratta “nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ex abrupto del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola”.
La Corte Suprema rileva ancora che l’autorità giudiziaria di merito ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando così che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.
L’interesse superiore del minore non può essere declinato a partire da diritti di terzi, neppure se tra questi vi sia il genitore che chiede di vedersi garantire la relazione che assume pretermessa, dal momento che “l’interprete è chiamato, dunque, ad una delicata interpretazione ermeneutica di bilanciamento la cui specialità consiste nel predicare in ogni caso la preminenza del diritto del minore e la recessività dei diritti che con esso possano collidere” (Cass., 24 marzo 2022, n. 9691).
L’autorità giudiziaria, di conseguenza, non potrà prescindere da una valutazione che declini il superiore interesse del minore secondo tre distinte accezioni che la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con l. n. 176/91, codifica in modo preciso ponendole tra loro strettamente collegate. Anzitutto, ricorda la Suprema Corte, il superiore interesse del minore “esprime un diritto sostanziale, cioè il diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia valutato e considerato preminente quando si prendono in considerazione interessi diversi, al fine di raggiungere una decisione sulla problematica in questione, e la garanzia che tale diritto sarà attuato ogni qualvolta sia necessaria una decisione riguardante un minorenne, un gruppo di minorenni identificati o non identificati, o minorenni in generale”. Inoltre, il miglior interesse del minore configura un principio giuridico interpretativo fondamentale e di conseguenza, sottolinea la Corte di cassazione, laddove una disposizione di legge risulti “aperta a a più di un’interpretazione si dovrebbe scegliere l’interpretazione che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore”.
Da ciò discende anche una regola procedurale che la Corte di cassazione individua nell’attenta verifica e valutazione rigorosa dell’impatto positivo o negativo della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione, valorizzando in ogni caso il miglior interesse del minore con prevalenza su altri diritti la cui attuazione possa, seppur parzialmente e indirettamente, comprimerlo.
La Cassazione, inoltre, ritiene nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore, adempimento a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo. Gli Ermellini ribadiscono sul punto che “in tema di affidamento dei figli minori l'ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni”.
La Corte precisa, inoltre, che “tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse”.
La Suprema Corte, infine, interviene a chiarire che l’esecuzione con la forza dell’allontanamento dei bambini e delle bambine da un genitore contro la loro volontà e in assenza di concreto pregiudizio è da ritenersi fuori dai principi dello Stato di diritto: ciò vuol dire non che occorre una legge per disciplinare modalità di esecuzione di allontanamenti coercitivi a danno dei minori di età dai genitori di riferimento, bensì che la pratica è in sé estranea all’ordinamento stesso per la sua portata violenta e autoritaria.
2. Qual è l’impatto della “cattiva scienza” e del “cattivi scienziati” sul diritto delle relazioni familiari?
Come approfondito ormai da anni (tra i vari CAPRIOLI, La scienza "cattiva maestra": le insidie della prova scientifica nel processo penale, Cass. pen., fasc.9, 2008, pag. 3520), le scienze posso costituire un alleato per l’attività giudiziaria, ma spesso con insidie e inganni, come “un compagno di viaggio che può anche condurre il processo in una direzione sbagliata” e che pone dubbi sulle garanzie dell'affidabilità e dell'attendibilità delle risorse tecnico-scientifiche utilizzate nel processo.
Come possono il giudice e le parti «esercitare un controllo effettivo su un'attività probatoria [...] in cui un esperto impiega conoscenze che essi non posseggono» (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 68 ss.). La dottrina, ragionando sull’ingresso della prova scientifica nel processo penale, indica sullo sfondo di tale questione non solo un tema di giustificazione razionale delle decisioni del giudice (l’autore si riferisce a quello penale, ma l’argomentazione ben si adatta a quello civile e minorile) – ma anche di responsabilità del giudicante, giungendo a denunciare il rischio di gravi distorsioni della giustizia, dal momento che “il processo deciso da un responso peritale indecifrabile e insuscettibile di controllo da parte del giudice è un processo che assomiglia pericolosamente agli antichi riti ordalici”( FOCARDI, La consulenza tecnica extraperitale delle parti private, Cedam, 2003, p.14).
La funzione giurisdizionale torna ad assumere contorni irrazionalistici e superstiziosi: il giudice sfugge alle sue responsabilità per affidarsi nuovamente a qualcosa che si colloca sopra la stessa autorità giudiziaria, la sovrasta ammantandosi di oggettività che, come noto, neppure la scienza “dura” assicura (GIORELLO, Di nessuna chiesa, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 11 s.).
La scienza può rappresentare una "cattiva maestra" del giudice per tre diverse ragioni e in tre diverse circostanze: 1) quando è cattiva scienza, cioè quando si vogliano impiegare nel processo strumenti tecnico-scientifici che non garantiscono in sé e per sé, a prescindere dall'applicazione buona o cattiva che se ne faccia nel caso concreto, un margine sufficiente di affidabilità e attendibilità; 2) quando è una buona scienza applicata male, cioè applicata, nel caso concreto, da cattivi scienziati (CENTONZE, Scienza "spazzatura" e scienza "corrotta" nelle attestazioni e valutazioni dei consulenti tecnici nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1237); 3) quando è una buona scienza correttamente applicata in sede processuale che viene, tuttavia, utilizzata in modo improprio o fuorviante dal giudice in sede di decisione.
Tenendo conto delle tre menzionate circostanze, la psicologia giuridica oggi all’opera senza controllo nei tribunali italiani in tema di valutazione della genitorialità nei procedimenti di affidamento dei figli e di responsabilità genitoriale si colloca proprio tra le cattive maestre (MERCER-DREW, Challenging Parental Alienation. New Directions for Professionals and Parents, Routledge, 2022), poiché quel poco che potrebbe salvarsi in una cornice di inaffidabilità e inattendibilità complessiva (cattiva scienza), è applicato da cattivi scienziati e comunque utilizzato in modo fuorviante dall’autorità giudiziaria.
Attraverso gli incarichi di consulenze tecniche sono veicolate, infatti, all’interno degli uffici giudiziari
attività profiling stereotipato e sessista dei genitori e i conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale e delle sue più recenti declinazioni (conflitto di lealtà, rapporto simbiotico, sindrome della madre malevola, ecc.). Tutti costrutti questi veicolati dalle consulenze tecniche d’ufficio e recepiti dalla prosa giudiziaria di merito per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico, generalmente imputato alla madre, colpevole di ogni disfunzione, ancora di più se osa attivare gli strumenti di difesa contro la violenza nelle relazioni di intimità.
E all’esito di ciò, mentre si tacciono e mistificano i comportamenti violenti o comunque inadeguati dei padri, nonostante i tentativi dei minori coinvolti di rappresentare ai consulenti la loro esperienza dolorosa, si diagnosticano invece futuri e futuribili rischi psicopatologici per i minori alla luce di tratti della personalità e comportamenti mai tenuti dalle madri, ma frutto di una prognosi avulsa dai fatti, per lo più ancorata a interpretazioni e valutazioni sulla base delle quali suggeriscono al giudice percorsi di supporto che implicano il coinvolgimento di una pletora infinita di soggetti (terapia al minore, terapia genitoriale, educatori domiciliari, supporto parentale (parent child support, rigorosamente a pagamento), ma anche coordinatori genitoriali, fino a prospettare alle donne allontanamenti coattivi dei figli e collocamento in strutture extrafamiliari.
Un leit motiv che le donne si sentono ripetere nel corso delle consulenze è che “i fatti non contano”, peccato che stiamo parlando di professionisti che non operano nel loro studio privato in un contesto clinico e di libero affidamento del paziente, ma come ausiliari dell’autorità giudiziaria in un procedimento in cui invece proprio i fatti dovrebbero costituire la piattaforma di riferimento, poiché discostarsene implica anche responsabilità penali: omettere, come accade non di rado, di richiamare l’attenzione del giudicante su condotte di umiliazioni fisiche e psicologiche, urla, lanci di oggetti e danneggiamenti delle cose, percosse, è una condotta grave penalmente rilevante che dovrebbe determinare l’autorità giudiziaria procedente a non arrivare alla lettura delle conclusioni, per trasmettere senza indugio gli atti della consulenza alla Procura sia per la condotta commessa nei confronti del/della minore, sia per la condotta omissiva del consulente.
Il tutto avviene poi con la postura di chi detiene un potere pressoché illimitato: le donne che manifestano perplessità o sottopongono problematiche di sostenibilità dei percorsi imposti si sentono continuamente ripetere dai consulenti incaricati “il giudice fa quello che dico io, stia attenta”.
Peraltro, i fatti “non contano”, ma solo in modo selettivo: a titolo esemplificativo di tante conclusioni fotocopia contenute nelle relazioni “tecniche”, per spiegare la paura di una bambina a incontrare il padre non rileva se un padre l’ha afferrata per il collo così terrorizzandola, l’ha colpita con un pugno in un occhio, l’ha afferrata e lanciata con violenza sul divano (n.d.r. questo il racconto di una minore sentita nel corso di una consulenza tecnica dinanzi al Tribunale per i minorenni di Roma), mentre diviene centrale l’abbraccio della madre alla figlia al momento del passaggio presso il padre per desumere che l’unica responsabile del rifiuto della minore sia la madre. Con il suo gesto, infatti, secondo la logica e la scienza che guida gli “esperti” della bigenitorialità, la madre condizionerebbe la figlia causando la paura nei confronti del padre. Ed è la madre che dunque è chiamata a doversi mettere in discussione, per lo più in infiniti percorsi di supporto genitoriale che la espongono alle prepotenze mai sopite o sanzionate dell’altro genitore, mai posto dinanzi alle responsabilità (anche penali) delle sue condotte nei confronti della figlia.
Si coglie l’aporia di tutto quanto fin qui descritto se si traspone l’operazione che tante donne subiscono in sede civile e minorile al contesto penale: molte toghe sarebbero deposte in segno di protesta dinanzi a condanne pronunciate non sulla base delle prove dei fatti acquisite, ma esclusivamente sul profilo sociologico e di personalità dell’imputato. Operazione che ripugnerebbe al più moderato dei garantisti, e che peraltro è vietata dall’articolo 220 c.p.p. in quanto eredità del positivismo lombrosiano ripudiato dalla Costituzione e dalla cultura giuridica democratica.
Ancora, si pensi alla psicologia della testimonianza: nel momento in cui si riconoscesse che valutare le deposizioni testimoniali è da ritenersi affare squisitamente "scientifico" (DOMINIONI, La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 73), il giudice non potrebbe astenersi dal disporre perizia, perdendo la capacità di misurarsi con il completo percorso valutativo cui è chiamato dinanzi alle prove testimoniali. È questa la direzione verso la quale la psicologia forense sta facendo pressioni e la riflessione sul prezzo di questa operazione sul processo penale e i suoi capisaldi non è più procrastinabile: il principale effetto della linea di tendenza fin qui tracciata è il progressivo assottigliarsi del "senso comune" (CANZIO, Prova scientifica, ricerca della "verità" e decisione giudiziaria nel processo penale, in AA.VV., Decisione giudiziaria e verità scientifica, cit., p. 71)- cioè del repertorio di conoscenze empiriche umane - come serbatoio delle regole di inferenza da utilizzare nel ragionamento probatorio. Il fenomeno assume talora dimensioni preoccupanti: lo spostamento della linea di confine tra il sapere comune e il sapere specialistico rischia di sottrarre all'organo giudicante competenze valutative e decisionali che riesce difficile non considerare appartenenti al suo esclusivo dominio in ragione dei principi costituzionali che governano l’esercizio della giurisdizione.
È altresì richiesto dai giudici ai consulenti di indicare le modalità di affidamento più adeguate, di indicare professionisti e strutture dove attivare eventuali percorsi ritenuti necessari, spesso private e a pagamento, al di fuori del sistema sanitario nazionale che, ricordiamo, non significa solo gratuità o progressività dei costi da sostenere in base al reddito, ma anche controllo della scientificità degli interventi cui le persone sono sottoposte.
I consulenti in autonomia o sulla base di quesiti concordati con gli ordini professionali nel corso delle operazioni di consulenza si pongono oltre la funzione valutativa del loro intervento perseguendo finalità trasformative dello status quo, ossia delle relazioni familiari.
Per cogliere l’abnormità di questa dimensione dell’incarico conferito ai consulenti in tema di genitorialità, ancora una volta è necessario spostarsi con il ragionamento in altro contesto: tecnicamente è come se al consulente tecnico incaricato di accertare le cause del crollo di un ponte si delegasse tanto l’accertamento della sussistenza dei presupposti giuridici per decidere sulla responsabilità civile delle parti convenute nel giudizio, quanto l’intervento necessario alla sua riparazione o si autorizzassero i consulenti a indicare ingegneri, architetti e operai cui affidare la ricostruzione, costringendo le parti (per esempio il Comune insieme alla società responsabile della gestione del tratto di strada), ad avvalersi del personale indicato con minacce di perdita rispettivamente della natura di ente locale e della possibilità di continuare a gestire il tratto di strada una volta ricostruito il ponte.
3. Quale rapporto tra Stato e società è sotteso a una giurisprudenza di merito che impone la relazione paterna con l’uso della coercizione fisica?
Nella pratica giudiziaria ancora si ritiene di tutelare astrattamente una bigenitorialità intesa quale componente imprescindibile del superiore interesse dei minori e condizione del loro equilibrio psicofisico, per tradursi, in concreto, nella sola verifica del materiale “accesso” di un genitore ai figli (per lo più il padre), in un contesto nel quale l’altro genitore (di solito la madre) ha chiesto protezione per sé e/o i figli da condotte di violenza psicologica e/o fisica del padre ovvero nel caso in cui i figli manifestino disagio, fino al totale rifiuto di incontrare l’altro genitore.
Il rifiuto o disagio dei minori non viene approfondito ricorrendo agli ordinari mezzi di prova e al loro ascolto diretto per indagare gli eventi traumatici riconducibili al genitore nei confronti del quale il minore esprime una paura tale da precludere una frequentazione serena.
Per porre rimedio ai danni che deriverebbero, secondo la prospettiva veicolata dalla psicologia forense in sede giudiziaria, da una società “senza padre” e quindi senza “norma”, si prescrive l’intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma proprio dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, che da strumento eccezionale di prevenzione di un pregiudizio concreto e grave, diviene ordinario mezzo di coercizione e sanzione del comportamento di un genitore che si assume non collaborativo nei confronti dell’altro, (per lo più le donne) e di “terapia” volta a ristabilire la relazione tra i figli e il genitore rifiutato.
Ebbene, in questi termini, si ingenera un paradosso che smaschera la completa estraneità all’ordinamento giuridico della prospettiva perseguita dalla giurisprudenza di merito: mentre un minore viene ridotto sempre più spesso a res di un’esecuzione assistita dalla forza pubblica, con autorizzazione a rimuovere ogni ostacolo all’esecuzione dei provvedimenti[1], nei confronti degli adulti si chiarisce che la frequentazione del figlio secondo i tempi e le modalità definite dal giudice della crisi familiare non è suscettibile di esecuzione diretta (in forma specifica), perché non è ipotizzabile che un terzo estraneo possa sostituirsi al genitore. Trattandosi, infatti, di un dovere funzionale allo scopo di garantire al figlio attenzioni, cura ed affetto, non è ipotizzabile, e giustamente, che il genitore possa essere coartato, mediante il meccanismo di cui all’art. 614 bis c.p.c., ad un rapporto che implica un coinvolgimento anche affettivo; si ritiene che la misura coercitiva potrebbe anzi essere finanche dannosa perché il genitore, per sottrarsi alla minaccia di dover pagare una somma di denaro, potrebbe prendere il figlio con sé senza averne cura[2].
La misura dell’allontanamento forzoso dei minori dal genitore di riferimento si traduce nei confronti del minore proprio in una coercizione della relazione affettiva preclusa nei confronti dell’adulto, mentre si ignora la paura del minore nei confronti del genitore presso il quale deve essere trasferito contro la sua volontà o che comunque rifiuta, anche allorché questo stato d’animo rivela in concreto la non corrispondenza tra l’interesse preminente da tutelare e il provvedimento adottato[3].
Sul tema appare significativa risalente giurisprudenza che, dando prova di un esercizio della giurisdizione civile e minorile capace di ascolto autentico e di vicinanza alla materialità della vita delle persone, comprese i minori, sui quali i provvedimenti hanno effetto, in presenza di obbligo di consegna del minore contro la volontà di quest'ultimo, a fronte del rifiuto, decideva per la sospensione del processo rimettendo la questione al giudice della cognizione[4], ovvero ha dichiarato l'incoercibilità degli obblighi di fare riguardanti la consegna di minori, se risulti provato che la separazione dei minori dai precedenti affidatari di fatto provocherebbe loro danni gravissimi sul piano dell'equilibrio psicofisico[5].
L’allontanamento coatto del figlio dal genitore di riferimento è eseguito attualmente secondo prassi operative contra legem, come chiarito dalla Corte Suprema nell’ordinanza n. 9691/2022, che sono il risultato della combinazione sproporzionata di più istituti, da quelli del testo unico di pubblica sicurezza fino a quelli del codice di procedura penale, in un’escalation provvedimentale dell’autorità giudiziaria minorile che perde di vista il bambino/la bambina e i suoi diritti e libertà fondamentali, per perseguire esclusivamente la tutela dell’autorità delle decisioni giudiziarie e l'interesse all'esecuzione delle sentenze e dei provvedimenti con mezzi e modalità sproporzionate e irragionevoli non consentite neppure in sede di esecuzione della pena.
La compressione dei diritti fondamentali del minore perdura successivamente per un tempo non determinato dalla legge e neppure dall’autorità giudiziaria che, in presenza del rifiuto del minore nei confronti dell’altro genitore, integra l’allontanamento con la “misura accessoria” del collocamento in struttura residenza extra-familiare e con divieto, anche sine die, di frequentazione e contatto del genitore da cui sono allontanati, in una condizione di totale isolamento da tutto ciò che era parte della dimensione esistenziale pregressa, con una limitazione della libertà personale illegittima mascherata da “protezione del minore”, lasciato senza nessun’autentica opportunità di contatto con soggetti terzi rispetto a coloro che sono coinvolti nella definizione dell’intervento recepito dall’autorità giudiziaria e nell’attuazione stessa del provvedimento giudiziario.
La lettura sistematica delle disposizioni invocate dall’autorità giudiziaria per giustificare la decisione dell’allontanamento forzoso del minore dal genitore di riferimento contro la volontà del minore e per presunte condotte di plagio, in un ordinamento che ha espunto la corrispondente fattispecie incriminatrice per illegittimità costituzionale, restituisce una grave e diffusa compressione della libertà personale, del diritto alla salute e al rispetto della vita privata e familiare nei confronti dei figli minorenni, ma anche del genitore dal quale il minore viene allontanato, in particolare sotto il profilo di una sistematica violazione del principio di riserva di legge, ma anche una violazione di fatto della riserva di giurisdizione. Dalla disamina della giurisprudenza di merito più recente emerge, infatti, che l’allontanamento viene adottato al di fuori dei casi previsti dalla legge con un’interpretazione analogica della nozione di comportamento maltrattante nei confronti dei figli che la legge pone a fondamento dell’adozione della misura di allontanamento dalla casa familiare, includendovi il costrutto ascientifico dell’alienazione parentale. La misura, inoltre, è posta in esecuzione mediante una coercizione psicologica e fisica ai danni del minore, condotta che di per sé costituisce una forma di violenza che viola gli articoli 13 e 32 Cost. e l’articolo 3 CEDU.
L’esecuzione coatta nei confronti dei minori della misura dell’allontanamento dalla casa abituale di residenza e dal genitore di riferimento contro la volontà del minore, destinatario di coazione psicologica e fisica, integra violazione dell’articolo 3 CEDU, in quanto risulta raggiungere un livello severo di gravità all’esito della valutazione intrinsecamente relativa delle circostanze del caso.
Tra le circostanze oggetto di valutazione ai fini della sussistenza di una violazione dell’articolo 3 CEDU sono da intendersi compresi innanzitutto l’età del destinatario della misura, le sue condizioni psicofisiche, la natura e il contesto del trattamento, il modo in cui se ne prospetta l’esecuzione (con ausilio delle forze di polizia e coattivamente contro la volontà del minore), la sua durata (sine die), i suoi effetti fisici e mentali. Anche se le autorità che hanno disposto la misura giustificano l’esecuzione coatta di un allontanamento che terrorizza il bambino motivandola con la finalità di ristabilire l’accesso del padre al figlio in attuazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 CEDU, questa motivazione non esclude una violazione dell'articolo 3 nei confronti del minore coinvolto (si veda la sentenza Peers c. Grecia, no 28524/95, § 67, CEDH 2001-III, § 74, nella parte in cui si legge che non esclude la violazione dell’art. 3 l’assenza di finalità denigratorie). Non si può trascurare, inoltre, che la Corte di Strasburgo ha evidenziato che nei casi che riguardano questioni di collocamento dei bambini e di restrizioni di accesso, gli interessi del bambino devono prevalere su tutte le altre considerazioni[6] e deve essere esercitata la massima cautela quando si ricorre alla coercizione in questo settore delicato[7]. È la stessa Corte a rammentare che il fatto che gli sforzi delle autorità a ristabilire una relazione genitore-figlio siano stati vani non porta automaticamente a concludere che lo Stato si è sottratto agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, dal momento che l’obbligo per le autorità nazionali di adottare misure per riunire il figlio e il genitore con cui non convive non è assoluto, la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate costituiscono sempre un fattore importante e i tribunali per ripristinare i rapporti genitore-figlio possono adottare solo misure "ragionevoli" agendo con la massima prudenza; dinanzi alla volontà di un minore, quest’ultimo non può essere costretto con la forza ad allacciare una relazione genitoriale che rifiuta e dinanzi a ciò non può essere invocata la violazione dell'art.8 della Convenzione EDU (cfr. C. EDU Spano c. Italia, 2020).
Di certo, inoltre, l’obbligo positivo derivante dall’articolo 8 CEDU non può tradursi nell’attuazione di misure che violano l’obbligo di astensione da trattamenti inumani e degradanti vietati dall’art. 3 CEDU. E infatti, se le autorità nazionali devono sforzarsi di agevolare la collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di tutte le persone coinvolte, in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti allo stesso dalla Convenzione[8]. In quest’ottica, l’asserito esercizio dell’articolo 8 della Convenzione non può autorizzare neppure un genitore a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio[9].
Ciò che invece si rileva nelle prassi diffuse sul territorio è che i minori sono esposti a trattamenti inumani e degradanti al di fuori di ogni ragionevole bilanciamento delle posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte dei genitori con il loro superiore interesse, concetto che rimane vuota formula, dal momento che si ignora l’impatto delle misure disposte di volta in volta sul «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.), avvalendosi finanche dell’ausilio di personale medico-sanitario al di fuori dei rigorosi confini tracciati dalla legge n. 833 del 1978.
[1] Tribunale di Pisa, 8 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 4 giugno 2021; Tribunale per i minorenni di Roma, 26 luglio 2021. Ciò si traduce in concreto in dispiegamento di forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco, porte abbattute e immobilizzazione delle persone presenti e impossibilità di contatto alcuno, neppure un saluto di commiato tra figlio e genitore.
[2] Cass. 6 marzo 2020, n. 6471, in Foro it., fasc. 7, 2020.
[3] Sul punto Corte di appello di Roma, 3 gennaio 2021, n. 2: «non appare realistico presumere che la paura [del bambino], e la paura della madre che [il bambino] mostra di avere recepito, possano essere superate imponendo il suo allontanamento dalla sua casa e dai suoi affetti ed un collocamento coattivo in casa del padre. [il bambino] si troverebbe così […] incastrato nella duplice sofferenza di un drastico quanto per lui incomprensibile sradicamento dal proprio ambiente e dai propri affetti, e di una esposizione forzosa ad una situazione per lui fonte di ansia e paura e comunque estranea».
[4] Pret. Parma 3 aprile 1984, in Giur. mer., 1985, 1100, con nota di L. Oddiz, L'esecuzione coattiva ex art. 612 c.p.c.
[5] Pret. Palermo 16 aprile 1987, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1988, 1057,
[6] Strand Lobben e altri c. Norvegia [GC], no. 37283/13, § 204, 10 settembre 2019)
[7] Mitrova e Savik c. ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, n. 42534/09, § 77, 11 febbraio 2016, e Reigado Ramos c. Portogallo, n. 73229/01, § 53, 22 novembre 2005
[8] Voleský c. Repubblica ceca, n. 63267/00, § 118, 29 giugno 2004.
[9] Elsholz c. Germania [GC], n. 25735/94, §§ 49 50, CEDU 2000 VIII.
Il necessario contraddittorio col privato nell’esercizio dei poteri discrezionali: l’efficacia invalidante del preavviso di rigetto (nota a Cons. St., Sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa: l’efficacia invalidante dell’omesso invio del preavviso di rigetto. – 2. Il caso di specie. – 3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020. – 4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Una breve premessa: l'efficacia invalidante dell'omesso invio del preavviso di rigetto.
La sentenza si inserisce nell’ambito della problematica relativa all’annullabilità del provvedimento adottato in assenza del dovuto preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/1990. Antecedentemente alla riforma dell’art. 10-bis ad opera del d.l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), si discuteva se, in caso di omissione dell’invio di tale comunicazione, il provvedimento così adottato dovesse considerarsi ex se illegittimo o se residuasse uno spazio di applicazione del disposto dell’art. 21-octies, comma 2, prevedente la disciplina dei c.d. vizi non invalidanti. Più precisamente la giurisprudenza si interrogava sulla possibilità di assimilare il preavviso di rigetto alla comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’applicazione della seconda parte della succitata disposizione, secondo la quale il provvedimento amministrativo non è (comunque) annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. A risolvere tale contrasto è intervenuto il citato d.l. n. 76/2020, il quale ha precisato che «La disposizione di cui al secondo periodo [dell’art. 21-octies, comma 2] non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». La pronuncia in commento, recettiva di tale nuovo regime differenziato del preavviso di rigetto in termini di efficacia invalidante, contiene anche delle interessanti precisazioni sulla natura della modificata normativa, che viene ritenuta applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento.
2. Il caso di specie.
La sentenza in commento origina dal complesso svolgimento di un provvedimento disciplinare a carico di un carabiniere condannato in sede penale per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente. La sanzione della perdita del grado veniva annullata per ben due volte prima di essere ritenuta legittima dal competente Tribunale Amministrativo Regionale. Una volta intervenuta la riabilitazione, il carabiniere chiedeva di essere reintegrato in servizio e, in mancanza di una risposta da parte dell’amministrazione, presentava un nuovo ricorso al T.A.R. per l’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla sua istanza. Nelle more della definizione del giudizio avverso il silenzio, l’amministrazione resistente respingeva l’istanza di reintegrazione in servizio per la gravità dei fatti commessi e il pregiudizio arrecato all’Arma dei Carabinieri. Avverso tale provvedimento (e avverso i pareri presupposti) veniva proposto ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del quale, tra i motivi dedotti, veniva eccepita la violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990 per la mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Il giudice di prime cure, però, non accoglieva le censure proposte dal ricorrente che, a questo punto, le reiterava in appello per contestare l’illegittimità della sentenza di primo grado. Il Consiglio di Stato, investito della questione, ha capovolto la sentenza del giudice di prime cure ritenendo l’appello fondato limitatamente al motivo relativo alla violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
3. La disciplina del preavviso di rigetto alla luce del d.l. n. 76/2020.
La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza è un istituto di partecipazione procedimentale introdotto nella legge sul procedimento amministrativo dall’art. 6, l. n. 15/2005, che ha introdotto l’art. 10-bis nella l. n. 241/1990, poi modificato dalla l. n. 180/2011 e da ultimo riformato in maniera significativa dal d.l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020[1].
L’istituto è stato ribattezzato da dottrina e giurisprudenza “preavviso di diniego” o “preavviso di rigetto”[2] e prevede l’obbligo per la pubblica amministrazione, prima di respingere l’istanza presentata da un privato, di indicare allo stesso i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza presentata, ai fini di concedere all’interessato un termine di dieci giorni per presentare le proprie osservazioni (eventualmente corredate da documenti) che andranno valutate dalla pubblica amministrazione, la quale dovrà indicare le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle stesse nel provvedimento finale (ragioni tra le quali non possono rientrare inadempienze o ritardi attribuibili alla pubblica amministrazione). Il preavviso di rigetto non si applica alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali[3].
Con il d.l. n. 76/2020 (così come convertito dalla l. n. 120/2020)[4], l’istituto ha subito un’incisiva rivisitazione che si può riassumere in quattro modifiche[5].
La prima modifica consiste nel mutamento degli effetti della comunicazione sulla possibile durata del procedimento, poiché la stessa diviene definita come causa di “sospensione” e non di “interruzione” del termine di conclusione del procedimento, che riprende a decorrere una volta presentate le osservazioni (o decorso il termine di dieci giorni per proporle) nella misura pari a quella residua[6].
La seconda modifica riguarda l’intensità dell’obbligo motivazionale sulle osservazioni presentate dai privati in riscontro al preavviso di rigetto. Nella nuova formulazione della disposizione è stato specificato in modo più puntuale che la pubblica amministrazione “è tenuta” a spiegare quali sono le motivazioni che hanno portato a non accogliere le osservazioni presentate (confermando il diniego) indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza di tali osservazioni[7].
Il terzo aspetto inciso dalla riforma riguarda i limiti che il preavviso di rigetto può imporre nei confronti della riedizione del potere a seguito di annullamento in giudizio del provvedimento adottato in assenza della comunicazione di cui all’art. 10-bis. Il legislatore, infatti, inserendo ex novo un periodo nel corpo della disposizione, prevede che, nel caso in cui un provvedimento preceduto dal preavviso di rigetto sia annullato in giudizio, la pubblica amministrazione a cui spetti il riesercizio del potere, non possa addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del procedimento annullato. La pubblica amministrazione, pertanto, nell’adottare il nuovo provvedimento sarà limitata sia dalla sentenza giurisdizionale di annullamento, che dagli elementi di fatto e di diritto relativi alla prima istruttoria ed emergenti nel preavviso di rigetto[8].
La quarta modifica concerne l’efficacia invalidante dell’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, per effetto della quale, alla fine della disposizione dell’art. 10-bis, è stata aggiunta la specificazione che il secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2 non si applica al provvedimento adottato in violazione della normativa sul preavviso di rigetto. Per un’adeguata comprensione di detta modifica, che riguarda specificamente la sentenza in commento e sulla quale si ritornerà appresso, pare opportuno fornire preliminarmente qualche breve cenno sulla disciplina dell’art. 21-octies, comma 2 e sulla categoria dei c.d. vizi non invalidanti.
4. La categoria dei vizi non invalidanti: le due diverse ipotesi dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
Con l’espressione “vizi non invalidanti” si intendono quei vizi formali che, a determinate condizioni, non comportano l’annullamento del provvedimento illegittimo[9]. Essi costituiscono l’espressione del c.d. principio della dequotazione dei vizi procedimentali, secondo il quale un provvedimento affetto da un vizio di forma o del procedimento non deve essere annullato quando il vizio non influisca sul contenuto dispositivo del provvedimento.
La categoria dei vizi formali del procedimento ha trovato una sua prima codificazione con l’emanazione del correttivo del 2005 alla legge sul procedimento amministrativo e precisamente con l’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2 dell’art. 241/1990, che ha introdotto due diverse tipologie di provvedimenti sottratti alla sanzione dell’annullamento: a) il provvedimento vincolato affetto da vizi procedimentali o formali (primo periodo); b) il provvedimento viziato da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo)[10].
L’ipotesi di cui al primo periodo si applica solo ai provvedimenti vincolati, concerne tutti i vizi formali e procedimentali e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere palese; l’ipotesi di cui al secondo periodo si applica sia ai provvedimenti vincolati che discrezionali, concerne il solo vizio dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento e il fatto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso deve essere dimostrato in giudizio dalla pubblica amministrazione[11].
Il legislatore, con l’art. 21-octies, sembra aver recepito il criterio del mancato interesse a ricorrere: il privato non ha interesse a far valere un vizio che non ha influito sul contenuto dispositivo del provvedimento in quanto la vittoria che otterrebbe attraverso la caducazione di quell’atto sarebbe una “vittoria di Pirro”, ossia apparente e meramente provvisoria poiché l’amministrazione potrebbe riadottare un atto emendato dal vizio procedimentale e dello stesso contenuto di quello annullato[12].
Più di recente la norma è stata completata con l’aggiunta di cui all’art. 12, lett. i) del d.l. n. 76/2020 (convertito in legge n. 120/2020) che ha aggiunto, in coda al secondo periodo, la specificazione che «La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis». Viene così risolto, per via legislativa, il dibattito giurisprudenziale, precedentemente insorto, in merito all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) al caso dell’omesso invio della comunicazione del preavviso di rigetto[13].
5. I dicta della sentenza: l’efficacia invalidante dell’omesso preavviso di rigetto e il carattere processuale dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990.
La sentenza in commento costituisce un’applicazione della modifica legislativa apportata con il d.l. n. 76/2020 e si pone in contraddizione col prevalente orientamento giurisprudenziale che, prima di tale modifica, ammetteva l’estensione dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omessa comunicazione del preavviso di rigetto[14].
Secondo il Collegio, infatti, con la succitata riforma è stata esplicitata una netta distinzione tra il regime giuridico da applicare al caso di omissione della comunicazione di avvio del procedimento e quello di omissione del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte. Mentre nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 7 si potrà applicare l’ipotesi di cui al secondo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, nel caso di omissione della comunicazione di cui all’art. 10-bis, potrà trovare applicazione solo la prima parte dell’art. 21-octies, comma 2, che concerne i vizi formali e procedimentali relativi ai soli provvedimenti vincolati.
Per verificare l’efficacia invalidante (o meno) dell’omissione del preavviso di rigetto, pertanto, dopo la riforma risulta centrale la verifica della sussistenza di un potere discrezionale, in presenza del quale non sono applicabili i meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti per la violazione delle norme sul procedimento dall’art. 21-octies, comma 2, in caso di mancato invio del preavviso di rigetto[15].
Nel caso di specie viene affermata la pacifica natura discrezionale del potere esercitato, attraverso il richiamo di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare che emana provvedimenti sanzionatori nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare[16].
Il Collegio, infine, richiama anche quella giurisprudenza secondo la quale la disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, andrebbe qualificata come norma di carattere processuale[17]. La stessa, pertanto, deve essere applicata anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (in base al principio del tempus regit actum) e, dunque, anche ai procedimenti antecedenti alla sua entrata in vigore, come quello che interessa il caso di specie, ove, nel caso di omissione del preavviso di rigetto, resta preclusa all’amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[18].
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
A prescindere dalla condivisibilità o meno dell’intervento normativo di riforma dell’art. 21-octies, comma 2, si deve rilevare come la pronuncia in commento sia coerente con la vigente formulazione della norma che non sembra lasciare spazio a interpretazioni estensive, per effetto delle quali il secondo periodo del succitato comma 2 sarebbe applicabile anche al caso di omesso invio della comunicazione di cui all’art. 10-bis. A tale omissione – che va pacificamente qualificata come una violazione di “norme sul procedimento” – rimane, invece, applicabile il primo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, la cui applicazione è limitata ai provvedimenti vincolati[19].
Per verificare se l’omesso invio del preavviso di rigetto sia da considerarsi un vizio invalidante o meno, pertanto, in primo luogo occorrerà indagare se il potere esercitato possa considerarsi discrezionale e, in secondo luogo, sarà necessario verificare se sussistono gli altri requisiti per l’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, che è l’unica norma in grado di “sanare” detto vizio.
In caso contrario, ossia in caso di annullamento del provvedimento per la mancanza del preavviso di rigetto, la pubblica amministrazione sarà “libera” di riesercitare il suo potere nei limiti del principio del c.d. one shot temperato e nel rispetto dell’eventuale effetto conformativo desumibile dalla sentenza di annullamento del primo provvedimento.
La sentenza in commento è di sicuro interesse anche nella parte in cui afferma la natura processuale dell’art. 21-octies, comma 2, poiché, inserendosi senza soluzione di continuità nel solco della prevalente giurisprudenza sul punto, consente di definire in senso ampliativo il perimetro applicativo della disposizione nella sua attuale formulazione[20].
Sul punto, però, non appare destituita di fondamento l’impostazione di chi valorizza la natura sostanziale dell’istituto, richiamando il disposto dell’art. 21-nonies, comma 1, il quale vieta alla pubblica amministrazione di annullare il provvedimento amministrativo nei casi previsti dall’art. 21-octies, comma 2, dando un’evidente rilevanza extra-processuale alla norma[21].
Nella consapevolezza che il dibattito sulla natura giuridica dell’art. 21-octies, comma 2 riguarda entrambe le ipotesi in esso contenute, a parere di chi scrive, si potrebbe provare a ipotizzare una distinzione tra i due diversi periodi del comma 2[22]. Se, infatti, il secondo periodo ha un carattere marcatamente processuale, dato che la non annullabilità del provvedimento è condizionata dalla dimostrazione “in giudizio” del fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, altrettanto non può dirsi per il primo periodo dove la non annullabilità per vizi formali è correlata alla circostanza che “sia palese” che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso[23].
[1] Tra i tanti contributi relativi all’art. 10-bis, l. n. 241/1990 si vedano: L. FERRARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10 bis, legge n. 241/1990) nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in AA.VV., Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, vol. II, 83 ss.; A. RALLO, Comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. 241/90 e partecipazione post-decisionale: dal contraddittorio oppositivo al dialogo sul possibile, in AA.VV., Scritti in onore di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, vol. II, 1080 ss.; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al “preavviso di rigetto”, in Dir. amm., 2005, 1003 ss.; S. TARULLO, L’art.10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it., 2005; E. FREDIANI, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, p. 1005 ss.; C. VIDETTA, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. TAR, 2006, p. 837 ss.; S. FANTINI, Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, p. 1388 ss.; F. SAITTA, Preavviso di rigetto ed atti di conferma: l’errore sta nella premessa, in Foro amm. TAR, 2008, 3235 ss.; F. TRIMARCHI BANFI, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, p. 353 ss.; P. LAZZARA, La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 386 ss.; G. TROPEA, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive ed approdi, in Dir. proc. amm., 2017, p. 1235 ss.; D. VAIANO, Il preavviso di rigetto, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 641 ss.; P. CHIRULLI, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, p. 291 ss.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, in Dir. econ., n. 2/2021, p. 25 ss.; M. BROCCA, Il preavviso di rigetto e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130), in Giustizia insieme, 25 febbraio 2021; M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 12/2022, p. 126 ss.
[2] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, in www.ambientediritto.it, n. 4/2020, è preferibile «utilizzare l’appellativo “preavviso di diniego” perché si tratta per l’amministrazione di valutare un’istanza in un procedimento amministrativo in cui vi è cura diretta dei diversi interessi pubblici, mentre normalmente il termine “rigetto” si utilizza quando si tratta di accogliere o rigettare un ricorso in un procedimento amministrativo di secondo grado». Viene, però, rilevato come la giurisprudenza utilizzi alternativamente entrambe le nozioni. Infatti, l’istituto è qualificato sia come preavviso di diniego (ex multis Cons. St., Sez. II, 09.12.2020, n. 7841, in www.giustizia-amministrativa.it) sia come preavviso di rigetto (ex multis Cons. St., Sez. III, 5.12.2019, n. 8341, in www.giustizia-amministrativa.it).
[3] L’inciso della disposizione prevedente tali esclusioni era stato eliminato dal d.l. n. 76/2020, ma è stato reinserito in sede di conversione con la legge n. 120/2020.
[4] Per una sintesi delle principali misure contenute nel d.l. n. 76/2020 si rinvia a: M. MACCHIA, Le misure generali, in Giorn. dir. amm., n. 6/2020, p. 727 ss.
[5] Per un approfondimento sull’ultima riforma dell’istituto si rinvia ai contributi di: G. SERRA, Brevi note in merito alla riforma dell’art. 10 bis della L. n. 241/1990 ad opera del c.d. Decreto Semplificazioni (D.L. n. 76/2020), in www.lexitalia.it, n. 6/2020; F. FRACCHIA - P. PANTALEONE, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in www.federalismi.it, n. 36/2020, p. 33 ss.; G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit.; M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit.; L. FERRARA, La preclusione procedimentale dopo la novella del preavviso di diniego: alla ricerca di un modello di rapporto e di giustizia, in Dir. amm., 2021, 573 ss.
[6] Sul dovere di concludere il procedimento si segnala per tutti: A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 273 ss., a cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti giurisprudenziali. Sulle più recenti novità in materia di conclusione del procedimento si segnala pure: A. BARTOLINI, Il termine del procedimento amministrativo tra clamori di novità ed intenti di pietrificazione, in Giustizia insieme, 27 luglio 2021. Sebbene la disposizione del 10-bis, l. n. 241/1990 anteriormente 2020, parlasse esplicitamente di “interruzione”, una parte della dottrina aveva rilevato qualche perplessità sul punto, evidenziando come, nonostante il dato testuale, non fosse chiaro se il legislatore volesse introdurre un termine interruttivo o sospensivo (in tal senso vedasi: S. TARULLO, L’art. 10-bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit. e G. CREPALDI, La sospensione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo, in Foro amm. C.d.S., 2007, p. 108 ss.). La giurisprudenza, invece, anteriormente alla modifica normativa del 2020, si è pronunciata in maniera pressoché uniforme a favore della natura interruttiva del termine (in tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. VI, 25 novembre 2019, n. 8017 e Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859, in www.giustizia-amministrativa.it).
[7] Secondo G. MILO, Il preavviso di diniego dopo la legge n. 11 settembre 2020 n. 120, cit., pp. 7-8, «la disposizione precisa, … in contrasto con quanto fino ad ora affermato dalla giurisprudenza, che i motivi ostativi indicati nel preavviso di diniego devono coincidere con quelli posti a fondamento del successivo provvedimento negativo che potrà essere integrato soltanto da considerazioni che sono la conseguenza delle osservazioni. … Il preavviso di diniego pertanto delimita, in modo vincolante, le ragioni ostative che possono condurre ad un provvedimento finale negativo per il privato». In senso conforme, M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 147-148, precisa che «Ciò non vuol dire, ovviamente, che deve sussistere un rapporto di perfetta identità tra il preavviso di rigetto e l’atto conclusivo del procedimento, né una corrispondenza piena tra i due atti, ben potendo l’Amministrazione meglio precisare nel provvedimento la propria determinazione, sempreché il contenuto del diniego si inscriva nello stesso schema delineato dalla comunicazione ai sensi dell’art. 10- bis».
[8] Le dimensioni del presente contributo non consentono di affrontare il tema nel quale si inserisce la presente disposizione che riguarda il bilanciamento tra il principio dell’inesauribilità del potere amministrativo e quello dell’effettività della tutela del privato (sull’inesauribilità del privato si rinvia a M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018). Questa disposizione, infatti, va contestualizzata nell’ambito di quella giurisprudenza secondo la quale l’amministrazione, dopo aver subito l’annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo per una sola volta riesaminando la controversia nella sua interezza nel rispetto del giudicato formatosi (c.d. principio dell’one shot temperato). Sul tema si rinvia a: E. TRAVERSA, Il principio del one shot temperato tra effettività della tutela e inesauribilità del potere amministrativo, in Giur. it., 2017, 1672 ss. Sui rapporti tra il nuovo art. 10-bis e il principio del c.d. one shot temperato si rinvia alle considerazioni svolte da M.R. CALDERARO, Il preavviso di rigetto ai tempi della semplificazione amministrativa, cit., pp. 152-156, secondo il quale (p. 155) «la novella dell’art. 10-bis sembra, più che introdurre un principio di one shot assoluto, conformarsi all’orientamento giurisprudenziale maggioritario dell’one shot temperato. Non si è, difatti, dinnanzi ad un caso ove l’Amministrazione può pronunziarsi una sola volta in modo negativo sull’istanza del privato, prescrivendo, invece, il nuovo periodo dell’art. 10-bis, che, una volta intervenuto l’annullamento giurisdizionale del provvedimento di diniego, illegittimo perché magari insufficientemente motivato quanto al non accoglimento delle osservazioni presentate dal privato a seguito del c.d. preavviso di rigetto, l’Amministrazione debba decidere la fattispecie nella sua interezza, esercitando una volta per tutte il suo potere in modo conforme al giudicato e non basando un eventuale ulteriore provvedimento di diniego su circostanze e ragioni già emerse nella fase istruttoria e che sono state o avrebbero dovuto essere comunicate all’interessato». Sulla tematica del riesercizio del potere (pur declinata con riferimento all’introduzione dell’art. 21-decies, l. n. 241/1990) si vedano le considerazioni di: C.E. GALLO, La riemissione del provvedimento amministrativo, in Giustizia insieme, 22 ottobre 2021.
[9] Per un inquadramento generale della categoria si vedano: F. LUCIANI, Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003; D.U. GALETTA, Violazione di norme sul procedimento amministrativo e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003; A. POLICE, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm. 2003, p. 780 ss.; F.G. SCOCA, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in V. PARISIO (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, p. 55 ss.
[10] In questi termini: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, in Riv. Corte conti, n. 6/2020, pp. 62-63.
[11] Per un’analisi più approfondita dell’art. 21-octies, l. n. 241/1990, sulla sua portata applicativa e sul rapporto tra i due diversi periodi della disposizione si rinvia a P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, Milano, 2015.
[12] In tal senso R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, pp. 1150-1151, il quale precisa che «Mostrando, quindi, di concepire il giudizio amministrativo come un giudizio non (tanto) sull’atto, ma (soprattutto) sul rapporto, il legislatore pone ora la regola secondo cui, se dalla sentenza di annullamento può derivare solo un effetto caducatorio, ma nessun effetto conformativo, il provvedimento deve rimanere in vita, perché il privato non ha alcun interesse per caducarlo».
[13] Anteriormente a tale modifica normativa, in giurisprudenza si erano formati due diversi orientamenti contrapposti in merito alla possibilità di estendere la particolare sanatoria processuale dell’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche all’omesso invio del preavviso di rigetto (oltre alla mancata comunicazione di avvio del provvedimento). Secondo un primo orientamento (maggioritario e richiamato nella sentenza in commento), che professava la sussistenza di un’identità di funzione tra la comunicazione dell’art. 7 e quella dell’art. 10-bis, sarebbe poco logico che la violazione del preavviso di rigetto sia sanzionata più gravemente della omissione del contraddittorio procedimentale (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4127, in www.giustizia-amministrativa.it). Secondo un opposto orientamento (minoritario), invece, non sarebbe possibile applicare estensivamente l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo) anche al caso di omesso preavviso di rigetto in assenza di un esplicito riferimento normativo in tal senso (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 17 gennaio 2011, n. 256, in www.giustizia-amministrativa.it). Per un approfondimento su questo contrasto si segnala P. PROVENZANO, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo, cit., p. 193 ss., a cui si rinvia per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali sulle due opposte posizioni.
[14] Il Collegio ricorda come l’art. 21-octies, comma 2 (secondo periodo), in base alla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (antecedente alla riforma), veniva ritenuto applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto, citando a tal proposito: Cons. St., Sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948 e Cons. St., Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[15] In caso di omesso preavviso di rigetto nell’ambito di un procedimento avente carattere discrezionale, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica per l’espressa esclusione legislativa, mentre il primo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies non si applica perché lo stesso riguarda esplicitamente soltanto i provvedimenti vincolati. Il collegio, sul punto, richiama un precedente analogo della Sezione III: Cons. Stato Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Per il Collegio il carattere discrezionale del potere esercitato è desumibile dalla previsione testuale dell’art. 872, comma 3, c.o.m., che fa riferimento alla reiezione “nel merito” della istanza di reintegrazione. Infatti, «la riabilitazione in sede penale costituisce solo uno dei presupposti del provvedimento di reintegrazione in servizio, il quale resta attribuito ad una scelta di carattere discrezionale dell’Amministrazione». Sul punto viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 44, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale sussiste una discrezionalità valutativa dell’amministrazione militare anche nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare, poiché spetta all’amministrazione valutare, anche in tali casi, se la concessione della reintegrazione risponda effettivamente non soltanto alle aspirazioni del militare riabilitato in sede penale, ma anche all’interesse pubblico di settore, in particolare con un apprezzamento in ordine alla riacquisizione da parte dell’interessato di quelle spiccate qualità morali che sono richieste per ogni appartenente al corpo.
[17] Si discute, in dottrina e in giurisprudenza, sulla natura dell’art. 21-octies, comma 2. Secondo una prima tesi (rimasta minoritaria in giurisprudenza), alla norma dovrebbe essere data una valenza sostanziale poiché la situazione di “non annullabilità” sarebbe già presente in un momento precedente rispetto a quello compiuto dal giudice non essendo condizionata dalla vicenda processuale successiva (Cons. St., Sez. V, 19 marzo 2007, n. 1307, in www.giustizia-amministrativa.it). In tal senso in dottrina si vedano i contributi di D. SORACE, Il principio di legalità e i vizi formali dell’atto amministrativo, in Dir. pubbl., 2007, p. 385 e N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64. Secondo un’opposta tesi (prevalente almeno in giurisprudenza), la norma avrebbe natura processuale perché non inciderebbe sulla struttura del vizio, ma individuerebbe una speciale fattispecie della carenza di interesse a ricorrere. Con riferimento alla consolidata giurisprudenza che qualifica come processuale la norma dell’art. 21-octies, comma 2, nella sentenza in commento vengono richiamate le recenti pronunce del Consiglio di Stato: Cons. St., Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; Cons. St., Sez. II, 9 gennaio 2020, n. 165; Cons. St., Sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; Cons. St., Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359; tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] A tal proposito viene citata: Cons. St., Sez. III, 22 ottobre, 2020, n. 6378, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Non si può che concordare coi rilievi critici formulati dalla dottrina sull’indeterminatezza dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo. Secondo M.R. SPASIANO, Nuovi approdi della partecipazione procedimentale nel prisma del novellato preavviso di rigetto, cit., p. 50, «In termini generali l’art. 21-octies è norma sostanzialmente sgradevole sotto molteplici profili: basti solo considerare quanto sia terminologia vana, oggi più che nel passato, trattare di “attività vincolata”. Esiste davvero un’attività vincolata in assoluto? E i tanti provvedimenti a natura vincolata che vengono poi corroborati da condizioni, imposizioni, divieti, ampliamenti assolutamente non previsti dalla norma non dovrebbero forse indurre a ritenere non più rinvenibile la categoria degli atti assolutamente vincolati? Non sarebbe più corretto ai fini dell’applicazione del 21-octies, comma 2, prima parte, non fare riferimento all’individuazione di attività vincolata, quanto al contenuto dispositivo del provvedimento e alla impossibilità di addivenire ad una determinazione anche solo in minima parte diversa da quella assunta?».
[20] R. GIOVAGNOLI, I vizi formali e procedimentali, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., p. 1161-1162, ci ricorda come la questione sul carattere processuale o sostanziale dell’art. 21-octies «non è di carattere meramente teorico, in quanto dalla sua soluzione dipendono la delimitazione dell’ambito di applicazione della norma sia nel tempo che nello spazio. In particolare, sotto il profilo temporale, il riconoscimento della natura processuale comporta l’applicabilità della norma anche ai giudizi in corso … Per quel che concerne, invece, l’efficacia nello spazio, dal riconoscimento della natura processuale deriva l’applicabilità della norma anche ai procedimenti che si svolgono nell’ambito delle amministrazioni locali».
[21] In tal senso vedasi: N. DURANTE, I vizi formali del procedimento, alla luce del decreto-legge “Semplificazioni” e delle recenti pronunce dell’adunanza plenaria, cit., p. 64, secondo il quale «L’art. 21-octies, c. 2, va letto in combinato disposto con l’art. 21-nonies, c. 1, che vieta alla p.a. di annullare d’ufficio il provvedimento illegittimo per ragioni di forma. Entrambe le disposizioni fanno parte di uno stesso precetto, che non può avere natura esclusivamente processuale, perché ha come destinatario non solo il giudice, ma anche la p.a.».
[22] La distinzione che viene proposta in questa sede non emerge nell’orientamento giurisprudenziale dominante, a cui aderisce la sentenza in commento, che attribuisce valenza processuale ad entrambe le ipotesi previste dall’art. 21-octies, comma 2: sia ai provvedimenti vincolati affetti da vizi formali (primo periodo), sia ai provvedimenti viziati da omessa comunicazione di avvio del procedimento (secondo periodo).
[23] La proposta differenziazione della natura giuridica tra i due periodi dell’art. 21-octies, comma 2, potrebbe spiegare la scelta lessicale del legislatore che ha deciso di distinguere i presupposti di operatività dei due diversi periodi anche con riferimento alla sede di accertamento dell’identità del contenuto dispositivo del provvedimento.
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