ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Novità normative dall’Unione Europea in materia di tutela penale dell’ambiente
di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente - 2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422) - 3. I profili critici.
1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente
É attualmente in corso presso le istituzioni europee l’iter di approvazione di una nuova Direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Tale iniziativa normativa si inserisce nel contesto di un processo di complessivo rinnovamento delle politiche europee in materia ambientale.
Con l’avvio del c.d. “Green Deal”, l’Unione si è infatti impegnata ad attuare una nuova strategia globale per la protezione e il miglioramento dello stato dell’ambiente ed ha predisposto un ampio ventaglio di misure, volte a rafforzare la tutela degli ecosistemi e della biodiversità[1]. Al contempo, nell’ambito della Strategia dell’UE per contrastare la criminalità organizzata 2021-2025, la lotta alla criminalità ambientale è stata indicata come un obiettivo prioritario da perseguire, anche attraverso una revisione sia della normativa in materia di spedizione di rifiuti e di traffico di specie selvatiche, sia della direttiva 2008/99/CE sui reati ambientali[2].
Oltre che per effetto del mutato contesto politico ed internazionale, il processo in corso di revisione della direttiva si è poi reso necessario in ragione del fatto che l’adozione di tale atto era avvenuta prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e cioè, sotto la vigenza di un quadro normativo molto diverso da quello attuale che invece assegna all’UE competenze penali più chiare e più ampie.
Il rapporto finale di valutazione del livello di implementazione della Direttiva vigente (Direttiva 99/2008/CE) esitato dalla Commissione UE ha riportato un quadro davvero sconfortante rispetto al conseguimento dell’obiettivo in origine prefissato dall’UE di realizzare un livello almeno sufficiente di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali in materia ambientale. L’implementazione del testo è avvenuta in modo alquanto eterogeneo, a causa dell’ampio margine di discrezionalità con cui gli Stati hanno potuto interpretare il contenuto delle relative disposizioni. L’estrema vaghezza dei termini utilizzati dal legislatore europeo per la descrizione delle condotte penalmente rilevanti ha infatti resto elastico il significato degli obblighi di incriminazione imposti a monte, generando a valle una notevole varietà delle soluzioni normative adottate dai singoli ordinamenti nazionali.
Approcci differenti sono stati seguiti tanto sul versante della ricezione della clausola di illiceità speciale, quanto sotto il profilo della definizione dei contrassegni dell’offese tipiche.
Con riguardo al profilo del carattere illecito delle condotte sanzionate, l’art. 2 della Direttiva 2008/99/CE stabilisce, com’è noto, un requisito di specifica illiceità delle condotte punite, consistente nella violazione normativa europea adottata ai sensi del trattato CE o EURATOM ed allegata alla direttiva; di un atto legislativo, un regolamento amministrativo o una decisione, adottati da uno Stato membro o da una sua autorità competente in attuazione della legislazione comunitaria di settore. Si tratta, cioè, di un rinvio tassativo alla legislazione europea, elencata in coda al testo ed alla normativa interna, nonché ai provvedimenti amministrativi dei singoli Stati, attuativi della disciplina di cui agli allegati alla direttiva e che riguardano in prevalenza la materia ambientale, ma non anche ambiti affini; come la tutela della salute, del paesaggio, della sicurezza sul lavoro etc.
Ebbene, la Commissione ha constatato come molti ordinamenti statali abbiano trasposto tale clausola, a volte richiamando genericamente la contrarietà a norme giuridiche, ad una disposizione di legge o ad una decisione della pubblica autorità; in altri casi invece, si richiede la violazione di norme di legge. L’impiego di formule onnicomprensive ha comportato l’automatica inclusione nello spettro applicativo delle norme penali di qualunque futura modifica o aggiornamento tanto della legislazione nazionale di recepimento della normativa europea a tutela dell’ambiente, quanto di quest’ultima[3]. Ciò ha senza dubbio complicato l’esegesi delle normative penali interne, vista la notevole frammentazione degli atti giuridici di attuazione della disciplina ambientale di fonte europea. Tra gli ordinamenti statali esaminati dalla Commissione, soltanto quello maltese ha implementato in modo letterale la definizione di cui all’art. 2 della Direttiva, facendo riferimento alla disciplina elencata in allegato alla stessa. Al guadagno così ottenuto in termini di maggiore precisione nella descrizione del fatto tipico si è però affiancato il contro-effetto della eccessiva fissità della clausola di illiceità speciale, incapace di adattarsi ai mutamenti che hanno nel tempo investito la normativa extra-penale oggetto del rinvio.
Risultati altrettanto insoddisfacenti si registrano sul versante dell’implementazione dei requisiti offensivi del fatto, ove la disomogeneità delle soluzioni adottate a livello nazionale ha nella sostanza impedito l’armonizzazione degli ambiti applicativi delle rispettive fattispecie di reato. Nella maggior parte dei casi si è scelto di ricorrere ad una trasposizione quasi pedissequa della nozione di "danno sostanziale" utilizzata nel testo della Direttiva. La vaghezza di tale definizione ha però finito con l’affidare al formante giurisprudenziale il compito di definire gli effettivi contorni dell’offesa penalmente rilevante.
Fra le legislazioni statali che hanno utilizzato formule più precise si è invece riscontrata una non trascurabile eterogeneità rispetto al modo di intendere il disvalore di evento. Alcuni Stati hanno definito la soglia di rilevanza penale dell’evento lesivo attraverso parametri di carattere economico, quantificando il danno in termini monetari secondo schemi in genere impiegati in ambito civilistico. In altri invece, il danno rilevante è stato connotato in termini di durata, reversibilità e di impatto sull’ambiente.
La normativa austriaca richiede per esempio un “deterioramento duraturo dello stato dell'acqua, del suolo e dell'aria”. L’ordinamento portoghese stabilisce invece criteri di tipo qualitativo, mentre la giurisprudenza polacca intende il danno significativo come danno irreparabile che colpisce la vegetazione o un gran numero di animali. Nozioni altrettanto vaghe sono - com’è noto - presenti nel nostro ordinamento ove l’evento del delitto di inquinamento è definito come “compromissione e deterioramento significativo e misurabile” e il disastro ambientale consiste nell’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o nell’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente gravosa.
La Commissione segnala infine analoghi problemi di non uniforme implementazione della direttiva sul versante della trasposizione della nozione di “quantità non trascurabile di rifiuti” oggetto del traffico illecito. Anche in tal caso, talvolta, si è scelto di riprendere letteralmente l’espressione usata dal legislatore europeo, altre volte invece, si è preferito ricorrere all’indicazione di soglie di carattere quantitativo.
Non trascurabili paiono le differenze intercorrenti tra le legislazioni penali nazionali sul fronte della tipizzazione delle condotte e delle offese. Il fatto che il profilo delle sanzioni sia rimasto fuori dal campo applicativo della Direttiva 2008/99/CE perché già regolato dalla quasi coeva decisione quadro sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale[4], ha consentito agli Stati membri di procedere in ordine sparso rispetto alla scelta del tipo e delle misure di pene da applicare agli illeciti contro l’ambiente. Ne è derivato un quadro composito, contrassegnato da una forte discontinuità dei regimi applicativi (soprattutto in materia di sanzioni pecuniarie), talmente variegato da rendere impossibile la comparazione tra i rispettivi sistemi nazionali[5].
2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422)
Tra le principali novità della Proposta di direttiva si segnalano, sul fronte della tipizzazione delle condotte penalmente rilevanti, l’ampliamento e l’aggiornamento delle attività punibili; ora comprensivo anche dei casi di immissione nel mercato di prodotti pericolosi; di fabbricazione e immissione nel mercato o di uso di sostanze pericolose; delle violazioni delle normative in materia di AIA; degli scarichi inquinanti da navi; dell’installazione, esercizio o smantellamento di impianto in cui si svolge attività pericolosa o si immagazzinano o utilizzano sostanze pericolose; dell’estrazione di acque superficiali o sotterranee etc. (art. 3 della Proposta).
L’area della protezione penale dell’ambiente fagocita dunque fattispecie di diversa natura, normalmente annoverate tra quelle a tutela della salute individuale o collettiva; come taluni reati in materia di danni da prodotto. Si tratta di una scelta dogmaticamente discutibile, che potrebbe peraltro generare seri ostacoli nel processo di implementazione della futura direttiva.
Da annotare il fatto che la Commissione ha fortemente voluto l’inserimento tra le condotte punibili dell’estrazione illecita di acque superficiali e sotterranee, considerata la loro considerevole incidenza e diffusione anche nel territorio UE. Stupisce il dato criminologico. Esso smentisce l’idea che questo tipo di attività illegali riguardi soprattutto i Paesi in via di sviluppo, ed in misura minore i Paesi più ricchi.
Sotto il profilo della tipizzazione delle offese, la nuova direttiva - come la precedente - circoscrive l’area delle incriminazioni alle condotte che cagionano un danno o un pericolo concreto rilevanti alla vita o all’incolumità delle persone; oppure, alla qualità delle matrici ambientali, ma si preoccupa di meglio definire i contrassegni dell’accadimento lesivo, attraverso la tipizzazione di una serie di indicatori sintomatici della rilevanza della lesione. Con riguardo all’evento di danno, si fa riferimento: 1) alle condizioni originarie dell’ambiente colpito; 2) alla durata del danno; 3) alla gravità del danno; 4) alla diffusione del danno; 5) alla reversibilità del danno (art. 3 par. 3 della Proposta).
Rispetto al pericolo rilevante, si tiene invece conto dei seguenti elementi a) se l’attività è ritenuta rischiosa o pericolosa e richiede un’autorizzazione che non è stata ottenuta o rispettata; b) in quale misura sono superati i valori soglia legislativi definiti o contenuti nell’autorizzazione; c) se il materiale o la sostanza è classificato come pericoloso o altrimenti elencato come nocivo per l’ambiente o la salute umana (art. 3 par.4 della Proposta).
Non è tuttavia ben chiara la natura giuridica dei suddetti indici. La direttiva non precisa infatti, se si tratta di indici meramente probatori o sintomatici della dannosità del fatto, o di elementi costitutivi della fattispecie tipica. La questione non è di rilievo puramente teorico. Se gli indicatori fossero ritenuti di natura esclusivamente processuale/probatoria, essi verrebbero in rilievo alternativamente. Ai fini dell’accertamento del reato, non sarebbe, cioè, necessario che fossero presenti nella loro totalità; così come, il reato potrebbe ritenersi integrato, anche in loro assenza. Ove invece si trattasse di elementi del fatto tipico, in assenza di uno o più di tali contrassegni, il reato non si realizzerebbe.
La Proposta stabilisce parametri standard per la determinazione della non trascurabile quantità di rifiuti, oggetto delle condotte di traffico illecito. Si prevede infatti che la legislazione degli Stati membri specifichi che, nel valutare tale requisito quantitativo, ai fini delle indagini, dell'azione penale e delle decisioni giudiziarie riguardo ai reati di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere e), f), l), m) e n) della proposta di direttiva, si debba tenere conto, secondo il caso, dei seguenti elementi (Art. 3 par. 5): a) il numero di elementi oggetto del reato; b) in quale misura è superato il valore, la soglia regolamentare o un altro parametro obbligatorio; c) lo stato di conservazione della specie animale o vegetale in questione; d) il costo di ripristino dei danni ambientali.
Si tenta altresì di incrementare lo standard di tassatività della clausola di illiceità speciale, restringendone la portata alla violazione della disciplina extra-penale europea e a quella nazionale interna di attuazione, riguardante esclusivamente la materia ambientale; e non anche altri ambiti di tutela (salute, sicurezza sul lavoro etc.).
Significativo è il dato che l’assenza di autorizzazione o di altro titolo abilitativo non rilevi come requisito di illiceità speciale delle condotte, bensì come indice sintomatico della loro pericolosità; mentre soltanto l’autorizzazione illecitamente o fraudolentemente ottenuta connota il fatto di un ulteriore profilo di illiceità.
Sul versante sanzionatorio, la Proposta obbliga gli Stati a prevedere sanzioni detentive massime di almeno 10 anni in caso di morte o lesioni gravi alle persone; sanzioni detentive massime di almeno 4 anni per gli illeciti-base e sanzioni accessorie, interdittive, ripristinatorie etc. (art. 5 della proposta).
3. I profili critici
Rimane ancora sostanzialmente indeterminata la nozione di danno penalmente rilevante, nonostante il richiamo alla nozione di peggioramento qualitativo delle matrici ambientali, faccia di queste ultime, e non degli ecosistemi, l’oggetto materiale del reato. Ciò certamente agevola l’accertamento del fatto, circoscrivendone l’incidenza del risultato lesivo ai singoli corpi recettori (acqua, aria, suolo etc.). Inspiegabilmente però, l’ecosistema riappare nelle ipotesi aggravate che puniscono più severamente gli illeciti ambientali da cui derivino o da cui possono derivare la distruzione o i danni irreversibili e duraturi ad un ecosistema (art. 8 della Proposta di direttiva).
Sanzioni più elevate vengono poi previste se dal fatto derivano il decesso o le lesioni gravi ad una o più persone. Come per le ipotesi delle lesioni ambientali irreversibili o durature, anche per i casi di conseguente morte o lesione, la struttura dell’incriminazione richiama lo schema dei reati aggravati dell’evento. L’implementazione di tale modello nell’ordinamento italiano implicherebbe l’abbandono della distinzione attualmente tracciata dal codice fra il reato di inquinamento ambientale ed il reato di disastro ambientale. Quest’ultimo dovrebbe infatti assumere la forma di un’ipotesi aggravata di inquinamento ambientale, tanto rispetto alle ipotesi di maggiore offesa all’ambiente, quanto per l’ulteriore offesa ai beni della vita o dell’incolumità personale.
Appare infine criticabile la scelta di restringere la portata della clausola di illiceità speciale alle sole violazioni della disciplina extra-penale a tutela dell’ambiente in quanto si rischia così di lasciare prive di copertura penale condotte contrassegnate dall’inosservanza di prescrizioni amministrative e legislative orientate alla tutela di interessi diversi dall’ambiente, ma in concreto lesive di quest’ultimo[6].
[1] La Comunicazione della Commissione UE sul Green Deal dell’Unione Europea è consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?qid=1670924725082&uri=CELEX:52019DC0640.
[2] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Strategia dell’UE per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025 (COM/2021/170 final), in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52021DC0170.
[3] V. Documento di lavoro dei servizi della Commissione - Valutazione della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell'ambiente, cit., p. 26.
[4] Decisione quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, Bruxelles, 4 ottobre 2002, annullata dalla Corte di Giustizia il 13 settembre 2005 (causa: C-176/03).
[5] La pena detentiva massima prevista per il delitto di inquinamento oscilla per esempio dai 20 anni previsti dalla legislazione austriaca ai tre della normativa francese.
[6] Sul punto, sia consentito rinviare al nostro, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, p. 202 e ss.
Gli accordi europei in tema di immigrazione
di Franco Roberti
Sommario: 1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione - 2. La gestione europea dell’immigrazione - 3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto - 4. Le ultime iniziative della Commissione europea - 5. Conclusioni.
1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione
A un quadro politico e normativo dell’Unione europea sempre più polarizzato sugli aspetti logistici ed organizzativi, su come gestire e possibilmente fermare l’arrivo di migranti irregolari e dei richiedenti asilo, fa da contraltare una narrazione pubblica e mediatica in cui la distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati, irregolari, migranti economici o climatici, è liquidata per far posto all’immagine di una massa indistinta, simile a un enorme tsunami, pronta a varcare le frontiere. Questa situazione si è determinata anche per la sperimentata difficoltà di adottare una legislazione migratoria comune, dato che le decisioni dell’Unione europea nel settore dell’immigrazione, non supportate da una specifica ed esclusiva competenza, necessitano dell’unanimità dei Paesi membri. Ne consegue che, fintanto sarà richiesto il voto unanime, il tema dell’immigrazione sarà condizionato delle opportunità politiche del momento. D’altronde, basta dare un’occhiata ai numerosi tentativi di legiferare a livello europeo per rendersi conto che finora i governi hanno badato solo ai propri interessi nazionali di pura convenienza politica, indifferenti al dettato dell’articolo 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che chiama gli Stati Membri ad adottare “una politica comune sull’immigrazione per assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
Ne consegue che i flussi migratori, da fenomeno demografico causato da fattori sociali, economici, ambientali e ultimo, ma non per importanza, da drammatiche situazioni di guerre endemiche, sono affrontati come problema di sicurezza e di gestione delle frontiere, diventate ormai barriere protettive. Tale spostamento ha provocato una narrativa politica e mediatica di natura prettamente securitaria a vantaggio delle formazioni politiche più propense a cavalcare le paure, il risentimento, la rabbia sociale, il rifiuto dello straniero, il dubbio sul valore dell’ospitalità a favore di un atteggiamento difensivo delle proprie rassicuranti radici culturali. Tutti elementi che trovano nelle incertezze normative a livello comunitario in materia di accoglienza e redistribuzione il terreno propizio nel quale si sedimenta e si articola la giustificazione delle scelte egoistiche dei Paesi membri dell’Unione, preoccupati in materia di immigrazione essenzialmente da valutazioni e tornaconti nazionali.
Si può osservare tale dinamica nel dettaglio. I Paesi del nord Europa, nonostante frequenti richiami rivolti al rispetto dei diritti fondamentali e al principio di accoglienza a fronte di un numero relativamente basso di arrivo di migranti, cadono in contraddizione tra un discorso pubblico improntato al valore della solidarietà e un esercizio del potere dei governi quasi sempre orientato alla ricerca di vantaggi politici di rendita del consenso. Questa posizione, seppur distante da quella tipica dei Paesi del Gruppo di Visegrád, caratterizzata da una totale chiusura sul principio di solidarietà comunitaria, rigettando di fatto il criterio delle quote di redistribuzione, è diventata per quei Paesi occasione per denunciare non solo la falsa coscienza tipica di chi predica bene ma agisce male, ma anche un’argomentazione per rimandare al mittente il mito di un’Europa unita come falso. Ed è proprio da questa frattura, prodotta dall’incapacità di trovare un accordo comune che regoli armonicamente le diverse sensibilità nazionali in materia di immigrazione, che nasce l’attuale paralisi politica e legislativa dell’UE, nonché la difficoltà di spronare i Paesi più riottosi ad assumersi le proprie responsabilità. Il che significa che i Paesi di primo ingresso, quelli del Mediterraneo, dovrebbero continuare a sbrigarsela da soli ed affrontare il dramma quotidiano degli arrivi, che mettono a dura prova le strutture di accoglienza, senza la certezza giuridica di poter contare su un aiuto da parte degli altri membri dell’Unione, trincerati dietro le norme del Regolamento di Dublino.
2. La gestione europea dell’immigrazione
A partire dal giugno 1990, con la convenzione firmata a Dublino da 12 Stati membri UE (tra cui l'Italia), emergeva la necessità di regolamentare, mediante un quadro normativo comune, i flussi migratori che interessavano l’Unione.
Tale convenzione rappresentava il primo accordo intergovernativo nel definire le regole europee sul diritto d’asilo. Tra i diversi obiettivi, il primo si incentrava sul carattere umanitario tendendo ad assicurare a ciascuna persona protezione e diritto d’asilo all’interno, almeno, di uno Stato Membro. Il tutto per evitare il fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita” ovvero cittadini stranieri rinviati da uno Stato all’altro, senza aver nemmeno ricevuto una valutazione della domanda d’asilo. Altro obiettivo prefissato era quello di contrastare le “domande multiple” ovvero la condizione nella quale il richiedente asilo, presentando la domanda in un determinato paese, in caso di rifiuto del riconoscimento, potesse rivolgersi senza alcun limite agli altri Stati Membri.
Da qui la decisione di avvalersi del principio del primo Paese di arrivo. Quest’ultimo, quale Paese di primo approdo, si assumeva tutte le responsabilità, nonché gli oneri, relativi alla gestione delle richieste d’asilo e del sostentamento dei cittadini stranieri. Nel 2003, la convenzione venne sostituita dal Regolamento di Dublino II. La modifica più sostanziale riguardava l’implementazione nel diritto comunitario, sotto forma di regolamento, delle previsioni originali della precedente Convenzione. La variazione era tuttavia formale, non modificando i criteri di definizione dei Paesi coinvolti direttamente in prima battuta che restano, ancora, quelli di frontiera.
Il 1 gennaio 2014 entra in vigore il regolamento Dublino III che, pur con dei punti di continuità rispetto al precedente, presenta alcune novità. Tra quest’ultime emergono le tematiche relative all’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, alla possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e alla maggiore tutela dei minori. Ancora, il nuovo regolamento incentiva l’utilizzo del database Eurodac (European dactyloscopie), mediante il quale raccogliere e schedare i dati sensibili dei cittadini stranieri. Tali misure correttive non risolvono le difficoltà affrontate dagli Stati frontalieri, mancando un approccio comune e solidale per la risoluzione del fenomeno in crescita esponenziale che raggiunge il suo acme nel 2015.
L'acuirsi della crisi migratoria avvenuta nel 2015 ha sollecitato l’Unione europea a muoversi nuovamente per cercare di stabilire nuovi criteri di gestione del fenomeno al fine di uniformare le posizioni, ancora contrastanti, dei diversi Stati Membri. Questi ultimi sono esortati a rispettare il principio della solidarietà, seppure in maniera non del tutto chiara, e, per la prima volta, è posta al centro dell’attenzione la tutela dei diritti dei migranti, con particolari indicazioni sulle linee da adottare nei confronti dei richiedenti asilo. Il nuovo tentativo si risolve in un totale fallimento: la mancata approvazione, nel 2017, della riforma del regolamento Dublino III: “Abbiamo provato a ribaltare quella logica ipocrita e a sostituirla con un principio che desse sostanza a quelli che sono scritti nei trattati e cioè: la solidarietà e la equa condivisione di responsabilità”.[1]
Eppure nel 2016, a seguito della proposta legislativa presentata dalla Commissione Europea, finalizzata alla riforma del Regolamento di Dublino, il Parlamento Europeo si è riunito dando l’avvio alla discussione e all’ardua negoziazione sul tema.
Nonostante nel corso di quest’ultima vi sia stata l’approvazione del testo in prima lettura (ottobre 2017) e la successiva delibera in plenaria con 390 voti a favore, 175 contrari e 44 astenuti, l’iter ha subito una drastica battuta d’arresto, fermandosi alla fase successiva. Tra le cause la mancanza di una visione comune da parte degli Stati Membri i quali manifestano, in sede di Consiglio Europeo, posizioni contrastanti, esplicativa, tra tutte, la visione dei Paesi Visegrád
La mancanza di coesione comunitaria è stigmatizzata nelle parole di Elly Schlein:
“E devo dire che è stato un negoziato durissimo, ci abbiamo lavorato per due anni per riuscire a costruire una maggioranza storica che, nel novembre del 2017, con il sì di quasi due terzi del Parlamento europeo ha ribaltato quella logica, cancellando il criterio del “primo Paese di accesso” e sostituendolo con un meccanismo “permanente automatico di ricollocamento”, che obblighi tutti i Paesi europei a fare la propria parte sull’accoglienza con un sistema di “quote” obbligatorio. Quote stabilite in modo oggettivo sui criteri del PIL e della popolazione di ogni Stato […] Questo ve lo racconto perché trovo vergognoso che, mentre il Parlamento europeo faceva questo sforzo, i governi che siedono al Consiglio Europeo non sono riusciti a trovare un briciolo di accordo su questa riforma. Eppure quelle che siedono al Consiglio sono le stesse famiglie politiche di quelle che siedono al Parlamento. Le medesime nazionalità. E com’è possibile che al Parlamento si trovi una soluzione davvero europea condivisa e invece al Consiglio si continui a trovare, balbettando, delle soluzioni ad hoc che non danno una risposta strutturale e che lasciano bloccate vergognosamente le persone in mezzo al mare?”.[2]
Di fronte alle politiche di chiusura nei confronti di Paesi terzi, la Corte di Giustizia dell´Unione europea è intervenuta più volte allo scopo di contemperare il diritto degli Stati Membri con la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo migrante. Ciò è stato possibile perché il migrante ha acquisito gradualmente un nucleo minimo di diritti con l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - la Carta di Nizza - che, dopo il Trattato di Lisbona, ha uguale valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione. Il che comporta che i diritti in essa riconosciuti sono a tutti gli effetti giuridicamente vincolanti, pure nel settore delle politiche migratorie e, pertanto, inderogabili per le Istituzioni europee e la cui osservanza da parte degli Stati membri è soggetta al giudizio della Corte di giustizia.
Sul tema della migrazione è emblematico l’articolo 19, primo comma, della Carta, che vieta le espulsioni collettive ed ogni respingimento alla frontiera e allontanamento coercitivo dal territorio senza prima aver effettuato un esame individuale del soggetto richiedente asilo.
Qui giova ricordare alcune recenti pronunce delle Corte di Giustizia dell’Unione europea. Proprio l’articolo 19, secondo comma, che vieta l’allontanamento, l’espulsione o l’estradizione verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposti alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, è stato evocato dalla Corte per dichiarare che le norme della ”direttiva rimpatri” 2008/11, a cui la legislazione nazionale ha l’obbligo di riferirsi in materia di rimpatrio, devono essere interpretate alla luce della Carta dei diritti fondamentali. Cosi nelle cause riunite C391/16, C77/17 e C78/17, dove la Corte ha deciso di non revocare lo statuto di rifugiato a tre cittadini extracomunitari colpevoli di un reato nonostante il parere contrario dei tribunali nazionali. La sentenza recita che “fintanto che il cittadino di un Paese extra-UE o un apolide abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza, questa persona deve essere qualificata come rifugiato indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato sia stato formalmente riconosciuto”. È palese il riferimento al principio che nessun cittadino può essere rimpatriato verso un paese dove rischia la sua vita o la sua libertà o di andare incontro a tortura e trattamenti inumani.
Va pure richiamata la sentenza nella causa C-808/18 Commissione contro Ungheria, nella quale si “dichiara che l’Ungheria è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale 8, in quanto i cittadini di Paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la loro domanda e che l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda costituisce un trattenimento ai sensi della direttiva «accoglienza”. Considerazioni che fanno sì che venga respinto “l’argomento dell’Ungheria secondo cui la crisi migratoria avrebbe giustificato una deroga a talune norme delle direttive «procedure» e “accoglienza”, al fine di mantenere l’ordine pubblico e di salvaguardare la sicurezza interna, conformemente all’articolo 72 TFUE”. Infine per condannare l’Ungheria nel suo essere “venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva «rimpatrio», in quanto la normativa ungherese consente di allontanare i cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare senza rispettare preventivamente le procedure e le garanzie previste da tale direttiva.
Va infine ricordata la sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-653/15 e C-647/15, di rigetto dei ricorsi della Slovacchia e dell’Ungheria contro il Consiglio per il meccanismo provvisorio di ricollocazione obbligatoria dei richiedenti asilo. A giudizio della Corte “l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE consente alle istituzioni dell’Unione di adottare tutte le misure temporanee necessarie a rispondere in modo effettivo e rapido ad una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di migranti” I giudici precisano altresì che, “poiché la decisione impugnata costituisce un atto non legislativo, la sua adozione non era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei parlamenti nazionali e il carattere pubblico delle deliberazioni e dei voti in seno al Consiglio”. Oltre a ciò, la Corte osserva “che il Consiglio non era tenuto ad adottare la decisione impugnata all’unanimità”. La Corte ritiene altresì “che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata non costituisce una misura manifestamente inadatta a contribuire al raggiungimento del suo obiettivo, ossia aiutare la Grecia e l’Italia ad affrontare le conseguenze della crisi migratoria del 2015”. In conclusione, la Corte osserva “che il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, segnatamente, la mancanza di cooperazione di alcuni Stati membri”.
3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto
Con tali premesse, il 23 settembre 2020 la Commissione Europea ha proposto il Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo, presentato come “un pacchetto di proposte normative e di altre iniziative per un nuovo corso in materia di politica di migrazione e di protezione internazionale.”[3] Il documento, ponendosi in continuità e, talvolta, in discontinuità con il regolamento preesistente, mira al disegno di una strategia organica e fattuale che sia, al contempo, umanitaria e sinergica. In primis, si cerca di integrare le laconiche norme relative ai procedimenti di asilo e rimpatrio, stabilendo, altresì, una serie di misure da applicare in caso di flussi migratori irregolari straordinari; in secondo luogo ci si riferisce al consolidamento di nuove relazioni solidali da istituire tra gli Stati Membri di frontiera, più colpiti dal fenomeno, ed il resto dell’Unione. Ancora si spinge verso la creazione di rapporti collaborativi tra l’Unione e i Paesi Terzi di origine e/o transito. Il Patto regolamenta, altresì, le procedure e le misure di sostegno in termini di ricollocamento e rimpatrio, aggiornamento del quadro giuridico di Eurodac, procedura di screening, asilo e reinsediamento.
Le singole azioni citate, dovrebbero essere svolte con estrema flessibilità e sensibilità, valutando la specificità e le necessità di ciascun individuo, oltre le condizioni che lo Stato Membro interessato si troverebbe ad affrontare.
Nonostante l’aggiornamento e l’integrazione dei criteri di gestione del fenomeno, il disegno si presenta ancora incompleto e disorganico e le problematiche preesistenti non hanno trovato concreta risoluzione.
Tra le criticità che emergono da una puntuale analisi della proposta, all’esame del Parlamento, le più significative riguardano la gestione delle frontiere, la ripartizione asimmetrica degli oneri tra gli Stati Membri e la contrazione dei diritti dei soggetti migranti.
Partendo dal primo punto critico, bisogna sottolineare che l’iter proposto per la gestione delle frontiere si pone, ancora una volta, a scapito dei cosiddetti Paesi di primo approdo. Infatti, la procedura dello screening, a partire dalla fase di identificazione e registrazione ed ancora dei controlli sanitari e di sicurezza, fino alla prima scrematura, grava, nella sua totalità, su di essi. Inoltre la formalizzazione dei luoghi deputati allo svolgimento di dette operazioni, i cosiddetti hotspot, si pone ai limiti della legalità. Nello specifico, il sistema hotspot, nato in risposta alla crisi migratoria del 2015, nella sua mera trasformazione da strumento eccezionale a strumento formale legale, esplicita tutti i suoi punti di debolezza soprattutto in termini di violazione dei diritti umani e di lesione del diritto di difesa, che vengono trascurati in tutte le differenti fasi della procedura in esame.
I cittadini stranieri, nell’attesa dell’esito del procedimento di screening, sono privati della libertà e della parola, non avendo la possibilità di esprimere preferenza alcuna e, talvolta, costretti a subire passivamente il respingimento o l’invio in altro Stato straniero.
Il secondo punto critico riguarda il sistema di ripartizione asimmetrico degli oneri relativi alla gestione del fenomeno migratorio tra i Paesi UE, che si pone a svantaggio degli Stati Membri frontalieri. Tale squilibrio viola il “principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.”[4] Nel tentativo di aggirare il problema, la Commissione ha proposto un innovativo meccanismo collaborativo incentrato sul sistema della sponsorizzazione. Lo Stato, definito sponsor, si adopera al fine di sostenere logisticamente e finanziariamente i rimpatri degli altri Stati entro un limite temporale di otto mesi (quattro nei periodi di crisi), decorsi i quali lo stesso Stato sarà obbligato ad accogliere nel proprio territorio i migranti per accompagnarli fino al momento del rimpatrio.
La metodologia proposta si dimostra però inefficace in quanto, più che risolvere le problematiche relative alla questione dell’asilo, appare come un espediente per raggiungere un maggiore accordo tra gli Stati Membri. Inoltre, questa sorta di “flessibilità”, fa si che il processo non trovi poi concreta attualizzazione sia per il carattere discrezionale dei supporti forniti dai cosiddetti sponsor che per la differenza, tra i Paesi frontalieri e quelli di Visegrád, delle relazioni e degli accordi consolidati con i Paesi Terzi. Esplicativo il caso italiano che, insieme alla Spagna e alla Francia, gestisce più del 70%[5] degli accordi di riammissione con i Paesi africani.
Il terzo ed ultimo punto critico interessa la contrazione dei diritti dei richiedenti asilo. Il Patto sembra non considerare il fenomeno dal punto di vista del migrante, preservando l’atavico approccio securitario incentrato sulle misure restrittive e di respingimento, più che sulle nuove potenziali procedure di asilo.
In detta direzione infatti, già a partire dalla fase dello screening, i cittadini stranieri sono soggetti a misure di trattenimento con conseguente privazione della libertà. Le procedure di controllo, inoltre, rischiano di sfociare nella “razzializzazione” del diritto di asilo, prediligendo alcune nazionalità piuttosto che altre, senza effettuare analisi puntuali, attente alle necessità del singolo individuo. Quest’ultimo viene, altresì, privato della possibilità di manifestare i propri bisogni e di indicare una preferenza sullo Stato Membro di destinazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le dinamiche di trasferimento assumono un carattere coercitivo a scapito, in primis, dei diritti umani e, a seguire, del margine di successo delle operazioni, con relativo dispendio di fondi, energie e risorse.
4. Le ultime iniziative della Commissione europea
La situazione di stallo nella trattazione parlamentare del Patto ha indotto la Commissione a rivedere l’approccio e la metodologia fino ad ora utilizzate. Questa la considerazione alla base dei recenti “action plans” proposti (nella fattispecie due), concernenti, rispettivamente, la rotta del Mediterraneo centrale e quella dei Paesi balcanici.
Il piano che interessa la prima area d’intervento individuata, ovvero il Mediterraneo centrale, è costituito da 20 misure il cui obiettivo è quello di arginare l’emergenza migratoria, soprattutto quella a carattere irregolare, fornendo linee guida in termini di ricerca e soccorso, sicurezza e solidarietà. Tre i pilastri fondanti il piano d’azione: lo sviluppo di una collaborazione sinergica tra i Paesi dell’Unione, i Paesi partner e le organizzazioni internazionali, il miglioramento del cosiddetto meccanismo di solidarietà volontaria nel rispetto di una visione comune e la promozione di una nuova politica di ricerca e soccorso. In tal senso, la linea d’azione proposta dalla Commissione, in un settore difficile da legiferare vista la competenza nazionale nelle rispettive zone di ricerca e salvataggio, è una maggiore cooperazione tra Stati membri, Paesi costieri e le Ong. Un impegno collaborativo viene richiesto ai Paesi membri anche con l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), per porre le basi su un possibile codice di condotta europeo inerente le operazioni di ricerca e salvataggio.
Il piano d’azione previsto a sostegno degli Stati Membri che si trovano a gestire la crescente pressione migratoria che interessa l’area dei Balcani occidentali, d’altro canto, mira ad incentivare la cooperazione tra gli stessi e i relativi partner extra-UE. Anche per quest’ultimo sono previste 20 misure operative, raggruppate in cinque macro-categorie d’azione. Nello specifico: la prima riguarda la gestione delle frontiere lungo la rotta al fine di ridurre il traffico di migranti. In tal senso, significativi sono gli accordi extraeuropei raggiunti con Albania, Montenegro Serbia e Macedonia Nord i quali consentono dispiegamenti sul territorio da parte dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (FRONTEX).
La seconda linea d’azione mira ad accelerare le procedure di asilo e sostenere la capacità di accoglienza nei confini con i partner balcanici garantendo alloggi ed esigenze di base attraverso lo strumento di assistenza preadesione (IPA).
Terzo elemento è il potenziamento cooperativo nella lotta al traffico dei migranti lungo la rotta balcanica. Tale obiettivo è perseguibile attraverso la task-force operativa di Europol - recentemente rafforzata - al confine serbo-ungherese ed il programma regionale IPA, da 30 milioni di euro, per favorire lo svolgersi di indagini, procedimenti giudiziari e condanne da parte delle autorità giudiziarie dei Paesi balcanici, in stretta collaborazione con le agenzie europee.
Il rafforzamento della cooperazione per la riammissione e i rimpatri è il quarto elemento del piano d’azione che prevede un impegno maggiore da parte dell’Unione nell’aumentare i ritorni di persone direttamente dai Paesi dei Balcani Occidentali. A tal fine è previsto, entro il 2023 un nuovo programma che comprenda i rimpatri volontari e non volontari dalla regione, per potenziare la cooperazione e il coordinamento sul piano operativo tra l'UE, i Balcani occidentali e i Paesi di origine.
L’ultima categoria di azione mira all’allineamento della politica dei visti da parte dei Balcani. A quest’ultimi si richiede un rapido adeguamento al quadro normativo europeo in materia di visti per il corretto funzionamento del regime di esenzione.
Tutte le indicazioni citate rientrano, tra l’altro, nel più ampio progetto inclusivo dell’Unione a seguito, altresì, dei continui sforzi dei Paesi Balcanici per allinearsi alle norme comunitarie.
Il quadro giuridico europeo nel settore della migrazione continua, dunque, nei fatti a gravitare su tre strumenti: contenere/bloccare, rimpatriare, esternalizzare le frontiere, che sono il braccio armato della questione della sicurezza, che orientano e plasmano le norme vigenti in materia di immigrazione.
Come già osservato, le nuove proposte non sembrano apportare alcun cambio sostanziale: gli interventi previsti riproducono le scelte e gli strumenti che erano alla base del Regolamento di Dublino, tra cui i centri di prima accoglienza, la chiusura delle frontiere nonché un processo di esternalizzazione della responsabilità consegnata ai Paesi terzi, senza tener conto adeguatamente dello stato e della tutela dei diritti umani in tali Paesi. Resta non solo in vigore ma anche consolidato il principio dello Stato di primo ingresso, contestato dai Paesi con frontiere esterne come l’Italia, la Grecia, la Spagna. Pare del tutto carente il meccanismo di solidarietà per accogliere e ridistribuire gli immigranti, così tanto ventilato e sbandierato nelle conferenze stampa, quanto più escluso, depennato o al massimo infarcito di vaghi richiami ai valori fondanti dell’Unione europea nelle dichiarazioni comuni dei ministri dei Paesi membri.
Le norme previste nel nuovo Patto appaiono ancora prive di misure capaci di fornire risposte unitarie ai flussi e alle rotte migratorie. In effetti, restano responsabili della stragrande maggioranza degli arrivi solo alcuni Paesi: situazione non equa e nemmeno sostenibile per i primi Paesi di accoglienza, dato che il principio della solidarietà verrebbe applicato solo in via eccezionale. Sorprendente marcia indietro rispetto al già citato articolo 80 del TFUE che prevede che “tutte le politiche siano governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”.
Persino il nuovo criterio della sponsorizzazione dei rimpatri rischia di tradursi in una messa tra parentesi della solidarietà a favore invece di una politica dove alcuni Stati assumono le proprie responsabilità mentre altri voltano le spalle. Le divisioni dei Paesi membri tengono in scacco l’intero pacchetto di proposte ancor lontano dall’essere adottato e che, purtroppo, continua a poggiare su due pilastri: bloccare alle frontiere e rimpatriare appena possibile. Infatti, gli accordi di partenariato che traducono la pratica di esternalizzazione si riducono in sostanza ad esercitare pressioni di ogni genere per obbligare i Paesi d’origine e di transito a fermare i migranti diretti in Europa, attraverso la creazione di campi di respingimento alle frontiere. Su queste misure di filtro, volte a contrastare la mobilità delle persone, esiste un consenso generale, mentre manca essenzialmente un’intesa su come normare un sistema comune di asilo, rinviando le decisioni in materia alla volontà dei singoli Stati.
In sintesi, l’azione europea segue la strategia di spostare le frontiere verso l’esterno delegando a Stati terzi il compito di contenere e trattenere i migranti, disinteressandosi in buona parte, se non lanciando appelli alla salvaguardia dei diritti e delle condizioni di vita in cui si trovano i migranti nei campi di segregazione libici, nelle zone franche dei Paesi balcanici, nelle tendopoli delle isole greche, nei dormitori in Turchia. Tale dislocamento dello spazio geografico dei confini europei segue tre rotte: quella orientale-mediterranea, grazie agli accordi con la Turchia e allo scudo protettivo creato nelle isole greche; la rotta balcanica organizzata mediante controlli ferrei di polizia alle frontiere; la rotta africana pianificata attraverso accordi di partenariato infarciti di aiuti economici, convertendo i Paesi africani in territori presidiati militarmente anche da contingenti militari europei. In sostanza, la migrazione è collocata sotto l’egida della politica di sicurezza e di difesa comune.
Altro elemento da considerare è rappresentato dal fatto che il nuovo patto sulla migrazione lascerebbe da parte i 4 / 5 milioni di persone che già si trovano in situazione di irregolarità nei Paesi europei costretti a restare nell’ombra, dato che l’Europa non fa altro che sigillare le frontiere.
Infine, l’ultimo aspetto lasciato in sospeso dal nuovo patto è il tema della migrazione legale: materia su cui gli stati membri mantengono ferma la volontà decisionale indipendente, pur sapendo che l’assenza di uniformità legislativa dell’Unione insieme alla scarsa possibilità di ingresso per motivi economici dà forza alla migrazione irregolare.
5. Conclusioni
La strategia delineata dal Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo e dai più recenti actions plans, per quanto innovativa negli intenti, si dimostra ancora legata al precedente regolamento (Dublino III), soprattutto sul piano fattuale. Emerge, innanzitutto, la volontà di contrastare il fenomeno migratorio più che di stabilire un iter organico e omogeneo cui gli Stati Membri possano fare riferimento. A ciò si aggiunge il coinvolgimento parziale degli Stati UE, spesso in contrasto tra di loro, che adagiandosi sull’ambiguità dei differenti punti previsti e sul principio di solidarietà flessibile, partecipano con interventi per lo più economici e amministrativi, a carattere emergenziale. Di conseguenza, l’onere assistenziale continua a ricadere sui Paesi frontalieri.
Le proposte presentate, in conclusione, non risolvono le problematiche preesistenti come l’assenza di collaborazione sinergica tra gli Stati UE, la mancanza di solidali accordi con i Paesi Terzi che vivono in stato di emergenza e la sistematica violazione dei diritti umani.
Tutto ciò appare incompatibile con i valori e i principi su cui si fonda l’Unione europea e che ne dovrebbero garantire la sopravvivenza in un quadro geopolitico in rapido cambiamento.
[1] E. Schlein, relatrice-ombra della riforma, in Migranti la gestione dei flussi migratori: verso la revisione del trattato di Dublino, a cura di F. Roberti, Guida ed. 2019.
[2] E. Schlein, op. loc. cit.
[3] https://temi.camera.it/leg19DIL/post/19_nuovo-patto-sulla-migrazione-e-l-asilo.html
[4] ART 80 TFUE
[5] Cfr. P. Cassarino, Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum, in ADiM Blog, 30 novembre 2020.
Giustizia Insieme e la riforma Cartabia: gli approfondimenti della dottrina (penale e procedura penale) - Editoriale
Proseguono le iniziative della nostra rivista sulla riforma Cartabia.
Come si è già osservato in precedenza, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, il testo che porta il nome dell’ex Ministro Marta Cartabia appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica – in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono dunque numerosi e hanno richiesto una risposta multilivello.
Dopo una prima analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”, si è imposto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma un approfondimento su un aspetto particolarmente controverso e di immediato impatto.
L’articolo, scritto da Andrea Apollonio su “Il regime intertemporale della rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice nella riforma Cartabia”, è stato pubblicato il 21 ottobre 2022.
A seguire, il 28 ottobre 2022, è stato pubblicato l’articolo di Giuseppe Amara dal titolo “Riforma Cartabia. Principali questioni sul tappeto relative alla modifica del regime di procedibilità”.
Sono poi state pubblicate, nei giorni precedenti, ben 18 schede tematiche redatte dai giudici dellla Sezione penale del Tribunale di Vicenza diretta da Lorenzo Miazzi in cui sono state esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative.
L’ultima serie di riflessioni che Giustizia Insieme dedica alla riforma riguarda sei articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale che in partilare approfondiranno:
1. Le modifiche in tema di indagini preliminari
2. Il sistema sanzionatorio e i rapporti tra cognizione ed esecuzione
3. La giustizia riparativa
4. L’applicazione delle sentenze CEDU
5. Dibattimento e procedimenti speciali
6. Impugnazioni.
Inauguriamo oggi questa ultima parte dei nostri approfondimenti con l’articolo della professoressa Roberta Aprati su “le nuove indagini preliminari”.
Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
di Roberta Aprati
Sommario: 1. Premessa a mo’ di conclusione. - 2. I criteri di priorità. - 3. L’iscrizione della notizia di reato. - 4. I controlli sulle iscrizioni. - 5. I tempi delle indagini preliminari contro ignoti e i loro controlli. - 6. I termini delle indagini preliminari contro persone note e i loro controlli. - 7. I termini delle determinazioni e i loro controlli. - 8. L’avocazione. - 9. L’archiviazione. - 10. La riapertura delle indagini.
1. Premessa a mo’ di conclusione
Anche se metodologicamente potrebbe sembrare un errore, illustrando le “novità” in tema di indagini preliminari, appare necessario aprire con una conclusione. L’inversione di metodo si giustifica perché se si analizzassero, una per una, tutte le nuove disposizioni, senza una visione d’insieme, ciascuna sembrerebbe andare verso una diversa direzione. Va allora prima individuato il sistema che si è voluto costruire e, alla luce di esso, va ricercato il senso e il significato delle parole utilizzate nelle singole disposizioni introdotte.
Ebbene, il legislatore si è mosso con un’unica idea: evitare la celebrazione dei processi. In quest’ottica vanno lette tutte le novità. In pratica, l’obiettivo non è la semplificazione dell’iter procedimentale del singolo processo, che, anzi, in alcuni casi è assai più complesso, ma piuttosto “l’abbattimento” del numero dei procedimenti.
E proprio sul tema delle indagini preliminari emerge chiaramente tale quadro: il legislatore invita, quasi ossessivamente, a non mettere in moto il procedimento processuale, o comunque, se avviato, a chiuderlo il prima possibile.
Si deve iscrivere di meno (come emerge dai nuovi parametri per l’iscrizione della notizia di reato oggettiva e soggettiva di cui all’art. 335, commi 1 e 1-bis, c.p.p.), si deve cestinare di più attraverso l’archiviazione anomala (alla luce della nuova definizione di notizia di reato oggettiva), si deve archiviare di più contro ignoti (in ragione della nuova definizione di notizia di reato soggettiva) ed entro i termini predeterminati (in ragione del nuovo assetto dei termini delle indagini), si deve archiviare di più nei confronti di persone note (in forza della nuova definizione della regola generale di archiviazione di cui all’art. 408 c.p.p.) e anche qui entro termini precisi (in ragione del nuovo assetto dei termini delle indagini e delle determinazioni), si deve archiviare di più in tema di particolare tenuità del fatto (per effetto dell’allargamento delle relative ipotesi contenute nell’art. 411 c.p.p.), si deve archiviare di più per estinzione del reato – con correlate sospensioni – per esito positivo della messa alla prova (stante l’allargamento delle relative ipotesi) o per adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo accertatore (si pensi all’introduzione di una nuova disciplina per i reati di igiene alimentare), si deve archiviare di più per mancanza di una condizione di procedibilità (considerando l’ampliamento dei reati perseguibili a querela), si deve archiviare di più per le nuove ipotesi tipizzate di remissione tacita di querela (introdotte in tema di giustizia riparativa).
Il tutto alla luce dei criteri di priorità, con i quali si permette di rinviare le indagini per un gran numero di procedimenti, in attesa che siano prima trattate le questioni più importanti.
Il mutato quadro normativo implica allora una serie di assestamenti conseguenziali, i quali inevitabilmente ricomprendono anche le norme rimaste invariate e, soprattutto, le prassi.
2. I criteri di priorità.
L’intervento culturalmente più significativo della riforma probabilmente va visto nell’introduzione dei “criteri di priorità per la trattazione delle notizie di reato e per l’esercizio dell’azione penale” (art. 3 disp. att. c.p.p. e art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006) [1].
Si è infatti andato ad incidere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, baluardo sì del principio di legalità/uguaglianza in sede processuale, ma in via di fatto in perenne crisi a causa della sua concreta inesigibilità. L’azione rimane obbligatoria, così come immutato è l’obbligo di indagare, ma l’effettivo esercizio dei due connessi doveri viene modulato: le notizie di reato che presentano certe caratteristiche – individuate dai criteri di priorità - devono essere prese in carico, tanto per l’avvio dell’indagine quanto per la scelta sull’azione, con precedenza sulle altre. E tutto questo impone una seria riflessione sulla compatibilità con l’art. 112 Cost.
Ebbene, tutto il sistema delle priorità appare condizionato, nella sua effettiva “applicabilità”[2], dall’approvazione della legge del parlamento sui criteri generali (ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006). Ma la proverbiale lentezza del legislatore fa sorgere il dubbio che bisognerà attendere a lungo. Certo, la riforma del processo penale è nata dalla necessità di adeguarsi a quanto ci chiede l’Europa, nonché ad ottenere i fondi del PNRR, sicché si può anche pensare che la marcia di adeguamento non si fermerà.
Appare allora legittimo interrogarsi su come bisognerà comportarsi in assenza, o comunque in attesa, dell’intervento legislativo.
Bisogna partire dal presupposto che la disciplina previgente taceva sul punto; erano state piuttosto le famose circolari del C.S.M. a regolare la materia. Sicché in senso tecnico qui non si pone un problema di “ultrattività” del precedente assetto normativo[3], ma solo di “applicabilità sospesa” della nuova disciplina (ovverosia degli artt. 3 e 127-bis disp. att. c.p.p. e dell’art. 1, comma 1, lett. b) d.lgs. 106/2006) in attesa dell’intervento normativo.
Si potrebbe allora ritenere che nella parte relativa alle priorità rimane a regime il vecchio sistema: possibilità – e non già obbligatorietà – dei progetti organizzativi di continuare a prevedere le priorità in virtù delle indicazioni del C.S.M. E sappiamo che in tutti i progetti organizzativi delle procure è ormai presente la regolamentazione delle priorità.
Occorre allora domandarsi in che modo - oggi, ma anche domani - le priorità agiscono e agiranno concretamente nell’ambito delle modifiche avvenute sulle indagini preliminari.
E da questo punto di vista si pongono due versanti di indagine: come trattare i reati non prioritari, in armonia con il principio di obbligatorietà; come garantire effettività alla trattazione prioritaria.
Dal primo punto di vista occorre capire il destino dei reati non prioritari, sul versante delle iscrizioni, così come su quello dei termini delle indagini e delle relative proroghe, nonché sulle scelte relative all’azione.
Sebbene si stia ipotizzando che per i reati non prioritari si dovrebbe imporre l’adozione di un provvedimento esplicito di sospensione della stessa iscrizione nei registri delle notizie di reato (collocandoli nel frattempo nel registro degli atti non costituenti notizia di reato), va decisamente esclusa questa possibilità: sarebbe in aperto contrasto con l’art. 112 della Cost.
Si deve piuttosto ritenere, da una parte, che la notitia criminis relativa a fattispecie non prioritarie vada del pari iscritta nei modelli 21 o 44, e, dall’altra parte, che comunque i termini delle indagini continuino a decorrere. Di conseguenza, anche per questi procedimenti dovranno prendersi le esplicite decisioni conclusive circa l’azione alla scadenza dei termini finali o entro i termini di determinazione se la notizia è stata già iscritta nel registro delle persone note.
“Priorità” vuol dire solo “precedenza”, la quale deve comunque intendersi riferita al contesto delle cadenze temporali previste, e il cui rispetto deve essere garantito indifferentemente. I reati non prioritari, quindi, non possono essere abbandonati a loro stessi, in attesa che si prescrivano, così che si precostituiscano le condizioni dell’archiviazione per avvenuta estinzione del reato. Questa, del resto, è una prassi già oggi pienamente affermata, ed è proprio alla sua eliminazione che è volta l’azione legislativa.
Invero anche i reati non prioritari devono essere, nel rispetto dei termini, oggetto di una decisione, nella quale chi ha interesse possa contraddire.
Sicché vedremo di volta in volta (infra, §. da 3 a 9) come nelle trame della nuova disciplina delle indagini si inserisce il trattamento di tali fattispecie non prioritarie, al fine di non violare l’obbligatorietà dell’azione penale.
Quanto al secondo tema di indagine, ossia quello dell’effettività delle priorità, occorre interrogarsi fin da ora su quanto sarà cogente il sistema delineato dalle riforme del 2022, una volta che entrerà a pieno regime con l’adozione della legge del parlamento e dei conseguenti progetti organizzativi. In pratica si tratta di capire se siano individuabili delle sanzioni, o comunque delle reazioni, da parte dell’ordinamento qualora non si rispetti l’ordine di precedenza nell’avvio delle indagini ovvero nell’esercizio dell’azione penale.
Va subito sottolineato però che l’inosservanza delle disposizioni relative alle priorità è configurabile solo nel caso in cui una notizia di reato non venga lavorata con precedenza, e non già nell’ipotesi contraria, in cui un reato non prioritario sia preso in carico senza attesa. L’affermazione trova la sua ragione nella formulazione dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 106/2006, nel quale si precisa che le notizie di reato prioritarie devono essere esaminate con precedenza rispetto ad altre. La violazione, dunque, riguarda solo il reato prioritario post-trattato. L’ipotesi contraria, al più, potrebbe configurarsi come indice sintomatico di una trasgressione, perché allora ci sarà un reato prioritario trascurato, e solo qui si anniderebbe l’eventuale invalidità.
Tale situazione, a prima vista, potrebbe sembrare una violazione relativa all’iniziativa del p.m. nell’esercizio dell’azione penale, ma invero è solo apparente la sussunzione della situazione nella nullità generale di cui all’art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p. L’iniziativa riguarda le azioni non esercitate dal p.m., l’esercizio officioso dell’azione, e non già la mera inerzia.
Ma non solo, se anche si volesse sostenere che la materia attiene all’iniziativa del p.m., dal punto di vista strutturale non c’è un atto da annullare e poi reiterare conformemente al dettato normativo. Sicché il sistema di reazione che scaturisce dalla dichiarazione di nullità non avrebbe ragion d’essere.
Qui invero è necessario trovare dei meccanismi che consentano di dar corso al procedimento prioritario.
La materia allora va coordinata – per quanto riguarda le priorità nell’esercizio dell’azione - con tutto il nuovo sistema previsto dal legislatore nei casi in cui il p.m. non assuma le sue determinazioni entro i termini previsti dal nuovo art. 407-bis, comma 2, c.p.p.
In tali ipotesi si è costruito un complesso sistema di “messa in mora”, che trova il suo apice nella richiesta dell’indagato e della persona offesa rivolta al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi (ex artt. 415-bis, comma 5-quater, e 415-ter, comma 3, c.p.p.). In tal modo tanto l’indagato, quanto soprattutto l’offeso, potranno reclamare il rispetto anche – se pur non solo - delle priorità.
In merito invece all’inerzia investigativa su un reato prioritario, la forma di reazione dell’ordinamento va trovata nel procedimento di archiviazione. L’opposizione della parte offesa per inerzia investigativa è la sede elettiva per lamentarsi della mancata indagine su un reato prioritario. Senza contare che in sede di udienza di archiviazione il giudice anche d’ufficio, con l’ordine di indagare, può stimolare il supplemento investigativo su un reato prioritario.
Ma l’aspetto più significativo di tutela delle priorità (tanto di quelle investigative quanto di quelle sull’azione) si rinviene nella nuova disciplina dell’avocazione (ex art. 412 c.p.p.), la quale a sua volta si inserisce – anche se non solo - nell’ambito del procedimento di messa in mora del p.m. che non si determini (ex artt. 415-bis c.p.p. e 415-ter c.p.p.).
Per le priorità nell’azione, l’avocazione può infatti essere disposta in tutti i plurimi casi in cui (e vedremo che non sono pochi) si verifichi un’inerzia sulle determinazioni conclusive delle indagini; e, inoltre, in tutte le ipotesi in cui vi sia inerzia sull’adempimento prodromico all’azione, ovverosia quello relativo all’ostensione degli atti (infra §. 7 e 8).
Ma anche rispetto alla violazione delle priorità investigative, l’avocazione costituisce uno strumento utile. Se viene aperta l’udienza di archiviazione, il Procuratore generale può sostituirsi al pubblico ministero e far valere la necessità di indagare sul reato prioritario.
Non è allora casuale che il legislatore abbia esplicitamente fatto menzione dei criteri di priorità nella disciplina dell’avocazione (ex il nuovo art. 127-bis. disp. att. c.p.p.): si è così introdotto un sistema di controllo gerarchico sui criteri di priorità, di tipo eventuale e di carattere sostitutivo. In definitiva i reati prioritari andrebbero avocati con priorità rispetto ai non prioritari, ferma restando la facoltatività dell’avocazione.
Probabilmente questo nuovo sistema dovrà pregiudizialmente fare i conti con il quadro costituzionale.
È palese che i criteri si pongano in maniera assai problematica rispetto all’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale; ed anche la selezione delle “reali” priorità è in grado di suscitare seri attriti con l’art. 3 Cost.
Occorre allora capire come la Corte costituzionale possa essere investita di un eventuale sindacato di legittimità costituzionale.
A ben vedere, però, assai difficilmente si potrebbe configurare la possibilità di sollevare un giudizio incidentale. Il problema risiede nel fatto che, almeno prima facie, non appare individuabile una sede processuale nella quale la questione possa essere sollevata o qualificata come “rilevante”.
Se già pregiudizialmente non è configurabile una nullità (o altra sanzione processuale) rispetto al mancato rispetto della disciplina delle priorità, a maggior ragione, viene a mancare la tipica sede processuale nella quale avviare l’incidente di costituzionalità.
Si potrebbe poi discutere se la sede per sollevare la questione possa individuarsi nell’ambito del procedimento per messa in mora del p.m. ritardatario nelle determinazioni circa l’azione (ovvero se si tratti di un “giudizio” di fronte ad un “giudice”[4]). Ma non vale la pena scioglier il nodo, perché in tali contesti la questione sarebbe comunque irrilevante: le norme da applicare non contengono alcun riferimento ai criteri di priorità, sicché non sarebbe applicabile nel processo a quo la disciplina che si vuole sindacare sotto il profilo della compatibilità costituzionale[5]. E la medesima conclusione – ovverosia l’assenza di rilevanza – va tratta rispetto il procedimento di archiviazione.
Invero l’unica strada possibile, per evitare un cortocircuito normativo in cui una legge del parlamento sia insindacabile dalla Corte costituzionale, è quella di prevedere la possibilità di esercitare un conflitto di attribuzioni.
Il procuratore della repubblica è il titolare dell’azione penale obbligatoria, e in tale veste – come ci ha spiegato la Corte costituzionale[6] - è legittimato a sollevare un conflitto di attribuzioni per tutelare le sue prerogative costituzionali in merito, proprio, all’azione. Analoga conclusione può trarsi poi rispetto al procuratore generale presso la corte d’appello, ma solo dopo che abbia avocato il procedimento ai sensi dell’art. 412 c.p.p. e di conseguenza sia investito delle scelte relative all’azione.
Ebbene: la legge del parlamento che regolerà i criteri generali delle priorità ben potrebbe incidere sulle attribuzioni del p.m., nel “modo” e nella “misura” in cui interferisca sull’obbligo dell’azione in violazione degli artt. 112 e 3 Cost.
E la Corte costituzionale ormai da tempo ha ritenuto che il conflitto di attribuzioni possa avere ad oggetto una legge, a condizione però che non sia configurabile una sede incidentale in cui far valere la questione[7]. Ma non solo: in tali contesti – in assenza di un atto – è consentita la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge che lede le prerogative dell’organo, producendone così l’annullamento in analogia a quanto avviene nel giudizio incidentale.
Si può poi discutere se la legittimazione a sollevare il conflitto di attribuzioni competa solo al procuratore della repubblica e al procuratore generale, o, invece, anche ad ogni p.m. La soluzione dipende ancora una volta da una pregiudiziale: è necessario prima capire se con la riforma si è configurata una “titolarità esclusiva” dell’azione penale in capo al procuratore capo, o, al contrario, una “titolarità diffusa” in capo a ogni singolo p.m.
3. L’iscrizione della notizia di reato.
Si è dunque codificato ciò che fino a ieri era lasciato alla determinazione dell’interprete e della prassi[8].
I commi 1 e 1-bis dell’art. 335 c.p.p. indicano le condizioni affinché le notizie di reato possano essere iscritte nei relativi registri: se contengano la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi ad una fattispecie incriminatrice (per il modello 44); se risultino indizi a carico di una persona (per il modello 21)[9].
Guardando alla nozione oggi ricavabile dall’art. 335 c.p.p. di notizia di reato oggettiva, la tentazione sarebbe di affermare che nulla sia cambiato: anche ieri non si potevano iscrivere fatti inverosimili, indeterminati e non riconducibili ad una fattispecie di reato, sarebbe stato certo un abuso.
Ma alle tentazioni occorre resistere e affermare, al contrario, che si è alzata la soglia dell’iscrizione oggettiva: il legislatore sta invitando con forza a “cestinare” tutte quelle notizie nelle quali non sia già descritta una “pre-imputazione” vera e propria.
Se ieri si riteneva che nella notizia fosse sufficiente l’indicazione anche dei soli elementi nucleari del reato (condotta e/o evento) [10], oggi appare necessario – proprio a causa della parola “fatto” inserita nell’art. 335 c.p.p. - descrivere tutti gli elementi fattuali richiesti da una fattispecie astratta: condotta, evento, nesso causale, presupposti e modalità della condotta[11].
Fatti “acefali”, in cui emerga solo un frammento della fattispecie incriminatrice non possono più essere iscritti. Occorre quindi descrivere, per esempio, la finalità del profitto o la modalità abusiva della condotta, o quella violativa di norma di legge, o ancora, il metodo mafioso, e così dicendo per tutti gli elementi fattuali che denotano e connotano il nucleo essenziale del reato. Questo vorrà dire che probabilmente si iscriveranno più notizie relative alla fattispecie di reato “generale” piuttosto che alla corrispondente fattispecie di reato “speciale” (corruzione per l’esercizio della funzione piuttosto che la corruzione propria), e, di conseguenza, potrebbero aumentare i casi in cui sarà necessario aggiornare la notizia di reato[12]. Ma, al contrario, potrebbe assistersi ad una diminuzione degli aggiornamenti rispetto agli elementi fattuali non specializzanti[13].
Insomma, se va confermato che il termine “fatto” all’interno del codice è usato dal legislatore in più significati (ai fini, per esempio, del contenuto dell’imputazione, o delle modifiche dell’imputazione), si deve ritenere che in tale contesto esso valga ad indicare tutti gli elementi del “fatto tipico” descritti in una fattispecie incriminatrice, allo stesso modo in cui è stato inteso dalla Corte Costituzionale in riferimento al divieto di un secondo giudizio, ex art. 649 c.p.p.[14]
Ma non solo, viene così confermato che i fatti esposti nella notizia devono già corrispondere di per sé agli elementi astratti del reato. Fatti che solo in via inferenziale e indiretta riportano ad una fattispecie incriminatrice vanno ora sicuramente cestinati, come ad esempio tutte le descrizioni di fatti che secondo l’id quod prelunque accidit sono solo indici sintomatici – anche se ad altissima valenza - della commissione di un reato (il c.d. sospetto che sia stato commesso un reato).
In merito alla non inverosimiglianza e alla determinatezza, invece, sembrerebbe che il legislatore stia sollecitando ad escludere dall’iscrizione tutti i fatti che “non hanno l’apparenza di essere veri e reali”. Ma la “non apparenza al vero” dipende dalla descrizione dei fatti, che non a caso devono essere determinati. Probabilmente i due requisiti vanno letti insieme: è l’analiticità che consente di valutare la non inverosimiglianza. La determinatezza, quindi, dovrebbe essere intesa come necessità di caratterizzare i fatti che si affermano avvenuti. Senza dubbio, quindi, non può essere considerata notizia di reato una proposizione referenziale che, nella sua formulazione, risulti corrispondente alla proposizione legislativa: è il caso, ad esempio, dell’informazione che si limiti semplicemente ad affermare che “qualcuno ha cagionato la morte di un uomo”, o che “qualcuno si è impossessato di una cosa mobile altrui sottraendola a chi la deteneva”. Ma la determinatezza impone di superare il più possibile tale soglia, in quanto è necessario raggiungere un livello che permetta una valutazione concreta, e non già solo astratta, sulla apparente realtà del fatto. È sempre possibile, astrattamente, che qualcuno abbia rubato, ma concretamente i fatti descritti devono apparire come realmente avvenuti. Non si tratta però di escludere solo i fatti “assurdi” o “abnormi”, ovverosia di impossibile verificazione, ma anche quelli che, proprio per mancanza di determinazione, non appaiono come realmente avvenuti. È, insomma, necessario un racconto.
E qui si tratta di operare una valutazione solo in fatto, che però ha ad oggetto la rappresentazione: i “fatti rappresentati” devono essere determinati e verosimili, e non già i “fatti reali”. La verosimiglianza non è una soglia probatoria da raggiungere prima dell’iscrizione, ma un carattere dell’affermazione, della narrazione. Da questo punto di vista, allora, nulla è cambiato rispetto al passato: la notizia di reato oggettiva continua ad essere un’informazione “nuda”; non richiede la presenza di elementi investigativi volti a dimostrare che non è inverosimile che il fatto sussista e costituisca reato, perché è sufficiente che il fatto narrato appaia come sussistente e costituente reato[15]. Non sembra, insomma, che il legislatore abbia abiurato alla scelta fatta con l’adozione del Codice Vassalli: la verifica processuale inizia dopo l’iscrizione e non già prima.
E sotto tale profilo è emblematico l’inserimento nell’art. 335 c.p.p. del sintagma “in ipotesi”. Si tratta del giudizio conclusivo cui è chiamato il p.m. nel momento in cui iscrive: i fatti rappresentati, se fossero in ipotesi veri, sarebbero “previsti dalla legge come reato”, e su questa ipotesi di lavoro si apriranno le indagini preliminari[16].
In definitiva, la notizia di reato è, come nel passato, “l’ipotesi” su cui si indagherà, che diventerà “tesi” qualora fosse formulata l’imputazione, e che diventerà - dopo la “critica” dibattimentale - “verità” con la sentenza, secondo l’attuale accezione relativistica e scientifica del concetto di verità[17]. Ma si tratta ora di un’ipotesi ben strutturata.
Dal punto di vista della notizia di reato soggettiva, invece, la novità appare assai più evidente: non è più sufficiente che il nome del possibile responsabile sia indicato o sia comunque identificato, occorre piuttosto che risultino degli indizi a suo carico. In pratica oggi è consentito ciò che ieri appariva vietato: direzionare l’indagine verso un sospettato ben identificato, senza che sia necessaria la previa iscrizione soggettiva, perché quest’ultimo adempimento presuppone che già risulti un quadro probatorio indiziario[18]. L’iscrizione, quindi, impone una valutazione dei risultati investigativi: sono gli esiti dei singoli atti di indagine che consentono, ad un certo momento, di procedere all’iscrizione. Viene dunque invertito il meccanismo rispetto al passato: prima si indaga e solo dopo si iscrive, e non più il contrario.
In particolare, il legislatore si è servito della regola giurisprudenziale utilizzata per sindacare la qualifica del dichiarante nell’art. 63 c.p.p.
In via generale si può subito osservare che la soglia probatoria da raggiungere si pone a metà strada fra il sospetto e i gravi indizi: sono necessari degli indizi - e non dei meri sospetti - ma gli indizi non devono ancora essere gravi.
Si tratta di una soglia sicuramente “vaga”: il passaggio dalla categoria più bassa (il sospetto) a quella intermedia (gli indizi) a quella alta (i gravi indizi) non è individuabile con precisione ed oggettivamente: ma questa è proprio la caratteristica dei termini vaghi[19]. Non a caso tale aspetto di vaghezza si riflette – e poi lo vedremo meglio - sul controllo che è chiamato a fare il giudice: la retrodatazione dell’iscrizione presuppone una inequivocità del ritardo, ovverosia che con certezza si sia passati dalla soglia più bassa a quelle più alta, o addirittura alla successiva. Nella progressione è proprio la soglia intermedia ad essere in assoluto – obiettivamente - incerta, rispetto alle altre due, e - ancor di più - alle ipotesi concrete che si pongono al confine fra l’una e le altre due[20].
La conseguenza più vistosa di tale mutamento di prospettiva è l’allargamento delle ipotesi in cui si deve iscrivere nel registro delle notizie di reato contro ignoti e - a cascata - l’allargamento dei casi di archiviazione contro ignoti.
In conclusione, finché si indaga su un mero sospettato, la notizia di reato è ancora oggettiva, e dunque va lasciata nel registro delle notizie di reato contro ignoti. Scaduti poi i primi sei mesi di indagine, di fronte a dei meri sospetti, si può o chiedere l’archiviazione per essere rimasto ignoto l’autore del reato, o, in alternativa, la proroga delle indagini.
Alla luce di tale inedito quadro occorre fare delle riflessioni di sistema, soprattutto in relazione alle prassi codificate nelle circolari e nei progetti organizzativi delle Procure, nonché nelle circolari e delibere del C.S.M., che probabilmente andranno riviste. E appare opportuno a tal fine distinguere fra notizie di reato tipiche e atipiche.
Rispetto le notizie di reato tipiche, si configureranno degli “oneri” aggiuntivi in capo a chi le presenta.
I difensori che eventualmente cureranno per una parte offesa una querela, o anche eventualmente una denuncia, dovranno con molta più precisione descrivere i fatti che portano all’attenzione degli organi investiganti. E lo stesso si può dire per i titolari dell’obbligo di referto o comunque di denuncia. Il rischio altrimenti è l’auto-archiviazione delle comunicazioni. Senza contare che rimane ferma la possibilità di presentare già, insieme alla notizia di reato, elementi a conferma di quanto segnalato.
Occorre poi capire quale sia il protocollo da seguire se una denuncia o una querela - ma fermiamoci ora alla notizia di reato in cui non è indicato alcun autore – non sia dotata dei requisiti richiesti dalla legge ai fini dell’iscrizione. Di fronte ad una notizia di reato qualificata, idonea soltanto a far sorgere il sospetto che un reato sia stato commesso, perché acefala o non troppo determinata, o contenente la descrizione di fatti solo indirettamente sussumibili sotto una fattispecie incriminatrice, nascono vari dubbi.
Se la notizia di reato ancora non iscrivibile viene presentata alla polizia giudiziaria, è incerto se permanga il dovere di trasmetterla al p.m. E, di conseguenza, occorre chiedersi se sia stato spostato il confine fra gli atti di indagine compiuti ex art. 347 c.p.p. (ovverosia dopo che sia acquisita una notizia di reato e prima che sia trasmessa al pubblico ministero) e i c.d. atti pre-investigativi – non regolati dalla legge - compiuti al fine di formare una notizia di reato iscrivibile[21].
Sono temi discussi da sempre. Si potrebbe infatti affermare - senza mai errare - tutto e il contrario di tutto:
- che la notizia tipica priva dei caratteri richiesti dal 335 c.p.p. vada cestinata direttamente dalla polizia giudiziaria, non costituendo informazione da trasmettere al p.m.;
- che non sia possibile procedere all’immediata cestinazione, ma che sia comunque necessario per la polizia giudiziaria verificare preliminarmente se l’informazione tipica acquisita in realtà nasconda una notizia di reato vera e propria, cosicché solo all’esito della verifica si imporrebbe la trasmissione al p.m., o addirittura solo in caso di esito positivo della stessa.
- che vada trasmessa al p.m. senza nessun approfondimento, né investigativo, né pre-investigativo. E in questo ultimo caso occorre chiedersi ancora se il titolare delle indagini debba subito inviarla all’archivio della procura, o possa decidere lui se sottoporla ad una verifica preliminare, ad una pre-inchiesta, che porterà all’iscrizione o alla cestinazione.
Dubbio, quest’ultimo, che riguarda anche le notizie di reato tipiche, sempre non iscrivibili, che vengono acquisite direttamente dal p.m., senza il tramite della polizia giudiziaria.
Invero per le notizie di reato tipiche prive dei caratteri di cui all’art. 335 c.p.p. sembrerebbe che debba rimanere ferma la regola secondo cui è il p.m. a dover valutare se iscriverle o meno ai sensi dell’art. 109 disp. att. c.p.p.: la polizia giudiziaria non può dunque cestinarle, attraverso la non informazione al p.m. Eppure, sembra che le prime circolari delle procure stiano andando in una direzione contraria, ovviamente giustificata dalla difficoltà oggettiva di gestire le enormi masse di notizie di reato tipiche che vengono trasmesse. Si stanno infatti esortando gli uffici di p.g. a trasmettere solo notizie di reato ben determinate e già provviste di un solido quadro investigativo.
Invero andrebbe coltivata una diversa e nuova prospettiva. Per esempio, immaginando un’informativa cumulativa, nella quale la p.g. trasmetta alla procura tutte quelle notizie di reato tipiche, che non presentino i requisiti richiesti dal nuovo art. 335 c.p.p. ai fini dell’iscrizione. Senza dunque che vengano svolte né pre-investigazioni, né indagini preliminari vere e proprie. Ferma restando poi la facoltà del pubblico ministero di individuare quelle che ritiene meritevoli di approfondimento, attraverso una pre-inchiesta, delegata o meno, finalizzata ad una scelta più ponderata fra iscrizione o auto-archiviazione[22]. Va invece escluso con forza che in tal caso possano essere compiuti già atti investigativi a tutti gli effetti.
Certo è che se già rispetto alle notizie di reato iscritte operano (ora in via facoltativa, nel futuro con la legge che dovrà essere approvata dal parlamento in via obbligatoria) criteri di priorità per indagare, occorre domandarsi se sia coerente un sistema che, da un lato, inviti a tralasciare l’indagine di una notizia iscritta ma non prioritaria e, dall’altro, consenta di verificare – tramite una pre-inchiesta - se una denuncia non costituente ancora una notizia di reato possa arrivare alla soglia dell’iscrizione.
La conseguenza dovrebbe essere quella di sottoporre la scelta di aprire una eventuale pre-inchiesta sulla notizia di reato tipica, ma non iscrivibile ai sensi dell’art. 335 c.p.p., quantomeno alle stesse priorità investigative delle notizie di reato, se non addirittura a “priorità pre-investigative” ancora più selettive.
E la stessa considerazione può estendersi alla presa di iniziativa delle notizie di reato.
In riferimento alla c.d. ricerca delle notizie di reato, per esempio, se un’intercettazione preventiva informa sulla commissione di un reato, rimane doverosa la pre-inchiesta, così come se la notizia sia trasmessa dai sevizi di informazione. E lo stesso può predicarsi per le morti sospette: si tratta di notizie relative per lo più a reati prioritari. Ma le medesime riflessioni si possono fare per la ricerca della notizia di reato che trova la sua fonte in qualunque altra informazione: occorrerà solo verificare la priorità o meno del fatto. E questo dovrebbe valere tanto per una generica inchiesta giornalistica, quanto per una denuncia anonima, tanto per una notizia appresa da un informatore di polizia, quanto per quella appresa a seguito di un colloquio investigativo eseguito da organi di polizia giudiziaria, o per notizie acquisite durante lo svolgimento di attività amministrative di tipo ispettivo, o rispetto a quelle comunicate per legge al p.m. (sentenze di fallimento, nuove procedure regolate dal codice della crisi d’impresa, attività bancarie o finanziarie sospette). In tutti i modi in cui una pre-notizia di reato arriverà al p.m. o alla polizia, non muta l’esigenza di una eventuale pre-inchiesta per ciò che dovrebbe diventare una notizia di reato prioritaria.
In riferimento invece alle notizie di reato atipiche che consentono invece un’immediata iscrizione, nulla muta, se non che, essendosi alzata la soglia dell’iscrizione, si è allargata la categoria delle pre-notizie di reato che richiedono – per arrivare all’iscrizione - una pre-investigazione e, di contro, si è ridotta la categoria delle notizie di reato atipiche già formate e immediatamente iscrivibili.
In pratica, perquisizioni preventive, indagini e acquisizioni provenienti dal procedimento di prevenzione antimafia, atti di indagine e prove acquisite in altri procedimenti, inchieste giornalistiche specifiche e determinate, notizie di reato raccolte dai collaboratori di giustizia o durante i colloqui investigativi svolti dal procuratore antimafia continuano ad essere notizie di reato, a condizione però che superino la soglia oggi pretesa dal legislatore: dunque, si impone una più accurata ponderazione del contenuto di tali atti.
Rispetto invece all’iscrizione nel registro delle notizie di reato contro persone note, appare in qualche modo semplificato il sistema.
Da una parte, richiedendosi indizi, appare quasi scontato che ci saranno meno occasioni di coincidenza fra l’apprensione della notizia di reato oggettiva e soggettiva.
Dall’altra, e di conseguenza, ben difficilmente si verificherà l’esigenza di una pre-investigazione soggettivamente indirizzata, che anzi a questo punto andrebbe in assoluto esclusa.
Infine, probabilmente si allargheranno di molto i numeri delle archiviazioni per essere rimasto ignoto l’autore del reato.
Dal punto di vista operativo, poi, si dovrà con maggiore attenzione verificare il passaggio da un mero sospetto all’indizio, attraverso un’attenta lettura degli atti investigativi compiuti. Va evitato da subito che possa intervenire un provvedimento di retrodatazione.
In conclusione, se si guarda all’obiettivo generale che si vuole realizzare, - iscrivere meno procedimenti – si dovrebbero modificare i documenti organizzativi del C.S.M. e delle singole procure.
Vi dovrebbe essere un invito rivolto ai p.m. e alla polizia giudiziaria: su tutte le notizie di reato relative a “reati non prioritari” che non raggiungono la soglia dell’iscrizione non deve essere svolta alcuna verifica preliminare.
Dovrebbe poi rimanere ferma la prassi, per i “reati prioritari”, di svolgere la pre-investigazione rispetto a quelle informazioni - tipiche o atipiche – che non raggiugano la soglia dell’iscrizione oggettiva, al fine di verificare se possa invece essere raggiunta.
Parallelamente a ciò dovrebbe essere inserito un ulteriore invito rivolto alla polizia giudiziaria: di svolgere gli atti investigativi veri e propri nel periodo che va dalla acquisizione della notizia di reato alla sua trasmissione al p.m. ex art. 347 c.p.p. , solo nei casi in cui la notizia di reato relativa a un reato prioritario già presenti – senza dubbio - i caratteri per procedere all’iscrizione, ribadendo che in tal caso possano essere compiuti atti soggettivamente indirizzati, sia ai fini della mera identificazione, sia, se necessario, ai fini della eventuale responsabilità.
Si dovrebbe poi sottolineare il dovere in capo al p.m. di far decorrere la data dell’iscrizione dal primo atto investigativo vero e proprio compiuto dalla p.g. prima della formale iscrizione.
Infine, si dovrebbe sottolineare la possibilità per il p.m. di cestinare le notizie – tipiche o atipiche - che, se pur oggetto di iniziale indagine preliminare vera e propria da parte della polizia di sua iniziativa ex art. 347 c.p.p., non siano considerate – a differenza di quanto ha ritenuto la polizia giudiziaria - notizia di reato iscrivibili ai sensi dell’art. 335 c.p.p.
4. Il controllo sulla correttezza delle iscrizioni
Alla fine si è introdotto ciò che da anni si reclamava: il sindacato sulle date di iscrizione nei registri delle notizie di reato[23].
Ed è questa la ragione fondamentale per la quale il legislatore ha individuato i parametri che devono guidare le iscrizioni sui registri nell’art. 335 c.p.p.: se si introduce un controllo, è necessario fornire le regole su cui effettuarlo, altrimenti all’ampia discrezionalità del p.m., si sarebbe solo sostituita quella del giudice[24].
Si è al cospetto di un sistema virtuoso, che ha guardato più in là della tanto attesa facoltà da parte dell’indagato di reclamare la retrodatazione dei termini della sua indagine: si è infatti còlta l’occasione per costruire un sistema più ampio, in cui il controllo sulle iscrizioni viene diversificato per contenuto, per legittimazione attiva e per momenti processuali di intervento[25].
Quanto al contenuto, va distinto il controllo sulla mancata iscrizione soggettiva (che porterà alla c.d. iscrizione coatta), dal sindacato sulla data di effettiva iscrizione oggettiva e soggettiva (che porterà alla retrodatazione di iscrizioni già avvenute).
Quanto ad iniziativa, l’omissione dell’iscrizione soggettiva è attribuita alla sola iniziativa officiosa del g.i.p., mentre il sindacato sulle date di iscrizione viene costruito come un’eccezione dell’indagato o dell’imputato rivolta al giudice procedente. Al p.m., invece, è lasciato solo un intervento autocorrettivo sulle date di iscrizione, con il quale si cerca di prevenire l’eccezione di parte[26].
Quanto al momento di intervento, il g.i.p. può ordinare l’iscrizione soggettiva tanto nella fase delle indagini contro ignoti, quanto in quella contro persone note, compresi i relativi procedimenti di archiviazione; di contro la persona indagata può – necessariamente - chiedere il sindacato soltanto dal momento in cui diviene indagato, ma anche dopo in qualità di imputato. Da parte sua, il p.m. può autocorreggersi solo al momento della prima iscrizione, tanto oggettiva quanto soggettiva.
Venendo più nel dettaglio, in merito all’art. 335-ter c.p.p. si è al cospetto di una inedita ipotesi di iscrizione soggettiva coatta “diffusa”[27]. Il giudice per le indagini può ordinare al p.m. di iscrivere il nominativo di un indagato quando sia investito di una qualunque decisione riservata alla sua competenza. In pratica, il giudice può imporre l’iscrizione durante lo svolgimento sia delle indagini contro ignoti, sia contro noti, individuando in questo secondo caso ulteriori indagati.
Tale forma di controllo troverà nelle procedure di richiesta di proroga delle indagini contro ignoti o nella corrispondente archiviazione – nella quale era già prevista - la sua sede elettiva; probabilmente tale momento procedimentale – rispetto al passato - sarà destinato a decollare, molto più di quanto sia successo fino ad oggi e lo vedremo (§. 5).
Per il resto la disposizione – nei procedimenti contro ignoti – potrebbe permettere l’iscrizione coattiva qualora sia stata richiesta un’intercettazione o un controllo sui tabulati telefonici.
Per i procedimenti contro persone note, invece, è immaginabile un assai più ampio ricorso: l’ordine di iscrivere ulteriori indagati potrebbe normalmente nascere tanto da una richiesta cautelare, quanto da un interrogatorio di garanzia; tanto da una richiesta di intercettazione, quanto da quella volta all’acquisizione dei dati esterni alle comunicazioni; ma, soprattutto, in sede di proroga delle indagini e di archiviazione, ipotesi, quest’ultima già praticata diffusamente. Va invece per lo più escluso che da una convalida di una misura pre-cautelare, o da una richiesta di incidente probatorio, il giudice possa trarre le informazioni necessarie per individuare altri indagati, sebbene non sia normativamente escluso.
Va infatti ricordato che per procedere all’ordine di iscrizione soggettiva al giudice deve palesarsi che vi siano indizi nei confronti della persona. Qui il sindacato dipende dal materiale che il giudice è chiamato a valutare per prendere la decisione di cui è investito: potrebbero essere tutti gli atti fino a quel momento raccolti, ma anche solamente una loro selezione[28]. Probabilmente è questo il motivo per cui è previsto, da un lato, che il p.m., quando presenta una richiesta al g.i.p. deve sempre indicare i reati e i nominativi completi dei vari indagati (ex art. 110-ter disp. att. c.p.p.), e, dall’altro, che l’ordine di iscrizione del giudice ai sensi dell’art. 335-ter c.p.p. sia preceduto dall’interlocuzione con il p.m.[29]
Va poi escluso che in tale sede si possa valutare se la mancata iscrizione sia giustificata o inequivocabile, in analogia con quanto previsto per il sindacato sulla retrodatazione. Qui la norma tace: l’omissione non entra quindi nella fattispecie, imponendo un accertamento volto a verificarne le ragioni e i caratteri, a differenza di quanto accade per il ritardo ai fini della correzione della data di iscrizione.
Non a caso il g.i.p. d’ufficio può ordinare solo l’iscrizione soggettiva, e non già la data da cui essa inizia a decorrere: tale scelta verrà fatta dal p.m. nel momento in cui gli venga ordinata l’iscrizione e solo dopo potrà essere sindacata, attraverso l’eccezione di parte volta alla retrodatazione, allo stesso modo di quando iscriva di sua iniziativa.
Al p.m. però è concessa una facoltà: può indicare una data precedente a far corso della quale si intende iscritta la notizia. È un potere esercitabile ogni volta che egli procede alla prima iscrizione (tanto oggettiva, quanto soggettiva; tanto spontanea, quanto coattiva), volto a prevenire a monte le eccezioni sulla retrodatazione, sebbene anche l’intervento autocorrettivo sia sindacabile con la successiva eccezione di parte.
Le ragioni sono ovvie e varie: il p.m. valuta meglio l’esistenza degli indizi, magari nel momento di passaggio fra l’iscrizione da un modello all’altro; si rende conto che un reato ulteriore – per lo più connesso o collegato - già emergeva agli atti; si accorge che la polizia giudiziaria ha compiuto una serie di rilevanti attività investigative prima della trasmissione dell’informativa; ma si possono immaginare le più svariate ragioni.
È escluso invece che possa essere compiuta un’auto-correzione in un momento successivo alla prima iscrizione, attraverso una sorta di retrodatazione in itinere. Durante lo svolgimento di un’inchiesta al p.m. è solo consentito di procedere a nuove iscrizioni. La ragione va ricercata nella necessità di non rendere la data di inizio delle indagini (tanto oggettive, quanto soggettive) troppo fluida e incerta: e così sarebbe inevitabilmente se il p.m. in ogni momento potesse correggersi.
Invero solo alla persona indagata – o imputata - spetta di avviare la procedura che porterà, se accolta, a modificare la data di decorrenza dei termini delle indagini durante l’iter procedimentale; di contro, solo in tale contesto, il giudice potrà indicare, in accoglimento dell’istanza, la data dalla quale deve intendersi iscritta la notizia di reato e il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.
A tal fine, l’art. 335- quater c.p.p. regola un vero e proprio procedimento, invero assai complesso[30].
La richiesta, a pena di inammissibilità, deve indicare le ragioni e gli atti su cui si fonda: il requisito richiama palesemente la giurisprudenza sui ricorsi autosufficienti. Non spetterà dunque al giudice verificare la consistenza di tutto il quadro investigativo raggiunto nel momento in cui viene fatta la richiesta, ma dovrà limitarsi agli atti indicati dall’istante, così che non è da escludere – proprio in analogia con i principi giurisprudenziali sui ricorsi autosufficienti – che sarà richiesta anche la “produzione” degli stessi[31].
Bisognerà dunque individuare gli “specifici indizi” a carico della persona poi indagata, emersi precedentemente alla data in cui è avvenuta l’iscrizione soggettiva. Si richiederà quindi la comparazione fra gli atti investigativi compiuti, perché occorrerà ricostruire lo sviluppo investigativo, al fine di individuare il momento di passaggio fra il mero sospetto e gli indizi specifici.
Il giudice, di contro, potrà pronunciare la retrodatazione solo in assenza di una causa di giustificazione[32], e in mancanza di equivocità del ritardo[33]. Si tratta di presupposti che evocano assai la terminologia penalistica.
Il primo requisito farà sì che la retrodatazione non potrà essere ordinata per la presenza di contrapposti interessi tutelati da parte dell’ordinamento, come, ad esempio, la necessità di mantenere ancora riservata l’indagine dal punto di vista soggettivo, perché in corso operazioni sotto copertura, o, più in generale, perché ricorrono le condizioni che oggi giustificano una richiesta di posticipazione della discovery ai sensi degli artt. 415-bis e 415-ter c.p.p.: pericolo di vita, sicurezza pubblica, o svolgimento di particolari attività investigative che sarebbero frustate anche dalla semplice iscrizione tempestiva.
Il secondo requisito, invece, determinerà la necessità di accertare, ai fini dell’ordine di iscrizione, un ritardo evidente: si pensi, per esempio, al caso in cui si stiano svolgendo inchieste particolarmente complesse, con pluralità di persone coinvolte; così che, se a posteriori è possibile con chiarezza individuare il passaggio fra il sospetto e l’indizio, a priori tale operazione risulta impraticabile. Si potrebbe ritenere che qui venga in rilievo una valutazione che richiama una sorta di mancata colpevolezza, non psicologica però, ma fattuale, che si concretizza in un giudizio “ora per allora”, come avviene per il delitto tentato di cui all’art. 56 c.p. Più in generale, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto risolvere la difficoltà obiettiva di individuare con precisione il momento in cui emergano degli indizi. L’idea insomma è di evitare troppe questioni sul punto, semplificando l’accertamento: in questa prospettiva, va individuato il momento in cui non è più controversa la consistenza probatoria nei confronti dell’indagato.
Si tratta di due requisiti che dal punto di vista degli oneri probatori sembrerebbero – per come è costruita la disposizione - degli “elementi negativi” della fattispecie “ritardo”, così che spetterebbe all’indagato il relativo onere, con conseguenziale necessità di fornirne la piena prova: nel dubbio o nell’assenza di prova, la retrodatazione non può essere concessa.
Ma ricostruita in questi termini, la fattispecie rischia di dar luogo ad una probatio diabolica, soprattutto per il profilo che attiene alla mancata giustificazione: è noto, del resto, che il riparto dell’onere probatorio debba basarsi altresì sulla vicinanza della prova. Il problema può essere risolto allora ricorrendo alla giurisprudenza sulle cause di illiceità speciali: spetta qui al p.m. allegare la giustificazione[34]. Si tratta però di un semplice onere di allegazione dei motivi non conosciuti né conoscibili dal giudicante, né dalla persona indagata, sicché non potrà essere ordinata la retrodatazione in presenza di un mero principio di prova o di una prova incompleta; di contro, dovrà essere ordinata la retrodatazione in difetto assoluto di prova sull’assenza di giustificazione oltre che in presenza prova contraria[35].
Un requisito aggiuntivo poi è previsto nella sola ipotesi in cui la questione sia sollevata durante un incidente che si apre nel corso delle indagini, qui è infatti richiesta la rilevanza della questione, nel senso che la retrodatazione deve essere elemento che concorre alla decisione. L’idea sottesa, probabilmente, va individuata nella volontà di non appesantire le decisioni con questioni che esulano dal tema. In quest’ottica, certamente, il requisito della “rilevanza” è soddisfatto se la retrodatazione è finalizzata a far valere l’inutilizzabilità di atti che devono essere utilizzati per la decisione richiesta (come, ad esempio, per le misure cautelari). Si può poi ipotizzare una diversa “rilevanza” per l’incidente probatorio, laddove la retrodatazione incida sulla qualifica che riveste la persona che si vuole sentire (quella di testimone o quella di parte). Ma, ancora, la questione è “rilevante” in sede di richiesta di proroga delle indagini, ai sensi dell’art. 406 c.p.p.: ben potendo il giudice negare la proroga se gli ulteriori termini che si chiedono sono stati già impiegati ritardando l’iscrizione soggettiva.
A pena di inammissibilità, è poi previsto un termine di venti giorni da quando si è venuti a conoscenza degli atti investigativi che giustificano l’istanza. La ragione è chiara: da una parte, il ritardo presuppone una relazione rispetto alla sequenza delle attività (di per sé un singolo atto non ci può dire molto se non è comparato con quelli precedenti); dall’altra, per evitare l’eventualità di un impiego strumentale dell’eccezione (conservarla e sollevarla per la prima volta solo nei giudizi di impugnazione), si è deciso di introdurre un termine, che, se rispettato, legittima poi la riproposizione dell’istanza eventualmente denegata durante tutta la sequenza processuale, in analogia con il regime delle nullità.
Certo, dal punto di vista sistematico è un po’ un pasticcio, perché l’incidente non è volto a far valere l’inutilizzabilità, ma piuttosto è finalizzato alla sola retrodatazione, la quale, dunque ha un suo regime specifico[36]. La conseguenza è però l’emergere di una inutilizzabilità, la quale dovrebbe conservare il suo statuto.
Invero qui si è in presenza di una inutilizzabilità eventuale: fino a quando non è modificato il termine, l’inutilizzabilità non esiste, è solo potenziale, secondum eventum. Ma non solo: è anche destinata a sparire e poi ricomparire, qualora ogni giudice investito del riesame sulla retrodatazione prenda una decisione diversa. Senza dimenticare che, una volta dichiarata, la questione di inutilizzabilità potrà essere fatta valere sempre, qualora l’atto sia comunque utilizzato senza che sia preliminarmente ribaltato il sindacato sull’iscrizione. Non ha allora più senso continuare ad applicare l’eccentrico regime della inutilizzabilità relativa, codificato dalla giurisprudenza in riferimento all’art. 407 c.p.p.
Quanto al regime giuridico, il sistema varia a secondo della sede e del momento in cui è proposta.
Se nasce come incidente specifico durante le indagini, il regime è costruito ad imitazione della richiesta di proroga, ma con delle differenze. Essendo invertiti i ruoli delle due parti, l’istante è qui l’indagato, mentre la domanda va notificata al p.m. a sua cura, in quanto deve darne prova contestualmente all’istanza; sono poi previste delle controdeduzioni scritte di entrambi, dopo l’iniziale confronto fra l’istanza dell’indagato e le memorie scritte del p.m.; infine nell’eventuale contraddittorio orale, convocato con un avviso e senza termini pre-indicati dal legislatore per la fissazione, è assente il richiamo alle forme dell’art. 127 c.p.p. Probabilmente il legislatore vuole evitare il più possibile che l’incidente sia fonte di invalidità e costringa ad un’inesigibile ripetizione.
Ma durante le indagini si può anche scegliere di proporla direttamente nei contesti in cui il g.i.p. è già chiamato a prendere una decisione con la partecipazione delle parti: in tal caso le forme di proposizione e di decisione sono quelle del sub-procedimento in cui si inserisce.
Infine, l’istanza può essere presentata durante l’udienza preliminare e il giudizio: depositata in cancelleria o presentata direttamente in udienza, e trattata e decisa secondo le regole delle relative sedi.
Il disegno è chiaro: si cerca di favorire la trattazione in un contesto processuale già in atto, evitando così un ulteriore sub procedimento. Ma la scelta della sede è rimessa alle parti, compatibilmente però con le scadenze temporali: invero proprio i venti giorni concessi predeterminano in massima parte la scelta del momento in cui far valere la questione[37].
Vi sono poi delle regole comuni che valgono per tutto il sistema: non si può duplicare la richiesta nelle diverse sedi; una volta proposta, è comunque preclusa, ma questo non esclude la proposizione di una domanda nuova fondata su nuove ragioni; le parti posso chiederne un riesame.
Quanto a tale ultima facoltà, si è costruito un sistema ad imitazione delle eccezioni sulle nullità relative: onere di risollevare la questione in ogni momento utile previsto a tal fine, così da renderla poi oggetto di impugnazione.
Si è così consentito il ricorso in cassazione: sarà dunque la Suprema Corte, quale organo della nomofilachia, a spiegarci come vada interpretata tutta questa complessa disciplina. Ma, a differenza del passato, con decisioni destinate ad imporsi, in quanto direttamente applicabili ai procedimenti portati alla sua attenzione. Se infatti anche nel passato la Corte di cassazione ci aveva detto che l’iscrizione soggettiva presuppone degli indizi, tale indicazione rimaneva comunque solo esortativa, non essendo ancora previsto il sindacato sull’iscrizione.
5. I termini delle indagini preliminari contro ignoti e i loro controlli
Le conseguenze provocate dalle modifiche normative, in un sistema processuale, sono imprevedibili, perché tutti i momenti processuali sono in qualche modo connessi gli uni agli altri, così che non sempre è possibile da subito cogliere tutti gli effetti che si provocano nei contesti diversi da quelli in cui si è intervenuti direttamente.
E proprio per tale regione appare opportuno prendere le mosse dai termini delle indagini preliminari contro ignoti, anche se in apparenza sembrerebbe che nulla sia qui cambiato.
A seguito della novella legislativa, l’art. 415 c.p.p. è infatti rimasto invariato, a parte lo spostamento meramente topografico della c.d. iscrizione soggettiva coatta (ora collocata nell’art. 335-bis c.p.p.), che dunque rimane immutata nella sua applicazione in tale contesto.
Nella disposizione, da una parte, continua ad essere prevista la necessità per il p.m. di rivolgersi al giudice se entro sei mesi non ha iscritto il nome di almeno un indagato nel relativo registro, chiedendogli o la proroga o l’archiviazione; dall’altra parte, permane l’assenza dell’indicazione della durata della proroga eventuale concessa e dei motivi che la giustificano, né compaiono indicazioni sui termini finali di tale indagine e, di conseguenza, su una possibile distinzione fra tipologie di reato. Sicché continuerà ad essere necessaria l’integrazione di tali vuoti (ex art. 415, comma 3, c.p.p.) con la disciplina generale che governa i tempi delle indagini contro persone note, la quale, però, è sensibilmente variata con la riforma, come vedremo (infra, §. 6)
Ebbene, rispetto all’art. 407 c.p.p., se si mettono in risalto gli obiettivi generali della novella - archiviare il più possibile e prendere le decisioni il prima possibile – e si rapportano alle ragioni che avevano giustificato nel passato una valutazione di compatibilità – il termine finale garantisce l’obbligatorietà[38] - ne consegue che la norma sia ancora applicabile nei procedimenti contro ignoti, là dove individua, innovando, tre diversi termini di durata massima dell’indagine (dodici, diciotto o ventiquattro mesi a seconda della tipologia di reato).
E le stesse ragioni portano a confermare la perdurante compatibilità dell’art. 406 c.p.p., nella parte in cui continua a fissare in sei mesi la durata della proroga[39].
Più controvertibili invece sono le valutazioni di compatibilità rispetto all’art. 405 c.p.p., in riferimento alla durata iniziale delle indagini, e all’art. 406, comma 2, c.p.p., dove specifica che la proroga può essere autorizzata una sola volta. Le due disposizioni sono strettamente connesse, sicché o si applicano entrambe o nessuna delle due.
Sul punto è necessario considerare – nella valutazione di compatibilità - la disciplina innovativa della riforma, volta a porre fine all’abusivo superamento dei termini delle indagini contro persone note con nuova forza. Ebbene l’art. 415 c.p.p., là dove stabilisce che “il p.m. entro sei mesi presenta richiesta di proroga”, paradossalmente sembrerebbe scritto proprio per soddisfare tale rinnovata esigenza: il p.m. si dovrebbe rapportare il prima possibile con il giudice, affinché quest’ultimo vigili in itinere se l’indagine sia già soggettivamente indirizzata ex art. 335-bis c.p.p. In tema di ignoti, allora, si dovrebbe ritenere che il termine iniziale sia di sei mesi e sia regolato solo dall’art. 415 c.p.p., con esclusione, quindi, dell’art. 405 c.p.p., come invece si era ritenuto nel passato[40]. La conseguenza sarebbe allora che in tema di indagini contro ignoti si potrebbero chiedere più proroghe, nei limiti dei termini finali previsti dall’art. 407 c.p.p., così che si arriverebbe a due proroghe per i delitti diversi da quelli previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. e ben a tre per questi ultimi.
Così ritenendo, i termini iniziali delle indagini contro ignoti sarebbero di sei mesi per tutti i reati, i termini finali complessivi sarebbero invece differenziati per classi di illeciti, e sarebbero raggiungibili attraverso la possibilità di chiedere più proroghe.
Certo, la soluzione proposta aumenterebbe gli adempimenti, che vanno contro la logica della riforma; tuttavia non va trascurato che la richiesta di proroga in tale sede è assai agile e che in tal modo si limiterebbe il rischio che venga sollevata successivamente l’eccezione di retrodatazione, o quantomeno che sia accolta, con le gravi conseguenze che porterebbe in tema di inutilizzabilità; in tal modo, poi, si favorirebbe la possibilità di chiudere celermente la fase, perché, costringendo il p.m. a presentarsi al giudice per le sue richieste ogni sei mesi, si favorirebbe la possibilità di avviarsi già in questo momento verso l’archiviazione in tutti i casi in cui il p.m. ritenga che non ci siano le condizioni per iscrivere, né quelle per ottenere una proroga.
E proprio sulla unica ragione che giustifica oggi la proroga ai sensi del nuovo art. 406 c.p.p., ossia la complessità investigativa, la valutazione di compatibilità con il procedimento contro ignoti appare assai controversa.
Ebbene, se si ritenesse che la proroga possa essere concessa solo per tale motivo, in tutti i casi in cui non si è svolta alcuna indagine, si legittimerebbe l’immediata richiesta di archiviazione (ovverosia entro sei mesi dall’iscrizione) per essere rimasto ignoto l’autore del reato: se non si è indagato, non si può proprio valutare se un’indagine sia o meno complessa, poiché è lo stesso concetto di “complessità” ad implicare uno svolgimento[41].
Di contro, se si è indagato da tempo nei confronti di un sospettato, ma ancora non si è riusciti ad arrivare alla soglia degli indizi richiesta dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., l’indagine si configura senza dubbio come complessa. Senza contare che in tale sede il giudice potrebbe ritenere già superata la soglia probatoria e ordinare l’iscrizione soggettiva coattiva ex art. 335-bis c.p.p. Il potere affidato al giudice sull’iscrizione trova proprio nella richiesta di proroga delle indagini contro ignoti – ancor più che nella richiesta di archiviazione contro ignoti dove la logica è piuttosto l’effettività dell’obbligatorietà - il suo momento saliente. Se ormai, finché c’è un sospettato, l’indagine è ancora contro ignoti, sarà questo il momento istituzionale del controllo sull’avvenuta iscrizione, si dovrà valutare a fondo se ancora si è in presenza di un sospettato o se invece vi sia già un indiziato. In pratica è proprio in questa sede in cui si valuta se – di fronte ad un’indagine in corso di svolgimento effettivo - sia stata già raggiunta la soglia probatoria richiesta dall’iscrizione, per evitare che venga ulteriormente posticipata. E tutto questo già di per sé implica una complessità investigativa.
A maggior ragione, appare “complessa” un’indagine regolarmente svolta in cui non si è nemmeno arrivati alla individuazione o all’identificazione di un possibile indagato, pur avendo indagato a fondo. Anche qui vi è una palese complessità investigativa, che legittima e fonda la richiesta del p.m., fermo restando il potere del giudice di negarla qualora ritenga non risolvibile lo stallo.
E tale soluzione sembra essere proprio quella voluta dal legislatore, il cui obiettivo è quello di accelerare le decisioni conclusive del procedimento.
In tal modo si stroncherebbe la prassi in forza della quale per molti reati, in tale fase, si attende inerti che si consumi la prescrizione, a volte passando per una generica proroga per giusta causa, a volte nemmeno per questa, per poi arrivare a chiedere l’archiviazione per estinzione del reato ex art. 411 c.p.p.
Insomma, se si ammettesse che la proroga possa essere concessa solo per complessità investigativa, si creerebbe un nuovo percorso, assai più celere e trasparente: l’immediata richiesta di archiviazione – trascorsi sei mesi dall’iscrizione – tutte le volte in cui siano assenti – per inerzia investigativa – gli elementi di prova idonei a raggiungere la soglia dell’indizio nei confronti di qualcuno.
In tal modo, poi, l’offeso troverebbe maggior tutela, perché mentre di fronte alla richiesta di archiviazione per estinzione del reato non potrebbe certo interloquire, nella richiesta di archiviazione motivata dalla non individuazione dell’indagato, potrebbe far valere da subito le sue ragioni, nell’ambito di un contraddittorio strutturato, in cui potrebbe anche offrire elementi probatori importanti al fine di portare il giudice a ordinare il supplemento investigativo, o addirittura a ordinare l’iscrizione coatta ai sensi del nuovo art. 358-bis c.p.p.
Tutto il sistema così congeniato presuppone però una condizione: non può essere il p.m. a scegliere i reati da accantonare per le difficoltà organizzative. E a ciò provvedono i criteri di priorità, oggi adottati da pressoché tutte le Procure, ma destinati a diventare obbligatori con la riforma (v. anche retro §. 2 e infra. §. 6, 7, 8 e 9).
Si potrebbe allora immaginare una richiesta cumulativa di archiviazione, avente ad oggetto tutte le notizie di reato iscritte nel registro degli atti costituenti notizie di reato contro ignoti e relative a reati non prioritari, in cui si specifichi che, essendo scaduti i termini per l’indagine senza aver potuto indagare a causa delle precedenti priorità, si chiede l’archiviazione per assenza di indizi nei confronti di alcuno. Fermo restando il potere del giudice di escludere dall’archiviazione cumulativa ciò che ritenga comunque – concretamente - meritevole di approfondimento, convocando l’udienza di archiviazione, sia o meno stata fatta l’opposizione dell’offeso.
Accantonati così i reati non prioritari, per quelli prioritari riemergerebbe la possibilità concreta, fattuale di indagare, per cui alla scadenza dei sei mesi avrebbe senso subordinare la proroga alla ricorrenza della complessità investigativa.
Dopodiché, scaduti tutti i termini (prorogati o meno) si apre la via conclusiva dell’iscrizione o dell’archiviazione.
E va notato come sia possibile scegliere la via dell’iscrizione soggettiva non solo quando ricorrono i presupposti indicati dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., ma anche qualora la persona sia ancora solo sospettata. L’iscrizione del sospettato non è certo sanzionata, né sindacata, a differenza del ritardo nell’iscrizione.
Richiesta invece l’archiviazione, spetterà ancora una volta al giudice valutare se concederla o se ordinare l’iscrizione coatta ex art. 335-bis c.p.p., al ricorrere delle condizioni regolate dall’art. 335, comma 1-bis, c.p.p., in ossequio al principio di obbligatorietà, inteso qui come necessità di agire.
Qualsiasi sia il percorso che porta all’iscrizione soggettiva, da questo momento decorrono i termini per le indagini preliminari contro persone note.
6. I termini delle indagini contro persone note e i loro controlli
La durata delle indagini preliminari è stata rimodulata dalla novella legislativa, attraverso l’interpolazione degli artt. 405, 406 e 407 c.p.p. [42].
L’intervento correttivo è qui, a livello di meccanica processuale, assai semplice.
Il legislatore ha ritenuto – come già accennato - di diversificare la disciplina, individuando tre categorie di reati, sottoposte a termini via via più lunghi: sei mesi per le contravvenzioni; diciotto mesi per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p.; dodici mesi per tutti gli altri delitti[43].
È poi prevista una sola proroga di sei mesi, giustificata dalla “complessità delle indagini”.
Il meccanismo operativo rimane invece invariato, sebbene debba ricordarsi che in tale sede – caratterizzata comunque da un contraddittorio (cartolare o orale) – l’indagato potrà sollevare l’eccezione di retrodatazione ai sensi dell’art. 335-ter c.p.p., finalizzata alla mancata concessione della proroga per essere già stati consumati i tempi investigativi (v. amplius, §. 3 e 4). Del pari, nella stessa sede, il g.i.p. potrebbe d’ufficio ordinare nuove iscrizioni soggettive ex art. 335-bis c.p.p., qualora dalla lettura degli atti emergessero altri indiziati del reato (v. amplius, §. 3 e 4).
Va poi segnalato che forse sarebbe stato opportuno abrogare il riferimento all’ordine di provvedere, in caso di diniego di proroga, ancora previsto dal comma 7 dell’art. 406 c.p.p.
In via generale, è plausibile assumere che l’unica ipotesi per cui può essere concessa la proroga possa desumersi da quelle codificate nell’art. 407, comma 2, lett. b), c) e d), c.p.p., le quali, effettivamente, tipizzano casi tutti riconducibili al concetto generale di “complessità investigativa”, ferma restando la possibilità di qualificare in tal modo anche altre situazioni fattuali[44].
Il dubbio che qui sorge – come per le indagini contro ignoti - è se possa essere concessa la proroga qualora vi sia stata semplicemente un’inerzia investigativa, giustificata dalla materiale impossibilità di dedicarsi pienamente all’inchiesta per gli alti numeri dei procedimenti da seguire[45]. Si tratta di un quesito che costituisce una linea rossa che unisce tutta la riforma (su cui v., amplius, retro §. 2 e 5 e infra §. 7 e 9).
In realtà, il problema veniva sollevato già prima della riforma, sebbene oggi vi sia un nuovo dato su cui riflettere: il legislatore sta puntando ad accelerare le decisioni conclusive delle indagini in tutt’uno con la riduzione dei processi da celebrare. E per arrivare a tale obiettivo ha deciso di regolare esso stesso le inerzie procedimentali. Il riferimento non è solo ai più famosi termini di determinazione, ma proprio all’eliminazione della giusta causa di proroga delle indagini, in tutt’uno con la scelta di introdurre per legge i criteri di priorità.
Rispetto ai reati non prioritari appare dunque giustificata l’inerzia investigativa - lo abbiamo già visto in tema di indagini contro ignoti – al punto che, anche qui, scaduti i nuovi termini iniziali dell’indagine dell’art. 405 c.p.p., si dovrebbe chiedere l’archiviazione, senza possibilità del passaggio intermedio finalizzato ad ottenere una proroga: se non si è indagato, non si appalesano né la “complessità” per cui può essere richiesta la proroga, né, a maggior ragione, i presupposti dell’azione.
Senza contare che tali reati già dovrebbero essere stati archiviati nella fase delle indagini contro ignoti. Tuttavia, se per qualsiasi ragione su di essi si è già iscritta la notizia di reato soggettiva, non muta la conclusione: dovrebbe scattare immediatamente la successiva fase della determinazione.
Di contro, per i reati prioritari il legislatore parte dalla premessa che per essi ormai si possa indagare a fondo: visto il congelamento dei reati non prioritari, non si dovrebbe più verificare l’ipotesi di inerzia investigativa. Di conseguenza la proroga – in via di fatto - dovrebbe sempre essere richiesta per un’indagine effettivamente in corso di svolgimento. Sicché si può valutare se essa sia o meno complessa.
Se, dunque, l’indagine non è complessa, la conseguenza dovrebbe essere quella di aprire subito la fase della determinazione[46] alla scadenza dei termini iniziali delle indagini (ovvero i termini non prorogati); ma lo stesso si dovrebbe predicare se poi non si è indagato affatto, nonostante la priorità, e gli auspici di un legislatore ottimista.
Se ci si interrogasse sulla ragionevolezza di un sistema così strutturato, occorrerebbe osservare che esso è la conseguenza non già della nuova modulazione dei termini investigativi, né dell’introduzione dei criteri di priorità, ma della scelta più generale di sottoporre a termini le indagini, già fatta dal codice Vassalli nell’89. Ma è noto come la Corte costituzionale abbia ritenuto compatibili con il principio di obbligatorietà le conseguenze che scaturiscono dalla predeterminazione dei termini di indagine, valorizzando il diritto della persona indagata a veder ad un certo punto comunque chiusa la sua posizione[47]. E tale osservazione legittima ad affermare che il medesimo valore possa essere tutelato anche quando non si indaghi per nulla, dolosamente, colposamente, o in virtù dei criteri di priorità trasparenti, predeterminati e uniformi.
7. I termini delle determinazioni e i loro controlli
Il nuovo art. 407-bis c.p.p. introduce gli inediti “termini per le determinazioni”: entro la loro scadenza il p.m. deve decidere se richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale[48]. Ma non solo, al rigoroso rispetto degli adempimenti che devono essere svolti entro tali termini è dedicata un’analitica ed innovativa disciplina negli artt. 415-ter e 415-bis c.p.p.[49].
Si è così creata - in maniera meno equivoca rispetto al passato - una vera e propria fase procedimentale, in cui viene collocata l’attività di delibazione, finalizzata a concedere esplicitamente del tempo al p.m. per riflettere sulle importanti scelte cui è chiamato.
Tuttavia, va subito sottolineato che, in un sistema in affanno, tali termini non sono tanto volti a consentire la riflessione sul “singolo fascicolo”, ma piuttosto pensati per permettere la gestione di “tutti i fascicoli”: di fatto, la loro previsione consente al p.m. di organizzarsi meglio, essendo oggettivamente impossibile, per la mole di lavoro, richiedere che la determinazione avvenga in coincidenza della scadenza dei termini investigativi[50].
Invero, se si volesse scavare più a fondo, si potrebbe anche notare che il legislatore ha voluto avocare a sé il problema relativo all’inesigibilità di gestire tutti i procedimenti di cui è titolare ogni p.m., avendo come obiettivo principale quello di frenare la prassi in forza della quale molti procedimenti vengono in via di fatto accantonati – id est non indagati - in attesa della prescrizione, per poi essere avviati all’archiviazione ai sensi dell’art. 411, comma 1, c.p.p. ad avvenuta estinzione del reato, prescindendo dalle cadenze temporali previste dal previgente art. 407 c.p.p.[51]
Si sono quindi volute regolare tali prassi sommerse, rendendo “trasparente” il modo – in pratica, necessitato - in cui alcuni procedimenti devono essere destinati all’archiviazione: scaduti i termini delle indagini, bisogna subito rivolgersi al giudice se non si è in grado di esercitare l’azione, senza attendere che maturi la prescrizione.
E proprio per garantire a tutti i costi che ad un certo punto – in attuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale - le relative decisioni siano comunque prese, malgrado le difficoltà organizzative, si è introdotto un portentoso deterrente: se nonostante l’introduzione di una fase per decidere, l’inerzia persiste, viene attivato un vertiginoso meccanismo di reazione, che possiamo denominare – prendendo a prestito la terminologia amministrativistica – “procedimento per il silenzio inadempimento del p.m.” (artt. 415-ter e 415-bis c.p.p.) con il quale si arriva ad ottenere ciò che è stato omesso.
Certo si tratta di un sistema assai complesso, che rischia di paralizzare le procure, basti pensare che sono previste nel complesso dieci nuove comunicazioni/notifiche, otto nuove ipotesi di avocazione, due nuovi incidenti che richiedono l’intervento del g.i.p.
Sicché è palese il fortissimo effetto deterrente; la procedura rischierebbe di mettere in seria difficoltà tanto le Procure, quanto le Procure generali a livello organizzativo e gestorio; senza contare i riflessi, non tanto disciplinari, quanto sulla valutazione delle carriere dei singoli magistrati: un’avocazione è sicuramente qualcosa da evitare.
Per risolvere tali oggettive perplessità, appare necessario aggiungere il fondamentale tassello dei criteri di priorità.
Se per molte notizie di reato l’indagine si può posticipare per dare preferenza a quelle prioritarie, occorrerebbe allora fare in modo che da subito siano selezionati i procedimenti da collocare in stasi investigativa, insomma andrebbe formalizzata, esternata, documentata la selezione dei procedimenti relativi a notizie di reato non prioritarie: esagerando, addirittura con un nuovo registro.
Una volta scaduti i termini delle indagini, tali procedimenti dovrebbero essere tutti avviati all’archiviazione, senza necessità di una particolare riflessione: non essendosi indagato è palese che non si sia raggiunta la soglia prevista dal nuovo art. 408 c.p.p., ovverosia la prognosi di condanna (cfr. §. 5 e 6 e 8).
Si deve allora costruire una procedura standardizzata che permetta di formulare la richiesta di archiviazione immediatamente, a ridosso della scadenza dei termini di indagine, senza consumare quelli di determinazione.
E abbiamo già visto che a tal fine si potrebbero immaginare delle richieste cumulative, che mettano insieme tutte le notizie di reato già protocollate come non prioritarie e per cui siano scaduti i termini delle indagini senza che nulla sia stato fatto perché ancora si è stati impegnati sui procedimenti prioritari (cfr. sul tema §. 5, 6 e 8). Insomma, si dovrebbe pensare ad un adempimento quasi automatizzato e “burocratico”.
In tal modo, il termine per le determinazioni diventerebbe veramente “per la riflessione” e cesserebbe di essere “per l’organizzazione”, riguardando solo i procedimenti per cui effettivamente si è indagato, che numericamente dovrebbero essere assai meno.
Del pari, la procedura del “silenzio inadempimento” ridurrebbe notevolmente il suo campo di operatività, trovando di fatto applicazione solo rispetto a situazioni veramente e propriamente patologiche, in quanto tali eccezionali. In quest’ottica, più che rimediare ad un’inesigibilità fisiologica, il sistema consentirebbe, questa volta sì, di neutralizzare possibili condotte abusive.
Venendo alla regolamentazione, il legislatore ha dunque scelto di introdurre una specifica fase nella quale devono essere prese le determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale. Essa si apre alla scadenza dei termini finali delle indagini preliminari, eventualmente prorogati, o dalle date di scadenza previste dall’art. 415-bis, commi 3 e 4, c.p.p., qualora sia stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari; e si chiude entro nove mesi per i reati indicati nell’art. 407, comma 2, c.p.p. ed entro tre mesi per tutti gli altri[52].
Scelta ragionevole o meno[53], in ogni caso questi sono i tempi entro cui il p.m. deve decidere la sorte di tutti i procedimenti.
Tutto il nuovo sistema ruota attorno all’effettività di tali termini di riflessione, attraverso il procedimento del “silenzio inadempimento del p.m.” la cui caratteristica più vistosa è senza dubbio l’enorme complessità. Con esso si garantiscono tanto l’ostensione degli atti, quanto le determinazioni circa l’azione. Sul piano strutturale, poi, il medesimo si distingue in due sotto procedure, quella per l’inerzia totale e quella per l’inerzia parziale, che tuttavia sono meno distanti da quello che possa a primo impatto apparire.
In merito all’inerzia totale (art. 415-ter c.p.p.), il procedimento prende avvio da un’omissione plurima: il p.m. non ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, né ha esercitato l’azione penale, né, ancora, ha richiesto l’archiviazione alla scadenza dei termini iniziali per le determinazioni di cui all’art. 407-bis, comma 2, prima parte, c.p.p. È insomma rimasto totalmente dormiente. E si tratta dei casi più critici e anche dei più diffusi: o si è al cospetto di procedimenti non trattati che vengono abbandonati a loro stessi; o, al contrario, si è in presenza di procedimenti a cui si è dedicato molto tempo, ma che per varie ragioni richiederebbero ancora tempo e riservatezza.
Il p.m. deve allora provvedere ad un nuovo e inedito adempimento, sostitutivo dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: all’ostensione spontanea di tutti gli atti di indagine, depositando la relativa documentazione nella sua segreteria e notificando l’adempimento alla persona indagata, all’offeso che ha richiesto di essere informato sugli esiti delle indagini e al procuratore generale. La notifica contiene anche l’avviso della possibilità di richiedere al giudice un provvedimento con il quale si ordini forzatamente al p.m. di determinarsi, oltre che della possibilità di esaminare la documentazione depositata e estrarne copia [54].
Se il p.m., però, rimane inerte, non depositando, la fase continua con un’ostensione forzosa. Il procuratore generale può - se non avoca le indagini - ordinare al p.m. di provvedere all’adempimento entro il termine forzoso di venti giorni (notificando l’ordine anche all’indagato e alla persona offesa che abbia richiesto di essere informata dell’esito delle indagini). Tali facoltà sono esercitabili dal procuratore generale quando siano passati dieci giorni dalla scadenza dei termini di determinazione (che conosce in virtù delle comunicazioni del nuovo art. 127 disp. att. c.p.p.), eventualmente prorogati dal differimento autorizzato del deposito (ai sensi dell’art. 415-ter, comma 4, c.p.p.), senza che riceva la notifica dell’avvenuto deposito.
Se le indagini sono avocate, il procedimento passa in mano al procuratore generale, e analizzeremo dopo le conseguenze di tale trasferimento.
Se invece avviene il deposito, spontaneamente o forzatamente, la fase comunque si chiude.
Per il legislatore è ora arrivato il momento delle decisioni relative all’azione.
Il p.m. a questo punto può ancora spontaneamente determinarsi: gli viene infatti concesso un termine supplementare di un mese o tre mesi per reati dell’art. 407, comma 2, c.p.p., il cui inizio decorre o dalla notifica del deposito spontaneo che ha inviato anche al procuratore generale, o dalla notifica dell’ordine di deposito forzoso che aveva ricevuto dal procuratore generale.
Scaduto tale termine, se ancora rimane inerte, il procuratore generale può avocare il procedimento. Altrimenti la procedura continua per passare alla determinazione forzosa: scaduti i termini supplementari, la persona indagata o l’offeso possono chiedere al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi (e qui il giudice deve pronunciarsi entro venti giorni), e il p.m. – se l’ordine è dato - deve decidere entro un termine forzoso di venti giorni.
In tal caso, se il p.m. rimane ancora inerte, l’unico rimedio – comunque facoltativo - è l’avocazione, la cui praticabilità, anche qui, è condizionata da una serie di comunicazioni e notifiche reciproche: il giudice deve notificare il suo provvedimento a chi ha sollevato l’istanza, e comunicarlo al p.m. e al procuratore generale; di contro il p.m. deve trasmettere la copia delle sue determinazioni al procuratore generale e al giudice.
Infine, si potrebbe aprire un’ulteriore fase: se il p.m., in attuazione dell’ordine, opta per la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, decorrono anche qui degli ulteriori termini supplementari per permettergli di determinarsi spontaneamente (un mese o tre mesi per i reati di cui all’art. 407, comma 2, c.p.p.).
Se per caso non si determinasse ancora, l’unico rimedio sarebbe ancora una volta l’avocazione per inerzia sulle determinazioni.
In merito invece all’inerzia parziale ex art. 415-bis c.p.p., il procedimento è analogo rispetto a quello dell’art. 415-ter c.p.p., ma si caratterizza per una maggiore contrazione delle fasi, tanto di quella dell’ostensione, quanto di quella della determinazione.
La procedura si mette in moto nel caso in cui sia stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ma il pubblico ministero non abbia poi optato né per l’azione, né per l’archiviazione alla scadenza dei termini di riflessione dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p.
Per quanto riguarda la fase discovery, essa è qui caratterizzata per essere rivolta solo all’offeso. In tale contesto l’indagato ha già ricevuto l’avviso di conclusione dell’indagine preliminare, mentre l’offeso non è a conoscenza di nulla (ad eccezione delle persone offese dei reati di cui all’art. 572 e 612-bis c.p.). Sicché anche qui, scaduti i termini di determinazione, il p.m. deve comunque notificare alla persona offesa l’avviso che gli atti sono stati depositati, informandolo che può mettere in moto il meccanismo attraverso cui si arriva all’ordine del giudice di determinarsi. Ma non solo, se l’avviso non è inoltrato, scatta anche la fase dell’ostensione forzosa su ordine del procuratore generale, il quale, in alternativa, può invece avocare.
In merito alla fase della determinazione, invece l’indagato e l’offeso, già alla scadenza dei termini dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., possono chiedere al giudice di ordinare al p.m. di determinarsi, senza dover attendere ulteriori termini supplementari, come invece accade ai sensi dell’art. 425-ter c.p.p. Per il resto si segue la procedura già analizzata in sede di inerzia totale, compresa la facoltà del procuratore generale di avocare in caso di inerzia all’ordine del giudice.
Per evitare l’avvio del procedimento di silenzio inadempimento - tanto per inerzia totale che per quella parziale - è concesso al p.m. di richiedere un differimento dell’ostensione degli atti al procuratore generale (ex artt. 415-bis, comma 5-bis, e 415-ter, comma 4, c.p.p.).
In tal modo, il p.m. può ottenere una proroga sia del termine per notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari (e in tal caso l’istanza va presentata prima della scadenza dei termini delle indagini eventualmente prorogati), sia del termine relativo al nuovo adempimento del deposito degli atti e alla sua notifica (e in tal caso l’istanza va presentata prima della scadenza dei termini di determinazione) [55].
Il procedimento per ottenere la proroga è il medesimo: identici sono i motivi tassativi per cui può essere richiesto e, di conseguenza, concesso; uguali sono gli eventuali termini di differimento accordati (fino al massimo di sei mesi o un anno per i reati di cui all’art. 407 comma 2 c.p.p.); in ambedue il procuratore generale, se non accorda la proroga, può ordinare di provvedere ai due adempimenti entro i termini forzosi di venti giorni e avocare se poi non si provveda; in ciascuna delle situazioni il provvedimento di diniego va notificato alla persona indagata e all’offeso che ha richiesto di essere informato sugli esiti delle indagini.
Le due procedure vanno invece distinte per alcune conseguenze.
Rispetto all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, se il p.m. comunque non notifica l’atto dopo aver ottenuto il differimento, o dopo il diniego al differimento e in spregio all’ordine di notificare, si apre la procedura dell’inerzia totale dell’art. 415-ter c.p.p.
In pratica si torna indietro, e l’adempimento da effettuare diventa il deposito degli atti con la relativa notificazione – e non più dell’avviso di conclusione delle indagini -. In tal caso, però, il differimento del deposito non può essere richiesto. Avendo già presentato la richiesta in relazione all’avviso di conclusione dell’indagine preliminare, la domanda è preclusa: in pratica, né può cumulare una seconda proroga, se già l’ha ottenuta; né, se è stata respinta, può insistere, essendo medesimi i motivi.
Rispetto al deposito degli atti e della relativa notificazione, invece, se il p.m. non adempie spontaneamente alla scadenza del differimento ottenuto, la procedura si innesta sempre sull’art. 415-ter c.p.p., ma direttamente al comma 2, ovverosia alla fase della ostensione forzosa; quindi: ordine del procuratore generale, termine forzoso per provvedere, avocazione per inerzia e via dicendo. Nel caso, invece, in cui non abbia ottenuto il differimento - e quindi è stato già dato l’ordine di provvedervi da parte del procuratore generale - la procedura si innesta direttamente nella fase della determinazione (art. 415-ter, comma 3, c.p.p.).
Volendo famigliarizzare con il funzionamento di tale complesso procedimento, si possono individuare una serie di parole chiave, che consentano di mettere subito in luce come, al di là delle apparenze, i tasselli che ne compongono l’insieme sono sempre i medesimi, anche se di volta in volta diversamente incastrati: invero la complessità è solo apparente. Si tratta, a ben vedere, di un procedimento in cui per superare le eventuali inerzie sono previsti dei meccanismi tanto sollecitatori, quanto coattivi e sostitutivi, che si ripetono più volte, al reiterarsi delle inerzie.
Dal punto di vista sistematico il legislatore ha bipartito la materia, distinguendo il procedimento di “inerzia totale” (415-ter c.p.p.) da quello di “inerzia parziale” (415-ter c.p.p.), ma le due procedure sono analoghe e hanno molti vasi comunicanti, sicché dall’una si passa all’altra e viceversa, a seconda degli accadimenti.
All’interno di ambedue i procedimenti si possono individuare una serie di fasi.
Le fasi dedicate alle “determinazioni relative all’azione”: una “prima” (art. 407-bis comma 2 c.p.p.); poi una “seconda” (artt. 415-ter, comma 3, primo, secondo e terzo periodo e 415-bis comma 5-quater, c.p.p.); e infine una “terza” (art. 414-ter, comma 3, ultimo periodo, c.p.p.).
Le fasi dedicate “all’ostensione degli atti”: quella della “posticipazione dell’ostensione” (artt. 415-ter, comma 4 e 415-bis, commi 5-bis e 5-quater, c.p.p.), e poi quella della “ostensione” vera e propria (art. 415-ter, commi 1 e 2, e 415-bis, comma 1, c.p.p.).
All’interno di ciascuna fase, poi, appaiono tanto adempimenti spontanei, quanto forzosi. In particolare si incontrano prima le “determinazioni spontanee” e dopo le “determinazioni forzose” circa l’azione, a seconda che vi provveda di sua iniziativa il p.m. o siano ordinate dal giudice su richiesta (artt. 415-ter, comma 3, e 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.); del pari, si individuano prima “le ostensioni spontanee” e dopo le “ostensioni forzose” a seconda che vi provveda di sua iniziativa il p.m. (artt. 415-ter, comma 1, e 415-bis, comma 1, c.p.p.) o siano ordinate d’ufficio dal procuratore generale ” (art. 415-ter, comma 1, e 414-bis, comma 2 e 3, c.p.p.).
Poi sono previsti una serie di termini. Per le determinazioni relative all’azione penale si individuano i “termini iniziali” (tre o nove mesi, art. 407-bis, comma 2, c.p.p.), i “termini suppletivi” (uno o tre mesi, artt. art. 415-ter, comma 3, primo, secondo e ultimo periodo, c.p.p.) e i “ termini forzosi” (venti giorni, art. art. 415-ter, comma 3, terzo periodo e 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.); di contro, per le ostensioni si incontrano i “termini iniziali” (prima della conclusione dei termini delle indagini, art. 415-bis comma 1 c.p.p., e prima della scadenza dei termini di determinazione, art. 415-ter, comma 1, c.p.p.), i “termini prorogati” (sei mesi o un anno, artt. 415-bis, comma 5-ter, primo periodo e 415-ter, comma 4, c.p.p.) e i “termini forzosi” (venti giorni, art. 415-bis, comma 5-ter, secondo periodo e 415-ter, comma 2 e 4, c.p.p.).
Infine, ci sono gli interventi sostitutivi del procuratore generale presso la corte d’appello: “l’avocazione per inerzia sulle determinazioni” (alla scadenza del “termine ordinario”, del “termine suppletivo” e del “termine forzoso”), oltreché “l’avocazione per inerzia sulle ostensioni” (alla scadenza dei “termini ordinari”, dei “termini prorogati” e dei “termini forzosi”).
Venendo alle regole generali di funzionamento, il procedimento si presenta più o meno lungo a secondo che vi sia stata “un’inerzia totale” o “un’inerzia parziale”.
Ambedue si compongono della “fase della “ostensione” e delle “fasi di determinazioni”, se pur in maniera diversamente combinata.
In ogni caso l’inizio del procedimento di silenzio-inadempimento, tanto per quello di inerzia totale, quanto per quello di inerzia parziale, può essere evitato da una richiesta di “differimento dell’ostensione”, che mette in moto un subprocedimento, che poi, attraverso percorsi alternativi, si rinnesta a quello principale.
Nella fase di ostensione interviene solo il procuratore generale, nelle fasi di determinazioni prima interviene il giudice e dopo, eventualmente, anche il procuratore generale, sicché ogni inerzia (tanto delle determinazioni, quanto delle ostensioni) è sempre accompagnata dalla possibilità di avocare.
Tutto il meccanismo, dal suo avvio, alla sua progressione, fino alla sua conclusione, dipende dal verificarsi di rinnovate inerzie: il non aver disposto, il non aver esercitato, il non aver richiesto, si ripetono più volte.
Inoltre, è sempre l’omissione totale degli adempimenti che viene considerata, non si qualifica mai come inerzia il mancato perfezionamento dell’iter che comunque è stato avviato. L’inerzia è: il non aver disposto la notifica dell’avviso di conclusione, a prescindere se sia arrivata o meno al destinatario; il non aver richiesto l’archiviazione, a prescindere se sia già stata presentata al giudice e se la notifica sia arrivata all’offeso o all’indagato se è convocata l’udienza; il non aver esercitato l’azione penale, a prescindere se sia stata già depositata nella cancelleria del giudice e sia stata notificata la richiesta di rinvio a giudizio. Non a caso anche le comunicazioni settimanali delle notizie di reato che devono essere trasmesse al procuratore generale ex nuovo art. 127 disp. att. c.p.p. guardano a tali omissioni.
E questo si riflette sulla decisione con la quale il giudice ordina di determinarsi, perché bisognerà accertare se vi sia una vera e propria inerzia: se l’adempimento è avvenuto, ma sia ancora in itinere, l’adempimento forzoso non può essere decretato. Si tratta poi di una valutazione meccanica, senza che possa “giustificarsi” l’omissione. Non ci sono indicazioni testuali sul punto, né è previsto un contraddittorio nel quale si potrebbe discutere la questione (né nella forma della interlocuzione fra le parti, né con un mero apporto del p.m.). Insomma, è un controllo di mera legalità formale: accertati i requisiti, deve ordinare di procedere [56]. La motivazione del decreto, allora, va vista come un mero resoconto della presenza o assenza dei presupposti di fatto che legittimano l’una o l’altra soluzione.
8. L’avocazione
Il sistema dell’avocazione è stato totalmente rinnovato, ed ora va coordinato con tutto il procedimento di “silenzio inadempimento”, fermo restando che è ancora prevista l’avocazione nel caso in cui si apra l’udienza di archiviazione[57].
In via generale due sono le regole che governano l’avocazione: la facoltatività e la necessità di tener conto dei criteri di priorità.
Quanto alla prima, si tratta di un ripensamento del legislatore, vista l’inesigibilità pratica della precedente obbligatorietà[58].
Quanto alla seconda, si tratta di un invito ad avocare prima i procedimenti prioritari, e non già di un divieto rispetto ai non prioritari. In pratica, l’art. 127-bis disp. att. c.p.p. regola le priorità dell’avocazione e stabilisce che i reati prioritari sono da intendersi tali anche con riferimento a quest’ultima (cf. amplius §. 2).
In merito alle singole ipotesi, invece, emerge come in ogni momento del complesso procedimento contro l’inerzia decisionale del p.m. si inserisca la possibilità di avocare.
Il procuratore generale è messo nelle condizioni di intervenire tutte le volte cha al p.m. è richiesto un adempimento sull’azione o sulla discovery e quest’ultimo rimanga invece inerte: così nel caso in cui il p.m. non sciolga l’alternativa fra azione e archiviazione entro i termini di volta in volta previsti; altrettanto laddove il p.m. non depositi gli atti entro i termini concessi, senza esclusione della mancata notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini a seguito di proroghe e seguenti ordini[59].
L’idea sottesa è quella di lasciare alla valutazione del procuratore il momento di intervento: appena si manifesti l’inerzia; dopo che non si è deciso nonostante siano stati concessi ulteriori termini; in un momento ancora successivo, a seguito dell’ordine del giudice rimasto inevaso[60]. Volendo, tale regolamentazione potrebbe consentire – sempre che la norma decolli nella prassi - di approntare una sorta di protocollo predeterminato del tipo: “si avoca subito per una certa tipologia di reati; per altri si aspetta prima la risoluzione spontanea; per altri ancora l’avocazione si posticipa al momento in cui arriva l’ordine del giudice”.
Va poi evidenziato come in tema di deposito degli atti e di avviso della conclusione delle indagini, il sistema sia più pregnante, perché il procuratore deve comunque attivarsi. Egli è qui coinvolto necessariamente: o ordinando la discovery o avocando. Nelle inerzie sulle azioni, invece potrebbe non apparire mai.
Per consentire il funzionamento di tale sistema, sia a livello operativo, sia a livello programmatico, il legislatore ha imposto la trasmissione di elenchi settimanali (ex art. 127 disp. att. c.p.p.) di tutti i procedimenti in cui è registrabile un’inerzia, così che si possa monitorare di continuo lo stato in cui si trovano, oltreché conteggiare il termine da cui si può avocare: dei procedimenti in cui sono scaduti i termini di riflessione dell’art. 407-bis, comma 2, c.p.p. senza alcuna decisione (tre o nove mesi); di quelli in cui ancora non vi sia una determinazione entro i termini suppletivi concessi dopo il deposito degli atti (un mese o tre mesi); di quelli in cui sono scaduti i termini entro cui deve decidere a seguito dell’ordine del giudice (venti giorni); di quelli in cui, in adempimento dell’ordine del giudice, si sia notificato l’avviso di conclusione delle indagini, ma poi non si sia sciolta l’alternativa fra azione e archiviazione entro i termini di cui all’art. 407-bis, comma 2, c.p.p. ridotti (un mese o tre mesi). Tale ultima ipotesi va inserita nell’elenco, perché non è altro che una fattispecie che entra nella categoria generale indicata nella lett. a) della disposizione. Non a caso il legislatore invece che indicare direttamente il termine di un mese o tre mesi, utilizza la perifrasi “entro i termine del 407-bis ridotti di un terzo”.
Infine, va segnalato che se il procuratore avoca, ma poi è lui che diviene inerte, non determinandosi entro trenta giorni, per le parti scatta anche qui la possibilità di rivolgersi al giudice per richiedere l’ordine di provvedere (ex art. 412, comma 1, ultimo periodo, c.p.p. allorché richiama, in quanto compatibili, gli artt. 415-bis, commi 5-quater e 5-quinquies, e 415-ter, commi 1 e 3, c.p.p.)[61].
Più nel dettaglio, e volendo fornire una sistematica delle ipotesi di avocazione, con riferimento all’art. 415-ter c.p.p., sono enucleabili cinque diversi momenti in cui il procuratore generale può esercitare il potere di avocazione di cui è titolare.
1) Quando vi è l’inerzia assoluta iniziale: ovverosia quando sono scaduti i termini per le determinazioni di cui all’art. 407-bis, comma 2, prima parte, c.p.p., e sono trascorsi altri dieci giorni, se il p.m. non abbia né agito, né richiesto l’archiviazione, né notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, e se il procuratore generale non abbia ricevuto la comunicazione relativa all’avvenuta notifica dell’avviso di deposito degli atti (la disciplina di riferimento è contenuta nell’art. 412 c.p.p. nella parte in cui fa riferimento all’art. 407-bis, prima parte, c.p.p., oltreché direttamente nell’art. 415-ter, comma 2, c.p.p.).
2) Quando vi è l’inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento spontaneo: ovverosia quando sono scaduti i termini supplementari di uno o tre mesi che decorrono dal deposito degli atti ex art. 415-ter c.p.p., se il p.m. ancora non abbia preso alcuna determinazione (la norma che qui viene in rilievo è l’art. 412 c.p.p. là dove fa riferimento all’art. 415-ter, comma 3, c.p.p.; richiamo da intendersi riferito ai soli primo e secondo periodo).
3) Quando vi è inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento coattivo: ovverosia quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni che decorrono dall’ordine del giudice di determinarsi, se il p.m. ancora non abbia preso alcuna determinazione (qui la disciplina si rinviene nell’art. 412 c.p.p. nella parte in cui fa riferimento all’art. 415-bis, comma 5-quater, c.p.p., il quale, a sua volta, trova applicazione altresì nell’ipotesi di cui all’art. 415-ter, comma 3, c.p.p. in forza del richiamo contenuto nel terzo periodo).
4) Quando vi è l’inerzia nella terza fase della determinazione: ovverosia quando sono scaduti i termini supplementari di uno o tre mesi, che decorrono dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini inoltrato in adempimento dell’ordine forzoso del giudice, se il p.m. non abbia optato né per l’azione né per l’archiviazione (il fondamento normativo qui deve rintracciarsi nell’art. 412 c.p.p., là dove fa riferimento ai termini dell’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p.).
5) Quando vi è inerzia nella fase del differimento dell’ostensione: ovvero quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dalla mancata autorizzazione al differimento del deposito degli atti, e il procuratore generale non abbia ricevuto la comunicazione dell’avvenuta notifica dell’avviso di deposito degli atti (l’ipotesi è contemplata nell’art. 412 c.p.p., nella parte in cui richiama l’art. 415-bis, comma 5-ter, c.p.p., il quale, a sua volta, trova applicazione nell’ipotesi di cui all’art. 415-ter, comma 4, c.p.p. in forza del richiamo ivi contenuto).
Analogamente, ricostruendo la disciplina dell’avocazione con riferimento all’ipotesi di inerzia parziale (art. 415-bis c.p.p.), possono individuarsi tre diversi momenti, posti in progressione tra di loro, nei quali il procuratore generale può esercitare il potere di avocazione.
1) Quando vi è l’inerzia parziale iniziale: ovverosia quando sono scaduti i termini della riflessione di cui all’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., se il p.m. non abbia né agito, né richiesto l’archiviazione (l’ipotesi è disciplinata nell’art. 412 c.p.p., là dove fa riferimento all’art. 407-bis, comma 2, seconda parte, c.p.p., oltreché direttamente nell’art. 415-ter, comma 2, c.p.p. il quale, a sua volta, trova applicazione nell’ipotesi di cui all’art. 415-bis, comma 5-quinquies, c.p.p., alla quale si deve applicare anche il comma 5-sexies, così che se vi è una parte offesa per un reato diverso da quelli degli art. 572 e 612-bis c.p., è necessario attendere altri dieci giorni per procedere all’avocazione, in attesa della notifica a quest’ultima dell’avviso di deposito degli atti).
7) Quando vi è inerzia nella seconda fase della determinazione in riferimento all’adempimento forzoso: ovverosia quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dall’ordine del giudice di determinarsi, se il p.m. non abbia optato né per l’azione né per l’archiviazione (l’ipotesi trova riferimento nell’art. 412 c.p.p. dove si richiama l’art. 415-bis, comma 5-quater, c.p.p.)
8) Quando vi è inerzia nella fase del differimento dell’ostensione: ovvero quando sono scaduti i termini forzosi di venti giorni, che decorrono dalla mancata autorizzazione al differimento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, se il p.m. non abbia provveduto alla notifica (la norma che viene in rilievo qui è l’art. 412 c.p.p. là dove fa riferimento all’art. 415-bis, comma-5 ter, c.p.p.).
9) Rimane poi ferma la classica ipotesi di avocazione, nel caso in cui si apra l’udienza di archiviazione.
9. L’archiviazione
Dal punto di vista ideologico, l’innovazione più eclatante della riforma è senz’altro rinvenibile nel mutamento della regola di giudizio che governa, in maniera speculare, l’archiviazione e l’udienza preliminare: la scelta tra azione ed inazione e, correlativamente, quella tra rinvio a giudizio e sentenza di non luogo a procedere sono oggi fondate sulla possibilità - per il giudice e, ancor prima, per il p.m. - di «formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca» sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari[62].
Nelle trame della scelta legislativa si riconosce l’influenza di quella impostazione - minoritaria, ma già presente nella vigenza dell’art. 125 disp. att. – secondo cui il p.m. avrebbe dovuto prescegliere la via dell’archiviazione a fronte dell’impossibilità di prevedere un esito dibattimentale favorevole alla tesi accusatoria[63]. E tuttavia oggi il riferimento alla condanna è esplicito nel discorso normativo: quanto meno sul piano formale, la distanza tra i due sistemi è netta[64].
Rimane invece aperto l’interrogativo che concerne il piano dell’applicazione concreta, la cui soluzione non può prescindere da una pregiudiziale teorica. Qualsiasi lettura si voglia dare alla nuova disposizione, esiste una soglia interpretativa che non può comunque essere superata: la «ragionevole previsione di condanna» non può significare che l’azione si esercita solo quando, se si potesse decidere nel merito allo stato degli atti, si condannerebbe. In tal modo, invero, si negherebbe la valenza epistemica del dibattimento, si ripudierebbe il senso e il significato del principio del contraddittorio nella formazione della prova e si disconoscerebbe il valore della “falsificazione della tesi” come metodo scientifico di ricostruzione dei fatti.
La “tesi” avanzata dal p.m. con l’esercizio dell’azione penale allora deve essere supportata non solo sugli elementi di prova raccolti (che, a monte, consentono di delinearne i contorni), ma altresì sulla prospettiva del contraddittorio e sulla sua capacità di resistere alla fase di “falsificazione” che esso implica. Insomma, è proprio guardando agli aspetti critici, controversi o dubbi della sua ipotesi che il p.m. deve formulare il giudizio prognostico. In quest’ottica, la condanna è “ragionevolmente prevedibile” quando sia possibile assumere che l’accusa sia capace di resistere ai tentativi di confutazione implicati dallo scontro dialettico tipico della fase dibattimentale.
In considerazione di tali premesse irrinunciabili, il giudizio prognostico di certo non viene meno. Ciò che rispetto al passato pare mutare è piuttosto l’oggetto di tale previsione: la valutazione invero non è più rivolta genericamente «alle superiori risorse cognitive del dibattimento», ma piuttosto «a quelle applicazioni del metodo del contraddittorio che possono avvalorare le prospettive di accoglimento dell’ipotesi accusatoria»[65]. Ogni situazione di dubbio, di incertezza, non dovrebbe più giustificare la celebrazione del dibattimento[66]. E, in questo senso, può affermarsi che, rispetto a ieri, il confine fra azione ed archiviazione si sia “spostato in avanti”: alla “sostenibilità dell’accusa in giudizio” si sostituisce la “ragionevole previsione di condanna”; all’in dubio pro actione si sostituisce l’in dubio pro reo[67]. Certo, siamo ancora una volta di fronte a termini vaghi, la cui esatta definizione rimane affidata all’esercizio concreto dell’ampia discrezionalità che viene di fatto rimessa all’interprete.
Le considerazioni fin qui svolte consentono però di anticipare alcune conclusioni di ordine pratico e, in particolare, di ritenere che, tra i motivi dell’archiviazione giustificati dalla impossibilità di formulare una ragionevole previsione di condanna non possa rientrare la valutazione sulla possibile prescrizione del reato nel corso del processo.
È lo stesso contenuto della regola decisoria a vietarlo: il legislatore richiede la formulazione di un giudizio prognostico fondato “sugli elementi raccolti nel corso delle indagini”; mentre la valutazione della prescrizione ha ad oggetto tutt’altro[68].
Piuttosto, la ragionevole previsione di prescrizione dovrebbe rilevare su un diverso piano, quello dei criteri di priorità. In particolare, bisognerebbe introdurre un criterio di priorità dal tenore: “sono prioritari i reati in cui non c’è un rischio di prescrizione durante il giudizio di primo grado”. Si tratta di una valutazione che, alla luce dei tempi di durata delle indagini (predeterminati) e dei tempi di durata media del primo grado, è ben possibile formulare immediatamente, già dal momento in cui la notizia di reato perviene a conoscenza degli organi inquirenti.
In questo sistema, i reati rispetto ai quali si propone il rischio della prescrizione in primo grado andranno trattati solo dopo quelli per i quali un medesimo rischio non si pone.
E, se del caso, andranno archiviati perché, se non si è indagato, su di essi non si sono raccolti gli elementi probatori necessari a formulare una ragionevole prognosi di condanna, e non già perché c’è una prognosi sulla prescrizione.
In definitiva, alla scadenza dei termini, tali notizie di reato sfoceranno nell’archiviazione per mancanza di un quadro investigativo che permetta di esercitare l’azione (v. anche retro §. 6 e 7), come già avviene con riferimento alle indagini contro ignoti (retro §. 5).
Invero l’archiviazione per mancanza di indagini è una conseguenza legata alla scelta di predeterminare i tempi investigativi, tale possibilità è già nel sistema dall’89, non è certo una novità; ora, però, con i criteri di priorità è quantomeno deciso dal legislatore dove direzionare l’inerzia investigativa (sul punto v. retro, §. 6).
Volendo poi, il giudice potrebbe anche decidere di superare lo sbarramento rispetto al reato non prioritario in sede di archiviazione, sulla base di una valutazione tutta concreta. In un sistema così congeniato, poi, l’offeso non verrebbe più lasciato in balia delle istanze non formalizzate, volte a stimolare il p.m. ad indagare: in sede di archiviazione, se ha già manifestato vero interesse per il procedimento, potrebbe far valere le sue pretese, in un contraddittorio perfetto. Inoltre, ad archiviazione avvenuta, qualora recuperasse qualche ulteriore elemento, potrebbe offrirlo al p.m. (c.d. “sopravvenuti” nella terminologia dei progetti organizzativi), stimolando così una riapertura delle indagini.
Ma si tratta di ipotesi più teoriche che realmente realizzabili, in quanto ambo le evenienze troveranno riscontro effettivo solo nei casi di inerzia rispetto ai reati prioritari, come già abbiamo visto (v. retro, amplius, §. 2).
Certo questa è la fine dei reati di piccolo calibro; ma è comunque un passo avanti rispetto alla disdicevole prassi di archiviarli per tenuità del fatto, senza che venga prima valutata la consistenza probatoria, come invece impone il legislatore.
Il punto insomma è che l’intero sistema non può essere letto senza considerare il ruolo, centrale ed innovativo, dei criteri di priorità. Questi già oggi - ma a maggior ragione quando saranno codificati dal legislatore e dunque assumeranno il rango di regole processuali a tutti gli effetti - sono destinati ad incidere profondamente sulla struttura e sulla prassi del processo. Tanto l’archiviazione per essere ancora ignoti i responsabili, quanto l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p. saranno destinate ad accogliere i reati non prioritari sul presupposto che per essi non si è ancora indagato e sono nel frattempo scaduti i termini delle indagini.
In conclusione, va ormai immaginato un doppio binario: reati prioritari e reati non prioritari.
10. La riapertura delle indagini
In sintonia con il sistema fin qui analizzato, si colloca la modifica del regime relativo alla riapertura delle indagini preliminari[69].
Come si è visto, l’intero sistema riformato risulta chiaramente proteso ad evitare a monte l’apertura del procedimento e, quand’anche esso risulti oramai avviato, a concluderlo il prima possibile; e proprio alla medesima logica risponde la scelta legislativa di frapporre maggiori ostacoli alla riapertura del procedimento medesimo[70]. Ad una visione d’insieme, insomma, appare evidente come una soluzione diversa sul punto sarebbe risultata contraddittoria.
Il legislatore in questa sede interviene, in primo luogo, riformulando - in termini più stringenti rispetto al passato - la regola che deve guidare il giudice nell’autorizzare la riapertura del procedimento già archiviato; e, in secondo luogo, introducendo nel nuovo comma 2-bis dell’art. 414 c.p.p. un’espressa previsione di inutilizzabilità degli atti di indagine «compiuti in assenza di un provvedimento di riapertura del giudice»[71].
L’idea di fondo è che la riapertura delle indagini non possa essere fondata su una mera rilettura degli elementi già presenti[72]. In particolare, la modifica normativa agisce su due fronti: da un lato, impone al p.m. di motivare la richiesta sull’esigenza di nuove investigazioni; dall’altro, specifica che il giudice è chiamato a respingere tale richiesta «quando non è ragionevolmente prevedibile la individuazione di nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare l’esercizio dell’azione penale» (art. 414, comma 1, c.p.p.).
La disposizione, in sostanza, introduce un inedito “giudizio di ammissione” degli atti investigativi.
Per poter dar corso alla nuova inchiesta è necessario che «le nuove investigazioni» da compiere siano “determinanti” («determinare») e “decisive” («da sole o insieme alle altre») in riferimento alla regola decisoria che consente l’azione («all’esercizio dell’azione»), e non già rilevanti e non superflue rispetto all’imputazione da formulare.
E la soglia di tale giudizio di ammissione si assesta sulla “ragionevole previsione” che gli atti investigativi indicati siano determinanti e decisivi. La ragionevolezza connota tale valutazione collocandola in una posizione, per così dire, “intermedia”: essa invero risulta, da un lato, innalzata rispetto a quella fissata dall’art. 190 c.p.p., nel quale si chiede il “non manifestamente” e, dall’altro, più specificata e selettiva rispetto a quella individuata dall’art. 507 c.p.p. (“assolutamente necessaria”).
Nel suo complesso, la nuova formulazione dell’art. 414 c.p.p. - e, soprattutto la ratio che le è sottesa - apre all’interrogativo relativo al suo ambito di applicazione: vale cioè domandarsi se a tutt’oggi rimanga ferma l’esclusione di tale procedura per le archiviazioni contro ignoti[73].
La soluzione della questione passa inevitabilmente dalla individuazione del valore che la disciplina della procedura di riapertura delle indagini mira a tutelare.
È chiaro, infatti, che se la finalità della norma viene ravvisata, in via esclusiva, nell’esigenza di apprestare una tutela nei confronti del soggetto indagato - il quale ha beneficiato di un provvedimento di archiviazione - l’esclusione per incompatibilità permane[74].
Se invece - valorizzando la ratio deflattiva sottesa all’intervento riformatore, per cui i procedimenti devono essere aperti solo nel caso in cui sia veramente necessario - si intendesse sottesa alla disciplina in questione anche un’esigenza di “tutela del sistema”, il principio meriterebbe quanto meno di essere rimeditato. In quest’ottica - pensando soprattutto ai casi di archiviazione per totale inerzia investigativa, che, dal punto di vista numerico, sono i più significativi -, si potrebbe concludere che il procedimento possa esser riavviato previa autorizzazione, solo se c’è la possibilità di acquisire un atto di indagine risolutivo. Tanto più se si considera che tale circostanza è, di fatto, quella che, già nella realtà operativa, porta il p.m. a determinarsi per riaprire i processi contro ignoti nei quali, invece, si è indagato a fondo.
[1] Sul tema, più amplius, v. E. Albamonte, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in Penalista.it, 22 settembre 2021; R. Aprati, Criteri di priorità e progetti organizzativi delle procure, in Leg. pen., 24 maggio 2022; R. Aprati, I criteri di priorità per la trattazione delle indagini preliminari e per l’esercizio dell’azione penale, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 165 ss.; P. Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, in Proc. pen. e giust., 2021, 4, p. 1141.
[2] Per applicabilità di una norma si intende “l’obbligo di applicarla da parte degli organi giurisdizionali e amministrativi”, R. Guastini, Le fonti del diritto, Giuffrè, Milano, 2010, p. 283.
[3] “Diremo ultrattiva una norma che connetta conseguenze giuridiche a fatti successivi alla sua abrogazione”, R. Guastini, Op. cit., p. 286.
[4] Cfr. A. Cerri, Giustizia costituzionale, Napoli, 2019, 101 ss.
[5] Cfr. A. Cerri, op. cit, 114 ss.
[6] Cfr. Cort. cost., 16.12.1993, n. 462.
[7] Cfr. Cort. cost., 14.12.1999, n. 457; Cort. cost., 9.5.2001, n. 139; Cort. Cost. 22.5.2002, n. 221.
[8] Su cui per una prima e completa analisi v. D. Curtotti, L’iscrizione della notizia di reato e il controllo del giudice, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 198 ss.; C. Gittardi, Le disposizioni della riforma Cartabia in materia di indagini: tempi e “stasi” delle indagini, discovery degli atti e controllo giurisdizionale delle iscrizioni, in www.giustiziainsieme.it. Per una analisi del testo della legge delega, A. Marandola, Notizia di reato, tempi delle indagini e stadi procedurali nella (prossima) riforma del processo penale, in Dir. pen. proc., 2021, 1566;
[9] Per la funzione di certezza e uniformità che assume la definizione v. D. Curtotti, Op. cit., 202 s.
[10] Cfr. R. Aprati, La notizia di reato nella dinamica processuale, Jovene, Napoli, 9 ss.; A. Marandola, I registri del pubblico ministero, Cedam, Padova, 2001, p. 46 ss.;
[11] Con esclusione quindi di quelli relativi all’autore, quali, in primis, la colpevolezza, intesa in senso lato come tutto ciò che è necessario per imputare soggettivamente il fatto all’autore, facendo riferimento alla teoria quadripartita del reato (un fatto tipico, colpevole, antigiuridico e punibile).
[12] Tutto ciò potrebbe influenzare il problema della utilizzabilità delle intercettazioni in caso di mutamento della fattispecie incriminatrice, riducendone le ipotesi di concreta verificazione.
[13] Rispetto a tale tema continua ad essere fondamentale la distinzione fra “aggiornamenti” e “nuove iscrizioni”, considerando appunto che è dall’iscrizione che decorrono i tempi dell’indagine: si avrà nuova iscrizione se continua la permanenza, se si iscrivono fatti nuovi ed ulteriori siano o meno connessi o collegati, o indagati aggiuntivi; mentre l’elemento specializzante è solo un aggiornamento.
[14] Cfr. Corte cost., 31.5. 2016, n. 200.
[15] In senso contrario D. Curtotti, Op. cit., p. 203.
[16] Cfr. E. Naville, La logica dell’ipotesi, Rusconi, Milano, 1989, p. 130 s.: «le tre operazioni del pensiero che si ritrovano nella soluzione di ogni problema scientifico [sono]: osservare, supporre, verificare».
[17] Cfr. P. Ferrua, Modello scientifico e processo penale, in Dir. pen. proc., Dossier, La prova scientifica nel processo penale, 2008, p. 16 s., il quale nota che «anche nel processo penale si dovrebbe abbandonare l’idea di “metodo scientifico”, se con esso s’intendesse quello in grado di garantire il risultato di giustizia. Ma, quando lo concepisca alla stregua del paradigma popperiano – problemi-teorie-critiche – nulla vieta di qualificare come scientifico il metodo che si segue per l’accertamento della colpevolezza. Il “problema” in cui si inciampa è la notizia di reato. La “teoria” equivale alla formulazione dell’accusa che dà inizio al processo in senso stretto. La “critica” corrisponde al contraddittorio fra accusa e difesa o, più in generale, al dibattimento a seguito del quale sarà emessa la sentenza».
[18] Cosi già D. Curotti, Op. cit., p. 203.
[19] «La vaghezza sorge dall’impossibilità di stabilire quali siano le qualità essenziali o definitorie nella nozione [...]. Non esiste un numero chiuso di proprietà necessarie e sufficienti comuni [al termine indizio per esempio] e solo ad esso; nel concetto espresso vi è una pluralità di fuochi o di nuclei concettuali [...]», E. Luzzati, Prìncipi e principi, Giappichelli, Torino, 2012, p. 9.
[20] «Di fronte ad un caso marginale, cioè ad un caso che cade ai margini della trama, può discrezionalmente decidere se la fattispecie in esame debba o non debba essere inclusa nel campo di applicazione della norma in questione», G. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, p. 75 s.
[21] Sulle nozioni di “pre notizia di reato”, di “atti pre-investigativi” e di “pre-inchiesta” si rinvia a R. Aprati, La notizia, cit., p. 45 ss.
[22] Qui potrebbero valere le considerazioni circa l’opportunità di formalizzare tutta la sequenza dell’attività di ricerca della notizia di reato, su cui già R. Aprati, La notizia, cit., p. 47 s.
[23] Su cui per una prima e completa analisi v. D. Curtotti, L’iscrizione della notizia di reato e il controllo del giudice, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 198 ss.
[24] Per analoghe considerazioni già D. Curtotti, Op. cit., p. 302 s.
[25] Sulla natura “costitutiva” del rimedio v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni delle notizie di reato al tempo dell’inutilità dei processi senza condanna, in dicrimen.it, 12 novembre 2022, p. 17 s.
[26] Cosi già D. Curtotti, Op. cit., 204 s.
[27] K. La Regina, L’archiviazione del vortice efficientista, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 300 s., la quale - rilevando perplessità circa l’efficacia della misura rispetto allo scopo nei casi in cui il p.m. «possa esercitare un potere di selezione degli atti da trasmettere» - mette in evidenza come «nella configurazione dell’area del controllo giudiziale» abbia giocato un ruolo centrale «il pesante vulnus al principio di legalità perpetrato attraverso una dilatazione surrettizia dei tempi delle indagini, che impatta enormemente sulla salvaguardia delle garanzie individuali, compresa quella della ragionevole durata complessiva del procedimento la quale, oltretutto, apre un fronte contro cui si stagliano le aperte critiche del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, oltre che innumerevoli condanne inflitte al nostro Paese dalla Corte di Strasburgo».
[28] In senso critico sull’ipotesi in cui il controllo avvenga su atti di indagine selezionati cfr. K. La Regina, Op. cit., p. 300.
[29] Sui profili di criticità relativi all’interlocuzione del p.m. v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni, cit., p. 20.
[30] Sulla formulazione del comma 1 dell’art. 335 quater v. D. Curtotti, Op. cit., p. 205, la quale rileva come il legislatore sembri “sganciare” la richiesta di verifica della tempestività da quella della retrodatazione, osservando sul punto che però «non è pensabile […] che l’istanza contenga solo una verifica della tempestività dell’iscrizione senza una successiva richiesta di retrodatazione della stessa. Dal che se ne deduce che la dualità dell’attività è solo apparente. Il legislatore ha inteso sottolineare, indicando in questo l’oggetto della richiesta, l’esigenza di fondo del controllo giurisdizionale, ossia la tempestività della individuazione del dies a quo di durata delle indagini preliminari. Ma, nel farlo, forse ha scambiato il fine con il mezzo».
[31] Sottolinea la funzione acceleratoria di tali requisiti D. Curtotti, Op. cit., 206 s.
[32] Sull’eventualità di un ritardo “giustificato” da «carenze organizzative o dal sovraccarico dell’ufficio» v. F. Di Vizio, Il nuovo regime delle iscrizioni, cit., p. 22.
[33] Sulla portata dei due requisiti cfr. altresì D. Curtotti, Op. cit., p. 207 s.
[34] Sez. I, 7 luglio 1992, n. 9708, Giacometti, in C.E.D. Cass., n. 191886.
[35] Vista la complessità degli accertamenti richiesti, si potrebbe ipotizzare la necessità di individuare degli “indici sintomatici” dell’inadempimento ingiustificato e inequivoco. E, in quest’ottica, si potrebbe considerare “indice sintomatico elettivo” la “carenza di motivazione” negli atti investigativi che richiedono un provvedimento (del giudice o del p.m.). Diventerà allora quanto mai necessario, per esempio, spiegare nella richiesta di intercettazioni del p.m. le ragioni per cui si è deciso di intercettare una certa persona non iscritta nel registro: così che la presenza di una motivazione completa permetterà al giudice di valutare la doverosità o meno dell’adempimento relativo all’iscrizione; mentre una totale assenza di indicazioni sul tema configurerà l’indice sintomatico elettivo del “ritardo ingiustificato ed inequivocabile” richiesto dalla proposta di legge delega. Altro indice sintomatico, va individuato nella audizione della persona, poi iscritta, come persona informata dei fatti in un momento successivo alla prime battute delle indagini. Sicuramente si impone di sentire la persona come informata dei fatti, e non già come indagato solo all’inizio dell’indagine; se invece già ci sono altri atti investigativi che direzionano, si deve iscrivere prima e dopo sentirlo come persona indagata: in teoria non si dovrebbe più creare la situazione di cui all’art. 64, comma 2, si è rafforzata la reazione all’abuso. Le due norme vanno coordinate.
[36] Sul punto, cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in www.questionegiustizia.it, p. 10.
[37] A tal proposito v. D. Curtotti, Op. cit., p. 206, la quale individua come sede elettiva un incidente subito dopo l’avviso di conclusione delle indagini, perché assai difficilmente si avranno a disposizione gli atti su cui fondare l’istanza.
[38] Cfr. Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 1304, in C.E.D. Cass., n. 233197.
[39] Cfr. Sez. Un.,28 marzo 2006, n. 1304, in C.E.D. Cass., n. 233197.
[40] Sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 1295, in C.E.D. Cass., n. 223588.
[41] Così già F. Alonzi, Tempi nuovi per le indagini?, in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 249 ss., se pur in riferimento alle indagini contro persone note.
[42] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina v. F. Alonzi, Op. cit., p. 242 ss.; G. Garuti, L’efficienza del processo tra riduzione dei tempi di indagine, rimedi giurisdizionali e “nuova” regola di giudizio, in Arch, pen., 2022, p. 3 ss. Per una analisi del testo della legge delega G. Amato, Passa la “rivoluzione” temporale dei termini delle investigazioni, in La riforma del processo penale. Commento alla legge n. 134 del 27 settembre 2021, Giuffrè, Milano, 2021, 137; C. Valentini, The untouchables: la fase delle indagini preliminari, l’ufficio del pubblico ministero e i loro misteri, in Arch. pen. online, 2022, 1.
[43] Per le ragioni in forza delle quali il termine di diciotto mesi riguarda solo i delitti si cui all’art. 407 comma 1 lett a), v. F. Alonzi, Op. cit., p. 245 ss.
[44] Così già F. Alonzi, Op. cit., p. 249 ss. Sulla valenza delle ipotesi di cui all’art. 407, comma 2, lett. b), c), e d), c.p.p. v. A. Camon, Le indagini preliminari, in Fondamenti di procedura penale, Giuffrè, Milano, 2020, p. 4002.
[45] Così già F. Alonzi, Op. cit., p. 249 ss
[46] In questi termini si vedano già le considerazioni di F. Alonzi, Tempi nuovi, cit., p. 251.
[47] Corte cost., 27 novembre 1991, n. 436; Corte cost., 15 aprile 1992, n. 174; Corte cost., 25 maggio 1992, n. 222, Corte cost., 10 febbraio 1993, n. 48.
[48] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina dell’art. 407-bis c.p.p. v. F. Alonzi, Op. cit., p. 252 ss.;
[49] Per una prima ed esaustiva analisi della nuova disciplina degli artt. 415-bis e 415-ter c.p.p. v. G.M. Baccari, I nuovi meccanismi per superare le stasi procedimentali dovute all’inerzia del pubblico ministero, in in La riforma Cartabia, G. Spangher (a cura di), Pacini, Pisa, 2022, p. 263 ss.; G. Garuti, Op. cit., p. 3 ss. Per una analisi al testo della legge delega v. R. Fonti, Strategie e virtuosismi per l’efficienza e la legalità delle indagini preliminari, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge delega tra impegni europei e scelte valoriali, a cura di A. Marandola, Giuffrè, Milano, 2022, 91 ss.; A. Sanna, Cronometria delle indagini e rimedi alle stasi procedimentali, in Proc. pen. giust., 2022, 43.
[50] Cosi già F. Aolonzi, Op. cit., p. 260.
[51] Cosi già G.M. Baccari, Op. cit., p. 263.
[52] Sulla bipartizione dei termini di riflessione, v. F. Alonzi, Op. cit., p. 253, e G.M. Baccari, Op. cit., p. 265.
[53] Per l’irragionevolezza della disciplina, e in particolare per il suo contrasto al canone costituzionale della ragionevole durata del processo v. F. Alonzi, Op. cit., p. 258 ss., soprattutto p. 261.
[54] Per la ratio di tale adempimento v. G.M. Baccari, Op. cit., p. 267 ss.
[55] Su cui v., per la ratio, F. Alonzi, Op. cit., p. 257, e G.M. Baccari, Op. cit., p. 270 s.
[56] Così già G.M. Baccari, Op. cit., p. 273 s.
[57] Per una prima e completa analisi della nuova disciplina v. K. La Regina, Op. cit., p. 291 ss.
[58] Sullo “stato di crisi” di effettività dell’avocazione già G.M. Baccari, Op. cit., p. 266, K. La Regina, Op. cit., p. 291.
[59] Cos’ già K. La Regina, Op. cit., p. 291
[60] Cfr. K. La Regina, Op. cit., p. 293, dove mette in luce l’idea di extrema ratio dell’avocazione rispetto una possibile soluzione spontanea dello stallo procedimentale.
[61] Cfr., per una soluzione parzialmente diversa K. La Regina, Op. cit., p. 294.
[62] Il legislatore oltre ad incidere sull’ampiezza del filtro sull’accusa, è intervenuto altresì sulla sua portata applicativa «attraverso l'introduzione, per tutti i procedimenti di competenza del tribunale monocratico, di un’udienza predibattimentale», come evidenziato da M. Daniele, La riforma della giustizia penale e il modello perduto, in www.dirscrimen.it, 13 luglio 2021.
[63] Per un’analisi delle posizioni affermatesi circa l’interpretazione da offrire al criterio della “sostenibilità dell’accusa in giudizio” enucleabile dagli artt. 408 c.p.p. (precedente formulazione) e 125 disp. att. (oggi abrogato) v. K. La Regina, Op. cit. p. 276 ss.
[64] In questo senso, la riforma senz’altro assolve una “funzione pedagogica”, R. Aprati, Le indagini preliminari nel progetto di legge delega della Commissione Lattanzi, in www.questionegiustizia.it, 9 novembre 2021, p. 9.
[65] Così già K. La Regina, Op. cit., p. 284.
[66] Sul profilo critico dei rapporti tra “regola di giudizio” e “presupposti del singolo provvedimento” v. le riflessioni di P. Ferrua, Brevi appunti in tema di udienza preliminare, appello e improcedibilità, in www.discrimen.it, p. 25.
[67] In tal senso v. già M. Daniele, Op. cit., p. 3 s., il quale osserva che «il canone dell’in dubio pro reo è chiaramente affermato – sia pure in via prognostica – superando l’ambiguità della […] formula dell’inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio». In senso analogo, v. F. Alvino, Il controllo giudiziale dell’azione penale: appunti a margine della “riforma Cartabia”, in Sist. pen., 10 marzo 2022, p. 32.
[68] In senso analogo, v. F. Alvino, Op. cit., cit., p. 32.
[69] Per un’analisi della quale v. K. La Regina, Op. cit., p. 296 ss.
[70] La nuova previsione, si è notato, determina un rafforzamento dell’efficacia preclusiva del provvedimento di archiviazione, pur lasciando al giudice margini notevoli di discrezionalità: cfr. K. La Regina, L’archiviazione, cit. p. 296. Sull’efficacia preclusiva dell’archiviazione v. altresì G. Ruta, Verso una nuova, cit., p. 15
[71] Si tratta del recepimento espresso di un’acquisizione oramai pacifica nel sistema. Con specifico riferimento al giudizio abbreviato cfr. Sez. V, 22 novembre 2017, n. 11942, in C.E.D. Cass., n. 272709.
[72] Vale tuttavia di segnalare come già la giurisprudenza affermatasi durante la vigenza della vecchia formulazione dell’art. 414 c.p.p. escludesse che la riapertura potesse essere accordata a fronte di una mera rilettura delle risultanze investigative. In tal senso cfr. Sez. un., 22 marzo 2000, n. 9, in Cass. pen., 2000, p. 2610.
[73] Sul tema, nel senso della esclusione dell’archiviazione del procedimento contro ignoti dall’ambito della riformata disciplina, già F. Di Vizio, Il nuovo regime, cit., p. 34.
[74] In tal senso si è finora chiaramente espressa la Cassazione: sul punto cfr. Sez. II, 13 ottobre 2015, n. 42655, in C.E.D. Cass., n. 265128; nonché Sez. un. 28 marzo 2006, n. 13040, ivi, n. 233198.
La legge 130 del 2022: lineamenti generali (*)
di Giuseppe Melis
Sommario: 1. Una riforma “pandemica”. - 2. L’assetto ordinamentale delineato dalla L. 31 agosto 2022, n. 130. - 2.1. Le linee generali. - 2.2. Il transito. - 2.3. I concorsi. - 2.4. Il tirocinio. - 2.5. La collocazione nell’ambito del MEF. - 2.6. Il mancato accesso in cassazione. - 2.7. Il cambio di denominazione. - 2.8. Considerazioni conclusive. - 3. Le nuove disposizioni processuali. - 3.1. Premessa. – 3.2. La testimonianza scritta. - 3.3. L’accelerazione della fase cautelare. - 3.4. L’onere della prova e la consistenza della prova. - 4. Conclusioni.
1. Una riforma “pandemica”.
La Pandemia verrà ricordata dai cultori del diritto tributario per aver contribuito definitivamente a tirare fuori la riforma della giustizia tributaria dalle secche in cui si era da tempo arenata.
Nonostante le istanze di riforma si fossero fatte sempre più pressanti e persino versate in numerose e puntuali proposte legislative – solo al Senato, ben sette erano i disegni di legge presentati, di cui quattro relativi a questioni ordinamentali (ddl Vitali, ddl Romeo, ddl Fenu, ddl Misiani), due a questioni processuali (ddl Caliendo e ddl Marino) ed uno a entrambe (ddl Nannicini) – sino all’avvento del PNRR, che alla crisi pandemica ha appunto inteso rappresentare una risposta organica e di sistema, sembrava infatti che la situazione non si dovesse mai sbloccare.
Nell’ambito della più generale riflessione contenuta nel PNRR sulle criticità del “Sistema Paese” e sulle riforme “di contesto” necessarie per superarle, si collocava in effetti naturalmente – oltre a quella relativa alla pubblica amministrazione, alla semplificazione della legislazione e alla promozione della concorrenza – anche quella relativa alla giustizia, stavolta tuttavia, rappresentando la vera novità, riguardante non solo i soliti “nodi strutturali” del processo civile e penale e dell’organizzazione degli uffici giudiziari, ma anche «interventi volti a ridurre il contenzioso tributario e i tempi della sua definizione».
Certo, l’impressione che si ricavava in prima battuta da tale riferimento era che la preoccupazione principale del PNRR riguardasse essenzialmente lo snellimento dello stock (“deflazione”) e la (anche conseguente) maggiore velocità del giudizio (“tempi”), tant’è che si leggeva nella parte del PNRR specificamente dedicata a “La riforma della giustizia tributaria”, come il compito della Commissione interministeriale per la riforma da poco nominata consistesse nell’«elaborare proposte di interventi organizzativi e normativi per deflazionare e ridurre i tempi di definizione del contenzioso tributario». Ed il pensiero non poteva che correre al “tappo” del giudizio di legittimità, potendosi dire il giudizio di merito tendenzialmente veloce – ancorché, talvolta, con marcate differenze territoriali – sia pure grazie anche ad una struttura assai snella del processo esaurentesi tipicamente in una sola udienza ([1]).
Sennonché, lungi dal ridursi ad interventi i) di mera introduzione di nuovi istituti aventi siffatte specifiche finalità – si pensi, ad es., al giudice monocratico o alla conciliazione sul modello dell’art. 185 c.p.c. – ii) di mero rafforzamento di istituti esistenti – si pensi, ad es., all’innalzamento del limite di valore per la mediazione, iii) e/o di natura meramente estemporanea – si pensi, ad. es., alla riedizione dei provvedimenti di definizione delle liti esistenti e di rottamazione dei ruoli – si è virato con forza in direzione della più ambiziosa previsione di una magistratura professionale e specializzata, assunta per concorso. Direzione, peraltro, condivisa dai sopra richiamati ddl, tutti “imperniati” sull’obiettivo, ancorché variamente perseguito, di istituire una quinta magistratura tributaria con un corpo autonomo di giudici specializzati e professionali, assunti per concorso, dedicati a tempo pieno alla materia tributaria.
Così facendo, gli obiettivi di deflazione e di riduzione dei tempi venivano collegati anche ad un innalzamento della qualità complessiva della giurisdizione, qui identificata nella disponibilità di giudici a tempo pieno assorbiti dalla sola materia tributaria ed assunti all’esito di un pubblico concorso per titoli ed esami orali, ai sensi dell’art. 97, quarto comma, della Costituzione.
Soprattutto, si veniva così a delineare la scelta di lavorare “dall’interno” della giurisdizione speciale, scartando così l’idea di attribuire la giurisdizione tributaria ad altre già esistenti, né a quella contabile – come pure a suo tempo qualcuno aveva proposto, suscitando un coro di reazioni negative ([2]) – né a quella ordinaria, considerata già oberata di lavoro e comunque ritenuta meno idonea ad affrontare con la necessaria conoscenza tecnica una materia piuttosto lontana da quelle tradizionalmente trattate. Insomma, si è ritenuto di lasciare la giurisdizione tributaria una giurisdizione di controllo dell’esercizio del potere di applicazione dei tributi, portatrice di una cultura speciale della giurisdizione ed idonea a proporsi come giudice dei profili patrimoniali dell’imposizione al contempo in grado di valutare i profili di legittimità dell’azione impositiva ([3]).
Dal complesso dei disegni di legge sopra richiamati emergeva peraltro, come accennato, un’attenzione anche per le questioni di tipo processuale. Sennonché, le scadenze pressanti del PNRR si ponevano di traverso a qualsiasi intervento “organico” sulla disciplina processuale, sollecitando, semmai, una scelta “politica” su quali specifiche tematiche eventualmente intervenire con l’occasione.
Sennonché, non erano tutte rose e fiori.
La Commissione della Cananea si era infatti divisa, direi quasi lacerata, sulla questione se l’art. 102 della Costituzione consentisse di istituire un ordine giudiziario autonomo aggiuntivo rispetto a quelli già esistenti e anche le autorevolissime audizioni a tal fine disposte si erano espresse al riguardo in modo dissonante. Così, da un parte, vi era chi sosteneva la necessità di istituire una magistratura interamente professionale e specializzata composta da giudici assunti per concorso e pertanto a tempo pieno; dall’altra parte, chi, invece, rilevando anche le difficoltà pratiche connesse alla realizzazione nel breve periodo di un tale assetto, riteneva più utile rafforzare sin da subito la fase di appello consentendo il transito di giudici togati nelle Commissioni tributarie, onde incrementare la qualità delle sentenze di appello e così renderle maggiormente “resistenti” alla impugnazione presso la Corte di Cassazione, ormai “seppellita” da una montagna di ricorsi che solo in tempi recenti – grazie ad un impressionante tour de force e con l’aiuto di taluni provvedimenti deflativi – aveva registrato una prima inversione di tendenza, tuttavia pur sempre rallentata da un numero di ricorsi introitati mai in diminuzione.
Ma le stesse proposte di modifica di natura processuale non venivano condivise tra tutti i componenti della Commissione, riportando così nella relazione finale i nominativi dei soli componenti che le avevano intese supportare.
Si rendeva pertanto necessario per il Governo nominare una nuova e più ristretta commissione, la quale avrebbe dovuto rassegnare le proprie conclusioni entro il 15 aprile 2022.
Sennonché, l’output che ne è derivato, secondo modalità che ai più sono rimaste imperscrutabili, non è stata una nuova relazione contenente una proposta di legge delega unitaria, come pur ci si sarebbe attesi, bensì direttamente un disegno di legge di iniziativa governativa nella specie recante «Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario», che veniva prontamente trasmesso al Senato per avviarne l’esame.
Se già la “forma” destava perplessità – è indubbio che con una legge delega si sarebbe pervenuti ad un risultato di portata sistematica e qualitativa ben diversa – il relativo contenuto, ordinamentale e processuale, non era meno problematico.
Il ddl di iniziativa governativa, infatti, pur finalmente avviando il percorso di professionalizzazione e specializzazione dei giudici tributari di cui si è detto, rappresentava, sotto il profilo ordinamentale, una malriuscita sintesi delle citate posizioni emerse in seno alla Commissione della Cananea, e, sotto il profilo processuale, un autentico pastrocchio.
È dunque merito dello straordinario lavoro svolto dalle Commissioni Finanze e Giustizia del Senato il miglioramento assai significativo – soprattutto, vedremo, per quanto attiene ai profili processuali – che si apprezza tra il testo definitivamente approvato e il ddl di iniziativa governativa.
Nonostante, secondo le originarie indiscrezioni, il ddl avrebbe dovuto essere approvato in gran fretta e con marginali modifiche pur di realizzare a qualsiasi costo l’obiettivo indicato nel PNRR, le indicate Commissioni, davvero lodevolmente, si sono prese tempo per un serio ed approfondito esame del testo, ripetutamente posticipando il termine conclusivo per la presentazione degli emendamenti, e sono così pervenute ad un testo alquanto migliorativo, seppur come detto bisognevole, in parte già nell’immediato, di ulteriori interventi soprattutto sul piano ordinamentale.
2. L’assetto ordinamentale delineato dalla L. 31 agosto 2022, n. 130.
2.1. Le linee generali.
Si giunge così all’approvazione con L. 31 agosto 2022, n. 130 della riforma della giustizia e del processo tributari che per un verso interviene sull’assetto ordinamentale, e per altro verso altro tocca, anche profondamente, taluni istituti “nevralgici” del processo tributario.
Come noto, è il primo assetto ad aver sollevato le perplessità più rilevanti, in quanto ai pur lodevoli fini perseguiti si sono accompagnate modalità “esecutive” talvolta al limite del naif quando non direttamente in contrasto con gli obiettivi perseguiti.
Come noto, le Corti tributarie risultavano composte in quel momento da circa 2.800 giudici, di cui poco più della metà togati e dunque già incardinati in altre magistrature e per il resto non togati di diversa estrazione, tra cui circa 560 giudici iscritti ad albi professionali (e tra questi 9 tra architetti, agronomi e periti agrari), circa 250 tra dipendenti pubblici e privati, circa 300 pensionati e un centinaio di docenti, di cui la metà di scuola secondaria e la metà universitari. Ad oggi, sembrerebbe peraltro che i giudici in servizio siano meno di 2.400, sicché il dato di partenza risulta già adesso assottigliatosi.
Nel passaggio da questo assetto a quello prefigurato “a regime” dal legislatore, si poneva il problema centrale della sorte degli attuali giudici tributari, togati e non, rispetto al quale i ddl di iniziativa parlamentare si dividevano tra chi intendeva fare tabula rasa e chi, invece e più realisticamente, riteneva dovessero salvaguardarsi le professionalità esistenti, con modalità più o meno inclusive, sia pure inquadrandole nella nuova “cornice” ([4]).
Ebbene, in questo contesto, il ddl governativo ha disegnato il seguente assetto ordinamentale.
In primo luogo, ha ritenuto doversi procedere alla formazione immediata di uno “zoccolo duro” di magistrati togati mediante opzione per il transito dalla magistratura di appartenenza (ordinaria, amministrativa, contabile, militare) alla nuova magistratura tributaria.
In secondo luogo, ha previsto l’assunzione mediante concorso di nuovi magistrati tributari, per un totale di 576 unità tra giudizio di primo grado e di secondo grado (comprensive delle indicate 100 unità “transitate”), con una quota di posti da riservare nei concorsi agli attuali giudici tributari non togati in servizio.
In terzo luogo, ha previsto il mantenimento in servizio di tutti gli attuali giudici in ruolo, togati e non, anticipando però l’età di cessazione dal servizio da 75 a 70 anni, con effetto immediato (1.1.2023).
Il tutto lasciando invariata la “collocazione” dei giudici, nuovi e vecchi, sotto il MEF.
Sennonché, ciascun punto presentava – e presenta tuttora, considerata la scansa incisività dell’intervento sulla parte ordinamentale attuato nel passaggio parlamentare a motivo delle notevoli resistenze ivi incontrate – rilevanti problemi.
Vediamoli nel dettaglio.
2.2. Il transito.
Per quanto riguarda il “transito”, esso riguarda come detto magistrati attualmente “in ruolo” nel loro ordinamento di appartenenza, che svolgono già funzione di giudice tributario, cui viene concessa l’opzione per il transito nella nuova magistratura tributaria «previa individuazione e pubblicazione dell’elenco delle sedi giudiziarie con posti vacanti, prioritariamente presso le commissioni tributarie regionali e di secondo grado». Sono emersi sin da subito rilevanti dubbi sulle effettive chances di successo di questa previsione, sol che si pensi alle relative conseguenze: (i) sulla progressione di carriera nella magistratura di appartenenza; (ii) sul venir meno del doppio emolumento percepito in relazione al ruolo di giudice tributario, mediamente pari a 20.529 euro annui ([5]); (iii) sulla possibilità di diventare giudice di Cassazione, preclusa ai nuovi giudici tributari, salva la possibilità di futura riammissione nella giustizia ordinaria per come prevista dall’art. 211 del R.D. n. 12 del 1941 (“Legge di ordinamento giudiziario”); (iv) sugli incarichi “extra” eventualmente connessi alla magistratura di appartenenza; (v) sulla eventuale nuova destinazione “territoriale”.
A ciò si aggiungeva l’irrazionale distribuzione dei posti disponibili tra i giudici ordinari da un lato, destinatari del 50% dei posti pur rappresentando essi l’86% circa dei giudici togati in servizio; e i restanti giudici (amministrativi, contabili, militari) dall’altro, destinatari dell’ulteriore 50% pur rappresentando solamente il restante 14% circa dei giudici togati in servizio e, soprattutto, provenendo da plessi giurisdizionali che ben difficilmente si sarebbero abbandonati (Tar, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Tribunali militari).
La netta impressione, con l’auspicio naturalmente di essere smentiti, è dunque che l’interpello da poco avviato per consentire il transito sia destinato all’insuccesso.
A ciò deve aggiungersi che:
a) per un verso, la legge indirizza questi giudici “prioritariamente” alle Corti di giustizia tributarie di secondo grado, mentre nell’ottica dell’obiettivo di deflazionare il giudizio in Cassazione, sarebbe stato auspicabile che essi venissero destinati “esclusivamente” alle Corti di giustizia tributarie di secondo grado: è noto, infatti, agli addetti ai lavori, che tra i principali vizi delle sentenze di appello dominano le omesse pronunce e le motivazioni apparenti, sicché una maggiore attenzione già alla “completezza” della pronunzia in fatto e in diritto avrebbe indubbiamente contribuito a ridurre il contenzioso di legittimità;
b) per altro verso, l’Interpello, volendo tenere conto del diverso parametro delle effettive carenze di organico delle singole sedi, ha persino aggravato la situazione, destinando la maggior parte dei giudici transitati al giudizio di primo grado (70 su 100) anziché al grado di appello; sicché l’obiettivo di rafforzare le sentenze di appello ne esce notevolmente ridimensionato;
c) per altro verso ancora, non sono previsti meccanismi che consentano di “reintegrare” tale “quota-100”.
Forse, se l’obiettivo era di avere sin da subito uno “zoccolo duro” di magistrati a tempo pieno, avrebbe dovuto destare maggiore attenzione ed approfondimento, anche in relazione alla compatibilità con l’art. 106 Cost., la disposizione del ddl Misiani che prevedeva la possibilità che a questo “zoccolo duro” concorressero giudici non togati di lunga anzianità previo concorso per soli titoli, previsione pertanto destinata ad una cerchia non particolarmente estesa di soggetti di lunga esperienza e con prospettive temporali di mantenimento in ruolo tutto sommato limitate; mentre, come noto, ai non togati è stata riservata solo una quota di posti su un concorso con caratteristiche certamente più adatte a giovani chiusi in casa a studiare, che a giudici aventi un’età media di circa 60 anni.
2.3. I concorsi.
Per quanto riguarda l’organico “a regime” indicato nel ddl in 576 unità – compresi, come detto, i 100 magistrati destinati al transito – esso è rimasto invariato a seguito del passaggio parlamentare.
Come emerge dalla relazione tecnica, il numero dell’organico a regime è stato determinato partendo dal dato di circa 215.000 definizioni annue, calcolato sulla media del triennio 2017-2019, e sulla base dell’assunto secondo cui ciascun giudice dovrebbe decidere annualmente 374 sentenze.
Si tratta di un numero di sentenze all’evidenza abnorme, aggravato dalla circostanza che esso è stato ottenuto semplicemente riproporzionando la “produttività” in relazione al tempo medio attualmente dedicato da ciascun magistrato “onorario”, al tempo che dovrebbe adesso dedicare alla funzione un magistrato a tempo pieno, utilizzando a tal fine un coefficiente pari a 4,5 ([6]). Il che significa che l’assunto di base è che il tempo dedicato a “singola sentenza” dai nuovi giudici sia lo stesso dei “vecchi” giudici, in piena antitesi con l’esigenza di qualità insita nella scelta di un giudice a “tempo pieno”, che vorrebbe al contrario che a ciascuna sentenza venga dedicato un tempo maggiore. Il numero di sentenze “di partenza” è peraltro ampiamente sottostimato – secondo i miei calcoli, almeno di un terzo – alla luce dell’avvenuto rafforzamento ed accelerazione dalla fase cautelare di cui diremo appresso, che impone di decidere sull’istanza cautelare in tempi brevissimi e separatamente dal merito.
Quanto poi alle regole concorsuali, anche qui il passaggio parlamentare non ha consentito alcun significativo progresso rispetto al ddl. A fronte di una sostanziale omogeneità delle materie rispetto al concorso in magistratura – fatta eccezione per la contabilità aziendale ed il bilancio, di cui peraltro il ddl prevedeva la conoscenza dei soli “elementi”, mentre il testo approvato in via definitiva ne richiede adesso la piena conoscenza – è, infatti, da attendersi la partecipazione di buona parte degli oltre 6.500 candidati che hanno partecipato all’ultimo concorso in magistratura, cui si aggiungeranno coloro che non possedevano i titoli necessari per parteciparvi (adesso, dopo il passaggio parlamentare, anche i laureati in economia, pure ammessi a partecipare al concorso per giudice tributario) e/o che possiedono competenze tributarie per via del lavoro che quotidianamente svolgono. Ciascuno consegnerà tre compiti scritti – che potrebbero così superare facilmente la decina di migliaia – che dovrebbero poi essere corretti da una commissione composta da appena dieci persone di cui metà professori universitari. I tempi di conclusione saranno pertanto “biblici” e il nuovo meccanismo transitorio di “décalage” per l’uscita dal servizio lungo il periodo 2022-2026 prevista, a seguito del passaggio parlamentare, in sostituzione dell’originario taglio “con l’accetta” a 70 anni dal 1.1.2023 prefigurata dal ddl, non sarà in grado di impedire un sensibile svuotamento delle Corti di giustizia tributarie.
Al cospetto dell’importante riforma approvata, i problemi di organico appena evidenziati potrebbero apparire tutto sommato secondari. Ma poiché la qualità della giustizia e le esigenze di tutela del contribuente non possono prescindere da un organico di giudici adeguato anche in termini quantitativi, è da auspicare che il legislatore possa rimediare quanto prima a questo palese difetto di “progettazione” normativa. Resta in ogni caso l’impressione di un testo particolarmente punitivo nei confronti dei giudici non togati.
2.4. Il tirocinio.
Oltre alle importanti questioni appena segnalate, ve ne erano tuttavia altre non meno importanti, a cominciare dal tirocinio.
Il ddl prevedeva, infatti, che i nuovi magistrati tributari sarebbero entrati in ruolo senza svolgere alcun tirocinio, né veniva prevista per essi una formazione continua, la cui importanza è forse massima nella materia tributaria per via dell’incessante produzione normativa e giurisprudenziale, nazionale e sovranazionale che la contraddistingue rispetto ad altre.
Il passaggio parlamentare ha consentito di porre un rimedio a tali carenze, prevedendo sia il tirocinio che la formazione continua, estesa peraltro anche ai giudici attualmente in servizio e della cui organizzazione il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria si sta già occupando.
2.5. La collocazione nell’ambito del MEF.
Il problema “ordinamentale” più rilevante riguarda, tuttavia, la perdurante collocazione dei giudici nel MEF, come detto non toccata dal ddl governativo e sopravvissuta anche al passaggio parlamentare.
Già con riferimento al previgente assetto normativo erano stati versati fiumi di inchiostro per stigmatizzare l’assenza di una piena indipendenza dei giudici dal MEF e non è un caso che tutti i disegni di legge di riforma di iniziativa parlamentare convergessero univocamente nel collocare i nuovi giudici sotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con parole anche particolarmente dure ([7]).
La Commissione della Cananea aveva invece ritenuto che «le argomentazioni addotte a sostegno della collocazione dei giudici tributari presso il Ministero della giustizia o la Presidenza del Consiglio dei Ministri (…) non appaiono conclusive», senza tuttavia neanche fare cenno al motivo.
Rispetto al passato, peraltro, la situazione è diventata ancor più grave, perché i nuovi giudici, così come i togati che già transiteranno alla magistratura tributaria per effetto dell’interpello, diventeranno direttamente dipendenti del MEF. Sicché, in ultima analisi, il contribuente si troverà ad essere giudicato da un dipendente di un Ente che, con la sua tipica controparte rappresentata dall’Agenzia delle entrate, stipula una convenzione in cui il raggiungimento degli obiettivi viene misurato anche in funzione del gettito ottenuto; gettito che dipende, a sua volta, anche dall’esito degli atti impositivi emanati dall’Agenzia delle entrate sulla cui legittimità e fondatezza quel giudice deve pronunziarsi.
La scelta di una magistratura professionale ed indipendente, una volta “scartata” l’idea di incardinarla in altre magistrature indipendenti (come detto, soprattutto quella contabile e quella ordinaria), non poteva che essere perseguita mediante l’attribuzione del potere di organizzazione e gestione dei giudici tributari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. E a tal fine è stata anche rilevata la “coerenza” con l’attuale regolamentazione del procedimento disciplinare nei confronti dei giudici tributari, laddove attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri la promozione dell’azione disciplinare, oltre che al Presidente della Corte di Giustizia tributaria di II grado, essendo pertanto significativo che essa non sia attribuita al Ministro dell’Economia e delle finanze ([8]).
Quel che il Parlamento è riuscito ad ottenere nella fase parlamentare è stato solo un rafforzamento del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria sotto il profilo sia della sua autonomia contabile che disciplinare-ispettivo, e per tale via, indirettamente, la l’“indipendenza” dei giudici. Ma ciò non pare ancora in grado di superare ciò che autorevole dottrina ha definito essere «una modalità governativa, condizionata dall’impronta amministrativa che continuerà a non conoscere “cancellerie” ma segreterie e neppure recluterà i propri giudici togati del futuro in autonomia dal Mef» ([9]).
La recente notissima ordinanza della Corte di giustizia di primo grado di Venezia ([10]) accende in ogni caso nuovamente un potente faro sulla questione, sollecitando il legislatore ad una rinnovata e profonda riflessione.
2.6. Il mancato accesso in cassazione.
Altra questione riguarda il mancato accesso dei nuovi giudici tributari alla Corte di cassazione.
Non ha infatti trovato accoglimento la proposta di una delle due diverse “anime” della Commissione della Cananea volta ad istituire una sezione specializzata in Cassazione cui assegnare giudici tributari provenienti dal grado di appello tributario, previa valutazione di idoneità del CSM.
È invece prevalsa la tesi secondo cui dall’art. 106 Cost. emerga come l’unica ipotesi di integrazione dei collegi di Cassazione con dei giudici che non facciano parte della giurisdizione ordinaria sia quella della nomina per “meriti insigni”.
Non ci si intende qui neanche avvicinare all’impervio terreno costituzionale di una simile opzione. È chiaro, tuttavia, che “a regime”, una volta cioè che saranno cessati dal servizio gli attuali giudici togati “ordinari” che fanno oggi da trait d’union, avremo una magistratura di legittimità che non si sarà mai occupata, in precedenza, della materia tributaria.
Il problema non richiede in ogni caso una soluzione immediata, considerati i lunghi tempi necessari per formare la nuova magistratura tributaria “per concorso” e gli anni di carriera che i nuovi magistrati tributari dovranno maturare per un futuro ipotetico accesso al grado di legittimità.
Certo, l’avvenuta apertura del concorso ai dottori commercialisti pone una pesante ipoteca “concettuale” sulle premesse per un tale futuro accesso, provocando un “corto circuito” di difficile sanabilità.
2.7. Il cambio di denominazione.
Last but not least, occorre infine dar conto del cambio di denominazione, di portata storica, da “Commissioni tributarie” in “Corti di giustizia tributarie”.
Si tratta di una denominazione finalmente consona ad un organo giurisdizionale, sebbene – come rilevato in precedenza – al mutamento della denominazione non corrisponda il pieno superamento della loro impronta amministrativa.
2.8. Considerazioni conclusive.
L’assetto teorico ed “esecutivo” ordinamentale appena delineato conduce alle seguenti riflessioni finali.
Le prospettive non appaiono rosee: da un lato, l’interpello si preannuncia destinato all’insuccesso e i primi concorsi si chiuderanno, ben che vada, non prima di un quinquennio; dall’altro, in questo arco temporale, saranno evaporati almeno un migliaio degli attuali giudici in servizio – tra cessazione di servizio naturale per raggiunti limiti di età (anche anticipata) e dimissioni volontarie (si stima, nell’ordine di 120/130 annue) – non essendo più previste nuove “immissioni” a seguito dell’esaurimento degli effetti dell’ultimo concorso svolto.
A fronte del sostanziale dimezzamento dei 2.800 giudici (ora, come detto, già meno di 2.400) su cui si sono fondate le previsioni, senza alcuna nuova immissione in ruolo, c’è da chiedersi cosa succederà sui tempi di decisione delle controversie.
Qui si assiste a spinte tra loro contrastanti in relazione al “possibile” carico di lavoro.
La “spinta” a favore dell’incremento già nell’immediato del carico di lavoro delle Corti è data: a) in primo luogo e soprattutto, dalla necessità di dover discutere le istanze di sospensiva separatamente dal merito – tra l’altro, incredibilmente, senza prevedere alcun compenso aggiuntivo! – che è vicenda assai rilevante in termini quantitativi, dal momento che il 40% circa dei ricorsi contiene una istanza di sospensiva, e soprattutto dovendoli discutere entro 30 giorni; b) in secondo luogo ed in misura minore, dal nuovo istituto della prova testimoniale scritta, che richiederà la fissazione di udienze aggiuntive conseguenti all’attività istruttoria da svolgere.
La “controspinta” a favore del decremento già nell’immediato del carico di lavori è invece data: a) dal nuovo giudice monocratico; b) dalla non impugnabilità del contenuto dell’estratto di ruolo, ad eccezione delle ipotesi tipizzate previste dal legislatore, che provocherà una riduzione del contenzioso in alcune zone geografiche in cui se ne era registrato un chiaro abuso; c) dai provvedimenti “deflativi” a tutto campo di imminente emanazione.
L’impatto di queste “spinte e controspinte” è difficilmente stimabile a fronte di un dato di fatto certo, costituito dalla massiccia fuoriuscita dei giudici attualmente in servizio – come detto, in parte già realizzatosi – senza che essi vengano in alcun modo rimpiazzati, con grave nocumento alla formazione dei collegi giudicanti.
Nel dubbio, anche per salvaguardare il principio costituzionale di buon andamento ed efficienza della pubblica amministrazione, si impone pertanto la scelta politica di un immediato intervento sui meccanismi di cessazione anticipata previsti, non potendosi permettere nessuno il rischio di una paralisi della giustizia tributaria, di cui le prime vittime sarebbero i contribuenti.
3. Le nuove disposizioni processuali.
3.1. Premessa.
L’autentica débacle del ddl governativo si registrava, tuttavia, sul fronte processuale, dove la svista più clamorosa, indicativa del livello a tacer d’altro “approssimativo” della confezione legislativa, riguardava le limitazioni all’appello delle sentenze del nuovo giudice monocratico deputato alle controversie di valore sino a 3.000 euro.
Pur inserendosi tale previsione nel dibattito relativo alla possibile introduzione di limitazioni all’accesso – che aveva visto ipotizzare le soluzioni più disparate, dalla diretta eliminazione di un grado di giudizio alla possibile introduzione di filtri in appello – il ddl di iniziativa governativa si spingeva in effetti oltre ogni oltre immaginazione, prevedendo che le sentenze del giudice monocratico potessero essere appellate «esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, nonché per violazione di norme costituzionali o di diritto dell’Unione Europea, ovvero dei principi regolatori della materia», con esclusione delle «controversie riguardanti le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione».
Si trattava, all’evidenza, di una trasposizione “fuori tema” dell’art. 339, co. 3, c.p.c., riguardante, come noto, le decisioni rese secondo “equità”, la cui giurisdizione, come rilevato dalla Consulta, è del tutto peculiare svolgendo la funzione «in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, […] di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva» ([11]).
Sicché, non sussistendo nella giurisdizione tributaria alcuna differenza qualitativa – ma solo quantitativa – tra le questioni da decidere in composizione monocratica e in composizione collegiale, entrambe rifuggendo da regole di giudizio “non scritte” e entrambe riguardando questioni non certo “ontologicamente” diverse per complessità delle questioni di fatto e di diritto da affrontare, si attuava per tale via una irragionevole discriminazione in danno dei contribuenti destinatari di pretese di valore inferiore a € 3.000, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost., venendo ad essi negato il doppio “pieno” grado di giudizio invece riconosciuto per le controversie di ammontare superiore.
Ma la stessa esclusione delle “risorse proprie” da questa improvvida “tagliola” era destituita di fondamento, trattandosi di scelta arbitraria – l’esigenza di riduzione dei tempi si manifesta infatti in modo eguale quale che sia la “natura” del tributo – né rinvenendosi nella disciplina unionale alcuna “specifica” indicazione di tipo processuale, essendo il contenzioso demandato alle discipline nazionali, e non potendosi pertanto da esso ricavarsi alcuna imposizione del “doppio grado di giurisdizione”.
Ed infine, pur eliminando l’appello, avrebbe comunque dovuto essere garantito il ricorso di Cassazione, perché così imposto dall’art. 111, co. 7, Cost., sicché a fronte dell’eliminazione di un grado di giudizio che, in materia tributaria, procede speditamente, si sarebbe avuto un aggravio del contenzioso in Cassazione, mancando l’obiettivo di deflazionare il contenzioso.
Bene ha fatto dunque il Parlamento a fare giustizia di questo “obbrobrio” giuridico.
Le disposizioni processuali contengono tuttavia, tra le altre, tre novità su cui vorrei di seguito brevemente soffermarmi per la loro notevolissima rilevanza.
3.2. La testimonianza scritta.
La prima è la testimonianza scritta, in cui il ddl, pur rompendo finalmente il tabù del suo storico divieto ([12]), la destinava tuttavia all’inapplicabilità in concreto.
Esso considerava infatti esperibile la testimonianza scritta solo ove «assolutamente necessario ai fini della decisione» e solo in presenza di «verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso».
A seguito del passaggio parlamentare sono venuti meno sia l’avverbio “assolutamente” – anche se forse sarebbe stata più opportuna la sostituzione della valutazione di “necessità” con una di mera “rilevanza” – sia il riferimento agli indicati verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso, con l’effetto che la prova testimoniale trova adesso ingresso in qualsiasi giudizio tributario. Il legislatore, sia pure con una formulazione che non brilla per chiarezza, esclude naturalmente la testimonianza nelle classiche ipotesi in cui lo strumento tipico per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale è costituito dalla querela di falso.
Non può peraltro che restare impregiudicata la possibilità per il contribuente, da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, di opporsi alle pretese degli uffici anche presentando dichiarazioni di terzi raccolte nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, poiché funzionale al dispiegarsi del giusto processo ex art. 6 della CEDU, stavolta però con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari.
Anzi, potremmo dire che queste dichiarazioni possano servire proprio per introdurre nel giudizio, a detto livello “indiziario”, circostanze di fatto che il giudice potrebbe poi far “salire di livello” ricorrendo alla testimonianza scritta.
Si apre, infine, la questione se la previsione della testimonianza scritta possa finalmente superare il limite dell’art. 654 c.p.p. originariamente conseguente dalla limitazione alla prova dei fatti, e così consentire l’applicazione del giudicato penale alle vicende tributarie.
3.3. L’accelerazione della tutela cautelare.
La seconda novità, introdotta ex novo dalle Commissioni parlamentari (così come la terza, di cui si dirà oltre), è la forte accelerazione impressa alla tutela cautelare.
Va ricordato che negli ultimi anni mediamente il 40% circa dei ricorsi è stato accompagnato da una istanza di sospensiva, ma di queste ne è stato deciso appena un terzo, di cui circa la metà oltre 180 giorni dalla relativa proposizione.
Si tratta di una situazione divenuta di fatto incompatibile con i poteri della riscossione privilegiati di cui gode il Fisco e con la forte accelerazione dei tempi conseguente: i) alla notifica a mezzo PEC nei confronti di imprese e professionisti; ii) ai brevissimi termini entro cui i terzi pignorati devono adempiere (art. 72 e 72-bis, d.p.r. n. 602/1973); iii) all’avvenuta eliminazione della possibilità di anticipare la tutela mediante impugnazione del contenuto dell’estratto di ruolo da cui risultino atti impositivi non notificati, di recente avallata dalle Sezioni Unite (n. 26283/2022); iv) all’introduzione e al successivo ampliamento ai tributi locali degli atti c.d. “impoesattivi” che cumulano in sé natura di atto impositivo, titolo esecutivo e precetto e pertanto non richiedono neanche più la formazione del ruolo e la notifica della cartella.
Dinanzi all’urgenza di un intervento su un testo normativo ormai scollegato dalla realtà, il legislatore ha provveduto ad un drastico taglio a 30 giorni dalla presentazione dell’istanza del termine massimo entro cui fissare l’udienza cautelare, superando pertanto il termine di 180gg introdotto proprio in occasione del “battesimo” dell’atto impoesattivo mediante l’introduzione del comma 5-bis nell’art. 47, adesso abrogato.
Dipoi, ha attribuito alla fase cautelare una piena autonomia rispetto alla fase di merito, impedendo sia che il merito possa essere deciso nell’udienza di sospensiva, sia che la sospensiva venga decisa in occasione del merito. Si realizza con ciò la piena autonomia della fase cautelare rispetto alla fase di merito.
Si tratta di una scelta che ha implicazioni biunivoche.
Per un verso, essa impedisce che il merito possa essere deciso nell’udienza di sospensiva, eventualità che ben poteva risolversi nella lesione del diritto delle parti alla precisazione delle difese e delle allegazioni probatorie, anche mediante presentazione di memorie o di documenti aggiuntivi.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha invero rilevato come il diritto delle parti alla precisazione delle difese e delle allegazioni probatorie in seno all’udienza di trattazione del merito costituisca un diritto la cui funzione è essenziale, essendo pertanto nulla la sentenza emessa senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, di un pregiudizio che da tale inosservanza sia derivato alla parte ([13]).
Per altro verso, essa impedisce che la sospensiva possa essere decisa in occasione della decisione di merito.
Occorre al riguardo ricordare che la giurisprudenza ha escluso la rilevanza dell’omessa fissazione in via autonoma dell’udienza di sospensiva proprio argomentando dalla possibilità che il presidente della commissione possa decidere di differire la disamina dell’istanza cautelare all’udienza di discussione del merito, senza dunque fissare una preventiva udienza. La prima udienza di consiglio utile – si osserva – può infatti coincidere proprio con l’udienza di trattazione, sicché qualora il giudice ometta di pronunciarsi sulla richiesta di sospensiva e la esamini in sede di discussione sul merito, la sentenza è da ritenersi valida ([14]). Ebbene, come detto, questa possibilità di discussione congiunta viene adesso espressamente vietata e con essa l’argomentazione appena indicata.
Più insidiosa è l’argomentazione utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità onde ritenere irrilevante l’omessa decisione tout court sull’istanza di sospensione, secondo cui ben si possa decidere “senza ritardo” il merito della causa senza provvedere sull’istanza di sospensione atteso che la perdita di efficacia del provvedimento cautelare avviene in ogni caso con la pubblicazione della sentenza di primo grado destinata ad assorbirne gli effetti: sicché mancherebbe ogni pregiudizio dalla mancata fissazione dell’udienza tout court ([15]), posto che per effetto della sentenza di merito, «cessa il pregiudizio per la mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole, sarebbe comunque travolta dalla decisione di merito» ([16]).
In realtà, anche una volta pronunciata la sentenza di primo grado, il pregiudizio non cessa, perché l’omessa decisione sulla sospensiva ben potrebbe essersi risolta nell’inesorabile avanzamento ed attuazione dell’esecuzione forzata, dalla quale certamente potrebbe essere derivato un danno, persino irreversibile (ad es., la dichiarazione di fallimento), ove ad esempio dal pignoramento dei conti correnti sia conseguita l’assoluta carenza di liquidità tale da provocarne la dichiarazione di insolvenza (ovvero l’alienazione sottocosto di beni produttivi per far fronte alla carenza di liquidità).
Quel che viene meno, semmai, è l’interesse ad appellare, perché la sentenza, se favorevole, determina il diritto di ripetere le somme medio tempore versate; se sfavorevole, consolida, almeno temporaneamente, gli effetti dell’esecuzione forzata provvisoria e giustifica persino l’iscrizione a ruolo di una quota ulteriore delle somme contestate.
Certo, è evidente che, una volta inquadrata l’accelerazione di cui si discute nell’ambito di un’ineludibile esigenza di tutela costituzionale, e una volta sancita in via legislativa la piena “autonomia” della fase cautelare da quella di merito, si aprono spazi notevoli alla risarcibilità dei danni eventualmente subiti dal contribuente a seguito dell’esecuzione forzata per effetto della mancata fissazione dell’udienza di sospensione. Il che, paradossalmente, potrebbe indurre i giudici a negare le ragioni di merito del contribuente per non riconoscere, indirettamente, che la sospensiva ben avrebbe potuto essere accordata ove mai discussa.
L’auspicio è dunque che le Corti tributarie sappiano raccogliere la sfida del legislatore ed esaminare le istanze cautelari nel ridotto lasso di tempo previsto dal legislatore, e ciò al precipuo fine di garantire quella “tenuta costituzionale” del sistema di cui si è ampiamente detto. Il che richiederà che il Presidente della Corte sia rapido nell’assegnazione del ricorso alla sezione e che il presidente di quest’ultima sia a sua volta rapido nell’individuare la prima camera di consiglio disponibile.
Quel che si evidenzia, in ogni caso, è la totale inversione di prospettiva ormai realizzatasi da un sistema in cui la Corte costituzionale escludeva che la tutela cautelare costituisse «una componente essenziale della tutela giurisdizionale ex artt. 24 e 113 Cost» ([17]), ad uno in cui, invece, è proprio la tutela cautelare, ove efficacemente attuata, a costituire l’ultimo baluardo di costituzionalità di un sistema che rischia altrimenti di mettere il contribuente dinanzi al “fatto compiuto” dell’avvenuta esecuzione forzata.
Il complessivo giudizio qui espresso non implica, purtuttavia, che non vi sia ancora molto da fare alla luce degli importanti vuoti di tutela ancora presenti nel sistema e dovuti, in ultima analisi, a quell’infelicissimo connubio, tipico del nostro ordinamento, fra l’eccessiva ampiezza dei poteri riscossivi stragiudiziali di cui è titolare l’Amministrazione Finanziaria, da un lato, ed una generale inadeguatezza dei poteri cautelari riconosciuti al giudice tributario, dall’altra.
Un tipico esempio aiuta a rendere ragione di quanto poc’anzi affermato.
In virtù della pronuncia additiva della Consulta ([18]) in riferimento all’art. 57 d.P.R. n. 602/1973 e sulla base dell’orientamento delle Sezioni Unite ([19]) che di quell’intervento hanno fornito un’interpretazione sistematica, ove il contribuente intenda impugnare il pignoramento stragiudiziale notificatogli facendo valere la mancata notifica del relativo atto presupposto (cartella o accertamento esecutivo che sia), dovrà necessariamente rivolgersi al giudice tributario ivi articolando, se del caso, una apposita domanda cautelare.
Ed è proprio qui che emerge tutta la limitatezza dei poteri cautelari riconosciuti al giudice tributario.
Ed infatti, anche ammettendo che il giudice riesca a pronunciarsi sulla domanda cautelare entro i ristretti termini oggi previsti, lo stesso potrà esclusivamente impedire l’ulteriore prosecuzione dell’esecuzione ma non anche ordinare uno svincolo, neanche parziale, delle somme pignorate essendo esso titolare di un mero potere inibitorio e non anche atipico, ed essendo gli effetti dell’esercizio del primo limitati al momento della domanda (ossia ad un momento necessariamente sempre successivo a quello in cui viene impresso il vincolo di indisponibilità per effetto della notifica del pignoramento). Il che val quanto dire che il sistema, così come attualmente congegnato, ammette implicitamente la possibilità che l’amministrazione proceda, anche in assenza di qualsivoglia titolo, al pignoramento presso terzi ex art. 72-bis, d.p.r. n. 602/1973 e che non vi sia alcuno strumento riconosciuto al contribuente per ottenere giudizialmente lo svincolo delle predette somme prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, con effetti disastrosi per la continuità dell’impresa o dello stesso sostentamento del contribuente.
Ed infatti, tale svincolo:
i. non potrebbe essere disposto dal giudice tributario per quanto sopra detto;
ii. non potrebbe essere disposto dal giudice civile perché privo di giurisdizione;
iii. non potrebbe in ultima analisi essere ottenuto neanche per via amministrativa attraverso un’istanza di rateazione posto che se è certamente vero che il perfezionamento della rateazione ha quale effetto l’estinzione della procedura esecutiva e, quindi, lo svincolo delle somme, al tempo stesso:
a. per un verso e secondo una giurisprudenza che non si ritiene di poter condividere, ciò comporterebbe una rinuncia implicita all’impugnazione, essendo nell’ottica della predetta giurisprudenza la censura di omessa notifica dell’atto presupposto geneticamente incompatibile con la presentazione di un’istanza di rateazione di quel medesimo atto ([20]).
b. per altro verso ed anche indipendentemente dal punto di cui sopra, implica che il contribuente debba farsi carico dell’onere finanziario della rateazione per tutto il tempo occorrente per addivenire alla pronuncia di primo grado.
Stante l’inaccettabilità di simili conclusioni, delle due l’una: o si potenziano i poteri cautelari del giudice tributario tanto da ricomprendere anche poteri atipici, oppure si ridimensionano i poteri riscossivi stragiudiziali dell’Amministrazione limitandoli a solo quei casi in cui un vaglio giudiziale del titolo vi sia, sotto qualunque forma, comunque stato.
3.4. L’onere della prova e la “consistenza” della prova.
La terza novità, anch’essa frutto di un autonomo intervento in sede parlamentare, è la disposizione riguardante l’onere della prova e la “consistenza” della prova medesima.
Tale disposizione sancisce innanzitutto con chiarezza ciò che la dottrina – in primis, Enrico Allorio – ha da tempo affermato e cioè che nel processo tributario, con l’eccezione dei giudizi di rimborso, l’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa – nella nuova disposizione indicata con l’espressione «violazioni contestate con l’atto impugnato» – spetta sempre al Fisco, perché è esso che fa valere una pretesa in giudizio.
Questo principio viene adesso incorporato in una regola di giudizio specificamente “tributaria” riguardante, appunto, il “come” il giudice tributario debba risolvere la controversia nel caso in cui la parte onerata non abbia raggiunto la prova dei fatti.
Credo pertanto si possa affermare che il riferimento all’art. 2697 c.c. – assunto da parte della giurisprudenza (diversamente dalla dottrina ma con conclusioni finali sostanzialmente analoghe) a fondamento della ripartizione dell’onere probatorio sin dalla storica sentenza 23 maggio 1979, n. 2990, con cui la Suprema Corte escluse definitivamente la c.d. “presunzione di legittimità degli atti” e ritenne, appunto, che ai sensi dell’art. 2697, co. 1, c.c. sia l’amministrazione a dover provare in giudizio i fatti costitutivi del proprio diritto e il contribuente i relativi fatti estintivi, impeditivi o modificativi ai sensi del successivo comma 2 – possa e debba essere definitivamente abbandonato, perché di esso non v’è ormai più necessità per supplire ad una assenza di una disposizione ad hoc ormai invece presente ([21]). Del resto, non solo l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. al processo tributario costituisce da sempre tema controverso, ma la stessa scomposizione dei fatti giuridici tra fatti costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi, come è stato osservato, è tutt’altro che agevole ed appagante ([22]).
Al tempo stesso, è persino ovvio che tale disposizione non tocchi le vicende in cui il legislatore, oltre a prevedere la regola di giudizio, ricolleghi anche precise conseguenze giuridiche alla mancata prova del fatto opposto a quello presunto, come accade per le presunzioni relative ([23]). Si tratta di quelle ipotesi in cui il legislatore, al fine di tutelare gli interessi del Fisco, privilegia una “verità” (si pensi, ad es., alla permanenza della residenza fiscale in Italia in caso di iscrizione nell’AIRE da parte di cittadini italiani emigrati in paradisi fiscali), ammettendo tuttavia la possibilità che gli interessati dimostrino la mancata coincidenza tra la “verità” favorita dalla legge e quella reale (ovverosia, in quel caso, l’effettività della residenza e del domicilio civilistici nel paradiso fiscale). Ciò essa fa sia sulla base di una preponderanza di possibilità, che spinge a considerare esistente ciò che è usuale (ovverosia, che il trasferimento in un paradiso fiscale è sovente “fittizio”) e a fare carico a chi nega di provare il non usuale (ovverosia, che il trasferimento ha carattere “effettivo”), sia sulla base della migliore conoscenza dei fatti e/o del migliore accesso ai mezzi di prova che evidentemente caratterizza la posizione del contribuente in ordine alla residenza e al domicilio dello stesso.
Così come è pure evidente come essa non tocchi quelle ipotesi in cui è il legislatore a disciplinare espressamente la ripartizione della prova, come ad esempio accade con i c.d. accertamenti bancari ex art. 32, d.p.r. n. 600/1973. E ciò anche in armonia con l’espressione «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale» utilizzata dal legislatore.
Ciò premesso, è chiaro che in ciascuna delle due ipotesi – violazioni contestate da un lato, richiesta di rimborso dall’altro – ciascuna parte può limitarsi a negare che controparte abbia assolto l’onere della prova, oppure anche fornire una prova “positiva” volta a contrastare la prova altrui.
Sennonché, in mancanza di una prova “positiva” contraria, difficilmente il contribuente ha sin qui potuto sperare nell’accoglimento delle proprie ragioni, almeno nelle ipotesi di acclarata sua vicinanza alla prova, posto che l’atteggiamento meramente negativo, soprattutto da parte di chi dovrebbe conoscere meglio i fatti, non fa spesso che confermare le tesi avversarie.
Emerge dunque un punto cruciale, e cioè la limitatezza di quelle costruzioni rigidamente meccanicistiche che capita talvolta di vedere offrire del giudizio di fatto, instaurandosi in realtà un fenomeno dialettico nel processo tributario, dovendo anche la parte sulla quale non incombe l’onere probatorio svolgere un ruolo attivo e non meramente passivo, che finirebbe altrimenti con il confermare le tesi dell’avversario ([24]). Si confronteranno tutte le prove offerte e sulla base della loro comparazione si fonderà la decisione del giudice tributario ([25]).
Sotto questo profilo, potrebbe avere una qualche spiegazione quella ritrosia che talvolta si rinviene a scorgere un reale contenuto “innovativo” alla nuova disposizione. Ma un conto è riconoscere la dialettica del giudizio di fatto, che rimane, altro è affermare che in relazione alla prova della “pretesa” tutto sia rimasto come prima. Il Fisco, ad esempio, non potrà ad esempio più limitarsi sic et simpliciter a rilevare, dopo aver motivato l’avviso di accertamento, che il contribuente, richiesto in tal senso, non ha adotto alcuna prova delle condizioni di fatto che legittimano le agevolazioni fruite dal contribuente (si pensi, ad es., alla prova della natura “non terapeutica” delle prestazioni sanitarie ai fini dell’esenzione Iva). L’Amministrazione finanziaria dovrà adesso necessariamente farsi “parte attiva”, pena il mancato assolvimento dell’onere probatorio e l’applicazione della nuova regola di giudizio, utilizzando pienamente gli amplissimi poteri istruttori di cui dispone. E dovrà farsi parte attiva anche sull’irrogazione delle sanzioni, ambito in cui dalla riforma del 1997 ad oggi ha operato, come noto, un sostanziale “automatismo applicativo” in sede sia amministrativa che giurisprudenziale.
Ma c’è un’ulteriore novità, non meno importante, che sta nella frase posizionata al centro tra le due separate “regole di giudizio,” a mente della quale «il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni».
Da questa frase possono infatti evincersi alcune conseguenze importanti.
La prima riguarda il fatto che il giudice fonda la decisione «sugli elementi di prova che emergono nel giudizio». Ciò conferma, per un verso, la tesi della dialettica del giudizio di fatto e, per altro verso, che stiamo pur sempre parlando di una regola di giudizio processuale, sicché necessariamente la valutazione è sul materiale probatorio presente in giudizio. Ma poiché è impensabile che l’Amministrazione finanziaria si riduca a provare la propria pretesa in giudizio senza avere a sua volta raccolto le prove nella fase istruttoria, è evidente che l’istruttoria dovrà essere di intensità tale da poter fondatamente poi sostenere la pretesa in giudizio. I due momenti finiscono pertanto per essere inscindibilmente connessi tra loro, il che rafforza – e non già indebolisce – la tesi per la quale gli elementi di prova devono almeno essere indicati nell’avviso di accertamento ([26]).
La seconda riguarda il fatto che l’onere della prova si ricollega «alle ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni», confermando, pertanto, l’ampia estensione assegnata dalla nuova disposizione alla ripartizione dell’onere – tant’è che la regola di giudizio relativa alle richieste di rimborso segue il secondo periodo qui in commento, a sua volta preceduto dalla regola di giudizio generale di cui al primo periodo.
La terza riguarda il fatto che il giudice annulla l’atto impositivo «se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale» la pretesa impositiva e sanzionatoria.
Ebbene, questa terza conseguenza è fondamentale sotto almeno due profili.
Sotto un primo profilo, perché impone una seria riflessione sulla perdurante validità di talune massime giurisprudenziali, a cominciare dal principio secondo cui «nel processo tributario l’amministrazione finanziaria è attore in senso sostanziale e quindi su di essa grava l’onere della prova della pretesa adottata con l’accertamento, mentre l’onere del contribuente di provare elementi in senso contrario scatta solo quando dall’ufficio siano stati forniti indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria» ([27]). È chiaro, infatti, che questi “indizi sufficienti” devono adesso assurgere al rango di una vera e propria prova “circostanziata e puntuale” onde potersi affermare «la sussistenza dell’obbligazione tributaria». Come è stato perspicuamente rilevato in relazione all’art. 116 c.p.c., «la novella sostituisce una valutazione rigorosa (…) alla prudente ponderazione sancita dalla regola processualcivilistica » ([28]).
Ma gli ambiti di applicazione in cui questo livello di affidabilità “alto” viene in rilievo, sono potenzialmente assai numerosi. Si pensi alle operazioni soggettivamente inesistenti, dove la più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE ha ritenuto costituisca onere dell'amministrazione finanziaria di «individuare con precisione» gli elementi costitutivi della frode e fornire la prova delle condotte fraudolente, nonché la partecipazione attiva del soggetto passivo o che sapeva o avrebbe dovuto sapere (GCUE, 1.12.2022, C-512/2021, par. 36). Non pare esservi in effetti grande differenza tra produrre in giudizio prove “circostanziate e puntuali” e “individuare con precisione” gli elementi costitutivi sopra indicati: né, peraltro, un’eventuale prova “rafforzata” prevista dal diritto nazionale confliggerebbe con il diritto UE, dal momento che, in tema di disciplina delle prove, la Corte di giustizia UE rinvia alle norme nazionali (GCUE, 1.12.2022, C-512/2021, par. 31). Non è sufficiente, dunque, che l’Amministrazione finanziaria offra un mero e generico “quadro indiziario” ([29]).
Entriamo, dunque, nell’ambito della c.d. prova prima facie, che se pur non determina un inversione dell’onere della prova, comporta comunque un “abbassamento” del livello probatorio della parte onerata, che deve limitarsi a dimostrare le “circostanze tipiche” idonee a dimostrare l’apparenza del fatto, imponendo alla controparte di fornire elementi di prova idonei a far venire meno la situazione di apparenza ([30]). Ambito cui consegue proprio il rischio, da tempo rilevato dalla dottrina, di manipolazioni giurisprudenziali della ripartizione dell’onere della prova ([31]).
Tra queste ipotesi, merita sicuramente un ripensamento la giurisprudenza sulle società a ristretta base azionaria, e ciò sicuramente nel caso di costi regolarmente sostenuti, essendo la presunzione di distribuzione ai soci delle somme corrispondenti a siffatti costi ormai sfornita di un livello di attendibilità sufficiente, oltre ad essere la prova contraria dell’accantonamento o del reinvestimento delle relative somme nell’attività produttiva non solo illogica (quali somme?), ma persino impossibile. Ma ove si volesse valorizzare al massimo l’espressione «in coerenza con la normativa sostanziale», tale cioè da fare salve le sole diverse ripartizioni dell’onere probatorio previste dal legislatore, dovrebbe dedursene che la presunzione non potrebbe operare neanche in presenza di un accertamento di maggiori ricavi, dovendo essere il Fisco a dimostrare che le somme non dichiarate sono affluite nella disponibilità dei soci, attivando se del caso le indagini finanziarie e patrimoniali.
Sotto un secondo profilo, perché la nuova disposizione obbliga il giudice a motivare perché la prova offerta dal Fisco possa definirsi “circostanziata e puntuale”, da un lato mettendo “alle strette” il giudice di merito e contribuendo così a prevenire decisioni superficiali affette da motivazione apparente sulle evidenze probatorie, e, dall’altro, finalmente “stanando” interi plessi dell’Amministrazione finanziaria tradizionalmente restii a provare le loro affermazioni in giudizio. Tra queste, in primis, l’Agenzia delle Entrate-Territorio i cui atti di classamento sono da sempre emessi sulla base di generiche motivazioni riferentesi a fantomatiche caratteristiche e prezzi di immobili “similari” – sulle quali la giurisprudenza di legittimità ha purtroppo talvolta mostrato eccessiva tolleranza, soprattutto con gli accertamenti DOCFA, sopravvalutando la reale consistenza della “partecipazione” del contribuente, il quale in realtà, lungi dal partecipare, si limita solo a proporre una propria versione unilaterale – destinati però finalmente ad infrangersi con lo scoglio dell’assenza di qualsivoglia prova su quanto ivi affermato.
Il nuovo comma 5-bis, nell’obbligare i giudici a motivare con grande cura ed attenzione sul materiale probatorio versato in giudizio, potrebbe pertanto svolgere un rilevante effetto deflativo nel giudizio di legittimità.
Nessuna incidenza, invece, deve riconoscersi alla nuova disposizione in relazione alle presunzioni semplici, posto che i requisiti di “gravità, precisione e concordanza” configurano di per sé una prova “sufficiente”, esigendo un determinato standard di prova, ossia un “grado di conferma” del fatto da provare che non sia minimo, ma raggiunga un livello tale da rendere il factum probandum sufficientemente confermato secondo le regole di comune esperienza ([32]) e consentendo pertanto al giudice di ritenere vero un fatto in mancanza di elementi di segno contrario ([33]). Si tratta, è bene evidenziarlo, di un’operazione logica che non riguarda l’inversione dell’onere della prova bensì esclusivamente la prova: il ragionamento del giudice che “trae” la presunzione non mira, infatti, a ripartire l’onere della prova ma ha ad oggetto la formazione e la sussistenza della prova ([34]). Così come alcuna incidenza ha la nuova disposizione laddove il legislatore consente espressamente il ricorso a presunzioni semplicissime, come nel caso degli accertamenti c.d. “induttivi” di cui all’art. 39, co. 2, d.p.r. n. 600/1973.
Da quanto sopra, ci sembra, dunque, la primissima affermazione fatta dalla Corte di cassazione sulla portata della nuova formulazione legislativa ([35]), secondo cui essa non «stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale», se per un verso attribuisce correttamente un ruolo centrale all’istruttoria dibattimentale nell’ambito dell’indicata dialettica del giudizio di fatto, per altro verso non dà conto né della notevole ampiezza della nuova “regola di giudizio” – tale da investire finanche la prova sulla (non) spettanza delle agevolazioni – né del sensibile innalzamento dell’asticella sulla valutazione della “consistenza” della prova offerta dall’Ufficio necessaria per vederne confermata la fondatezza della pretesa in giudizio.
4. Conclusioni.
In conclusione, se può parlarsi di un bicchiere “mezzo pieno” (o “mezzo vuoto”), non v’è dubbio che il “mezzo pieno” sia merito delle Commissioni parlamentari competenti, e il “mezzo vuoto” sia colpa dell’affrettato ddl governativo.
Quel che tuttavia più sorprende è che il problema davvero più urgente, quello dell’arretrato in Cassazione, sia stato invece trattato con somma superficialità.
Nonostante le proposte equilibrate formulate in seno alla Commissione della Cananea circa i contenuti di una possibile misura di definizione delle liti pendenti, il testo del ddl governativo nulla prevedeva al riguardo, mentre la disposizione introdotta last minute in sede parlamentare ha finito per disciplinare il problema in modo frettoloso ed impreciso, introducendo una definizione fortemente “limitata” vuoi quanto al valore ridotto delle liti interessate, vuoi quanto all’esclusione delle liti in cui vi sia stato un doppio giudizio di merito negativo per il contribuente vuoi infine quanto alla sua parametrazione al valore della controversia in primo grado e non anche, come sarebbe stato logico, al valore della lite in Cassazione costituente la vera “alea” residua del giudizio.
Si tratta di una questione di cui dovrà farsi carico la nuova legislatura, insieme a molte altre.
Tra queste, oltre a quelle sopra già evidenziate, ne vorrei indicare due.
La prima è l’assistenza tecnica. Non v’è dubbio che l’estrazione variopinta dei difensori, frutto di scelte politiche disgraziate, si ripercuota sulla qualità degli atti, condizionando tutto il giudizio ivi compresa la qualità delle sentenze, che, a loro volta, è la premessa per le impugnazioni. Non è pensabile una riforma che mentre ha il fine di innalzare la qualità delle sentenze, non innalza la qualità della difesa. Sarebbe pertanto necessaria una significativa revisione finalizzata ad escludere almeno tutti coloro che svolgono professioni che con il diritto non hanno mai avuto nulla a che vedere nella loro formazione. Qui ne va, dobbiamo dirlo con forza, del diritto di difesa del cliente, che non è corretto far affidare a professionisti che non sanno nulla del diritto e del processo tributario. Certo, è altamente probabile che ciò rimarrà un mero auspicio, se solo si pensa che la legge delega n. 23/2014 sulla revisione del contenzioso tributario prevedeva … l’eventuale ampliamento (sic) dei soggetti abilitati a rappresentare i contribuenti dinanzi alle Commissioni tributarie (art. 10, co. 1, lett. b), n. 3).
La seconda è l’innalzamento ulteriore del livello di tutela giudiziale. Si è già detto della tutela cautelare, ma aggiungerei la tutela dinanzi agli atti istruttori, non essendo la tutela differita in linea con la giurisprudenza della CEDU, e anche una rivisitazione della recente norma sull’impugnazione del contenuto dell’estratto di ruolo nel caso di mancata notifica degli atti presupposti, dovendosi ampliare le ipotesi di “interessi” tipizzati che legittimano la tutela anticipatoria almeno ad alcuni interessi qualificati di natura “privata”.
In conclusione, tanta strada è stata fatta, ma tanta ne resta ancora da percorrere per un processo tributario che possa dirsi davvero “giusto”.
(*) Testo della relazione tenuta al Convegno su “Le riforme del processo in Cassazione”, Parte I. La riforma della giustizia tributaria e la Corte di Cassazione, Corte di Cassazione, 16 dicembre 2022.
([1]) Al riguardo e limitandosi al periodo pre-pandemia, è sufficiente avere riguardo alla circostanza che, per quanto riguarda i gradi di merito, nel 2019 sono stati presentati 189.537 ricorsi tributari, di cui 142.522 in primo grado e 47.015 in secondo grado, mentre ne sono stati decisi 228.147. Al 31.12.2019, le controversie pendenti erano 335.175, a fronte di 380.774 al 31.12.2018, 417.250 al 31.12.2017, 468.839 al 31.12.2016 e 530.521 al 31.12.2015. Dal 2015 al 2019, le controversie pendenti sono dunque diminuite del 37% e di ca. 200.000 unità. Il sistema ha pertanto mostrato una capacità di assorbimento dell’arretrato di ca. 40/45 mila controversie annue (al lordo dei provvedimenti deflativi medio tempore adottati). Se le Corti di primo grado decidono circa 170mila ricorsi a fronte di 190mila pendenze, ciò significa che i tempi di decisione in primo grado sono nell’ordine di un anno; quanto alle Corti di secondo grado, se esse decidono circa 60mila ricorsi annui a fronte di 137.000 pendenze, i tempi medi di decisione sono di un paio di anni. In tutto, dunque, circa tre anni. Sussistono, tuttavia, differenze anche importanti tra i tempi effettivi delle diverse commissioni.
([2]) E. DE MITA, Corte costituzionale, legittimate le Commissioni tributarie, in Dir. prat. trib., 2020, p. 234 ss.; M. BASILAVECCHIA, Giurisdizione esclusiva da salvaguardare, in Dir. prat. trib., 2020, p. 231 ss.; F.GALLO, I giudici tutelino i cittadini, non l’Erario, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2464 ss.; M. LEO, Servono sezioni specializzate per tributo, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2467 ss.; C. GLENDI, Sulla giustizia tributaria tornano a veleggiare i cavalieri dell’Apocalisse, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2469 ss.
([3]) F. GALLO, Prime osservazioni sul nuovo giudice speciale tributario, relazione introduttiva svolta al webinar “Nascita della quinta magistratura: analisi, commenti e proposte di modifiche legislative”, svoltosi a Roma il 4 ottobre 2022 e organizzato dall’IGS, p. 2 del dattiloscritto; M. BASILAVECCHIA, Giurisdizione esclusiva da salvaguardare, cit., p. 233.
([4]) Ad esempio, i ddl Vitali e Romeo escludevano ogni partecipazione dei togati mentre per i non togati attribuivano alla precedente partecipazione alle commissioni tributarie solo natura di titolo preferenziale in caso di parità di votazione nel concorso pubblico uguale per tutti (rispettivamente, art. 4, co. 6 e art. 5, co. 6); il ddl Nannicini prevedeva per i togati l’opzione per il transito alla nuova magistratura, mentre per i non togati il loro inserimento nell’ambito dei magistrati onorari attivabili nel caso di mancata copertura dell’organico, purché in servizio per almeno dieci anni presso le commissioni tributarie (art. 112); il ddl Fenu prevedeva invece l’esatto contrario del ddl Nannicini, disponendo che in sede di prima costituzione dei ruoli dei magistrati tributari ed onorari, il Consiglio di presidenza procedesse al riassorbimento dei giudici in servizio presso le commissioni tributarie mediante selezione sulla base di una serie di titoli e che solo nel caso di vacanza dei posti si procedesse a concorso (art. 35); il ddl Misiani prevedeva l’opzione per i giudici togati per il transito alla magistratura tributaria, mentre per i non togati da lato che in sede di prima applicazione un numero non superiore al 25 per cento dei posti a concorso fosse riservato ai giudici delle commissioni tributarie provinciali e regionali in servizio da almeno venti anni e iscritti negli albi dei dottori commercialisti o degli avvocati, con una selezione per soli titoli (art. 6) e, dall’altro, che tutti i non togati in servizio potessero scegliere di essere inseriti nel ruolo di magistrati tributari onorari (art. 7)
([5]) Pag. 3 Relazione tecnica al ddl.
([6]) Pag. 5 Relazione tecnica al ddl.
([7]) Forti ed inequivocabili erano le espressioni utilizzate a favore di tale decisione: il ddl Vitali affermava che «per attuare l’effettiva terzietà dei giudici tributari ai sensi dell’articolo 111, secondo comma, della Costituzione è urgente sottrarre al Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto parte interessata del contenzioso, e affidarla a un organismo terzo, come per esempio la Presidenza del Consiglio dei ministri, perché la giustizia tributaria, oltre che «essere», deve necessariamente «apparire» neutrale»; il ddl Nannicini precisava che «il punto fondamentale (articolo 14) è costituito dall’esclusione del Ministero dell’economia e delle finanze dalle competenze in materia di organizzazione e vigilanza della giurisdizione tributaria, che vengono accentrate in capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Si vuole così evitare che le commissioni tributarie e i relativi uffici dipendano in qualsivoglia modo dallo stesso ramo della pubblica amministrazione che è per lo più parte nei processi tributari. Alla stessa Presidenza è trasferito il compito di redigere e presentare la relazione annuale al Parlamento»; il ddl Fenu affermava che «tale previsione completa il percorso di adeguamento della giurisdizione tributaria ai principi costituzionali del giusto processo, assicurando la terzietà e l’indipendenza dell’organo giudicante»; il ddl Romeo affermava che «è necessario, quindi, svincolare dal Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto esso stesso parte interessata nel contenzioso, affidandole ad un organismo terzo, quale per eccellenza la Presidenza del Consiglio dei ministri, affinché la giustizia tributaria sia anche nella sostanza – e non solo nella forma – indipendente e autonoma»; il ddl Misiani precisava infine che «al fine di garantire l'indipendenza del giudice tributario, non soltanto sostanziale ma anche nella sua accezione, parimenti rilevante sul piano costituzionale, della sua «apparenza», vale a dire nella percezione diffusa, si ritiene irrinunciabile distaccare l'organizzazione e la gestione dell'apparato giurisdizionale tributario dal Ministero dell'economia e delle finanze, che è organicamente legato anche all'Amministrazione finanziaria, la quale però è una delle parti in causa nei contenziosi fiscali. A tal fine si è ritenuto di trasferire le relative attribuzioni alla Presidenza del Consiglio dei ministri».
([8]) E. SEPE, La riforma della giustizia tributaria: una riforma incostituzionale, in Boll. trib., 2022, p. 1033.
([9]) E. DE MITA, È il momento della vera giurisdizionalizzazione del processo tributario, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2022.
([10]) Corte di giustizia di I grado di Venezia, ord. n. 408/2022, dep. il 31 ottobre 2022.
([11]) Corte cost., n. 206/2004.
([12]) Sul punto, ampiamente, F. PISTOLESI, La testimonianza scritta nel processo tributario riformato, in Giustizia Insieme, 2022.
([15]) Cass., n. 20454/2019; n. 8510/2010; n. 6911/2013.
([17]) Corte cost., 1 aprile 1982, n. 63.
([19]) SS.UU. n. 7822/2020; 2295/2021; 8465/2022; 16986/2022.
([21]) Cfr. C. GLENDI, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana”, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022, secondo cui la nuova formulazione supera la difficile distinzione tra i vari fatti contenuta nei primi due commi dell’art. 2697 c.c., «essenzialmente di origine pandettistica, che se mai poteva aver senso per il processo civile, avente ad oggetto l’accertamento di diritti soggettivi, tuttavia mal si adattava ad un processo tributario volto all’impugnazione e all’annullamento o meno di provvedimenti, cioè atti direttamente produttivi dei propri effetti, emessi dall’Amministrazione finanziaria».
([22]) Cfr. G. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 546 ss..
([23]) Vedi S. PATTI, Prova (diritto processuale civile), in Enc. giur., Roma, 1991, p. 12, che riconduce le presunzioni juris tantum alla categoria delle norme aventi ad oggetto la distribuzione dell’onere della prova, con l’elemento distintivo di ricollegare determinate conseguenze giuridiche al mancato assolvimento dell’onus probandi. Sul collegamento tra presunzioni legali relative ed inversione dell’onere della prova, v. anche R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova (aspetti diversi di un fenomeno unico o fenomeni autonomi?), in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 399 ss., e M. TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, I, p. 733 ss. Sulla problematica delle presunzioni relative e, più in generale, dell’onere della prova nel processo tributario, v. G.A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1966; F. TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I. p. 77 ss.; P. RUSSO, Processo tributario, in Enc. del diritto, XXXVI, 1987, Milano, p. 781 ss.; F. BATISTONI FERRARA, Processo tributario (Riflessioni sulla prova), in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1603 ss.; S. LA ROSA, L’istruzione probatoria nella nuova disciplina del processo tributario, in Boll. trib., 1993, p. 872 ss.; R. LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio sul fatto, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 1197 ss.; G.M. CIPOLLA, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 1998, p. 671 ss.
([24]) Sul punto, R. LUPI, L’onere della prova…, cit., p. 1213 ss.
([25]) V. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 1999, p. 677.
([26]) Se su un piano generale, la motivazione è l’iter argomentativo seguito dall’ufficio, mentre la prova è la dimostrazione – diretta o indiretta – della fondatezza delle tesi del Fisco, pare possa fondatamente sostenersi l’esistenza dell’obbligo di (almeno) enunciare le prove nell’avviso di accertamento.
Innanzitutto, l’art. 3, L. 241/1990 prevede che la motivazione debba indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione “in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. È ben vero che – nell’ambito delle norme tributarie – un riferimento espresso alla necessaria indicazione degli elementi probatori è presente solo saltuariamente (ad es., in tema di IVA, l’art. 56, d.p.r. 633/1972; in tema di sanzioni, gli artt. 16 e 17, d.lgs. 472/1997) e comunque non in relazione all’art. 42, d.p.r. 600/1973, ma occorre tenere conto della circostanza che l’art. 7, co. 1 dello Statuto, che è norma generale per il diritto tributario, fa espresso rinvio all’art. 3, L. 241/1990.
In secondo luogo, si deve ritenere che l’indicazione delle prove costituisca parte integrante della motivazione poiché l’onere della prova, come visto, ricade sull’ufficio, sicché non sarebbe neanche immaginabile una motivazione che facesse riferimento alla concreta situazione di fatto che ne sta alla base, senza valutare il materiale probatorio raccolto e senza trarne le dovute conseguenze.
In terzo luogo, tale indicazione rappresenta una garanzia del rispetto delle regole sull’istruttoria, in quanto in sua assenza si corre il rischio di legittimare accertamenti in base ad istruzioni sommarie o a meri sospetti, confidando nella possibilità che in giudizio si riescano a raccogliere prove sufficienti ovvero nella mancata impugnazione dell’avviso da parte del contribuente.
Infine, l’indicazione delle prove deriva da esigenze di ordine processuale. Poiché, infatti, l’avviso di accertamento apre alla fase contenziosa, non sarebbe consentita al contribuente una piena difesa mediante quella adeguata articolazione dei motivi di ricorso cui esso è obbligatoriamente tenuto, ove costui non fosse a conoscenza anche dei supporti dimostrativi alle argomentazioni dell’ufficio raccolti nel corso della fase istruttoria.
Dunque, plurime esigenze di ordine sistematico impongono che in qualsiasi tipo di imposta la motivazione trovi supporto nelle prove indicate.
Ciò non significa, ovviamente, che la prova sia un elemento costitutivo dell’avviso di accertamento ma solo che se ne renda necessaria l’enunciazione, potendosi rinvenire, in tale prospettiva, un bilanciamento tra le esigenze del contribuente di conoscere le prove dell’ufficio a fini difensivi da un lato, e quelle dell’amministrazione in relazione al fatto che la valutazione delle prove compete esclusivamente al giudice, dall’altro. La prova resterà pertanto producibile in giudizio, ma dovranno essere enunciate nell’avviso le relative fonti (in giurisprudenza, Cass., n. 7649/2020; n. 14200/2000; n. 10052/2000).
[27] Cass., 905/2006; anche Cass., 9894/1997.
([28]) S. MULEO, Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giustizia Insieme, 2022.
([29]) Cfr. A. CARINCI, Nuovo onere della prova con poche variazioni per la giurisprudenza, in Eutekne, 4 novembre 2022.
([30]) Cfr. S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, Torino, 2022, p. 14.
([31]) M. TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 740 ss.
([32]) L. LOMBARDI, Il metodo del “prudente apprezzamento” nella valutazione degli indizi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo, cit., p. 115.
([33]) Ricorda come la prova presuntiva non sia “più debole” degli altri mezzi di prova, S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo, cit., p. 5.
([34]) Cfr. S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, cit., p. 11.
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