ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica
di Maria Teresa Covatta
Il 29 aprile del 2021 l’Assemblea generale dell’ONU ha proclamato il 10 Marzo giornata internazionale delle donne giudici (A/RES/75/274).
La Risoluzione partendo dall’Agenda 2030 e dall’assoluta centralità del target dell’effettiva uguaglianza di genere in tutti i settori della società, constata che le donne che svolgono la funzione giurisdizionale, a tutti i livelli e soprattutto in posizione di vertice, sono ancora poche.
Afferma, come già fatto in altre sedi, che la partecipazione delle donne al processo decisionale anche in campo giudiziario è essenziale per il raggiungimento di obiettivi di uguaglianza, sviluppo sostenibile, pace e democrazia; e invita gli Stati ad impegnarsi con piani e strategie concrete affinché le donne possano inserirsi ed avanzare nel sistema giudiziario in termini egualitari rispetto agli uomini.
L’invito a promuovere una partecipazione che sia davvero “piena e completa” amplia la platea dei destinatari della Risoluzione che si indirizza anche a quegli Stati, tra cui l’Italia e molti altri degli Stati europei, in cui l’accesso delle donne in magistratura è prevista da tempo (legge 9 febbraio 1963 n. 66) e gli steccati ancora da superare riguardano fattori diversi quali le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia e le strategie utilizzate per garantire un accesso paritario alle posizioni di leadership.Quasi inesistente le prime, nonostante la presenza maggioritaria delle donne in magistratura; in progressivo aumento le seconde, con tempi non proprio veloci, tenuto conto che le donne sono entrate per la prima volta in magistratura del 1965, dunque ben 58 anni fa.
Ma il processo è ben avviato come comprovato dalla nomina di Margherita Cassano a presidente della Suprema Corte di Cassazione, nomina che, citando le parole della stessa presidente (1) “rappresenta il risultato collettivo che consegue allo sforzo profuso dalle donne magistrato e dalla parte più sensibile della società ai temi della parità di genere nei vari ambiti”.
Un risultato che parte dall’impegno e dall’esempio di quelle prime 8 magistrate che nel 65 superarono il concorso, tra cui Gabriella Luccioli, anche lei prima donna a ricoprire un ruolo apicale alla Suprema Corte; magistrate che, citando ancora le parole della stessa presidente “hanno segnato la vita professionale di noi tutte”.
Brenda Hale presiede la Corte Suprema Britannica dal 2017 e anche per lei si può parlare del raggiungimento di un traguardo per l’intero sistemza giudiziario del Paese, spronato più volte dalla stessa giudice a promuovere diversità e parità di genere al suo interno, lottando contro atteggiamenti sessisti e classisti.
Clantal Arens ricopre la più alta carica dell’ordine giudiziario francese dal 2019, già preceduta, quasi 30 anni prima, da Simon Rozès che aveva ricoperto l’incarico dall’1984 al 1988.
Siofra O’Leary, irlandese, è la prima donna ad essere stata nominata, nel novembre dell’anno scorso, presidente della Corte Europea dei diritti Umani.
La situazione non è così confortante in altre realtà e basta un rapido sguardo alla situazione internazionale per valorizzare il peso della Risoluzione ONU.
Infatti, al di là di tutto ciò che si può pensare di o contro queste ricorrenze, a cominciare da una certa ritrosia degli Stati a votarle nel timore che comportino spese obbligatorie aggiuntive (2), a proseguire con la censura sulla poca concretezza che le caratterizza o lo stigma di essere una delle tante celebrazioni retoriche, credo che conoscerne il background possa essere utile a spiegarne il valore che non è meramente simbolico.
La proposta nasce dalle magistrate quatarine all’esito di una collaborazione internazionale cui partecipano anche molte magistrate, in una indagine relativa al traffico internazionale di droga e ad altri fenomeni criminali connessi: lavoro poi ricompreso e apprezzato nell’ambito del Global Judicial Integrity Network of UN Office on Drugs and Crime, che la Risoluzione richiama in premessa (3).
Niente di strano se non fosse che tra quelle magistrature ve ne erano talune per le quali, per contesto sociale, culturale e religioso, la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione non è così scontato e comunque, quando consentito formalmente, è sempre in bilico tra il concesso e il non più concesso.
A maggior ragione quando si esula dal recinto di contesti giurisdizionali strettamente connessi alla famiglia e approda, niente meno, che alla sfera della giurisdizione penale.
Non ci sono giudici donne in Iran dopo il 1979 e c’è da chiedersi, ove invece vi fossero state, se la storia recente della rivolta avrebbe preso una piega diversa, pur in presenza di tutte le difficoltà costituzionali connesse alla sharia che gravano sulla libertà delle donne in generale.
Già in un’intervista di tanti anni fa (2003), rilasciata insieme a Carla Del Ponte, la Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi, già membro dell’Alta Corte Iraniana, costretta a ritirarsi con l’avvento del regime degli Ayatollah, rifletteva sulla difficoltà di essere magistrate ma al tempo stesso sull’importanza di avere la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione in Paesi dove la parola di un solo uomo ha un valore maggiore di quella di più donne.
Le giudici donne in Afghanistan sono state cancellate. Molte di loro sono state uccise. Altre sono riuscite, con l’aiuto internazionale, ad “evadere” dal loro Paese come se fossero delle criminali.
È di questi giorni (24.2.2023) la testimonianza di Obaida Shahar Sharify una delle 21 giudici e procuratrici che hanno trovato rifugio in Spagna a seguito di un procedimento di urgenza per la concessione dell’asilo (4) dopo la fuga dall’Afghanistan attraverso il Pakistan dove hanno vissuto senza status di rifugiate e con il terrore di essere catturate e riportate in Afghanistan.
Al dolore dell’abbandono del proprio Paese si aggiunge quello di non poter più svolgere il proprio lavoro e di essere considerate un nemico da abbattere proprio per la funzione esercitata, inaccettabile per i guardiani della sharia se svolta da una donna.
In Birmania le donne, tutte, sono state oscurate dal golpe militare del 2021 e naturalmente anche le magistrate, avvocate e giuriste e tutte coloro che hanno contestato la brusca “sospensione”, o meglio la cancellazione, dei diritti umani tra cui quelli delle donne.
In Palestina, che pure vantava il primato di essere una delle poche società arabe che già negli anni 70 aveva previsto la possibilità di nominare giudici donna, in concreto le donne giudici continuano ad essere poche. E comunque occupano ruoli nella giurisdizione di conciliazione e non invece nel settore penale, dove sono solo gli uomini ad occuparsi dalla problematica del delitto d’onore, della violenza domestica, per la quale manca ogni forma di normativa a tutela delle vittime, dello stupro, che non è riconosciuto come reato se consumato nell’ambito del matrimonio, e comunque di ogni aspetto che coinvolge la tutela dei diritti delle donne: così perpetuando tutte le storture di una società ancora profondamente patriarcale (5).
Così in Siria, così in Nigeria, tanto per citare alcune delle realtà in cui guerre, terrorismo,tratta, traffico di droga e soprattutto lo stupro, utilizzato costantemente come arma di guerra, richiederebbero tribunali ad alta presenza femminile.
Anche il Pakistan, che sembrava costituire una piccola eccezione nel panorama asiatico, visto che dal 2008 ha visto una sostanziosa immissione di donne nella magistratura fino ad arrivare a quasi un terzo di rappresentanza femminile, ha di recente vissuto una vera e propria ribellione ideologica nel momento in cui una donna (Ayesa Malik) è stata chiamata a far parte della Corte Suprema Pakistana nel settore penale, sia pure unica donna tra 16 colleghi uomini.
Una scelta epocale, intervenuta dopo molte bocciature e che ha scatenato fortissime reazioni contrarie sia tra i colleghi sia da parte dell’avvocatura che ha persino minacciato il blocco delle attività giurisdizionali.
La “colpa” di Ayesa Malik, per cui è stata avversata e criticata, oltre al fatto di essere una donna, è stata quella di aver posto un principio di diritto e di civiltà bloccando, nei processi a lei assegnati, l’esecuzione dei test di verginità sulle vittime di stupro, pratica molto invasiva e molto diffusa come tecnica di indagine sul passato sessuale delle donne.
Il che racconta, più di tante parole, quale può essere - ovunque - il valore aggiunto di una magistratura femminile, più evidente in sistemi ancora profondamente patriarcali ma valido anche in realtà a noi più vicine, dove grandi passi sono stati fatti su temi fondanti quali la violenza contro le donne ma ancora sussistono stereotipi e steccati che resistono anche nell’esercizio della giurisdizione e impediscono il raggiungimento effettivo della parità. La vittimizzazione secondaria ne è un esempio ma purtroppo non l’unico.
E dunque festeggiamo senza riserve questa ricorrenza internazionale come riconoscimento del valore dell’apporto della magistratura femminile nel progresso dei diritti delle donne, sia per quelle che già esercitano la funzione con pieno diritto sia per tutte quelle che hanno appena intrapreso un cammino che va sostenuto da tutti.
Note
(1) Lettera di ringraziamento della Presidente all’ADMI - Associazione Italiana Donne Magistrato per il comunicato di congratulazioni per la nomina.
(2) Come esprime la clausola “stressed that the cost of all activities that may arise from the implementation of the present resolution should be met from voluntary contribution”.
(3) Costituito a Vienna nel 2018 il Network delle N.U. è finalizzato (art 11) a rafforzare l’integrità giudiziaria intesa come abilità del sistema e dei singoli membri a rispettare i valori fondamentali di indipendenza, imparzialità, competenza e diligenza; prevedendo altresì una serie di strumenti per consolidare a livello globale tali valori.
(4) “24.2.2023 Comunicato Associazione 14 Lawyers di Bilbao i quali, unitamente all’Union Progresista de Fiscales(UPF) e Magistradoseuropeos per la democraciay lasLibertades” (Medel), hanno patrocinato l’operazione di salvataggio e le procedure di asilo.
(5) Così Thuraya Judi Alwazir, membro dell’Autorità giudiziaria palestinese dal 2009.
Il nostro saluto a Piero Curzio
di Cristiano Valle
Pietro Curzio lascia la magistratura il 5 marzo 2023, dopo quasi quarantacinque anni di servizio, poiché nominato con d.m. del giugno 1978. Vinse il concorso per uditore giudiziario e poi partì per quello che, allora, era il servizio militare obbligatorio (la naja abolita, solo molti anni dopo, dal Governo nel quale sedeva, quale Ministro della Difesa, Sergio Mattarella).
Pietro Curzio è stato pretore mandamentale, giudice istruttore del vecchio rito penale (applicato, da pretore, in tribunale), pretore del lavoro, sostituto procuratore della Repubblica, anche nella direzione distrettuale antimafia, consigliere di corte d’appello e consigliere e presidente della Corte di Cassazione.
Ha svolto sia funzioni requirenti che giudicanti e queste sia nell’ambito civile che in quello penale, oltre che, per trenta anni, quelle, d’elezione, di giudice del lavoro.
Il suo nome figura tra i collaboratori delle numerose edizioni (per trenta anni, dal 1984 a un decennio fa) di uno dei più noti e diffusi volumi di diritto sindacale.
L’Autore di quel volume, Gino Giugni (poi Ministro del Lavoro, colpito dal terrorismo brigatista), esprimeva, nella quarta di copertina, o comunque nelle prime pagine della prima edizione, i suoi ringraziamenti al pretore Pietro Curzio, assistente volontario nell’Università di Bari, ed è, mi sia consentita la nota personale, in quella veste, di cultore del diritto sindacale, che lo lessi per la prima volta e, dato che quando io ero all’università lui era già magistrato, mi colpì il fatto che un giudice fosse così attento e vicino alla cultura giuridica più progressista e sicuramente meno paludata.
Scrivere di Piero Curzio non è facile, perché l’uomo e il magistrato è nemico di ogni eccesso.
Lo stile sobrio e essenziale connota la sua persona e tutti i suoi scritti, sia di stretto ambito giudiziario che di dottrina o di carattere organizzativo, quali i decreti e le circolari rese nelle funzioni di presidente di sezione e di primo presidente della Corte di Cassazione.
L’organizzazione del lavoro, anche con lo sviluppo dell’uso dei sistemi informatici, ha connotato le sue funzioni di pubblico ministero, di consigliere e di presidente titolare delle Sezioni VI e IV civile, del Lavoro, e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Durante la pandemia da Covid-19, nel biennio 2020-2021, è stato sempre presente in Corte, come sicuro punto di riferimento per i magistrati, il personale amministrativo e il foro.
La vivacità intellettuale lo ha portato a essere instancabile organizzatore di convegni di dottrina giuridica, direttore della biblioteca dei magistrati della Cassazione ─ per la quale ha letteralmente riportato alla luce numerosi, antichi, volumi, sepolti negli scantinati della Corte ─ oltre che formatore di magistrati di merito e di legittimità nonché autore di decine di libri e centinaia di articoli, in materia di diritto del lavoro, diritto processuale, diritto sindacale, della previdenza e dell’assistenza sociale. Un ampio scritto di Pietro Curzio è dedicato, a testimonianza della varietà dei suoi interessi, al palazzo che ospita la Corte, il Palazzaccio, nella tipica espressione romana.
L’attività in ambito spiccatamente dottrinario non ha in alcun modo diminuito quella di carattere strettamente giudiziario, che, anzi, ne è stata arricchita, come ben sanno i consiglieri di cassazione che lo hanno avuto accanto nella seconda sezione penale, in quella del lavoro, la IV civile, e nelle Sezioni Unite civili, queste ultime da lui presiedute per diversi anni.
Nelle camere di consiglio delle Sezioni Unite civili il suo apporto ha spaziato in tutti gli ambiti, ben oltre le sue materie d’elezione.
Per il diritto del lavoro, in tutte le sue componenti, sostanziali e processuali, nazionali e sovranazionali, Pietro Curzio ha avuto una vera, laica, vocazione e negli ultimi cinquanta anni non vi sono, credo, nell’ambito della magistratura italiana, colleghi che, tra i giuslavoristi, lo superino per acume, profondità di pensiero, capacità di elaborazione e di scrittura.
In apparenza taciturno e severo si apre alla battuta di spirito in compagnia ed è conversatore assai attento all’interlocutore.
Pietro Curzio ci mancherà negli uffici ─ ove è stato attivo fino alla fine del mandato, firmando, appena lo scorso I° marzo, il Protocollo d’intesa sul processo civile in Cassazione ─ e nelle camere di consiglio della Corte, ma speriamo che, dopo il 5 marzo, e molti mesi di riposo e viaggi con Annamaria, torni spesso a visitare la Corte, venendo da Bari con il suo sorriso, e comunque ci segua con il suo affetto, la sua intelligenza aperta e versatile e i volumi della sua Biblioteca.
Le garanzie di conoscibilità degli algoritmi e l’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento amministrativo (c.d. human in the loop). (Nota a Tar Campania, Sez. III, 14 novembre 2022, n. 7003)
di Martina Sforna
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda processuale. – 3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia. – 4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi. – 5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche.
1. Premessa
La pronuncia in commento si inserisce nell’ambito della tematica, già da alcuni anni affrontata in seno alla giurisprudenza amministrativa[1], dell’ammissibilità e dei limiti del ricorso alla c.d. decisione algoritmica all’interno dei procedimenti amministrativi[2]. In particolare, tale sentenza, non mettendo seriamente in discussione la possibilità di impiegare algoritmi al fine di operare scelte amministrative, insiste sull’esigenza di assicurare un controllo umano del procedimento in funzione di garanzia per il privato. Il Collegio, al proposito, si riferisce, espressamente, al concetto del c.d. human in the loop, ovverosia all’esigenza che l’uomo sia mantenuto all’interno dei processi decisionali intrapresi da algoritmi e ulteriori tecnologie di intelligenza artificiale (IA)[3]. Il Collegio si sofferma, altresì, sulle esigenze di conoscibilità e trasparenza che, con riferimento all’utilizzazione di algoritmi da parte delle Amministrazioni, devono apparire rafforzate, in modo che sia garantita la «piena conoscibilità della regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico»[4].
2. La vicenda processuale
La vicenda origina dal ricorso presentato da un soggetto, dichiaratosi titolare di una azienda agricola e proprietario di una vasta area agricola in zona classificata montana in Provincia di Salerno, per l’annullamento delle note con cui AGEA aveva rielaborato le sue domande di pagamento relative agli anni 2018 e 2019 per la Misura 13.1.1 “Indennità compensativa zone montane” del PSR Campania 2014-2020, accertando l’indebita percezione di determinati importi. Si trattava, nella specie, di una indennità che, sulla base dell’applicazione della Direttiva 75/268/CEE, era volta a compensare i costi aggiuntivi e, in generale, gli svantaggi derivanti dalla localizzazione delle attività agricole in territori classificati montani.
Il ricorrente lamentava l’applicazione, da parte di AGEA, di un nuovo algoritmo di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni. In particolare, rappresentava che, dopo essere risultato beneficiario di tale indennità compensativa per gli anni 2018 e 2019 sulla base dell’applicazione di un algoritmo disciplinato dai bandi attuativi della predetta misura, era risultato destinatario di due note di AGEA che, facendo applicazione di un nuovo algoritmo di calcolo, avevano riscontrato degli importi versati in eccesso.
Nello specifico, il ricorrente censurava i provvedimenti impugnati perché viziati secondo plurimi profili. Invero, l’Amministrazione si era limitata a esternare il risultato della procedura di ricalcolo senza, però, menzionare quale fosse il nuovo algoritmo utilizzato, con il relativo funzionamento. In tal modo aveva, quindi, violato l’obbligo di motivazione, nonché impedito al ricorrente di fornire elementi utili per evitare il ricalcolo in sede di contraddittorio procedimentale. Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione della lex specialis, in quanto la rideterminazione degli importi si sarebbe tradotta in una modifica ex post delle regole contenute nel bando attuativo, nonché la violazione dell’art. 21 quinquies L. 241/1990, risolvendosi i provvedimenti impugnati in revoche implicite delle precedenti determinazioni.
Il Tribunale Amministrativo ha, quindi, accolto il ricorso ritenendolo fondato quanto alle censure inerenti il vizio di violazione delle garanzie partecipative e il difetto di motivazione delle note di AGEA. Invero, il Collegio ha rilevato come l’Amministrazione abbia giustificato il ricalcolo degli importi dovuti sulla base di un «generico e indeterminato riferimento alla normativa vigente, alle indicazioni della Commissione Europea e all’utilizzo di una differente modalità di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni che avrebbero condotto alla applicazione del nuovo algoritmo».
Nel dettaglio, quanto alla carenza di motivazione, il Tribunale ha rilevato come essa appaia duplice in considerazione della particolare natura di provvedimenti di secondo grado degli atti impugnati. Infatti, da un lato l’Amministrazione non ha esplicitato quali fonti normative avessero legittimato tale esercizio del potere con effetti retroattivi. Dall’altro lato, il Collegio ha evidenziato come le note di AGEA «non contengono alcun tipo di riferimento all’algoritmo utilizzato, che viene semplicemente menzionato come il “nuovo algoritmo”, in questo modo venendo meno tanto all’obbligo di indicare quale sia stato il meccanismo informatico di decisione impiegato (c.d. conoscibilità), quanto all’obbligo di spiegare il suo funzionamento in termini comprensibili per l’utente non dotato di competenze tecniche (c.d. comprensibilità). Tutto ciò con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost. […]».
Per questi motivi, il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha disposto l’annullamento delle note di AGEA impugnate.
3. Human in the loop: il controllo umano del procedimento in funzione di garanzia
Il Collegio, nella pronuncia che qui si commenta, dopo aver rilevato che, in generale, l’utilizzo di algoritmi nell’ambito dei procedimenti amministrativi risponde a esigenze di semplificazione nonché di buona amministrazione[5], sottolinea l’esistenza di una opposta esigenza. Si tratta della necessità di assicurare un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia (c.d. human in the loop - HITL). Questa espressione, sorta nel settore matematico e informatico, è utilizzata per indicare quei modelli caratterizzati dalla necessità che, al fine di ottenere il risultato finale, la macchina interagisca con l’essere umano. Applicato all’ambito del procedimento amministrativo, dunque, il rispetto di tale principio implica, come affermato dal Collegio stesso, che «il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato, per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare, mantenendo il costante controllo del procedimento».
Il principio in questione, inoltre, implica la necessaria riferibilità del provvedimento amministrativo a un soggetto umano[6]. Del resto, si potrebbe affermare che tale esigenza antropomorfica permei la stessa struttura del procedimento amministrativo ai sensi della L. n. 241/1990. Invero, l’art. 5 di tale Legge, nel disciplinare i compiti e le funzioni del responsabile del procedimento, lo individua nelle persona di un dirigente o di altro dipendente addetto all’unità organizzativa[7]. Invero, l’istituzione della figura del responsabile del procedimento risponde proprio alle esigenze di «personalizzare la funzione amministrativa» nonché di «individuare un punto di riferimento del cittadino all’interno dell’organizzazione»[8]. Ciò è confermato dagli stessi schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro, nell’ambito dei quali si sottolineava come fosse necessario abbandonare l’allora «attuale condizione di “spersonalizzazione” e “anonimato” dell’operare amministrativo e […] invece creare le condizioni per l’individuazione delle responsabilità personali esterne e interne»[9].
Proprio con riferimento alla garanzia dell’individuazione del responsabile del procedimento, il Collegio rileva che essa non può mai essere sacrificata, neppure quando l’Amministrazione decida di ricorrere all’utilizzo di algoritmi, non solo in funzione integrativa e servente della decisione umana, ma anche in funzione parzialmente decisionale.
Ciò appare, del resto, coerente con le precedenti pronunce del Consiglio di Stato in tema di decisione algoritmiche, alcune delle quali già, espressamente, riferitesi al concetto del c.d. human in the loop. In particolare, con la pronuncia n. 881/2020, i giudici di Palazzo Spada, avevano affermato che «deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informatico il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano»[10].
In quella pronuncia, il Consiglio di Stato aveva, inoltre, richiamato l’art. 22, par. 1 del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali 2016/679 (GDPR)[11], il quale consacra il principio della non esclusività della decisione algoritmica. In altri termini, tale norma stabilisce che le persone hanno diritto a non essere destinatarie di decisioni incidenti nella propria sfera giuridica che siano completamente automatizzate e, cioè, prive di qualsivoglia coinvolgimento umano. Invero, «occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e la logicità della decisione dettata dall’algoritmo»[12]. Non è stato, invece, richiamato il paragrafo successivo dell’art. 22, il quale contiene tre ampie eccezioni al principio, con la conseguenza che a livello nazionale «i giudici hanno imposto una tutela maggiore di quella europea»[13].
Tale principio è, evidentemente, strettamente connesso al concetto del c.d. human in the loop. Invero, al fine di assicurare la non esclusività della decisione algoritmica, il funzionario dell’Amministrazione deve, anzitutto, essere mantenuto all’interno del processo decisionale, nonché essere in grado di controllare il sistema utilizzato, potendo intervenire in qualsiasi momento (c.d. human in command[14]).
Al proposito, però, in dottrina si è messo in evidenza un aspetto problematico. Infatti, se a controllare i sistemi di IA deve essere il funzionario pubblico, appare necessario che lo stesso abbia delle adeguate competenze matematiche e informatiche[15]. Invero, «tendenzialmente, solo se l’umano è in grado di comprendere il modo in cui il sistema di IA decide (e può avere fiducia in esso solo se ne comprende il funzionamento), può operare un controllo effettivo sulla macchina e, nel caso, revocarle la delega e correggerne gli output»[16]. Ecco, che appare, allora, opportuno che all’interno delle Pubbliche Amministrazioni, venga promosso lo sviluppo di competenze informatiche e matematiche. Altrimenti, infatti, l’estromissione del soggetto umano dai procedimenti automatizzati apparirebbe, decisamente, favorita.
4. Conoscenza e comprensibilità degli algoritmi
Tra le garanzie che devono essere sempre assicurate al cittadino di fronte all’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale in funzione decisoria, il Collegio, conformemente alle precedenti e già citate pronunce del Consiglio di Stato sul tema[17], include anche il rispetto del principio di trasparenza, il quale trova un immediato corollario nell’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 L. 241/1990. In particolare, il principio di trasparenza necessita di essere declinato nella duplice veste di conoscenza o conoscibilità dell’algoritmo, nonché di comprensibilità dello stesso.
Tale conoscibilità dell’algoritmo, secondo il Collegio, deve essere garantita con riferimento a tutti gli aspetti che lo riguardano, quali il procedimento utilizzato per la sua elaborazione, l’identità dei suoi autori, il meccanismo di funzionamento e i criteri dallo stesso applicati. Ciò posto, siccome è evidente che per conoscere questi aspetti non sono sufficienti delle competenze giuridiche, è necessario che la formula tecnica che descrive l’algoritmo sia resa, non solo conoscibile, ma anche comprensibile per il privato. Ciò in ossequio, anzitutto, al diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Convenzione Edu, nonché agli articoli 13 e 14 del GDPR, i quali, in maniera generale, individuano tutte le informazioni che devono essere fornite all’interessato da parte del titolare del trattamento dei suoi dati, a prescindere che sia un soggetto pubblico e privato. Solo in tal modo, infatti, può essere garantita, da un lato, la concreta possibilità di partecipazione del privato al procedimento e, dall’altro un pieno sindacato del giudice amministrativo in ossequio ai canoni dell’effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Al proposito, è stato rilevato in dottrina come ciò comporti «l’evidente peculiarità che l’esigenza di trasparenza – sino ad oggi riferita all’attività e all’organizzazione –, viene ad essere estesa anche ad alcuni mezzi tecnici adoperati dalle pa»[18].
Anche con riferimento alla conoscibilità, dunque, la pronuncia si pone in linea con i precedenti arresti del Consiglio di Stato. Invero, dapprima con la sentenza n. 2270/2019 e, in seguito, con la n. 881/2020 giudici di Palazzo Spada hanno elaborato un preciso statuto della legalità algoritmica[19]. In particolare, con il primo dei due citati arresti, si era affermato come «il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico».
Con la seconda pronuncia, poi, si è rilevato come il principio di conoscibilità, «per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino e in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata», sia ricavabile in termini generali anche dal diritto sovranazionale. In particolare, l’art. 41 Cedu, che sancisce il diritto a una buona amministrazione, stabilisce l’obbligo per l’amministrazione di fornire le ragioni alla base delle proprie decisioni.
Da ultimo, si segnala come, anche con riferimento alla conoscibilità dell’algoritmo, come per l’esigenza di dominabilità del procedimento da parte di un soggetto umano, si è, però, evidenziato in dottrina come molto spesso, «la pubblica amministrazione che utilizza macchine intelligenti per la propria attività, quasi mai, al pari dei comuni cittadini, è nelle condizioni di conoscere nel profondo il meccanismo algoritmico, cioè la logica sottesa all’algoritmo e la sua base di conoscenza»[20]. Tale questione non viene affrontata nella pronuncia in analisi, come, del resto, non è stato fatto dalle precedenti sentenze amministrative sul tema. Ciò nonostante, si ritiene come essa, evidentemente, si rifletta sul procedimento amministrativo e, cioè, sull’impossibilità di rendere effettivamente conoscibile il meccanismo attraverso i quali si perviene alla decisione.
Inoltre, al proposito, è stato parte della dottrina ha messo in luce come la conoscibilità dell’algoritmo non sia sempre un sufficiente strumento di tutela con riferimento ai sistemi di intelligenza artificiale. Infatti, «nell’intelligenza artificiale è proprio la logica ad essere strutturalmente non conoscibile. Ignota per definizione»[21]. In questo senso, il nucleo decisionale di alcune tipologie di intelligenza artificiale viene definito quale black box[22], proprio a evidenziarne l’impenetrabilità e l’imperscrutabilità.
5. Cenni conclusivi sul ruolo della giurisprudenza in tema di decisioni algoritmiche
In conclusione, si può senz’altro constatare come la giurisprudenza non metta ormai seriamente in discussione la possibilità per la Pubblica Amministrazione di avvalersi di algoritmi che diano luogo a procedimenti decisionali automatizzati. Anzi, la sentenza in commento – come, del resto, le altre richiamate – rileva, come l’utilizzo di algoritmi possa condurre a una maggiore velocità, efficienza e, in astratto, anche in imparzialità del procedimento amministrativo. Ciò, del resto, appare coerente anche con le intenzioni del legislatore, il quale, per tramite del c.d. Decreto semplificazioni n. 76/2020, ha modificato l’art. 3-bis della L. n. 241/1990, stabilendo che «le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici»[23].
Allo stesso tempo, però, si deve rilevare come, al di fuori di tale disposizione, il legislatore non sia intervenuto, espressamente, nella regolamentazione dell’utilizzo di algoritmi nelle fasi decisorie, e non meramente strumentali, dei procedimenti amministrativi[24]. Invero, anche l’art. 50-ter del D.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD), il quale prescrive l’istituzione di una Piattaforma digitale nazionale dati, si riferisce all’utilizzo delle tecnologie soltanto in chiave di interconnessione tra amministrazioni.
Ecco, dunque, che, in questo ambito, il ruolo della giurisprudenza si rivela fondamentale nella fissazione delle garanzie che devono circondare l’utilizzo di algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale da parte della Pubblica Amministrazione. È, infatti, essenziale che, anche di fronte a modalità innovative di esercizio del potere pubblico, il cittadino debba continuare a disporre delle garanzie di partecipazione, motivazione, trasparenza ed effettività della tutela proprie del procedimento amministrativo. Ciò, in quanto l’incentivato processo di informatizzazione e digitalizzazione delle amministrazioni non può, in nessun caso, tradursi nella violazione dei generali canoni della legalità amministrativa.
Tra questi, assumono rilevanza decisiva le garanzia di “umanità” del procedimento amministrativo e di conoscibilità e comprensibilità della regola algoritmica. Come, infatti, ribadito più e più volte dalla giurisprudenza, è fondamentale che venga salvaguardato il concetto del c.d. human in the loop e cioè la riferibilità della decisione amministrativa a un soggetto umano che possa esercitare funzioni di controllo e intervento.
Sarà, dunque, rimesso al giudice stabilire, caso per caso, se l’utilizzo di un determinato algoritmo sia governabile dall’amministrazione e, soprattutto, se sia in concreto possibile comprendere l’iter logico seguito dalla macchina per l’elaborazione della decisione finale, al fine di stabilirne la compatibilità con i principi generali del diritto amministrativo.
[1]Cons. St. Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Cons. St., Sez. VI, 13 dicembre 2019, nn. 8472 – 8473 – 8474; Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881; Cons. St., Sez. VI, 8 settembre 2022, n. 6236; Cons. St., sez. III, 25 novembre 2021, n. 7891;
[2] Per le questioni definitorie in tema di algoritmi e intelligenza artificiale si rinvia a C. Filicetti, Sulla definizione di algoritmo (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 25 novembre 2021, n. 7891), in www.giustiziainsieme.it, 8 febbraio 2023.
[3] Per approfondimenti sul concetto del c.d. human in the loop, anche in chiave etica, si veda P. Benanti, Human in the loop, cit.161. Si veda anche, M. Tampieri, L’intelligenza artificiale e le sue evoluzioni. Prospettive civilistiche, Milano, 2022, 331.
[4] Sul punto, il Collegio cita espressamente Cons. St., Sez. VI, n. 2270/2019.
[5] Tra i vantaggi per l’Amministrazione si è soliti ricomprendere quello dell’efficienza, della celerità, nonché dell’oggettività o neutralità. Sul punto cfr. C. Napoli, Algoritmi, intelligenza artificiale e formazione della volontà pubblica: la decisione amministrativa e quella giudiziaria, Riv. it. cost., 2020, 3, 318 ss.
[6] Al proposito è stato affermato che «sarebbe sempre implicato nei discorsi del diritto amministrativo qualcosa che potremmo chiamare, prendendo in prestito l’espressione contenuta nel Libro bianco AGID, un principio antropomorfico, a denotare che il conferimento di potere decisionale a un certo apparato implichi la riferibilità a un atto intenzionale umano se non diversamente stabilito» (Così, S. Civitarese Matteucci, Umano troppo umano. Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. pub., 1, 2019, 22).
[7] G. Berti, La responsabilità pubblica, Padova, 1994, 305, al proposito, si riferì al responsabile del procedimento come al «funzionario designato a dare una sembianza fisica all’istruttoria amministrativa».
[8] F. Patroni Griffi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a due anni dall’entrata in vigore. Termini e responsabile del procedimento; partecipazione procedimentale, in Foro it., 1993, vol. 116, III, 70. Sulla figura del responsabile del procedimento si vedano anche G. Navarra, S. Russo, Il responsabile del procedimento amministrativo nella pubblica amministrazione, Rimini, 1998, 176; F.C. Rampulla, I principi generali della L. 241/1990 e s.m. ed il responsabile del procedimento, in Foro amm., 2008, 2, 641 ss.; R. Ursi, Il responsabile del procedimento “rivisitato”, in Dir. amm., 2021, 2, 365 ss.
[9] Le parole, riportate in G. Sciullo, Il responsabile del procedimento. In ricordo di Giorgio Pastori, in Dir. pubbl., 2019, 3, 863, sono tratte dalla Relazione introduttiva al XXXII Convegno di Varenna del 1986 e dedicato a “La disciplina generale del procedimento amministrativo – Contributi e iniziative legislative in corso” in cui vennero illustrati gli schemi di legge elaborati dalla Commissione Nigro.
[10] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[11] In particolare, l’art. 22, par. 1 afferma che: «L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona». È doveroso, però, sottolineare come lo stesso articolo contenga, al paragrafo successivo, tre eccezioni all’applicazione di tale principio, di ampia portata. Si tratta dei casi in cui la decisione sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto, quando essa sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro, ovvero si basi sul consenso esplicito dell’interessato.
[12] Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881.
[13] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, in BioLaw Journal, 2021, 2, 13.
[14] Al proposito il parere del Comitato economico e sociale europeo su L’intelligenza artificiale – Le ricadute dell’intelligenza artificiale sul mercato unico (digitale), sulla produzione, sul consumo, sull’occupazione e sulla società, 2017/C, al punto 1.6 «raccomanda di adottare, nei confronti dell’IA, l’approccio “human-in-command”, con la condizione essenziale che l’IA sia sviluppata in maniera responsabile, sicura e utile, e che la macchina rimanga macchina e l’uomo ne mantenga il controllo in ogni momento».
[15] Cfr. B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 17 che afferma come tali competenze servano a evitare «la cattura dell’umano da parte della macchina (c.d. effetto aggancio)».
[16] B. Marchetti, The algorithmic administrative decision and the human in the loop, cit., 18.
[17] Supra, nota n. 1.
[18] A.G. Orofino, L’attuazione del principio di trasparenza nello sviluppo dell’amministrazione elettronica, in Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, disponibile al seguente link https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2020/10/Orofino.pdf.
[19] Nello specifico, con la sentenza n. 881/2020, il Consiglio di Stato ha individuato i principi fondamentali della c.d. legalità algoritmica. Si tratta del principio di conoscibilità e comprensibilità dell’algoritmo, del principio di non esclusività della decisione algoritmica e di quello della non discriminazione algoritmica. Sul tema si veda G. Marchianò, La legalità algoritmica nella giurisprudenza amministrativa, in Il diritto dell’economia, 2020, 3, 229-258.
[20] G. Pesce, Il giudice amministrativo e la decisione robotizzata, in www.judicium.it, 15 giugno 2020.
[21] M. Corradino, Intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: sfide concrete e prospettive future, in www.giustizia-amministrativa.it, 2021.
[22] Il problema non si pone per tutti gli algoritmi, ma sono per quelli che si avvalgono di meccanismi di machine learning, cfr. C. Silvano, Prospettive di regolazione della decisione amministrativa algoritmica: un’analisi comparata, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2022, 265 ss. Sul tema delle black box, si veda F. Pasquale, The Black box society, The Secret Algorithms That Control Money and Information, Londra, 2015, 144 ss.
[23] Nella versione precedente, l’articolo configurava questa come una semplice possibilità per le Amministrazioni.
[24] Al proposito è stato affermato che «a fronte della diffusione di testi ricognitivi non vincolanti, il quadro delle norme vigenti sull’utilizzo dei software di intelligenza artificiale nel settore giuspubblicistico appare scarno e lacunoso». Così, V. Neri, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, in Urb. e appalti, 2021, 5, 587.
Note sul procedimento di localizzazione e approvazione delle opere pubbliche nello schema di codice dei contratti dopo il parere della Conferenza unificata[*]
di Pier Luigi Portaluri
1. È anzitutto opportuno definire la cornice normativa al cui interno operano le Commissioni parlamentari chiamate a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo recante il codice dei contratti pubblici (breviter, SCC).
Come noto, l’art. 1, comma 4, 3° e 4° periodo, l. 21 giugno 2022, n. 78 (rubricato «Delega al Governo in materia di contratti pubblici»), prevede: «Ove il parere delle Commissioni parlamentari indichi specificamente talune disposizioni come non conformi ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro dieci giorni dall'assegnazione; decorso tale termine il decreto legislativo può essere comunque emanato.».
La norma è chiara nell’attribuire alle Commissioni parlamentari il potere di sindacare – sia pur in sede consultiva – la conformità delle disposizioni codicistiche ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega: onde, poi, il ritorno alle Camere (e quindi alle Commissioni stesse) qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari.
Poiché parametro di una tale verifica sono, ovviamente, le dorsali regolative desumibili dalla normazione delegante, trovo arduo – a pena di una vacua ineffettività dell’apporto di Camera e Senato – sostenere che il ruolo delle Commissioni non possa spingersi sino a individuare nel dettaglio i profili ritenuti dissonanti rispetto all’armatura concettuale consegnata dalla l. n. 78/’22.
Vi sono, peraltro, basi positive che orientano in questo senso. Infatti, il parere delle Commissioni – puntualizza il 3° periodo cit. – può indicare «specificamente talune disposizioni». Si tratta, pertanto, di una verifica di compatibilità che può sia essere di sistema, concernendo le scelte e i nodi d’apice che connotano lo schema di codice; sia riguardare – restringendo progressivamente l’angolo visuale – blocchi organici di disposizioni; sia giungere, infine, all’analisi critica di una singola disposizione. Uno spettro d’azione così ampio implica di necessità un altrettale potere “consultivo”: per cui le Commissioni potranno esprimere pareri che riguardino l’intelaiatura normativa generale, ovvero – all’opposto – che focalizzino questioni meno strutturali.
Inerisce naturalmente a uno spatium consulendi così largo l’eventualità che le Commissioni non si limitino a esporre il proprio avviso sull’articolato in esame, ma che invece propongano – sopra tutto ove si tratti di interventi su disposizioni singole (cfr. il 3° periodo cit.) – anche modalità concrete di superamento delle criticità rilevate. In altre parole, ritengo che il potere di proposta emendativa sia interno alla loro sfera d’azione.
Altra conferma, sia pure indiretta, ci viene dal parere ex art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, che la Conferenza unificata – in base all’art. 1, comma 4, 1° periodo, l. n. 78/’22 cit. – ha reso in senso favorevole «nei termini di cui in premessa e di cui agli allegati documenti, che costituiscono parte integrante del presente atto».
A loro volta, questi allegati sono tre:
- la «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”» del 26 gennaio 2023, n. 23/06/CU06/C4, espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome: il documento si suddivide, al suo interno, in emendamenti prioritari, da una parte, ed emendamenti meramente collaborativi, dall’altra parte; come vedremo, l’emendamento n. 3 prende espressamente in considerazione il nostro art. 38, comma 11, e propone di sopprimerne alcune parti fondamentali;
- il «Parere sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», reso da ANCI sempre il 26 gennaio scorso, che però non si occupa del nostro tema;
- il coevo «Contributo UPI», che – come ANCI – non affronta la questione.
In sintesi, recependo la citata Posizione della Conferenza delle Regioni, la Conferenza unificata ha formulato proposte emendative puntualissime: e ciò, si noti, pur in assenza di una norma della l. n. 78/’22 che – a differenza di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, 3° periodo, cit., per le Commissioni parlamentari – quel potere conferisca.
Mi pare inutile soffermarmi, a questo punto, sulla contrarietà al senso del diritto positivo e comunque sulla illogicità di un’interpretazione restrittiva che negasse alle Commissioni parlamentari il potere di formulare pareri corredati da specifiche proposte emendative.
Possiamo quindi passare all’esame della norma oggetto delle mie riflessioni.
2. L’art. 38 SCC – rubricato «Localizzazione e approvazione del progetto delle opere» – nel suo comma 11 stabilisce: ««Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
La disposizione potrebbe essere ritenuta, ma solo se ci si ferma a un’interpretazione letterale, un altro passo della traiettoria che l’ordinamento sta percorrendo da qualche tempo verso la parificazione e l’amministrativizzazione spoliticizzante di tutti gli interessi pubblici: inclusi quelli sensibili.
Per chiarezza, conviene rifare questo cammino a ritroso.
3. Se identifichiamo come punto di partenza il 1990, e dunque la l. n. 241, l’assetto iniziale è abbastanza chiaro. Di segno opposto all’attuale, però: gli interessi pubblici sono gerarchizzati e anche in modo ben delineato. Infatti le regole acceleratorie del modulo conferenziale ex art. 14, comma 3, l. n. 241/’90 (silenzio assenso dell’amministrazione convocata ma assente, salve possibilità marginali di dissenso postumo) non si applicano «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini» (comma 4): chiamate cioè a tutelare – o a difendere, se si preferisce – quei tre interessi.
4. Il quadro cambia abbastanza presto.
La l. n. 127/’97 (la nota legge Bassanini-bis) sostituisce il comma 4 appena ricordato con un altro, di ispirazione diversa: non più una protezione tendenzialmente assoluta dei super-interessi, ma una conflittualizzazione e politicizzazione del tema.
In caso di motivato dissenso espresso da una Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la p.A. procedente – purché non vi sia stata una pregressa valutazione di impatto ambientale negativa – può investire della questione il Presidente del Consiglio dei ministri, che si esprime previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
Come si vede, gli interessi sensibili cessano di essere sottratti alla logica del bilanciamento ponderativo, nella quale sono ora fatti entrare senza riserve: l’unica particolarità, certo non secondaria, è appunto la devoluzione del contrasto al decisore politico d’apice.
5. Camminando svelti, ricordiamo adesso la l. n. 124/’15 (c.d. Madia), il cui art. 3 introduce nella l. n. 241/’90 l’art. 17-bis: si arriva così a estendere il modello del silenzio assenso ai procedimenti che coinvolgono una pluralità di Amministrazioni pubbliche, anche se si tratti di «amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini». L’unica differenza è data dal termine per la formazione del provvedimento tacito: trenta giorni per le pp.AA. che tutelano interessi “ordinari”, novanta per quelle preposte alla gestione di interessi sensibili.
Ma ciò non significa semplicemente imprimere una accelerazione ai procedimenti.
Vi è una scelta sottostante ben precisa, che presuppone e implica una modifica nella tavola dei valori protetti, cioè nella loro gerarchia. In generale, il modello del silenzio-assenso presuppone un ripensamento al ribasso del rilievo endoconferenziale attribuito ad alcune Amministrazioni e agli interessi della cui cura sono attributarie.
In altre parole, l’art. 17-bis genera una dequotazione sostanziale degli interessi sensibili. La maggior durata del termine previsto per la formazione del silenzio (novanta giorni in luogo di trenta) sta a indicare una differenza che è oramai solo quantitativa, non più qualitativa.
Resta operativo il meccanismo di conflittualizzazione e politicizzazione del mancato accordo tra le Amministrazioni coinvolte, incluse quelle preposte alla «tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini»: l’art. 17-bis prevede infatti che in questi casi «il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento».
6. Mi soffermo ora sull’ecosistema normativo del PNRR perché, come vedremo, si trova qui il modello cui s’ispira l’art. 38 SCC.
Con la normazione PNRR l’ordinamento raggiunge un traguardo inseguito a lungo: l’unicità del procedimento al cui interno si forma la decisione finale rilevante per il governo del territorio, sopra tutto con riguardo a interventi infrastrutturali (puntuali o a rete che siano). Meta non priva però di conseguenze: comprimere nel tempo e nello “spazio” giuridico l’acquisizione degli interessi (anche) pubblici comporta la riduzione – se non l’eliminazione – delle manifestazioni dissensuali.
È quello che, almeno a mio avviso, ha perseguito quella normazione, in particolare il d.l. n. 77/’21 (c.d. «Semplificazioni-bis»).
Mi limito a richiamare l’art. 44, d.l. cit.: rubricato «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto», tratta di alcune specifiche infrastrutture ferroviarie, idriche e portuali.
Questo il comma 4, che la Relazione illustrativa allo schema di codice licenziato dalla Commissione Carbone richiama come modello ispiratore: «[…] la stazione appaltante convoca la conferenza di servizi per l’approvazione del progetto ai sensi dell’articolo 27, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. La conferenza di servizi è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e nel corso di essa, ferme restando le prerogative dell’autorità competente in materia di VIA, sono acquisite e valutate le eventuali prescrizioni e direttive adottate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ai sensi del secondo periodo del comma 1, nonché gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte secondo le modalità di cui all'articolo 46 del presente decreto, della verifica preventiva dell’interesse archeologico e della valutazione di impatto ambientale. La determinazione conclusiva della conferenza approva il progetto e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita.».
Non sono previsti, nel testo della norma, meccanismi per sollevare conflitto e quindi per politicizzarlo.
Per cui – restando all’interno dell’ecosistema PNRR – dovrebbe trovare applicazione o l’art. 13, d.l. n. 77/’21, rubricato «Superamento del dissenso», secondo cui «In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente proveniente da un organo statale che, secondo la legislazione vigente, sia idoneo a precludere, in tutto o in parte, la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR, la Segreteria tecnica di cui all’articolo 4, anche su impulso del Servizio centrale per il PNRR, ove un meccanismo di superamento del dissenso non sia già previsto dalle vigenti disposizioni, propone al Presidente del Consiglio dei ministri, entro i successivi cinque giorni, di sottoporre la questione all'esame del Consiglio dei ministri per le conseguenti determinazioni; ovvero – ratione materiae – il meccanismo preventivo ex art. 29, comma 2, d.l. n. 77/’21, che istituisce una Soprintendenza «speciale» (cioè unica) per il PNRR. Norma, questa, che esautora stabilmente le articolazioni ministeriali territoriali, spogliandole delle funzioni di tutela ove si tratti di beni culturali e paesaggistici che siano «interessati da interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale» oppure che «rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero». Sempre in base all’art. 29, comma 2, cit., poi, «in caso di necessità e per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR, la Soprintendenza speciale può esercitare, con riguardo a ulteriori interventi strategici del PNRR, i poteri di avocazione e sostituzione» nei confronti delle Soprintendenze periferiche.
7. Possiamo adesso esaminare l’art. 38, comma 11, SCC.
Preferisco, per comodità di analisi, riportarne nuovamente il testo: «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
Come dicevo al punto 2., se ci fermassimo alla lettera, quella disposizione ben potrebbe essere inserita nella traiettoria ordinamentale verso la “scomparsa” degli interessi sensibili, non più intesi come valori collettivi giuridicizzati in modo differenziato rispetto a tutti gli altri. La comunanza di regolazione fra le due categorie di interessi (“ordinari” e sensibili) sarebbe confermata dall’inciso «senza deroghe» che – in quanto posto all’interno di un periodo che è già deontico-performativo («si applicano a tutte le amministrazioni» – avrebbe un effetto di senso rafforzativo.
In breve, la disposizione esprimerebbe una declinazione forte del principio di unicità procedimentale, perché vi assoggetterebbe anche le Amministrazioni titolari di interessi sensibili.
Peraltro, il richiamo all’art. 44, comma 4, d.l. n. 77/’21, cit. – contenuto, come ho detto, nella Relazione illustrativa (che correttamente si autodefinisce Gesetzesmaterial) della Commissione Carbone – sembrerebbe confermare questa interpretazione.
Andiamo oltre, però, l’approccio letterale e asistematico.
A me pare – lo dico subito – che l’art. 38, comma 11, SCC, non possa essere interpretato nel senso di definire nella loro interezza i diritti procedimentali delle Amministrazioni titolari di interessi sensibili. Ove così fosse – qualora cioè queste pp.AA. vedessero esaurirsi il loro ruolo nell’espressione di un dissenso che dev’esser non solo costruttivo, ma anche tale da non comportare modifiche sproporzionate, inefficaci o tali da rendere irrealizzabile il progetto originario per insostenibile aumento dei costi – si porrebbero forse problemi di compatibilità con l’art. 9 Cost.
Privare tout court – cioè senza contrappesi e compensazioni – le Soprintendenze del potere di veto significherebbe in concreto che ogni progetto deve essere comunque approvato e realizzato; e che eventuali modifiche sarebbero ammissibili solo se non comportassero un aggravio di costi. Per fare un esempio, una Soprintendenza non solo non potrebbe opporsi a un progetto di strada che attraversasse un sito archeologico; ma non potrebbe neanche proporre una modifica del percorso viario che giri intorno a quel sito: una tale variante sarebbe molto probabilmente inammissibile poiché comporterebbe un allungamento del tracciato e dunque un aumento – magari trascurabile – della spesa.
S’impone dunque, come prima cosa, un’interpretazione estensiva dei concetti giuridici indeterminati che connotano i requisiti della proposta ammissibile: «proporzionalità» «efficacia»,«sostenibilità finanziaria» rispetto al progetto originario arrivato in conferenza di servizi.
Se si volesse comunque elidere anche la sola possibilità, il solo rischio, di un’interpretazione del concetto di sostenibilità finanziaria in termini di rigida invarianza dei costi progettuali, non c’è altra via che quella dell’emendamento. In questo caso si potrebbero aggiungere, dopo la parola «efficienza», le parole «nonché, se comportano un aumento dei costi».
In questo modo, la norma riconoscerebbe implicitamente la possibilità di un incremento dell’esborso. E l’esigenza di sostenibilità verrebbe a costituire non una tagliola per espellere automaticamente qualunque proposta che comporti un sia pur minimo aumento dei costi, ma una soglia – elastica, perché da determinare caso per caso mediante discrezionalità tecnica – che solo in caso di suo sforamento renderebbe inammissibile la variante indicata.
Tuttavia il problema, sebbene mitigato, resta.
La sottrazione del potere di veto, ancorché compensato da un potere di proposta ragionevolmente ampio (nei termini e limiti appena indicati), darebbe comunque vita a un modello che qualifica nella sua complessità e articolazione la posizione delle Amministrazioni differenziate all’interno della conferenza di cui all’art. 38.
Ci si deve domandare, insomma, se lo scrutinio di costituzionalità di cui dicevo debba essere riferito unicamente a questo schema procedimentale, oppure se la disposizione in esame esaurisca o meno la posizione (e i poteri) di tali, particolari pp.AA.
Due argomenti letterali indurrebbero a ritenere che queste pp.AA. – anche se orbate del ius vetandi assoluto (la c.d. opzione zero, che blocca irreparabilmente il progetto) – conservino comunque il potere di escalation, cioè di devolvere la loro opposizione alla delibazione dell’organo politico d’apice, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il primo argomento discende dal comma 1 dell’art. 38: «L’approvazione dei progetti da parte delle amministrazioni è effettuata in conformità alla legge 7 agosto 1990, n. 241 […]».
Per dare un senso alla disposizione, altrimenti ridondante, si deve ritenere che essa non contenga una inutile clausola di stile, ma rinvii a quella legge con pienezza di effetti giuridici: rimandi, ai nostri fini, all’intero sistema delle decisioni conferenziali di cui agli artt. 14 – 14-quinquies.
Ed è proprio l’art. 14-quinquies che viene qui in rilievo: «Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. Per le amministrazioni statali l’opposizione è proposta dal Ministro competente.» (comma 1).
È vero: fra le due disposizioni si pone un problema di coordinamento, che però può essere superato. L’art. 38, comma 11, impone infatti alla p.A., a pena di decadenza, di articolare un dissenso costruttivo; mentre l’art. 14-quinquies ritiene sufficiente ad attivare l’escalation l’espressione, da parte dell’Amministrazione, di un dissenso meramente oppositivo (purché motivato).
Ne deriverebbe, sempre restando intra litteram, che se la p.A. esprimesse un dissenso oppositivo all’interno della conferenza ex art. 38, comma 11, esso sarebbe inammissibile e dunque non produrrebbe gli effetti devolutivi di cui all’art. 14-quinquies.
In realtà, si può comporre la questione ritenendo che il dissenso oppositivo comporti una sorta di inammissibilità relativa: le motivazioni contenute a corredo e supporto, anche se particolarmente stringenti, non entreranno in comparazione, ma l’opposizione produrrà comunque l’effetto devolutivo dell’affare all’organo politico.
In sostanza, le pp.AA. titolari di interessi sensibili avrebbero due strade avanti a sé, percorribili alternativamente.
La prima, ex art. 38, comma 11, SCC: esprimere un dissenso costruttivo.
La seconda, ex art. 14-quinquies, l. n. 241/’90: formulare un dissenso oppositivo, da cui l’escalation politica della questione.
Quelle pp.AA. perderebbero dunque il potere di veto, ma non anche quello devolutivo.
Dicevo che vi sarebbe un secondo argomento a sostegno di questa lettura. È un po’ più formale, e non privo di ambiguità.
Secondo il comma 9 dell’art. 38 in esame «La conferenza di servizi si conclude nel termine di 60 giorni dalla sua convocazione, prorogabile, su richiesta motivata delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi di cui all’articolo 14-quinquies, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990, una sola volta per non più di 10 giorni. […]».
Questo comma contiene l’espressa nominazione sia delle Amministrazioni in esame, sia dell’art. 14-quinquies cit.
Se ne possono trarre due letture, opposte tuttavia negli esiti.
La prima valorizza il (mero) richiamo dell’art. 14-quinquies per dedurne l’applicabilità in totodella disposizione: l’escalation sarebbe sempre consentita, anche sulla base di una ermeneusi più ispirata dall’art. 9 Cost.
La seconda, invece, enfatizza la possibilità di prorogare la conferenza su richiesta di quelle stesse Amministrazioni per inferirne che ciò esaurisce il loro spazio d’azione anche esoprocedimentale: nessuna devoluzione al livello politico, dunque, sarebbe prevista.
8. Più sopra, al punto 1., ho accennato al parere reso dalla Conferenza unificata il 26 gennaio 2023 e alla coeva «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e recepita integralmente da quel parere.
Ho pure detto che l’emendamento prioritario n. 3 della Posizione si occupa proprio dell’art. 38, comma 11, SCC, proponendo di eliderne e modificarne alcune parti di importanza primaria.
Ne risulterebbe questo testo (uso il condizionale perché il complesso degli interventi conduce a una disposizione già sintatticamente di non facile lettura): «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante e comunque coinvolte esprimono il proprio parere ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della citata legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, devono indicare le prescrizioni che, ove possibile, rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale».
Par di comprendere, in breve, che si vorrebbe attribuire a tutte le Amministrazioni partecipanti il potere di veto: il dissenso, infatti, non deve più essere necessariamente costruttivo, come rivela l’inciso «ove possibile» riferito all’indicazione delle prescrizioni che «rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso».
È però un modello che ritengo passatista e massimalista all’un tempo. Se non m’inganno, si perderebbe infatti la gerarchizzazione degli interessi procedendo però in senso vettorialmente opposto rispetto alla traiettoria di cui dicevo all’inizio: non una compressione verso il basso degli interessi sensibili, tendenzialmente parificati agli altri; ma una “elevazione” di questi ultimi, che andrebbero a comporre – insieme ai primi – un’indistinta panoplia capace di paralizzare qualunque processo decisionale.
La citata Posizione (e dunque la Conferenza unificata), tuttavia, «chiede di proseguire il confronto sugli ulteriori temi, sempre inseriti tra quelli prioritari, (es. conferenza dei servizi […]) sui quali ancora non si è raggiunta una condivisione»; e precisa che su questi emendamenti «è tuttora in corso un'interlocuzione con il MIT su iniziativa del Ministero stesso». Con riferimento specifico all’art. 38, comma 11, poi, la Posizione precisa: «Pur comprendendo la ratio della norma, si propone di valutare l'opportunità di mantenere il comma stanti le disposizioni già vigenti della l. 241/90».
La Conferenza, in somma, non ha ancora assunto un orientamento definitivo.
9. Il lavoro interpretativo sull’art. 38, comma 11, SCC, sembra condurre ai risultati che ho sin qui indicato.
Non intendo nascondere le penumbrae esegetiche che restano.
Se si ritenesse comunque preferibile proporre l’eliminazione di questi dubbi ermeneutici, e si condividesse il modello secondo cui le pp.AA. che gestiscono interessi sensibili possono alternativamente esprimere un dissenso costruttivo oppure formulare un dissenso oppositivo che provoca l’escalation politica, le Commissioni parlamentari competenti potrebbero formulare il proprio parere nel senso di proporre un intervento sul testo attuale dell’art. 38, comma 11, SCC.
Si potrebbe, dunque, consultivamente proporre di aggiungere, dopo il terzo periodo del citato comma 11, il seguente: «Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
10. Indico, in fine, alcune possibili modifiche del testo del comma 11 che riguardano solo il drafting.
a) Poiché il testo adopera la parola «determinazioni» con riguardo agli atti di alcune pp.AA. partecipanti («[…] le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante […]»), appare preferibile non usare nuovamente, non essendo un tecnicismo, una forma/voce della stessa famiglia lessicale con riferimento alle prescrizioni di quelle pp.AA. («sono determinate»). Si potrebbero quindi sostituire le parole «[…] sono determinate conformemente» con le parole «[…] devono essere conformi».
b) Poiché le pp.AA. partecipanti possono indicare sia «prescrizioni», sia «misure mitigatrici», l’uso della sola parola «prescrizioni» nel periodo successivo («Tali prescrizioni […]») potrebbe far ritenere che quelle pp.AA possano indicare solo prescrizioni e non anche misure mitigatrici. Si potrebbe quindi sostituire la parola «prescrizioni» con la parola «indicazioni», che fungerebbe da vero e proprio incapsulatore semantico.
11. In definitiva, le Commissioni parlamentari potrebbero sul punto esprimere il proprio parere proponendo questo testo dell’art. 38, comma 11, cit.:
«11. Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di inammissibilità, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali indicazioni devono essere conformi ai principi di proporzionalità e di efficacia nonché, se comportano un aumento dei costi, di sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale. Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
[*] Questo scritto riprende i contenuti delle mie audizioni svoltesi il 23 gennaio 2023 innanzi all’VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera, e il 1° febbraio 2023 davanti all’VIII Commissione (Ambiente, transizione ecologica, energia, lavori pubblici, comunicazioni, innovazione tecnologica) del Senato nell’ambito dei lavori parlamentari inerenti al parere da rendere sullo «Schema di decreto legislativo recante codice dei contratti pubblici» (Atto del Governo n. 19): di qui la presenza di mie proposte emendative rispetto al testo della disposizione esaminata.
Il rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c.: una nuova «occasione» di nomofilachia?
di Antonio Scarpa
Sommario: I. Inquadramento normativo – II. Un nuovo strumento per la perfezione della «funzione nomofilattica» - III. Il procedimento di rinvio pregiudiziale dinanzi al giudice di merito - IV. Le condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale - V. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione - VI. La prosecuzione del giudizio di merito.
I. Inquadramento normativo
L’art. 363-bis del codice di procedura civile, recante la rubrica “Rinvio pregiudiziale”, è stato introdotto dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ed è applicabile (avuto riguardo alla disciplina transitoria dettata dall’art. 35 dello stesso decreto, come modificato dall’art. 1, comma 380, lettera a, della legge n. 197 del 2022) a tutti i procedimenti di merito pendenti[1]. Pur trattandosi di diposizione destinata ad operare nel primo o nel secondo grado del processo di cognizione, ordinario o semplificato, come anche nel corso di procedimenti di natura camerale o cautelare che non esitano in provvedimenti ricorribili in cassazione, il legislatore della recente ennesima riforma del rito civile ne ha scelto la collocazione sistematica nell’ambito del capo del secondo libro del codice che disciplina il giudizio di legittimità[2].
È stata, del resto, così data attuazione alla norma di delega dettata dall’art. 1, comma 9, lettera g), della legge 26 novembre 2021, n. 206, il quale, appunto, comprendeva fra i principi e criteri direttivi da rispettare nell’apportare modifiche al codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione:
«(…) introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto, prevedendo che:
1) l’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione è subordinato alla sussistenza dei seguenti presupposti:
1.1) la questione è esclusivamente di diritto, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza;
1.2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;
1.3) la questione è suscettibile di porsi in numerose controversie;
2) ricevuta l’ordinanza con la quale il giudice sottopone la questione, il Primo presidente, entro novanta giorni, dichiara inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti di cui al numero 1) della presente lettera;
3) nel caso in cui non provvede a dichiarare l’inammissibilità, il Primo presidente assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente;
4) la Corte di cassazione decide enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento da svolgere mediante pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa;
5) il rinvio pregiudiziale in cassazione sospende il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio;
6) il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conserva tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che è instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti».
L’art. 363-bis c.p.c. stabilisce, allora, che il “giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto”, nel concorso di quattro condizioni: 1) la questione deve essere “necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”; 2) la stessa non deve essere “stata ancora risolta dalla Corte di cassazione”; 3) deve presentare “gravi difficoltà interpretative”; 4) deve essere “suscettibile di porsi in numerosi giudizi”.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale deve perciò essere motivata, indicando anche le “diverse interpretazioni possibili”. Essa è trasmessa alla Corte di cassazione e comunicata alle parti, e, dal giorno del suo deposito, il procedimento di merito resta sospeso, “salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”.
Il Primo Presidente della Corte di cassazione, ricevuta l’ordinanza, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto, oppure dichiara con decreto l’inammissibilità della medesima questione per la mancanza di una o più delle quattro condizioni specificate.
Ai sensi dell’art. 137-ter disp. att. c.p.c. (anch’esso introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022), fermo quanto stabilito dall’art. 51 del d.lgs. n. 196 del 2003 in tema di trattamento dei dati personali in ambito giudiziario e informatica giuridica, i provvedimenti che dispongono il rinvio pregiudiziale e i decreti del Primo Presidente ad esso relativi sono pubblicati nel sito istituzionale della Corte di cassazione, a cura del CED.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare “brevi memorie” ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Il provvedimento che definisce la questione dispone la restituzione degli atti al giudice a quo.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento pendente e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui venga proposta la medesima domanda tra le stesse parti.
II. Un nuovo strumento per la perfezione della «funzione nomofilattica»
Inserito in consecuzione all’art. 363 c.p.c. (Principio di diritto nell’interesse della legge), l’art. 363-bis sembra dunque volersi proporre come nuovo “strumento offerto dall’ordinamento per la perfezione della funzione nomofilattica” (Andrioli). A differenza, però, della disposizione cui segue nell’ordine del codice, l’art. 363-bis non slega l’esercizio della nomofilachia dall’esercizio della funzione attinente allo ius litigatoris, interviene necessariamente in una fase del processo di cognizione, postula che sia garantito il contraddittorio tra le parti, mantiene una stretta inerenza alla concreta vicenda processuale, assicura al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte un’efficacia vincolante nel giudizio di merito a quo ed anche esterna (“panprocessuale”) nei successivi processi tra le stesse parti, proiettandosi, quindi, per sua natura verso un indispensabile seguito procedimentale.
Inoltre, il rinvio pregiudiziale prescinde, alla lettera, da una valutazione di «particolare importanza» della «questione» (che era indicata dalla legge di delega) e richiede, piuttosto, che la stessa denoti «gravi difficoltà interpretative» ed appaia «suscettibile di porsi in numerosi giudizi», alla stregua, quindi, di un primo dato desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto, e di un secondo dato che sovrasta l’immediata influenza della regola di giudizio espressa dalla Corte di cassazione in relazione alla singola vicenda processuale e la eleva a criterio di decisione di casi analoghi o simili.
L’art. 363-bis non configura, pertanto, una ipotesi di “giurisdizione puramente consultiva”, né è una sorta di certiorari attribuito alla Suprema Corte per consentirle di riesaminare la correttezza degli atti di un procedimento di merito. I primi commentatori ne hanno indicato le analogie e le differenze rispetto: al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE; al rilievo incidentale della questione pregiudiziale di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art 23 della legge 11 marzo 1953, n 87; agli effetti della sentenza della Cassazione di accertamento pregiudiziale dell’efficacia, validità e interpretazione dei contratti o accordi collettivi, ai sensi dell’art. 420- bis c.p.c. e dell’art. 146-bis disp. att. c.p.c.; alla saisine pour avis dell’ordinamento francese (artt. 1031-1 e seg. del Code de procédure civile e L441-1 e seg. del Code l’organisation judiciaire) (F. Barbieri; A. Briguglio; F. De Stefano; M. Fabiani; C.V. Giabardo).
Si è scritto che la pronuncia ex art. 363-bis è “semplicemente occasionata dal giudizio a cui si riferisce, ma ha una portata ben superiore”. La Corte di cassazione si esprimerà “grazie a la vicenda, ma non solo per quella…. La causa è un pretesto perché la voce della Corte si faccia sentire da tutti” (C.V. Giabardo). Lo strumento andrà perciò sfruttato proprio per rimediare alla non più sostenibile “occasionalità” della nomofilachia adempiuta soltanto per il tramite di un terzo grado di giudizio, che interviene a distanza di anni dalla domanda di merito e comunque condizionatamente alla formazione progressiva del giudicato derivante dall’acquiescenza, la quale è espressione del principio di disponibilità dei mezzi di impugnazione[3].
Il “rinvio pregiudiziale” è, dunque, una nuova occasione di nomofilachia a portata di mano: come tutte le buone occasioni, però, essa difficilmente si presenta e facilmente può perdersi.
III. Il procedimento di rinvio pregiudiziale dinanzi al giudice di merito
Il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione può essere disposto dal “giudice di merito”, dunque in ogni fase del giudizio di primo grado o di appello, ed anche in sede di decisione.
Dovendosi, tuttavia, trattare pur sempre di “questione necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”, il rinvio non sarà consentito al giudice di primo grado se la stessa questione esuli del thema decidendum definito dalle domande, eccezioni e conclusioni proposte, precisate o modificate, dalle parti, a norma degli artt. 163, 166, 167, 183 (171-ter) c.p.c., o da quelle altrimenti comunque rilevabili d’ufficio. E’ auspicabile, inoltre, che il giudice di primo grado provveda al rinvio pregiudiziale dopo che abbia proceduto nel corso dell’udienza di trattazione alla eventuale richiesta di chiarimenti alle parti. Il giudice d’appello potrà invece disporre il rinvio pregiudiziale sempre che la questione rientri nell’ambito di ciò che sia rimasto sottratto alla regola della formazione progressiva del giudicato ed all’operatività dell’acquiescenza, e dunque nei limiti devolutivi segnati dagli artt. 329, 342 e 346 c.p.c.
Il giudice di pace, il tribunale o la corte d’appello provvede al rinvio alla Corte di cassazione “con ordinanza”, non contenendo il provvedimento alcuna statuizione di natura decisoria, idonea a definire il giudizio.
Vi è obbligo per il giudice di disporre il rinvio soltanto dopo aver sentito le parti costituite, e cioè dopo aver provocato il contraddittorio sulla questione mediante invito alla stesse a prendere posizione al riguardo. La mancata instaurazione del preventivo contraddittorio sul rinvio implicherà una nullità dell’ordinanza, rilevabile su iniziativa della parte interessata nella prima istanza o difesa successiva, a norma dell’art. 157, comma 2, c.p.c.
Il secondo comma dell’art. 363-bis prescrive che l’ordinanza debba essere “motivata”, dettando altresì uno specifico requisito di contenuto, che va oltre il “succintamente” di cui all’art. 134, comma 1, c.p.c., in quanto viene stabilito che il provvedimento di rinvio rechi “specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”, a dimostrazione delle “gravi difficoltà interpretative” che connotano la questione. Ove manchi una motivazione così qualificata sul contrasto esegetico, l’ordinanza dovrà reputarsi inidonea ad assolvere allo scopo cui è diretta, cioè quello di investire la Corte di cassazione della risoluzione della questione, e perciò inammissibile, non potendo la Corte adita disporne la rinnovazione ai sensi dell’art. 162, comma 1, c.p.c.
Le “diverse interpretazioni” devono peraltro sempre concernere la questione di diritto “necessaria alla definizione” del giudizio, e dunque occorre che la motivazione del giudice rimettente spieghi l’incidenza attuale del contrasto ermeneutico sulla norma da applicare nel giudizio innanzi a lui pendente. Sarebbe, altrimenti, improprio l’utilizzo del rinvio pregiudiziale da parte del giudice del merito ove rivolto unicamente a conseguire un avallo interpretativo dalla Suprema Corte diretto a preservare la propria decisione da una diversa lettura ed applicazione delle norme ad opera del giudice dell’impugnazione. Non è indispensabile che il giudice del rinvio sindachi la fondatezza e la praticabilità delle diverse interpretazioni di cui è suscettibile la questione devoluta, né che indichi le ragioni che lo inducano a preferire una tra le possibili soluzioni ermeneutiche che si contendono il campo. Le diverse interpretazioni da rappresentare in motivazione postulano (oltre che la questione non sia stata ancora “risolta dalla Corte di cassazione”, come meglio si vedrà in seguito) che, utilizzando i criteri dettati dall’art 12 delle preleggi, si pervenga ad almeno due possibili esiti divergenti, ovvero che comunque vi siano differenti posizioni nella giurisprudenza e nella dottrina in ordine alle problematiche sollevate, e perciò manchi una communis opinio.
Se, peraltro, il giudice di merito ravvisi profili di illegittimità costituzionale o di contrasto con il diritto dell’Unione europea delle norme coinvolte nella questione di diritto, sarebbe impropria la strada del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione finalizzato a che questa proceda poi alla rimessione alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia UE.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è “immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione” ed è comunicata alle parti a cura del cancelliere del giudice rimettente, ai fini del contraddittorio. La mancata comunicazione dell’ordinanza, ove rilevata dalla Corte, determinerebbe la necessità di provvedere all’adempimento a cura del giudice rimettente.
A norma dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c., che richiama espressamente l’art. 363-bis, il cancelliere della Corte, entro sessanta giorni dalla trasmissione dell’ordinanza, acquisisce il fascicolo d’ufficio dalla cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento (senza che dunque occorra che questi disponga nell’ordinanza la relativa rimessione del fascicolo).
Dal giorno stesso in cui è depositata l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, il processo è sospeso[4], ma è fatto salvo “il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale”, la quale, invero, può risultare necessaria anche alla definizione di parte soltanto del giudizio. La disposizione si salda con le ipotesi già regolate dagli artt. 48, comma 2, 298, comma 1, e 367 c.p.c. e potrà perciò avvalersi delle consolidate esperienze applicative di tali norme.
Il provvedimento di sospensione del processo in ragione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, integrando una sospensione cd. impropria, non sarà ovviamente impugnabile mediante regolamento di competenza, trattandosi di ipotesi che esula dall’ambito dell’art. 42 c.p.c.[5]
Gli atti urgenti del procedimento che il giudice del merito potrà compiere durante la sospensione per rinvio pregiudiziale sono quelli di natura conservativa ed indifferibile, che attengono al merito della controversia e tendono alla conservazione dello stato di fatto in attesa della riassunzione. Le inderogabili esigenze pratiche che potranno legittimare l’adozione degli atti del processo sospeso non si identificano con l’urgenza che ha la parte di conseguire la soddisfazione del proprio interesse sostanziale, ma consistono, invece, nella necessità di evitare che il protrarsi della quiescenza della causa produca irreparabile pregiudizio alle ragioni dei contendenti, oppure provochi la perdita per i medesimi della facoltà di fornire una prova. Non deve, dunque, trattarsi di atti a contenuto decisorio che suppongano risolta la questione rimessa alla Corte di cassazione.
Quanto alle attività istruttorie, di per sé non anche “urgenti”, che possono svolgersi in costanza della sospensione, esse non devono essere correlate alla parte della controversia che attende la soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale. In ogni caso, i provvedimenti che dispongano l’ulteriore istruzione restano revocabili altresì alla luce della successiva pronuncia della Corte di cassazione sul rinvio pregiudiziale.
IV. Le condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale
L’art. 363-bis prescrive innanzitutto che il rinvio pregiudiziale riguardi “la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto”. Può certamente prevedersi che tale presupposto apra un dibattito analogo a quello già da tempo in essere in ordine agli artt. 101, comma 2, e 384, comma 3, c.p.c. ed al distinguo fra questioni di puro diritto, questioni di fatto e questioni miste di fatto e di diritto. E’ davvero configurabile, nel corso di una causa di merito pendente, una “questione esclusivamente di diritto”, che però sia, allo stesso tempo, altresì “necessaria alla definizione anche parziale del giudizio”? Ai fini della praticabilità del rinvio pregiudiziale, certamente le questioni di diritto che lo giustificano non si riducono a quelle di esclusiva rilevanza processuale e possono ben riguardare pure la decisione del merito della causa, in rapporto alla norma che il giudice individui come applicabile al caso concreto. E’ inoltre inevitabile che ogni questione che attenga sia alle vicende costitutive, modificative o estintive del diritto dedotto in giudizio, sia a profili di rito litis ingressus impedientes, una volta che il giudice segnali alle parti, disponendone l’audizione sul punto, l’intenzione di investirne pregiudizialmente la Corte di cassazione, indurrà i medesimi contendenti a sviluppare altresì il dibattito mediante nuove allegazioni sul quadro fattuale della lite ed a riesaminare il materiale probatorio, sicché forse si ex ante, ma difficilmente ex post, possono rivelarsi al giudice di merito questioni risolutive che siano davvero “esclusivamente di diritto”.
Le altre condizioni, tutte concorrenti e non dunque alternative, di ammissibilità del rinvio ex art. 363-bis, sono: la pregiudizialità della questione sollevata rispetto alla definizione del processo merito; l’assenza di una precedente “risoluzione” della questione da parte della Corte di cassazione; la presenza di “gravi difficoltà interpretative”; l’idoneità della questione a porsi in numerosi giudizi.
La necessaria pregiudizialità della questione rimessa alla Corte di cassazione comporta che la stessa costituisca un indispensabile antecedente logico-giuridico influente sull’esito del thema decidendum del processo di merito pendente tra le parti.
L’assenza di una precedente “risoluzione” della questione da parte della Corte di cassazione lascia pensare, approfittando dell’elaborazione acquisita con riguardo alla inammissibilità del ricorso per cassazione per regioni merito di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., che il legislatore del d.l. n. 149 del 2022 abbia immaginato che sia superfluo chiamare la Corte a riesaminare in via pregiudiziale una quaestio iuris che essa abbia già deciso con orientamento consolidato ed uniforme, non bastando, peraltro, al rimettente (a differenza che al ricorrente) offrire “elementi per mutare … l’orientamento della stessa” [6]. Si tratta di valutazione che il Primo Presidente dovrà svolgere al momento della verifica preliminare di ammissibilità della questione, ovvero prima di decidere se assegnare la stessa alle sezioni unite o alla sezione semplice, e che comunque dovrà rinnovare la Corte in sede di pronuncia, apparendo irragionevole che sia dichiarato ammissibile un rinvio pregiudiziale su questione che non fosse stata risolta dalla giurisprudenza di legittimità all’epoca del deposito dell’ordinanza del giudice di merito e che invece sia poi stata medio tempore decisa con valenza nomofilattica. Potrà, al contrario, capitare che solo a seguito della adozione del provvedimento di rinvio pregiudiziale venga a verificarsi una difformità di decisioni delle sezioni semplici in ordine alla questione di diritto, e ciò potrebbe giustificare l’assegnazione della stessa alle sezioni unite.
Come già per il parametro della conformità alla «giurisprudenza della Corte» di cui all’art. 360-bis, a proposito del riscontro della condizione della mancanza di preventiva «risoluzione» della questione occorrerà intendersi su quante pronunce servano per dire che essa sia data per «risolta dalla Corte di cassazione». Ci si interrogherà se basta un precedente di legittimità degli oltre quarantamila annui della nostra Suprema Corte per risolvere stabilmente una questione[7]. Rimane, quindi, di stretta attualità l’argomento del sofisma del sorite, del quale scriveva Taruffo: quanti granelli ci vogliono per fare un mucchio di sabbia, ovvero, quale granello, singolarmente aggiunto, fa divenire mucchio ciò che prima tale non era?
La questione rimessa alla Corte di cassazione deve, poi, presentare “gravi difficoltà interpretative”. L’aggettivo “gravi” potrebbe far pensare che il dubbio ermeneutico debba implicare la soluzione di problemi di speciale complessità, ma può pensarsi che nell’applicazione concreta dell’art. 363-bis l’ammissibilità del rinvio venga giustificata già soltanto in presenza delle “diverse interpretazioni possibili”, di cui si sia dato conto in motivazione dal giudice rimettente.
La condizione di più complessa accertabilità attiene sicuramente alla idoneità della questione a porsi in numerosi giudizi. Al giudice del merito, nel valutare la praticabilità del rinvio pregiudiziale, ed al Primo Presidente della Corte di cassazione, in sede di verifica di ammissibilità, viene richiesto un arduo giudizio oracolare, il quale prescinde dal singolo caso in esame e impone un calcolo prognostico su identici casi futuri[8]. Come già avvenuto con le riforme del giudizio di cassazione operate dal d.lgs. n. 40 del 2006, dalla legge n. 69 del 2009 e dal d.l. n. 168 del 2016, convertito nella legge n. 197 del 2016, si affida alla Suprema Corte il compito di stabilire ex ante se la pronuncia che si appresta a rendere è, o meno, destinata a precostituire un precedente per le generazioni future. E’, tuttavia, il giudice del caso seguente che decide se sussiste tra questo ed il caso pregresso quella identità di ratio che impone, o per lo meno consiglia, di fare buon uso del precedente. D’altro canto, l’art. 363-bis postula alla lettera soltanto che la questione “esclusivamente di diritto” possa “porsi in numerosi giudizi”, e cioè sia “ripetibile”, il che rispecchia, in verità, i caratteri di generalità ed astrattezza di ogni legge, la quale, appunto, ha di per sé destinatari indeterminati ed è suscettibile di essere applicata un numero indefinito di volte. La ripetibilità della questione non può, invece, mai supporre l’identità dei fatti. In un sistema come il nostro, l’astratta enunciazione o interpretazione di una regola di diritto contenuta in una pronuncia della Corte di cassazione non vale comunque a precostituire un precedente nel senso proprio degli ordinamenti di common law, questo consistendo, piuttosto, nell’applicazione data alla legge in relazione al fatto concreto oggetto di lite. L’ultimo comma dell’art. 363-bis precisa in proposito, come meglio si vedrà nelle prossime pagine, che il principio di diritto enunciato dalla Corte sia “vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione” (ed anche nel nuovo processo in cui, a seguito dell’estinzione di quello, sia riproposta la domanda”).
Per gli ulteriori “numerosi giudizi” in cui, invece, la questione oggetto del rinvio pregiudiziale dovesse porsi, la regola di diritto formulata in termini generali dalla Corte di cassazione servirà, invece, ad infittire la cortina dei precedenti dotati di efficacia persuasiva, ma è facile preconizzare che, nella pratica, essi si ergerà a norma universale passibile di applicazione deduttiva: potremo averne (ipotetici) vantaggi sotto il profilo della “calcolabilità giuridica” delle decisioni, ma per alcuni è facile presagirne anche i rischi correlati ad una (ennesima) deriva autoritaria e burocratica nell’esercizio della giurisdizione. Basti pensare al rilievo che la mancata conoscenza di un provvedimento che definisca una questione pregiudiziale potrebbe assumere ai fini della responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie[9].
V. Il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione
Il Primo Presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, verifica dapprima la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della questione, dichiarandone, in caso di esito negativo, l’inammissibilità con decreto. Tale provvedimento rivela, quindi, l’esercizio di una funzione presidenziale non meramente organizzativa, quanto “giurisdizionale”, che viene peraltro prevista come strumento di filtro nell’utilizzo di una nuova attribuzione della Corte, non impugnatoria, né, dunque, “cassatoria”, ma consultiva, e perciò, secondo alcuni, essa poi “non giurisdizionale” (G. Scarselli)[10].
All’eventuale declaratoria di inammissibilità adottata dal Primo Presidente farà seguito la restituzione degli atti al giudice a quo, e il processo di merito riprenderà mediante fissazione della successiva udienza, senza necessità che si proceda a riassunzione ai sensi dell’art. 297 c.p.c.
Se, viceversa, la questione appare ammissibile, il Primo Presidente assegna la stessa alle sezioni unite (è da ritenere nel concorso dei presupposti di cui all’art. 374 c.p.c.) o alla sezione semplice.
La disposizione sembra scritta nel senso che, passato il vaglio di ammissibilità presidenziale, la Corte pronunci (senz’altro) in pubblica udienza definendo la questione. E’ tuttavia sostenibile che la preventiva valutazione di “non inammissibilità” della questione, che il Primo Presidente compie, non preclude alla Corte, all’esito dell’udienza pubblica, di dichiarare con sentenza l’inammissibilità della stessa per carenza di alcuna delle relative condizioni, in quanto la delibazione del collegio non rimane vincolata dalla precedente valutazione ed anzi, in virtù della più ampia garanzia assicurata dalla pubblica udienza, si estende a tutti profili posti dalla questione (così ad esempio F. De Stefano).
L’art. 363-bis chiarisce che la Corte pronuncia in pubblica udienza, ipotesi che va quindi ad aggiungersi a quelle di cui all’art. 375, comma 1, c.p.c. E’ prevista la “requisitoria scritta” del pubblico ministero (che si segnala, oltre che per l’espressione più propriamente processualpenalistica, per la sua apparente obbligatorietà), mentre alle “parti costituite” è data “facoltà di depositare brevi memorie”. Il richiamo dei termini di cui all’art. 378 c.p.c. sembra da intendere generale (non oltre venti giorni prima dell’udienza per il pubblico ministero, e non oltre dieci giorni per le parti).
La facoltà di presentare le memorie è attribuita alle “parti costituite”, ma il procedimento delineato dall’art. 363-bis non contempla autonomi atti di costituzione dinanzi alla Corte di cassazione, nei quali poter eventualmente rilasciare altresì la procura speciale ad avvocato iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 83 e 365 c.p.c., e ciò deve considerarsi anche ai fini della comunicazione dell’udienza e dello svolgimento delle difese in sede di partecipazione alla discussione orale. E’ vero che manca una norma sul modello dell’art. 47, comma 1, c.p.c. in tema di regolamento di competenza, ma appare coerente con la natura del giudizio ex art. 363-bis concludere che a tali attività sia legittimato il difensore della parte munito di procura speciale per il giudizio di merito (in tal senso, F. De Stefano; in senso opposto, A. Mondini).
La pronuncia in pubblica udienza stabilita dalla norma in esame suppone che la discussione si svolga ai sensi dell’art. 379 c.p.c. e che all’esito venga deliberata una sentenza, a norma dell’art. 380 c.p.c., la quale avrà il contenuto proprio di tale provvedimento ed enuncerà il principio di diritto, disponendo la restituzione degli atti al giudice, anche qui senza che si renda necessaria una riassunzione della causa davanti al giudice di merito su iniziativa di una delle parti.
VI. La prosecuzione del giudizio di merito
L’ultimo comma dell’art. 363-bis sancisce che il principio di diritto enunciato dalla Corte sia vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti[11].
Il vincolo del principio di diritto non riguarda, allora, soltanto il giudice che aveva disposto il rinvio pregiudiziale, ma l’intero procedimento, e quindi anche i giudici delle eventuali impugnazioni, ivi compresa la stessa Corte di cassazione successivamente adita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., la quale neppure potrà aderire, semmai, ad un nuovo orientamento giurisprudenziale che si sia formato sul punto.
La norma ricorda gli artt. 384, comma 2, e 393 c.p.c., in ipotesi di cassazione con rinvio per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, pur differenziandosene, in quanto il giudice del rinvio ex art. 392 e ss. c.p.c. deve uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre il giudice di merito cui gli atti vengano restituiti a seguito della pronuncia del provvedimento che definisce la questione oggetto del rinvio pregiudiziale potrà, sulla base di tale provvedimento, sia valutare i fatti già accertati, sia indagare su altri fatti, se gli sia tuttora consentito dal sistema delle preclusioni.
Paiono più nette le diversità tra l’art. 363-bis ed il principio di diritto nell’interesse della legge enunciato su richiesta del Procuratore generale o d’ufficio, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., non avendo quest’ultimo, come già si è accennato, alcuna efficacia per le parti del processo a quo.
In ciò sta il mistero del nuovo istituto: la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, adottata nel corso del processo di merito indipendentemente dalla definizione del thema decidendum e del thema probandum, è vincolante in esso ed il giudice ad quem deve trarre dalla fattispecie astratta enunciata dalla Suprema Corte la regola che decide la fattispecie concreta. Acquisisce una stabilità irreversibile, tanto nel processo pendente, quanto nel nuovo processo in cui venisse riproposta la medesima domanda, una questione di diritto che individua la sola sequenza logica fra norma ed effetto giuridico e che anticipa l’accertamento in essa sussumibile[12].
Analogamente a quanto avviene per l’efficacia del principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, la risoluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale potrà perdere la sua vincolatività se la norma da applicare risulti abrogata o modificata in conseguenza di ius superveniens, dichiarazioni di illegittimità costituzionale o sentenze della Corte di giustizia UE. Non inficeranno, invece, la stabilità della pronuncia ex art. 363-bis gli eventuali intervenuti mutamenti della stessa giurisprudenza di legittimità.
Strana, indubbiamente, è la sorte che attende il giudice del merito dopo la risoluzione del rinvio pregiudiziale. La questione di diritto, ricavata dalla norma che detta la disciplina degli interessi in conflitto in ordine ai beni oggetto di lite ed il complesso dei fatti che costituiscono ipoteticamente il fondamento della pretesa azionata in giudizio, dal cui verificarsi discende un determinato effetto giuridico, è, come detto, da intendersi definitivamente fissata dalla Corte di cassazione. Ciò avviene senza che la soluzione della questione investita dal rinvio pregiudiziale acquisti l’efficacia positiva del giudicato; non di meno, la sentenza della Suprema Corte contiene un principio di diritto che è incontestabilmente eretto a presidio della relazione strutturale tra la questione risolta e l’effetto giuridico oggetto del processo successivo, come anche dei giudizi fra le stesse parti in cui essa si presenti. La decisione del giudice investito dalla restituzione degli atti è chiamata unicamente a convalidare che quel fatto o complesso di fatti supposti dalla Corte di cassazione siano realmente accaduti, per poi calarli nella relazione fatto-effetto coperta da statuizione irretrattabile.
Si è ipotizzato che la vincolatività della pronuncia interpretativa della Corte di cassazione per giudici anche diversi da quello che ha sollevato la questione si pone in contrasto con il principio costituzionale per cui il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2 Cost.)[13]. Il dubbio potrà essere dipanato frugando fra i righi della sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 1970. Essa afferma che la Costituzione, legando il giudice alla legge, vuole assoggettarlo non solo al vincolo di una norma che specificatamente contempli la fattispecie da decidere, ma altresì all’efficacia di ciò che abbia “deciso altra sentenza emessa nella stessa causa”, che è quel che avviene nel sistema del rinvio dalla Cassazione. Ma ciò perché “l’efficacia della sentenza che dispone il rinvio è determinata dalla regola del non bis in idem, che porta, di necessità e a seconda dei casi, ad una preclusione, alla cosa giudicata o, comunque, ad un punto fermo nel processo di graduale formazione logica della pronunzia finale”. Il vincolo che il principio di diritto enunciato dalla Corte ai sensi dell’art. 363-bis determina per i giudici del procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione (o nei nuovi identici processi che seguano all’estinzione di quello) sarebbe, allora, costituzionalmente tollerabile se ci si convincesse che anche la nuova norma abbia “ritenuto conchiusa una fase del processo e immutabilmente fissato il punto di diritto deciso, con effetto limitato alla causa”. Si potrebbe sostenere che la pronuncia che risolve il rinvio pregiudiziale definisce l’oggetto del procedimento che prosegue, il quale si svolge “per riportare al fatto la regola che è stata rilevata, in modo che la sentenza della Corte suprema abbia un suo effetto concreto”.
Le parole che la Corte costituzionale adoperava nella sentenza n. 50 del 1970, tuttavia, si riferivano al processo di cassazione inteso non più come strumento “per la custodia di una legge avente vita in sé e per sé, per una pronunzia cioè data all’infuori di ogni interesse di parte e di qualsiasi riferimento a un caso concreto”, ma come “processo di impugnazione”, il quale per sua natura “riceve limiti da ciò che alle parti è consentito di destinare ad un riesame e dà limiti ai giudici che hanno competenza a pronunciarsi nel prosieguo della causa”. Quanti di questi argomenti, allora, si confanno effettivamente al rinvio ex art. 363-bis? Compare sfocata sullo sfondo di queste pagine una questione che davvero presenta gravi difficoltà interpretative e che non è stata ancora risolta da alcuno.
[1] Si segnalano, fra i primi commenti, F. Barbieri, Brevi considerazioni sul rinvio pregiudiziale in cassazione: il giudice di merito superiorem recognoscens, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 2, 369 ss.; A. Briguglio, Il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Cassazione, in Judicium, 21 dicembre 2022; B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia insieme, 2021, 19 giugno 2021; F. De Stefano, Riforma processo civile: il nuovo rinvio pregiudiziale interpretativo, in ilProcessocivile 24 gennaio 2023; M. Fabiani, Rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione: una soluzione che non alimenta davvero il dibattito scientifico, in Riv. dir. proc., 2022, 1, 197 ss.; R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, in Giustizia insieme, 7 giugno 2021; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia insieme, 22 giugno 2021; A. Mondini, Il rinvio pregiudiziale interpretativo, in Judicium, 27 dicembre 2022; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia insieme, 5 luglio 2021; E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, 3/2021, 105 ss.; G. Trisorio Liuzzi, La riforma della giustizia civile: il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale, in Judicium, 10 dicembre 2021.
[2] I primi commentatori escludono che il rinvio pregiudiziale sia esperibile dai giudici speciali; è invece controversa la praticabilità da parte dei giudici tributari (cfr. A. Briguglio; F. De Stefano; R. Frasca; A. Mondini).
[3] Si vedano, di recente, A. Spirito, Il giudizio civile di cassazione nel suo aspetto funzionale: ius constitutionis e ius litigatoris, in Il giudizio civile di cassazione, Collana I Quaderni della SSM, Quaderno 20, Roma 2022, 36; L. Lombardo, Passato e futuro della Cassazione civile (a cent’anni da “La cassazione civile” di Piero Calamandrei), in Riv. dir. proc., 2021, 3, 892 ss.
[4] Può essere utile ricordare che, secondo l’art. 2, comma 2-quater, della legge 24 marzo 2001, n. 89, ai fini del computo della ragionevole durata del giudizio presupposto, “non si tiene conto del tempi in cui il processo è sospeso”.
[5] Si assume, peraltro, che l’ordinanza di rinvio pregiudiziale possa essere revocata dal giudice di merito, in forza dell’art. 177 c.p.c., ovviamente prima che si pronunci la Corte (A. Briguglio). Tale conclusione appare plausibile, considerando che con l’ordinanza ex art. 363-bis il giudice di merito non esaurisce certamente la propria potestas iudicandi sulla causa dinanzi a sé, ed anche opportuna, allorché, ad esempio, quando ancora non sia stata attuata la verifica presidenziale di ammissibilità, la questione rimessa venga altrimenti “risolta” da una sopravvenuta decisione della Suprema Corte.
[6] Appare significativo notare che il d.lgs. n. 149 del 2022 ha tradotto con “questione non ancora risolta” il criterio della legge di delega che, invece, prevedeva che la questione, oltre a rivelarsi “di particolare importanza”, non dovesse essere stata “ancora affrontata dalla Corte di cassazione”. Il giudice di merito potrebbe, allora, rinviare alla Corte di cassazione una questione che questa abbia affrontato, senza tuttavia “risolverla”, o che semmai risulti “decisa in senso difforme dalle sezioni semplici”, così stimolandone la rimessione alla sezioni unite. Non sembra, viceversa, data facoltà al giudice di merito di sperimentare il rinvio pregiudiziale se “ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite”, come consentito alle sezioni semplici dall’art. 374, comma 3, c.p.c.
[7] A proposito dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366, ha affermato che integra l’orientamento della giurisprudenza Suprema Corte il precedente “quand’anche unico e perfino remoto, ma univoco e chiaro”.
[8] Questa condizione viene sinteticamente etichettata nei primi commenti come “serialità della questione”: ad esempio così A. Briguglio.
[9] Si veda Cass. sez. un. 3 maggio 2019, n. 11747.
[10] Si è osservato che i diffusi timori di un uso assai disinvolto del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di merito sarebbero smentiti dalla costatazione dello scarso ricorso fatto all’omologo francese della saisine pour avis, la quale conta una decina di casi l’anno tra settore penale e settore civile, in particolare 131 casi di diritto civile dal 2010 al 2019 (F. Barbieri; B. Capponi).
[11] Questa efficacia limitata e rafforzata in rapporto al (solo) procedimento di rimessione segna una rilevante differenza rispetto all’omologo francese della saisine pour avis: F. Barbieri; F. De Stefano.
[12] Cfr. M. Fabiani.
[13] A. Mondini.
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