ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
"Correggere una Costituzione non è impresa minore del costruirla la prima volta"
(Aristotele, Politica, IV, 1289 a, 5)
1. Una premessa generale.
Il "libro" della riforma ordinamentale della giurisdizione tributaria, contenuto nella Legge 130/2022, è scritto (non sempre bene) solo in parte. Mancano interi capitoli, nei capitoli mancano interi paragrafi, nei paragrafi mancano parti essenziali.
Bisogna affermare con chiarezza che la "base normativa" della riforma ossia la legge 130/2022 è largamente insufficiente e sostanzialmente inadeguata in ordine a ulteriori, plurimi, fondamentali, aspetti.
Innanzitutto, sotto il profilo della tecnica di legislazione, il Legislatore si è limitato a interpolare -in modo alquanto approssimativo - il testo del d.lgs. 545/1992 (questa sì una vera e propria "legge di ordinamento giudiziario") e ne è uscito un abito di Arlecchino di incerta "vestibilità".
In termini generali, manca una normativa ordinamentale che, per un verso, delinei in maniera chiara i confini dell’indipendenza dell’attuale e futura magistratura tributaria, per altro verso, che esprima un chiaro, complessivo e coerente disegno organizzativo.
Nello specifico e nell’immediato del vissuto ordinamentale, mancano completamente le regole della coesistenza tra la vecchia e la nuova magistratura e non si è intervenuto per rescindere “il cordone ombelicale che lega gli organi di giustizia tributaria a una delle parti in causa e, quindi, l’incardinamento degli organi della giustizia tributaria, non più nell’ambito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, bensì in quello del Ministero della Giustizia, come i Tribunali ordinari, o quanto meno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al pari degli altri giudici speciali come TAR e Corte dei Conti”[2].
2. Una questione pregiudiziale: indipendenza, autonomia ed autogoverno della magistratura tributaria.
Sotto quest’ultimo profilo la riforma era, anzi, intervenuta addirittura peggiorando la situazione. Infatti, con la previsione di quote di riserva elettive, intaccando il principio di rappresentanza, indeboliva in misura rilevante il ruolo, la funzione e l’autorevolezza del CPGT, rafforzando di converso l’azione e la preponderanza del MEF nell’organizzazione della Giustizia tributaria.
Era il "capitolo" della Riforma scritto peggio, inevitabilmente al servizio di interessi micro-corporativi, se non addirittura individuali. Una strada o meglio una scorciatoia, senz'altro errata e gravemente lesiva dei principi di rappresentatività elettiva del Governo autonomo. Vi sarebbero stati eletti ex lege che, nella sostanza, sarebbero stati rappresentativi soltanto di sé stessi o di pochi altri.
L’abrogazione della disposizione transitoria elettorale di cui all’art. 8, comma 5, legge 130/2022, appunto quella della “quota di riserva” per i magistrati professionali “optanti” per la nuova magistratura tributaria, va quindi salutata con grande soddisfazione e favore.
Questo - brutto - capitolo è stato fortunatamente eliminato dal "Libro della Riforma" grazie ad un saggio ripensamento del Legislatore, provocato dalla forza convincente dell'elaborazione condivisa – partita dal basso - da parte della magistratura tributaria, che ha condotto a far vincere le ragioni abrogative di detta - platealmente incostituzionale - norma.
Si tratta di un ottimo esempio di virtuosa sinergia tra Istituzioni e magistratura, del quale il futuro Consiglio di Presidenza dovrà tener conto per rafforzare il proprio ruolo e per avere una capacità rinnovata, anzi per meglio dire nuova, nello svolgimento delle funzioni di governo autonomo della magistratura tributaria.
Per colmare le ulteriori lacune della riforma, per riequilibrare il rapporto tra il Ministero dell'economia e delle finanze e il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, bisogna percorrere ulteriori sentieri, anche e soprattutto nell'immediato, della normazione secondaria.
E’ senz’altro urgente intervenire perché la recente e innovativa (nel Ministero della Giustizia esiste una Direzione generale per i magistrati inserita nel Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e non un superiore Dipartimento) istituzione il Dipartimento della giustizia tributaria nell'ambito del Ministero dell'economia (art. 20, commi da 2 bis a 2 sexies del D. L. n. 44/23, convertito in Legge n. 74/2023), se da una parte appare finalizzata ad adeguare l'organizzazione dei servizi della giustizia tributaria alle esigenze della riforma, dall'altra, se lasciata priva di ulteriori interventi, rischia di accentuare lo squilibrio funzionale e ordinamentale in favore del Ministero.
Infatti, un organo di autogoverno può dirsi indipendente dal punto di vista ordinamentale solo se lo è anche dal punto di vista funzionale.
E ciò è tanto vero se si pone a mente la storia istituzionale del CSM, che ha visto il compimento definitivo della parabola costitutiva del suo assetto ordinamentale di piena indipendenza solo quando si è giunti alla definizione del ruolo autonomo del personale.
Per la giustizia tributaria nel medio e fors’anche lungo periodo questa soluzione non mi pare realisticamente attingibile. Quindi occorre “cucinare la pietanza” dell'indipendenza funzionale del consiglio di Presidenza a fuoco lento e con gli ingredienti consentiti dalla normazione secondaria.
Gli ambiti di intervento immediato possono essere individuati nella costruzione di un nuovo rapporto tra il Ministero dell'economia e Consiglio di presidenza, che si nutra in maniera feconda del principio di leale cooperazione.
La scelta dei ruoli di collaborazione fiduciaria da parte del Consiglio di Presidenza dovrebbe avvenire in maniera libera e priva di vincoli, anche e soprattutto dal punto di vista dimensionale (appare veramente esigua la previsione nel futuro Dipartimento di soli due posti dirigenziali a supporto del Consiglio di Presidenza) e secondo le procedure disegnate in altri ordinamenti dalla scansione del concerto invertito.
A ciò andrebbe aggiunta una revisione della procedura per l'individuazione del Segretario generale del Consiglio di Presidenza, che va aperta alla possibilità di scandagliare tutte le professionalità, a partire da quelle magistratuali, presenti nell'alta burocrazia statale onde vitaminizzare adeguatamente il necessario ed indispensabile rapporto fiduciario tra funzione integrata in una professionalità e organo di autogoverno.
3. L'organizzazione della giustizia tributaria - in generale.
I tempi prossimi che attendono la giurisdizione tributaria saranno complessi e fondativi, perché siamo di fronte ad una riforma straordinaria da attuare con strumenti fuori dall’ordinario.
Entrando in metafora, la legge n. 130/2022 può essere raffigurata come un treno che a tanti del "personale di bordo" non è piaciuto, per come è stato costruito, per la direzione verso la quale sembra essere diretto, per la velocità impressa al suo andare. Purtuttavia, occorre pensarlo condotto a destinazione da un’opera dell’Autogoverno avveduta, graduale e con il pieno utilizzo di tutte le scansioni temporali previste dalla legge, fino all'ultima possibile.
Allora si evidenzia che il comune impegno degli "addetti ai lavori" è che il treno della riforma non vada troppo veloce e deragli oppure vada troppo piano e non arrivi a destinazione.
Quindi, ponderazione, gradualità nei tempi, attenzione agli effetti e attuazione ragionata: questo è l’arduo compito che il prossimo Consiglio di Presidenza, vero e proprio cuore della Riforma, ha davanti.
Abbiamo una cornice normativa minima e sghemba, ma non il quadro chiaro della nuova magistratura e del nuovo autogoverno.
Occorre dipingerlo con uno sfondo: sollecitare, indirizzare e favorire la maieutica delle necessarie modifiche legislative migliorative del testo approvato, che presenta, come tutti sappiamo, errori, lacune, scelte non troppo pensate e norme che vanno implementate e con un tema: elaborare la normazione secondaria, che sarà del tutto decisiva.
I “colori” da usare sono quelli della piena applicazione dei principi di autogoverno, di indipendente esercizio della giurisdizione e di rafforzamento dell'efficacia e dell'autorevolezza della giurisdizione tributaria.
Questi a mio avviso i punti fermi:
I. la magistratura tributaria non è una magistratura minore; è una magistratura che ha visto consolidato e validato il suo ruolo nella Costituzione e nelle sentenze della Corte costituzionale. Con la riforma ne è consacrata la pari dignità rispetto alle altre giurisdizioni quale quinta magistratura!
II. La magistratura tributaria "della riforma", complessivamente considerata, allo stato della legislazione non è una magistratura onoraria!
4. L'organizzazione della giustizia tributaria - in concreto.
Peraltro, il punto centrale di questo, di per sé precario, "equilibrio" complessivo era la costituzione immediata di un nucleo duro di giudici del nuovo ruolo dei magistrati tributari, attingendo dalle altre magistrature "professionali".
Fallita questa misura (allo stato circa 30 optanti sui 100 previsti) e quindi in particolare fallito il tentativo di rafforzamento del secondo grado della giurisdizione di merito, dall' equilibrio precario si è passati al disequilibrio manifesto. Ed a questo punto non si sa più bene nella fase di start up della riforma "chi farà cosa e, soprattutto, come e dove".
Su questo punto si gioca la Riforma in un tempo che sarà lungo, ma che occorre preparare da subito, facendo tesoro dell’insegnamento manzoniano di andare avanti senza paura -‘adelante, ma con giudizio’- così da evitare i tumulti dell’incertezza seminati dal Legislatore e i segni negativi della “peste” rinvenienti dalle omissioni riformatrici, con particolare riferimento al destino non scritto, non pensato e fors’anche non voluto della magistratura tributaria “laica”.
E sul piano del cronoprogramma della riforma va valutata con attenzione la prima vera e propria misura correttiva recentemente introdotta al livello legislativo (art. 18, decreto-legge 75/2023, in fase di conversione). Infatti, aver ritarato i tempi, le quantità ed i modi dei concorsi per l'assunzione dei nuovi magistrati tributari è senza dubbio alcuno una scelta positiva e riequilibrante.
Peraltro, in prospettiva di medio-lungo periodo, sarà necessario “fare i conti” (finalmente) con la struttura alquanto diversificata del contenzioso tributario, che, nei suoi “grandi numeri” (in flessione storica, ma comunque sempre assai consistenti), accomuna una massa prevalente di procedimenti di minor valore e almeno tendenzialmente, di minor complessità (40% fino a 3.000 euro, 37% da 3.000 a 50.000 euro; fonte: Relazione annuale del MEF sullo stato del contenzioso tributario per il 2022) ad una quota percentualmente inferiore di cause di maggiore valore e, tendenzialmente, di maggiore complessità.
A fronte di questa peculiarità assolutamente consolidata della domanda di giustizia tributaria, appare dunque indispensabile differenziare l’offerta ossia adottare moduli organizzativi e processuali adeguati alla diversa “qualità”, al diverso “peso specifico”, dei giudizi di merito, secondo un canone di ragionevole flessibilità, anche territoriale, posto che «un solo modello è probabilmente inadeguato sia rispetto all’esigenza di rapido smaltimento dell’arretrato, sia rispetto all’approfondimento necessario per le liti più complesse.»[3]
5. L'organizzazione della giustizia tributaria - nel futuro.
Appare in ogni caso necessaria un'ampia, radicale, manovra correttiva del quadro normativo attuale della riforma ordinamentale della giustizia tributaria; una manovra da sviluppare su più piani e con il concorso delle Istituzioni interessate, secondo il già evocato principio costituzionale della leale cooperazione.
Le linee guida sono:
- sincronizzare/coerenziare i tempi sfalsati della dinamica -di lungo periodo- della sostituzione del personale giudicante, a partire dall' inevitabile pieno utilizzo e valorizzazione della professionalità delle risorse esistenti, sino all’ultima scansione temporale del percorso ordinamentale che gli attuali magistrati tributari hanno intrapreso per legge; nello specifico, individuare una forma di transizione nei ruoli della "magistratura tributaria" degli attuali giudici tributari "non togati", anche con soluzioni normative innovative, ma che traggano linfa ispiratrice da altre esperienze riformiste degli ordinamenti magistratuali ordinario e amministrativo; come detto sopra, questo percorso è stato avviato con la rimodulazione dei concorsi per l'assunzione dei nuovi magistrati tributari; tale misura dev'essere quindi coordinata e coerenziata con quelle indicate relative al personale giudicante attuale, anche alla luce dell’esperienza mutuata dai concorsi per magistrati ordinari che richiedono per accompagnare un vincitore di concorso all'uscio della potestà decidente del caso concreto una durata di almeno quattro anni;
- prevedere un disegno chiaro per la dirigenza degli uffici, oltre il breve periodo ossia quello dato dalla proroga oltre il 70° anno di età dei giudici del ruolo unico, con riguardo alle effettive, territorialmente diversificate, esigenze delle Corti; nello specifico, anche per riaprire l'opzione delle magistrature professionali, ma con destinazione esclusiva alle vacanze direttive e semidirettive ritenute "strategiche";
- allo stesso tempo, rafforzare la professionalità, la specializzazione e la formazione permanente degli attuali magistrati tributari;
- ripensare all'attività finora svolta dal Consiglio di presidenza in termini di gestione della “carriera” del magistrato tributario. C’è bisogno di una politica della mobilità sul territorio dei magistrati tributari - mobilità orizzontale e mobilità verticale prioritariamente indirizzata verso le funzioni e gli uffici maggiormente gravati – e di conferimento degli incarichi da parte del Consiglio di presidenza che scriva e dissodi regole di trasparenza e di parità di condizioni nelle procedure che saranno adottate per garantire mobilità e conferimenti;
- realizzare un salto di qualità nell'informazione istituzionale fatta dal Consiglio di presidenza e un’azione efficace per lo sviluppo degli strumenti di interazione informatica fra i magistrati e il Consiglio stesso.
6. Considerazioni conclusive.
Su queste direttrici attuative della legge 130/2022, il prossimo CPGT ha da esercitare un ruolo fondamentale sia sul piano dello stimolo delle scelte di politica legislativa (plesso Governo/Parlamento), sia sul piano della normazione secondaria e dell'attività provvedimentale, generale ed individuale, di sua competenza.
Dunque, secondo detto principio costituzionale, dovrà affinare e rinforzare in misura esponenziale la cooperazione con le altre Istituzioni coinvolte nel processo riformatore ed impegnarsi al massimo nell'esercizio delle proprie attribuzioni.
In relazione al primo profilo risulta indispensabile l'implementazione forte del rapporto con le Istituzioni di autogoverno delle altre giurisdizioni ed in particolare, per omologia funzionale, con il Consiglio Superiore della Magistratura, essendo rimasta la giurisdizione tributaria in co-gestione tra le Corti territoriali di merito e la Corte di Cassazione.
E' perciò evidente che la consiliatura che fra poco si aprirà ha un ruolo sostanzialmente co-fondativo della giurisdizione rinnovata. Ruolo che deve innervarsi della forza e autorevolezza della sua rappresentanza, che il Parlamento ha già effettuato, vivificandola con la scelta di alti profili e professionalità di donne e uomini delle istituzioni, che hanno sempre praticato i principi di granito della disciplina ed onore nel servizio pubblico.
Vasto programma verrebbe da dire, ma è l’unico possibile per rendere viva realtà il governo autonomo della magistratura tributaria e scolpire il sembiante riconoscibile e autorevole dell’autonomia, indipendenza e professionalità della magistratura tributaria vecchia e nuova.
Ho il fondato e ragionevole convincimento che anche la magistratura tributaria saprà fare lo stesso nelle prossime scelte elettorali.
*Presidente di sezione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Veneto
[1] Intervento tenuto al Convegno organizzato dall’Università Bocconi il 27.06.2023 dal titolo “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma”.
[2] cfr. Angelo Contrino e Francesco Farri: “GIUSTIZIA TRIBUTARIA: UNA RIFORMA DA COMPLETARE” in sito web del Centro studi Livatino – 09/2022.
[3] Massimo Basilavecchia, Misure deflative del processo tributario. Serve un cambio di passo del legislatore, IPSOA Professionalità Quotidiana, editoriale del 24 giugno 2023.
“Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate …”
(P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Milano, 2008, 269)
Sommario: 1. Motivazione come dialogo - 2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale - 3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia - 4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice.
1. Motivazione come dialogo
È bella, prima ancora che felice e particolarmente calzante, l’immagine della motivazione come dià-logos: che etimologicamente è “parola che si lascia attraversare da una parola altra”[2].
Perché il dialogo è un percorso: di apertura accogliente, di ascolto attento e silenzioso, di confronto libero e rispettoso, di riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni[3].
Così, anche la motivazione mette capo ad un percorso: che è il processo.
Esso è la fonte esclusiva di legittimazione del giudice: tale soltanto nel processo, che potrebbe essere anche inteso come lo spazio costitutivo di riconoscimento dell’essere giudice, se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che “senza processo non vi è giurisdizione, quindi azione, giurisdizione, processo sono tre facce della stessa realtà”[4].
È infatti nel processo, e attraverso il processo, che si invera compiutamente lo “ius dicere” del giudice, che in tal modo appunto attua la “giurisdizione … mediante il giusto processo regolato dalla legge” (art. 111, primo comma Cost.).
Non si può allora non condividere l’“immagine finale” del“la regolarità del processo come unica possibile garanzia positiva della giustizia del risultato”[5]: sicché, davvero la giustificazione della legittimità di una decisione giurisdizionale risiede nell’essere pronunciata, rispettando le “regole del gioco” stabilite per la funzione giurisdizionale[6].
Ebbene, all’interno dell’attività procedimentale, organizzata nella sequenza elementare fatto – situazione giuridica – atto[7] e in esito al percorso processuale reso possibile dalla presenza e dal contributo delle parti e dei loro difensori, nei tempi scanditi dalla direzione (art. 175 c.p.c.), l’esercizio della giurisdizione si realizza, normalmente[8], in un provvedimento, appunto motivato.
2. Motivazione come esito coerente di un percorso processuale
Si comprende bene, e giova averlo chiaro, che la decisione della controversia non stia (se non come epilogo) nel provvedimento risolutivo del giudice (sentenza, piuttosto che ordinanza, o decreto: a seconda del rito o del procedimento adottati) e nella loro motivazione, ma nella direzione “impressa” dal giudice al percorso processuale. Volutamente ho utilizzato un participio atecnico, per meglio illustrare come la direzione del giudice debba essere rettamente intesa: non già come un astratto indirizzo autoritario, bensì piuttosto quale orientamento coerente con gli elementi introdotti dalle parti, sotto i profili di allegazione e deduzione probatoria, nel rispetto del principio dispositivo regolante il processo civile, salva la previsione di esercizio di poteri officiosi (artt. 183, 421, 437 c.p.c.).
E la direzione del giudice deve assicurare, alla fine, una sola, fondamentale garanzia: quella del rispetto del “principio del contraddittorio” tra le parti (“et audietur altera pars”), che è cardine del processo civile, per il suo diretto ancoraggio costituzionale nel diritto di difesa, “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, secondo comma Cost.) e nel quale tutti gli altri principi e tutele sostanzialmente si risolvono.
È noto il suo riferimento normativo nell’art. 101, secondo comma c.p.c., secondo cui “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”, novellato dall’art. 3, settimo comma d.lgs. 149/2022 dall’aggiunta nell’esordio: “Il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione al diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni.”[9].
La disposizione è stata opportunamente introdotta con l’art. 45, tredicesimo comma della legge n. 69/2009, per dare forza di diritto positivo ad un formante giurisprudenziale, che, per rimediare ad un purtroppo non raro cattivo costume (rectius: vizio) motivazionale, aveva individuato, nel sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101, secondo comma c.p.c., il dovere costituzionale di evitare sentenze cosiddette “a sorpresa” o della “terza via”, poiché adottate in violazione del principio della “parità delle armi”, nel fondamento normativo dell’art. 183 c.p.c., che al terzo (poi quarto) comma faceva carico al giudice di indicare alle parti “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con riferimento, peraltro, alle sole questioni di puro fatto o miste e con esclusione, quindi, di quelle di puro diritto[10].
Non per nulla la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione[11].
3. Motivazione: essenza della giurisdizione ed esercizio di democrazia
La motivazione di “tutti i provvedimenti giurisdizionali” non è soltanto doveroso adempimento costituzionale (art. 111, sesto comma Cost.), ma essenza stessa della Giurisdizione.
Essa non è prerogativa del giudice declinata come potere proprio, bensì servizio: che neppure gli appartiene, se non per esercitarlo, nella soggezione soltanto alla legge (art. 101, secondo comma Cost.). E che amministra “in nome del popolo” (art. 101, primo comma Cost.), cui appartiene “la sovranità”, da esercitare – qui attraverso il Giudice – “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1, secondo comma Cost.): così come deve essere intesa, secondo il limpido dettato costituzionale. Al riguardo, giova riprendere una chiosa davvero preziosa, per essere sempre avvertiti che “sovranità e soggezione all’impero della legge si presentano … come fossero due facce della medesima medaglia”[12].
Ed è bene anche ribadire che “la motivazione non può essere indifferente alla diversa funzione, che, a seconda dei casi, essa è chiamata a svolgere”: “endoprocessuale”, “per dare conto essenzialmente solo alle parti ed ai loro difensori del perché della decisione”; oppure funzione anche “extraprocessuale”, “per consentire il controllo dell’opinione sull’esercizio dell’attività giurisdizionale e per contribuire alla formazione di orientamenti giurisprudenziali in grado di perpetuarsi quado si ripresentino casi simili”[13].
Si comprende allora come il legame della motivazione, e quindi della Giurisdizione, con la Democrazia sia più stretto di quanto normalmente si pensi: la motivazione è, infatti, esercizio alto e delicato di democrazia.
Perché è “rendere conto” della funzione del giudicare, rettamente intesa: non già alla stregua di apodittica affermazione di un potere gelosamente e insindacabilmente esercitato come proprio, ma quale giustificazione, criticabile in quanto esplicitata in un dialogo argomentato sostenuto da un pensiero, di un “servizio di autorità”, consegnato al Giudice dalla Costituzione, in un circuito virtuoso che parta dal Cittadino (sovrano) e, attraverso il suo Giudice naturale (art. 25, primo comma Cost.), ad esso ritorni.
Ma ciò può, e deve, avvenire soltanto se essa spieghi, in modo trasparente e comprensibile, le ragioni effettive del decidere.
È vero che la chiarezza della motivazione non è prescritta in modo esplicito dal codice di rito, ma costituisce evidentemente la condizione indispensabile perché possa assolvere il suo compito[14]. Prescrivono l’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. che la sentenza debba, in particolare, contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” e l’art. 118 disp. att. c.p.c. che: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4 del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi” (primo comma); “Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio e indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati. … ” (secondo comma); “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici.” (terzo comma).
L’interpretazione giurisprudenziale ha, come noto a tutti, meglio chiarito ed esplicitato il significato del dettato normativo. E così, soltanto per una rapida ed esemplificativa silloge di riferimenti, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato:
“in tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, non risultando identificabili gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass. 10.11.2010, n. 22845; Cass. 20.1.2015, n. 920; Cass. 15.11.2019, n. 29721); sicché sussiste il vizio di nullità della sentenza per omessa motivazione allorché essa sia priva dell'esposizione dei motivi in diritto a fondamento della decisione (Cass. 16.7.2009, n. 16581; Cass. 10.8.2017, n. 19956)”[15];
“il contrasto tra motivazione e dispositivo che determina la nullità della sentenza sussiste solo se ed in quanto esso incida sulla idoneità del provvedimento, nel suo complesso, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, ricorrendo nelle altre ipotesi un mero errore materiale (Cass. 30.12.2015, n. 26077; Cass. 27.6.2017, n. 16014; Cass. 17.10.2018, n. 26074); in particolare, presupposto indefettibile della prospettata nullità della sentenza è l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione, in quanto rechino affermazioni del tutto antitetiche tra loro; la prospettata insanabilità non sussiste quando la motivazione sia invece coerente rispetto al dispositivo, limitandosi a ridurne o ad ampliarne il contenuto, senza tuttavia inficiarne il contenuto decisorio e se ne possa escludere qualsiasi ripensamento sopravvenuto, essendo la motivazione saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo: in tal caso, la divergenza tra dispositivo e motivazione non preclude il raggiungimento dello scopo ed esclude la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156, secondo comma c.p.c. (Cass. 10.5.2011, n. 10305); inoltre, nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza deve essere individuato, non già alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice: con la conseguenza della prevalenza della parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (Cass. 10.9.2015, n. 17910; Cass. 18.10.2017, n. 24600); sicché, ove manchi un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una delle due parti del provvedimento, da interpretare secondo l’unica statuizione in esso contenuta (Cass. 11.7.2007, n. 15585; Cass. 17.7.2015, n. 15088; Cass. 21.6.2016, n. 12841). E sempre che il principio dell’interpretazione del dispositivo mediante la motivazione non si estenda fino all’integrazione del contenuto precettivo del primo con la statuizione desunta dalla seconda, attesa la prevalenza da attribuirsi al dispositivo (Cass. 12.2.2020, n. 3469, p.to 1.3. in motivazione)”[16];
“è inconfigurabile, alla luce del novellato testo dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., la censura di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, co. 6 Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. s.u. 7.4.2014, n. 8053; Cass. 12.10.2017, n. 23940); ricorre violazione dell’obbligo di motivazione anche qualora essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile), realizzandosi in tal caso una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. (Cass. 25.9.2018, n. 22598)”[17].
4. Motivazione: postura e qualità (umana e professionale) del giudice
A conclusione delle riflessioni svolte, mi piace sottolineare come la motivazione sia la cartina di tornasole di chi sia davvero il giudice, rivelandone la “postura” e la “qualità”, umana e professionale.
La “postura” è la posizione che il giudice assume abitualmente nel processo, e quindi nella motivazione dei provvedimenti.
Essa dovrebbe auspicabilmente essere quella di chi conosca la trama della controversia, per averne compreso gli elementi fattuali e le ragioni giuridiche, avendo diretto il processo in dialogo con le parti, nella chiara individuazione dei principi di diritto da applicare. E di chi sappia discernere le effettive ragioni del decidere, spiegandole con linguaggio semplice e tecnicamente appropriato, in uno stile sobrio, conciso ma esauriente al tempo stesso, che soprattutto non indulga ad inutili e fuorvianti digressioni, insidiose per le parti e per gli altri giudici, in caso di impugnazione.
Qui si aprirebbe un discorso davvero lungo, che non ho qui il tempo di affrontare, ma che mi preme comunque anche soltanto accennare, in particolare riferimento alla delicata distinzione tra le rationes decidendi (le ragioni argomentative ad effettivo sostegno del ragionamento decisorio) dai meri obiter dicta (le affermazioni volatili, assolutamente superflue; etimologicamente: “buttate là”).
Una tale distinzione rileva, infatti, per i riflessi di inammissibilità dei motivi di impugnazione della sentenza, se non esattamente individuate o riconosciute nella genuina natura, sotto due principali profili:
a) di non corretta denuncia di doppie rationes decidendi, qualora una di esse non sia stata confutata affatto o lo sia stata in modo infondato, per sopravvenuto difetto di interesse, posto che quelle relative alle altre ragioni oggetto di doglianza non potrebbero comunque condurre, per l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione[18];
b) per carenza di interesse, in relazione alla censura di un’argomentazione svolta “ad abundantiam”, siccome avente natura di mero “obiter dictum”, ininfluente sul dispositivo della decisione[19].
In altre parole, con espressione più diretta: la motivazione deve essere resa “per quel che serve”, senza nulla di meno ma neppure di più, in una consapevole e prudente auto - limitazione[20].
La qualità, “umana e professionale”, è il requisito coessenziale all’esercizio di ogni attività, che aspiri ad essere semplicemente degna della donna e dell’uomo.
E così, per chi svolga l’esercizio della giurisdizione l’essere, prima di ogni altra cosa, cittadina o cittadino consapevole, è inseparabile dalla qualità professionale, di magistrato (ossia, di impiegato dello Stato), per status giuridico e di giudice, per investitura di una delicata funzione costituzionale, quella appunto di esercizio della giurisdizione: funzione da svolgere nel rispetto di quell’armonico ordito di equilibri e di garanzie, di diritti di libertà e di valori di giustizia[21], che è Valore sommo della nostra Costituzione, in una coesistenza mite, perché richiede che ciascun valore e ciascun principio “sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere[22]”, in quanto “carattere assoluto assume solo un meta–valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori … e del loro confronto leale”[23]. Ed essa è patto di fiducia a fondamento dell’ordinamento democratico del nostro Stato di diritto, che costruisce spazio di inclusione politica e sociale[24].
E allora, accanto e prima ancora di una doverosa competenza tecnico – giuridica, nel Giudice doti essenziali mi paiono quelle di: umiltà (che è giusta considerazione di sé e degli altri attori del processo, in un ascolto orientato dal desiderio di capire davvero), equilibrio (che è senso della realtà e della misura, oltre che onestà intellettuale), equidistanza (che non è indifferenza né disinteresse, ma serenità di giudizio, libertà da pre–giudizi, ben oltre la cosiddetta “prevenzione cognitiva”)[25], attenzione alle persone che domandano giustizia e sensibilità agli effetti della decisione, sia giuridica sotto il profilo sistematico, sia di “buon senso” della ricaduta concreta della soluzione della controversia sulla vicenda sottesa alla fattispecie[26].
Tali caratteri traspaiono dalla motivazione del provvedimento, che, se ci sono, li illustra …
[1] Relazione rielaborata tenuta a Roma 17 maggio 2023 per il Corso di Tirocinio Mirato Mot. D.M. 2022.
[2] E. Bianchi, L’altro siamo noi, Torino, 2010, 14.
[3] A. Patti, Ascolto via al dialogo, Cinisello Balsamo (Milano), 2018, passim.
[4] S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 225.
[5] G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 744.
[6] A.J.D. Perez Ragone, Profili della giustizia processuale (procedural fairness): la giustificazione etica del processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, 1033, part. 1049.
[7] G. Fabbrini, op. cit., 721 ss.
[8] Laddove non si pervenga ad un esito conciliativo, ulteriormente sollecitato dalla novellazione del d.lgs. 149/2022, a norma in particolare degli artt. 183, 185, 185bis, 420 c.p.c.
[9] Il principio è ribadito nel giudizio di cassazione dall’art. 384, terzo comma c.p.c., secondo cui: Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti, a pena di nullità, un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.
[10] Cass. 7 novembre 2013, n. 25054; Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 27 novembre 2018, n. 30716: Cass. 12 settembre 2019, n. 22778; Cass. 6 febbraio 2023, n. 3543.
[11] Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 21 novembre 2016, n. 23638; Cass. 20 novembre 2020.
[12] R. Rordorf, Il giudice e la legge, in Magistratura Giustizia Società, Bari, 2020, 81.
[13] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 391.
[14] Ivi, 389.
[15] Cass. 28 ottobre 2021, n. 30526 (in motivazione, sub p.ti 3, 3.1).
[16] Cass. 9 dicembre 2021, n. 39050 (in motivazione, sub p.ti da 3 a 3.2).
[17] Cass. 16 aprile 2019, n. 10573 (in motivazione).
[18] Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3307; Cass. 15 luglio 2020, n. 15114; 11 maggio 2022, n. 14995).
[19] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 11marzo 2022, n. 7995.
[20] R. Rordorf, Il linguaggio della Corte di cassazione, in Magistratura Giustizia Società, cit., 390: “Ma la sinteticità risponde soprattutto ad un più generale principio di economia dei mezzi rispetto al fine, il quale consiste nel dare conto della ragione della decisione e non nel manifestare il pensiero giuridico dell’estensore alla maniera di un saggio di dottrina. Per essere efficace la motivazione di un provvedimento deve dire tutto quel che occorre per far comprendere che cosa ha indotto il giudice a decidere in un determinato modo, ma nulla più di questo”.
[21] A. Patti, Perché la legalità? Le ragioni di una scelta, Milano, 2013, 51.
[22] In tale senso anche, in particolare: Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85 (in materia di garanzia del diritto alla salute e all’ambiente salubre); Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 20 (in materia di garanzia del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza), secondo le quali: “Ogni diritto costituzionalmente protetto non può espandersi illimitatamente e divenire “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, poiché la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[23] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 11.
[24] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 135.
[25] Essa si sostanzia nell’imparzialità, che è condizione essenziale per la realizzazione degli altri valori (di giustizia) del diritto, per la sua funzione di assicurare il modo di raggiungimento di un risultato, nel rispetto di tutti gli interessi in gioco: I. Trujillo, Imparzialità, Torino, 2003, 226.
[26] R. Rordorf, L’equità e la legge, in Magistratura Giustizia Società, cit., 107: “Non bisogna dimenticare che il diritto non è un esercizio mentale astratto ma si confronta continuamente con la realtà storica dei fatti ai quali è destinato ad applicarsi e con i quali è indissolubilmente intrecciato”.
Il 27 giugno 2023 presso l’Università Bocconi di Milano si è tenuto un interessante convegno sul tema “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di presidenza della giustizia tributaria e la sua agenda.” Introdotto dal “padrone di casa”, prof. Angelo Contrino, direttore del Master di diritto tributario presso detta Istituzione accademica, l’incontro è stato autorevolmente coordinato dal Presidente dell’Associazione italiana studiosi e professori di diritto tributario, prof. Maurizio Logozzo, dell’Università Cattolica di Milano. Sono intervenuti il prof. Alessio Lanzi, componente del CPGT nominato dal Senato della Repubblica, il dott. Lanfranco Maria Tenaglia, presidente di sezione della CGT di secondo grado per il Veneto, la prof. Adriana Salvati dell’Università della Campania “Vanvitelli”, il dott. Raffaele Tuccillo, giudice CGT di primo grado di Roma. La sintesi conclusiva è stata tratta dal prof. Giuseppe Zizzo dell’Università LIUC di Castellanza.
Dato il rilievo culturale dell’iniziativa, la Rivista pubblicherà gli interventi scritti dei relatori, a partire da quello del dott. Tenaglia, cui seguiranno gli altri.
Da poco più di una settimana è accessibile, all'indirizzo www.eurojusitalia.eu, una banca dati che raccoglie i casi "italiani" sottoposti all'attenzione della Corte di Giustizia e del Tribunale a partire dal 2020.
Si tratta di uno strumento di grande utilità, poiché accanto alle decisioni di Tribunale e Corte raccoglie una serie di informazioni relative ai casi ancora pendenti, provenienti da ricorsi italiani o da rinvii pregiudiziali proposti da giudici italiani, dando tra l'altro evidenza, in tale secondo caso, del provvedimento di rinvio e di quello assunto all'esito della pronuncia della Corte (il c.d. suivi nazionale).
Oltre ad essere un valido strumento per la ricerca giuridica in qualsiasi settore, l'istituzione della banca dati risponde così ad esigenze concrete emerse nella pratica dell'avvocatura e della magistratura.
La banca dati costituisce uno sviluppo del progetto inaugurato nel 2007 dal Prof. Bruno Nascimbene consistente nella selezione di casi significativi, confluiti nella raccolta "Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi Scelti" (alla prima edizione, edita da Giuffrè, ne sono seguite altre 4, oggi consultabili in www.eurojus.it).
Giuseppe Tropea, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, è autore del volume “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico” (Napoli, Editoriale Scientifica, 2023). Ne illustra i contenuti nell’intervista curata da Michele Trimarchi, di seguito pubblicata.
(M.T.) Il titolo che Giuseppe Tropea ha scelto per il suo ultimo libro, “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico”, può indurre a credere che obiettivo dello studio sia di proporre una lettura in chiave biopolitica delle misure adottate per il contrasto dell’epidemia e delle conseguenti trasformazioni dell’amministrazione e del suo giudice, una lettura cioè che mette in risalto l’esistere, e il manifestarsi al massimo grado proprio in queste contingenze, di “un’implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica” (R. Esposito).
In ciò vi è del vero, ma il libro non può essere ridotto a questo. Il volume in effetti condensa riflessioni nate e formulate in larga parte durante il periodo pandemico, ma solo alcune traggono spunto dalle misure legislative e dalle prassi giurisprudenziali volte al contrasto della pandemia. L’impressione, in generale, è che la pandemia e le conseguenti modifiche dell’ordinamento siano essenzialmente un pretesto, che l’A. ha colto per varare un progetto culturale di più ampio respiro. Ed è lo stesso Tropea a confessarlo nelle conclusioni, quando scrive “il mio interesse attuale non è (sol)tanto contenutistico quanto appunto metodologico, e spero che questo approccio possa suscitare un dibattito, il che già mi renderebbe soddisfatto del lavoro fatto”.
Prima di iniziare l’intervista, può forse essere utile individuare telegraficamente quelli che mi sembrano i due pilastri fondamentali di questo più vasto programma.
Il primo è di mettere in luce che molti caratteri del diritto amministrativo contemporaneo (pandemico e non) sono espressione del modello di governamentalità neoliberale descritto da Foucault, un modello che riduce il diritto a strumento dell’economia e lo piega alle logiche del mercato. In questa prospettiva andrebbero letti il ricorso alle spinte gentili in luogo degli ordini e dei divieti, l’insistenza del legislatore e della cultura giuridica sulle dimensioni dell’efficienza e dell’efficacia dell’amministrazione, la propensione all’utilizzo della soft law, l’atteggiamento del giudice che si distacca dalla legge o invade attribuzioni altrui poiché percepisce la norma non come vincolo ma come mezzo rispetto a un fine di cui egli stesso si fa interprete, etc. Al modello neoliberale mi sembra che Tropea opponga, promuovendolo, il ritorno al primato della sovranità popolare e dei suoi valori, dunque il principio di legalità in senso forte, la separazione dei poteri, il self restraint giudiziale, la funzione reattiva e non proattiva del processo (il processo come luogo di soluzione di controversie, non di attuazione di politiche pubbliche), e la rivendicazione di un ruolo autonomo e caratterizzante della scienza giuridica rispetto alle altre scienze sociali.
Il secondo pilastro fondamentale del progetto culturale di Tropea consiste nello studiare il diritto con un approccio filosofico diverso e per molti versi alternativo a quello che negli ultimi cinquant’anni almeno è stato il più praticato, cioè l’approccio della filosofia analitica. Tropea propone come chiave interpretativa la filosofia continentale post strutturalista e in particolare il pensiero di Foucault. Quale Foucault? Sicuramente l’impietoso osservatore del neoliberalismo, alla cui analisi molto deve quella di Tropea, ma anche il teorico della biopolitica. Tropea osserva che la biopolitica di Foucault oggi è utilizzata dai filosofi sia per additare le scelte del governo che sempre di più si preoccupano della vita e della salute degli individui, comprimendo le loro libertà, sia per l’esatto contrario, cioè per segnalare l’esigenza di un governo attento al benessere e alla felicità degli individui. Anche se il punto è molto delicato, mi sembra che Tropea aderisca a questo secondo filone di pensiero, laddove prende le distanze da Agamben e si dichiara per una biopolitica affermativa.
Vorrei però esser chiaro. Tropea non solo predica il metodo giuridico, ma anche lo applica nella analisi degli istituti da cui volta per volta prendono mossa le sue osservazioni. Ecco perché, pur a fronte di un progetto culturale così ambizioso stimolante e suscettibile di dibattito sul piano delle convinzioni di fondo e del metodo del giurista, sarebbe fuorviante distogliere del tutto l’attenzione dalle questioni di merito, che l’A. affronta da par suo in questo libro.
(M.T.) 1) Ti chiederei innanzitutto di illustrarci cosa intendi per neoliberalismo e quale sia la relazione tra questo e il diritto amministrativo. Inoltre, perché ritieni di doverne fare l’obiettivo polemico di fondo delle tue riflessioni? Mi rendo conto che il tuo libro nella sua interezza costituisce una risposta a queste domande. Ma ti chiederei qui uno sforzo di sintesi proprio per far emergere le linee di fondo del lavoro.
(G.T.) Intanto ringrazio Michele Trimarchi per avermi letto con tanta cura e attenzione, come emerge dal suo preciso e già stimolante discorso introduttivo.
Ove traspare un aspetto cruciale: come nelle lezioni al College de France del 1978-79 per Foucault parlare di biopolitica è stato un pretesto, ben presto abbandonato, per effettuare una genealogia del neoliberalismo, allo stesso modo questo libro vuole essere, pur nella distanza siderale col pensatore francese, un’analisi critica su come il neoliberalismo abbia agito profondamente nel nostro diritto amministrativo sostanziale e processuale, spesso alterandone sia i tratti più tradizionalmente liberali, sia quelli più di recente relativi alle trasformazioni dello Stato sociale e di prestazione.
Contrariamente ad un’opinione diffusa nel dibattito scientifico italiano (e non solo) che vorrebbe il neoliberismo globale come un mero ritorno in auge del “guardiano notturno” e del laissez-faire ottocentesco, nel neoliberismo contemporaneo non vi è affatto un “ritiro dello Stato” dall’economia. Il neoliberismo attuale produce infatti le proprie regole giuridiche e crea le proprie istituzioni, ovvero modella quelle esistenti a proprio uso e consumo: nella logica neoliberista, pertanto, il giuridico è sin da subìto parte dei rapporti di produzione economica. Il diritto, in breve, plasma “dall’interno” l’economia e, in questo modo, “produce” il mercato come istituzione artificiale, perdendo però al contempo il proprio ruolo tradizionale di scienza autonoma, in quanto si funzionalizza allo status dell’efficacia e delle logiche del mercato, ossia alla logica del profitto e dell’efficienza.
A me pare, in questo senso, che il modello di potere per inquadrare la fase attuale, sempre restando a Foucault, sia quello del “tardo” Foucault, non già “ultra-radicale” dei primi anni ’70, ma della svolta “pragmatica”, più in linea con la nozione di governamentalità, non a caso sviluppata nei corsi al Collège de France della seconda metà degli anni ’70. Per intenderci, il Foucault che sintetizzava il passaggio dal liberalismo al neoliberalismo sottolineando che nel primo il protagonista è il soggetto considerato come partner di uno scambio, mentre nel secondo il soggetto è teorizzato come un imprenditore di sé stesso.
Il punto di fondo è dato dal fatto che è insito nel pensiero neoliberale il profilo della libertà di scelta, ricostruita attraverso modelli di comportamento di mercato foucaultianamente estesi a tutte le situazioni e a tutti i rapporti sociali. Del diritto viene a ricavarsi, così, un’immagine di ordine “non politico”: nel modello neoliberale il mercato è un’occasione di massimizzazione e la realizzazione del public good dipende dal successo delle singole transazioni massimizzanti. In tale contesto si è affermato uno «stile giuridico neoliberale» (Denozza), connotato da: intensificazione e tecnicizzazione delle regole, frammentazione dell’ordinamento, concorrenza sostituita dalla competitività.
In questo quadro frastagliato e indefinito è il neoliberalismo amministrativo come “emergenza” costante (De Carolis) che meriterebbe maggiore attenzione. A differenza del paradigma moderno della sovranità, infatti, nel dispositivo governamentale l’emergenza è la strutturazione della quotidianità nell’ottica dell’imprevisto governabile, risolvibile: tale tecnica governamentale diviene, così, un «gigantesco generatore di eccezioni».
Si ha così un’inedita centralità dell’amministrazione nell’ordinamento neoliberale, che mi sembrava meritevole di approfondimento critico.
(M.T.) 2) Come tu stesso osservi, il neoliberalismo coincide con l’economia sociale di mercato proposta dagli ordoliberali. L’economia sociale di mercato è espressamente richiamata e posta a fondamento dei Trattati dell’Unione. In quale misura la tua critica al neoliberalismo è una critica ai fondamenti stessi del diritto dell’unione europea?
(G.T.) Il tuo rilievo è molto acuto.
Come ho appena detto, l’amministrativista deve finalmente prendere consapevolezza di una sua rinnovata centralità critica.
Finora, infatti, si è ritenuto, non senza una certa ragione, che per lo studioso del diritto amministrativo, l’integrazione europea non abbia posto, almeno fino alla sua crisi recente, problemi “esistenziali”, stante la funzione “servente” e “tecnica” che a tale diritto poteva attribuirsi, laddove per il costituzionalista le cose sono state da sempre più complicate. Ho sviluppato queste tematiche di dogmatica giuridica nel paragrafo su norme tecniche e soft law.
Il punto centrale è intendersi sul senso dell’economia sociale di mercato sottesa al modello concorrenziale ordoliberale. Nei Trattati, infatti, l’aggettivo “sociale” ha significato ben diverso di quello recepito o presupposto nella nostra Costituzione. L’economia sociale di mercato non è l’economia di mercato corretta dalla garanzia costituzionale e legislativa dei diritti sociali di welfare, come spesso si sente dire in Italia, travisando completamente il senso autentico della formula, la quale indica un modello che si basa esclusivamente sulla tutela della concorrenza e che muove dal presupposto che questo funzionamento concorrenziale del mercato produca di per sé delle ricadute sociali positive. La nostra Corte costituzionale ha dapprima gerarchizzato i rapporti tra utilità sociale e concorrenza, subordinando la seconda alla prima. Poi però, sotto l’influsso egemonico dello spirito sotteso allo european competition law, ha mutato indirizzo e cominciato a immaginare che tra utilità sociale e concorrenza ci potesse essere un bilanciamento, come se fossero entrambi principi di uguale rango costituzionale e perciò bisognosi di convivere in modo paritario ed equilibrato. Anche la Relazione al Codice dei contratti pubblici, nella misura in cui richiama come esempi di “demitizzazione” della concorrenza due sentenze della Consulta, la n. 131/2020 e la n. 218/2021, andrebbe forse riconsiderata, trattandosi di sentenze non riferite direttamente all’applicazione di principi connessi con la disciplina complessiva del codice dei contratti, ma a situazioni estremamente circoscritte e particolari (terzo settore; obbligo di gara per l’80% per contratti dei concessionari): nessuna delle due esprime, quindi, una valutazione riferita al principio di concorrenza come recessivo rispetto al “risultato”.
Torna così la questione di metodo, centrale nel mio lavoro.
Da un lato si pone il discorso sull’impatto del neoliberismo sulle categorie tradizionali porta ad interrogarsi sullo statuto del diritto post-moderno, sulla sua schizofrenia o la sua eclissi, mettendo in luce come nell’epoca neoliberale il giudice sia un funzionario di un corpo amministrativo investito del compito di approssimare la realtà quanto più possibile al modello della concorrenza perfetta.
Dall’altro evidenzio il dibattito sul ruolo del diritto in Europa, che vede tra i suoi interlocutori autori come Aldo Sandulli in Italia e Armin von Bogdandy in Germania. L’idea di fondo è quella di rivitalizzare lo jus publicum europaeum (di cui Schmitt traccia la parabola e vede il tramonto nella seconda metà del XIX secolo con l’affermarsi del positivismo legalista e statocentrico) attraverso un re-embedding del mercato finanziario europeo. La scienza giuridica deve, in quest’ottica, agire da katéchon contro i mercati globali, freno contro la deriva funzionalizzante, declinando gli imperativi delle scienze dell’economia alla luce dei diritti fondamentali, dei principi costituzionali e delle conoscenze di altre materie in modo da promuovere l’integrazione sociale.
Bisogna osservare come nell’ultimo decennio vi è stato pure un altro approccio alla nuova governance europea, specie dopo la crisi economica del 2008, in base al quale, riprendendo la parte meno “irenica” del pensiero di Schmitt, si è paventato l’avvento di un nuovo stato di eccezione, connotato dalla prevalenza della tecnica, o di “liberalismo autoritario”, per menzionare la tesi di Hermann Heller. Un allontanamento, quindi, del modello dell’integrazione attraverso il diritto, e l’avvento di un nuovo modello di regolazione soft che finisce paradossalmente per rafforzare l’unilateralità della tecnologia di governo. Altri hanno evocato, in questo senso, proprio le tesi foucaultiane del pastorato e del disciplinamento (De Lucia), cui sarebbero sottoposti oggi gli esecutivi nazionali rispetto alla Commissione europea.
Mi sembra particolarmente interessante che un discorso sul metodo, quale quello condotto da Aldo Sandulli, riveli l’acuta consapevolezza della necessità di ripensare l’Unione europea a partire dal diritto, richiamando peraltro, seppure in un contesto diverso, la lezione di Schmitt.
E non mi pare un caso che Schmitt sia al centro del recente libro di Portaluri, che è stato oggetto di un altro “incontro del lunedì” della Rivista, e che come noto ha da par suo criticato in modo serrato le origini nazionalsocialiste della teoria della meritevolezza della tutela, vista come filtro per negare tutela tutte le volte che l’azione collida con «valori emergenti dal basso, che finiscono per diventare le regole ordinative della comunità interpretativa», ammettendo solo una meritevolezza in bonam partem.
(M.T.) 3) Veniamo a qualche tema che riguarda più da vicino il diritto amministrativo, ma sempre nella prospettiva generale che è propria del libro. Occupandoti del potere di ordinanza e delle sue plurime manifestazioni, quasi sempre legate all’esigenza di governare l’emergenza, osservi che, secondo l’impostazione diffusa tra gli amministrativisti, l’ordinanza costituisce l’eccezione rispetto alla totale giurisdizionalizzazione del potere che risponde al modello ideale dello stato di diritto. Per te si tratta invece di un elemento che mette in discussione lo stesso fondamento del potere amministrativo nella legge e che in fin dei conti indica la persistenza e attualità del c.d. stato amministrativo, uno stato che fa a meno del fondamento legale del potere e che si comporta come un continuo generatore di eccezioni, di risposte caso per caso a singoli problemi, risposte affidate essenzialmente alla discrezionalità amministrativa. Lo stesso tema torna nel capitolo su norme tecniche e soft law. Mi piacerebbe che tu chiarissi a questo punto quale dovrebbe essere per te il ruolo del giurista nel contesto che descrivi con lucidità e disincanto. Per un verso mi sembra che tu consideri velleitario, se non ingenuo, il continuo stracciarsi le vesti per i cedimenti della legalità. Ma al contempo rivendichi lo sguardo critico del giurista. Come convivono questi due atteggiamenti?
(G.T.) Anche in questo caso le tue osservazioni sono molto penetranti.
Foucault e Schmitt mi servono come lenti per osservare la realtà, ma questo non mi impedisce di provare a impostare un discorso prescrittivo, che capisco bene possa essere considerato di retroguardia (si pensi al modo in cui rileggo la nozione romaniana di “istituzione” cercando di allontanarla dalle derive della governance), ma tant’è, continuo a credere nei capisaldi dello Stato di diritto, e in tal senso l’approccio metodologico che mi sono sentito di confermare è quello che fa leva sul giuspositivismo temperato (di cui si è già parlato nell’incontro sul bel libro di F. Saitta).
Probabilmente sarà una lotta impari, visto che la sovranità statale, ultimo vero modello di katéchon, è sopravanzata dal modello della crisi permanente, cioè dalla catallassi dell’ingegneria neoliberale, dall’emergenza permanente e dallo Stato amministrativo.
A proposito di Stato amministrativo, menzionavi il tema del potere di ordinanza, anche alla luce del periodo pandemico.
Mi è parso che questo tema intrecci proprio quello, di cui abbiamo già parlato, della governamentalità neoliberale.
L’attenuazione dei confini fra giurisdizione amministrativa e legislazione e fra amministrazione e giurisdizione è segno della predominanza in questa fase del cd. Stato amministrativo di schmittiana memoria, che ultimamente tende ad essere vieppiù riscoperto nelle più meditate indagini sul tema dell’emergenza, anche pandemica. Lo Stato amministrativo (in senso organizzativo) è lo Stato nel quale le autorità amministrative non solo governano e amministrano, ma pongono regole di comportamento e giudicano intorno alla loro applicazione. Inoltre (in senso funzionale) è lo Stato in cui anche legislazione e giurisdizione si trasformano in amministrazione: la legge e la sentenza perdono la loro funzione tipica e divengono anch’esse misure amministrative.
Allo stesso modo, nel modello neoliberale quel che spicca è una tendenza alla amministrativizzazione della norma e della sentenza e una pervasività della norma tecnica soft.
Su quest’ultimo punto, da te richiamato nella domanda, mi interessava di nuovo il discorso di metodo (più che di merito) sotteso alla questione delle norme tecniche e della soft law.
Ove ho evidenziato un diverso modo di approcciare al tema.
Quella più mainstream è l’impostazione che vede l’ascesa di fonti diverse da quelle primarie e secondarie nell’era della globalizzazione dei mercati e della tecnicizzazione del mondo. È presente in questa lettura la presa d’atto della crisi della legalità in esso insita, e il contestuale tentativo di trovare “freni” all’anti-sovrano (Luciani), che vanno dalla legalità procedurale al controllo delle corti. Questo primo punto di vista presuppone un’idea di “norma tecnica” più legata all’uso corrente della locuzione, intesa come “normativa tecnica”, cioè come insieme di regole che qualificano deonticamente una tecnica o che attuano norme più generali, ossia ne specificano le modalità di esecuzione/applicazione.
C’è poi la definizione più filosoficamente connotata di “regola tecnica”, che si fonda sulla distinzione kantiana tra imperativo ipotetico e imperativo categorico, poi sviluppata dai filosofi analitici, che inquadra le regole tecniche, diverse da quelle categoriche, fra le regole che prescrivono un comportamento in quanto mezzo per perseguire un determinato fine, secondo lo schema: se si vuole Y, si deve X. Questo concetto di regola tecnica, a rigore, si distingue dalle regole tecniche sopra indicate, definibili invece come regole tecnonomiche e come regole tecniche d’attuazione.
La prima prospettiva, maggiormente presente fra i costituzionalisti, porta sovente ad accedere ad un’idea non tanto di crisi della legge, ma più ampiamente di crisi del diritto come sistema di veridificazione del potere, per dirla con Foucault , e sempre con quest’ultimo ad evidenziare il sistema sapere/potere insito a questi fenomeni, connotando la soft law come “resa” del sistema democratico rappresentativo a una serie di ideologie forti, su tutte quella neoliberale dell’effettività , che prevale sul modello kelseniano della validità.
La seconda appare più neutra, in quanto volta a sottolineare le origini della soft law nel diritto internazionale e in quello societario, le sue diverse manifestazioni (cd. pre-law, post-law, para-law), i suoi caratteri, e soprattutto a mostrarne la naturale connessione con la “tecnificazione” del mondo e quindi del diritto. Questa prospettiva predilige percorsi di “giustificazione” e indagini sulla “giuridificazione” del fenomeno (e di allontanamento di esso dal modello nichilista alla Irti-Severino, e prima heideggeriano) ad esempio valutando in profondità questi meccanismi come strumenti di riduzione luhmanniana della complessità, e così rileggendo fenomeni come quello delle “norme interne” (Fracchia-Occhiena). Questo secondo approccio, più diffuso fra gli amministrativisti, sembra assecondare meglio la prospettiva della filosofia analitica sopra richiamata, che non a caso vede nella regola tecnica un sistema defettibile, più trasparente e adatto, proprio in quanto confutabile, ai contesti socioculturali che viviamo, all’insegna del principio di effettività sopra richiamato.
(M.T.) 4) Controcorrente è anche il tuo approccio alla digitalizzazione. Esamini tutte le questioni oggi sul tappeto, dai limiti all’impiego degli algoritmi, al controllo giurisdizionale sulle decisioni automatizzate. Ma metti in rilievo una questione di particolare interesse, che quasi sempre sfugge agli osservatori. Ovvero che le maggiori insidie della digitalizzazione risiedono non tanto nelle decisioni automatizzate, poiché il tema è sotto gli occhi di tutti e si stanno predisponendo principi per il controllo delle stesse, ma nelle analisi predittive del comportamento dei consociati attraverso gli strumenti informatici. Queste analisi, tu dici, non si traducono immediatamente in una decisione puntuale ma condizionano in vario modo l’attività amministrativa, dall’apertura dei procedimenti allo sviluppo dell’istruttoria, fino alla vera e propria decisione. Ti chiederei di sviluppare se possibile brevemente questi spunti e di farci cogliere più da vicino quale possa essere il condizionamento dell’attività amministrativa puntuale attraverso l’impiego della tecnologia informatica a monte. Rischiamo che l’interesse pubblico primario definito dalla legge sia sostituito dall’interesse pubblico come risultante dalle analisi predittive degli elaboratori informatici?
(G.T.) Concordo.
Nell’ambito delle riforme un tema di grande rilievo è certamente quello della digitalizzazione dell’amministrazione, altra sfida al centro del PNRR per l’efficientamento amministrativo, ma al contempo potenziale risvolto neo-autoritario del neoliberalismo panottico e della sorveglianza, descritto nel famoso libro di Zuboff. Peraltro, la moltiplicazione dei dati a disposizione e la crescente complessità delle decisioni amministrative da prendere apre le porte al tema della decisione algoritmica, che impatta in modo enorme sul procedimento e l’attività amministrativa tradizionali, si pensi al tema della decisione discrezionale e al rapporto coi principi di responsabilità/imputabilità e legalità.
Come hai rilevato giustamente, sul punto la nostra giurisprudenza amministrativa è molto avanzata, sulla scorta dei principi del human in the loop, della non discriminazione algoritmica, della trasparenza vista come conoscibilità ma soprattutto comprensibilità dell’algoritmo.
E tuttavia restano aperte immani questioni, ad esempio nei procedimenti ad alto tasso di discrezionalità, in cui le incognite sono moltissime e la capacità computazionale e predittiva dei big data può essere più proficua.
Per non parlare di altri temi connessi alla questione della digitalizzazione dell’amministrazione, cioè alla regolazione e alle politiche pubbliche in materia, e quindi di nuovo al tema della sorveglianza digitale e dei grandi poteri privati, traguardati sotto il profilo inedito della regolazione soft, che sperimenta oggi nuove forme, come il nudge, talora declinato nelle innovative, per molti inquietanti, tecniche della gamification e del social scoring nelle politiche pubbliche.
Nel primo caso si tratta dell’utilizzo di elementi ludici, spesso digitali, a supporto di funzioni di regolazione pubblica, nei campi più svariati, che vanno dalle politiche ambientali a quelle del traporto pubblico, passando, appunto, per la sicurezza e il decoro urbano.
Quanto al social scoring, si pensi al seguente esempio. Siamo nel 2010, nella municipalità di Suining. I residenti che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età sono i primi a testare il sistema di credito sociale. L’esperimento misura i comportamenti individuali. Premia i virtuosi e punisce chi non rispetta le regole del vivere civile. Vi prendete cura di un familiare anziano? Cinquanta punti per voi. Vi arrestano per guida in stato di ebbrezza? Avete perso cinquanta punti. I cittadini di fascia A ottengono la priorità all’accesso a tutti i servizi sociali. Per i cittadini di fascia D, invece, ottenere licenze e autorizzazioni può richiedere tempi molto superiori alla media. Accedere ai servizi pubblici essenziali è più difficile, o più costoso. Viaggiare fuori dal Paese può divenire impossibile.
Si hanno svariate criticità: sia quella di natura etica, legata al rischio della manipolazione, sia quella connessa del «paradosso dei disincentivi», che si manifesta nel cittadino che, proprio a fronte di tale tecnica manipolatoria, finisce per avere una percezione critica del regolatore pubblico. A ben guardare, peraltro la critica assume dimensioni anche giuridiche, nella misura in cui si ritenga che l’autonoma formazione della volontà costituisca una componente essenziale della “libertà reale”, ossia della effettiva libertà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti, garantita dalla Costituzione.
Si è parlato di “psicopolitica” per descrivere un fenomeno in cui si passa dalla biopolitica, alla quale interessava il controllo regolativo della “popolazione” e in tal senso usava le statistiche demografiche, a un modello regolatorio nuovo connotato dai big data, più adeguato all’assetto neoliberale, nella misura in cui si accede così agli strati più profondi della psiche collettiva.
(M.T.) 5) Dedichi grande attenzione alle tendenze attuali del comportamentismo e soprattutto alla c.d. nudge theory in quanto ritieni che la sostituzione del modello di ordini e divieti con la spinta gentile sia un tratto caratterizzante del modello della governamentalità neoliberale. Di particolare interesse è l’analisi dell’impatto del nudge su concetti tipici del diritto amministrativo che svolgi commentando il libro di A. Zito di questi temi. Zito sostiene che bisogna guardare al potere amministrativo non solo come situazione giuridica soggettiva esercitata dalla p.a. per la produzione di un effetto giuridico ma come “fenomeno di influenza intenzionale sulle azioni altrui, per il raggiungimento di uno scopo proprio di chi esercita il potere” Mi domando se sono due definizioni mutualmente esclusive. In ogni caso, vorresti dirci quali sono a tuo avviso i pregi e i limiti di questa impostazione che utilizza il comportamentismo per la rilettura delle categorie tipiche del diritto amministrativo?
(G.T.) Il libro di Zito è tra i più originali e interessanti che siano stati scritti negli ultimi anni.
Zito è ben consapevole che la teoria del nudge non può essere semplicemente accolta attraverso mere giustapposizioni comparate o la semplice ibridazione con le competenze di economisti, psicologi e linguisti, sicché teorizza una radicale ridefinizione del potere amministrativo, enfatizzando la categoria foucaultiana di potere governamentale.
Egli ha ragione nel rilevare che la tendenza a risolvere il potere nel solo potere giuridico ha impedito l’analisi su altri tipi di potere che non possono dirsi del tutto privi di rilevanza giuridica. Effettuando tale interessante tentativo di traslazione sul piano delle categorie giuridiche familiari al giuspubblicista, osserva che il potere governamentale non si esercita attraverso la predisposizione di regole di condotta e non ricorre alla minaccia o alla costrizione; allo stesso modo, nell’ambito giuridico ci si dovrebbe discostare dalla tradizionale tecnica del command and control, connotante i più tradizionali schemi di potere normativo e disciplinare. Si rileva, quindi, che, in questo rinnovato scenario: «potere amministrativo in senso giuridico non sarà più solo quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto, ma anche quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto nella realtà materiale».
Consiglierei per cogliere questo fondamentale passaggio la lettura di un filosofo del diritto palermitano (Brigaglia), ben conosciuto e richiamato da Zito, che riflettendo su Foucault ha osservato che il potere in Foucault viene progressivamente sganciato dall’ipoteca giuridica, nella quale tutto sommato si trovava ancora nella concezione conflittualistica e ultra-radicale delle prime opere, per pervenire a un’idea di potere governamentale più pervasiva e puntiforme proprio con l’affermazione definitiva del neoliberalismo.
Corollario garantistico di tale ampliamento della nozione di potere giuridico è che sia nel caso del classico potere autoritativo che nel caso del potere volto a influenzare le condotte dei destinatari si sarà comunque in presenza di esercizio della funzione amministrativa volta alla cura dell’interesse pubblico, con la conseguenza della necessaria applicazione delle regole formali e sostanziali che ne disciplinano l’esercizio.
A me pare, tuttavia, che persistano delle questioni aperte.
Zito, nella misura in cui sposa – coerentemente – una visione non edulcorata del nudge, che ne implica la non trasparenza, taglia implicitamente fuori tutte quella ricostruzioni che, invece, ne ammettono la configurabilità sistematica a patto di preservare detta trasparenza.
D’altra parte, se il vero nudge è quello non trasparente, non si comprende poi come sia possibile (peraltro al prezzo di una forzatura normativa), ritenere che gli atti regolatori generali e pianificatori comportanti nudge debbano aprirsi alla partecipazione del cittadino, al fine di compensare il deficit di legalità sostanziale che esso porta con sé.
Per non parlare del tema della sindacabilità giurisdizionale, anch’esso ritenuto correttivo importante rispetto alle insidie del nudge, ma che tende ineluttabilmente a recedere di fronte a scelte che più che tecniche appaiono di tipo politico-amministrativo, dunque connotate da grande discrezionalità.
Lungi dal configurarsi come una “terza via” tra utilitarismo e teorie decisioniste “à la Schmitt”, il nudge sembra riproporre lo schema utilitaristico del «governo degli interessi» e il lato oscuro del diritto amministrativo “alla felicità” di cui oggi tanto si parla.
C’è quindi una evidente relazione tra utilitarismo benthamiano, nudge, e neoliberalismo. Nella Nascita della biopolitica, Foucault definisce questo metodo di governo come l’approccio utilitarista del liberalismo, «quello con cui abbiamo minore familiarità, ma senza il quale non riusciamo a comprendere correttamente il neoliberismo contemporaneo».
Il nudge finisce per essere, in tale schema, il dispositivo di questo potere, che è tanto più flessibile, fluttuante e mutevole quanto più richiede di esserlo l’insieme dei meccanismi che rendono possibili i processi di assoggettamento al potere connotato utilitaristicamente come governo degli interessi. L’influenza paternalistica si allea con la libertà individuale, creando all’interno del nudge le condizioni di questa convergenza.
Nell’epoca neoliberale, quindi, il nudge emerge come una sorta di meccanismo correttivo tra la tendenziale incompatibilità del diritto col soggetto di interesse, tra l’homo juridicus e l’homo economicus. Si configura, così, una strategia normalizzante, un potere che, come una “catena invisibile”, cerca di evitare l’azione repressiva plasmando desideri legittimi.
(M.T.) 6) Sempre in relazione al nudge non manchi di manifestare le tue preoccupazioni rispetto alla formazione autonoma della volontà degli individui che è un presupposto della loro libertà. Che il nudge risenta profondamente del paternalismo non c’è dubbio e fai bene a mio avviso nel sottolineare le aporie del c.d. paternalismo libertario. Tuttavia vorrei farti una domanda specifica: prevedere che il possesso del green pass sia necessario per svolgere determinate attività è più o meno limitativo delle libertà dell’individuo rispetto all’imposizione dell’obbligo vaccinale?
(G.T.) Capisco perfettamente il senso della tua domanda.
A mio avviso il nostro giudice amministrativo e quello costituzionale in entrambi i casi hanno correttamente legittimato l’azione del Governo, ma i fenomeni vanno distinti.
Mentre nel primo caso il leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare [...] essere stato il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità [...] non solo nazionale, nel secondo caso si è trattato di nudging, con cui si intende promuovere per l’appunto la vaccinazione.
Specie per il “Super Green pass” taluni problemi sussistevano effettivamente, come la mancanza di un chiaro limite temporale di durata di quelle misure emergenziali e varie discriminazioni che possono porsi, per cui non si è reputato un taboo prospettare un obbligo vaccinale generalizzato.
Ma a mio avviso il tema principale è stato un altro, ossia la trasparenza.
Un documento critico di A.N.M., pur smentito poi da dottrina e giurisprudenza, tocca un punto importante, nella misura in cui – senza menzionare espressamente il tema del nudge – intreccia la questione della trasparenza, differenziando l’intervento italiano da quello francese. In questo secondo caso si nota, infatti, l’assunzione di una decisione in un quadro di trasparente dibattito pubblico e con il coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali.
Il nostro Consiglio di Stato, consapevole forse di tali rilievi, nella nota sentenza sull’obbligo vaccinale anti-Covid nei confronti dei sanitari, collega il nudge alla trasparenza, ritenendo il primo veicolo di consenso informato e autodeterminazione.
Torna qui la questione sopra richiamata: se in questi casi il nudge è trasparente, di vero e proprio nudge si tratta?
(M.T.) 7) Non poteva mancare un capitolo sulla sicurezza pubblica, che è motivo ricorrente in tutte le analisi biopolitiche. Commentando un recente libro di R. Ursi, affronti pressoché tutte le questioni attuali su questa multiforme tematica. Vorrei solo fermare due osservazioni. La prima è che la crisi del welfare state ha determinato una riespansione della sicurezza pubblica: le politiche di sicurezza prendono il posto delle politiche sociali. A questo proposito vorrei chiederti se questa evoluzione segna soltanto un cambio di etichetta oppure influisce sul contenuto delle politiche. In altre parole, quale è il tipo di intervento sociale di uno Stato che a tal fine si serve delle misure di sicurezza pubblica? Il secondo aspetto che ho trovato di grande interesse è la critica alla dimensione c.d. orizzontale assunta dalla sicurezza. Prima l’ordine pubblico era considerato monopolio statale, adesso vi sono forme diffuse di esternalizzazione della sicurezza, dalle ronde alla gestione privata della vigilanza nelle carceri. Quali sono a tuo avviso i lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito?
(G.T.) La questione implicherebbe la necessità di soffermarsi su come i seguaci di Foucault (penso per tutti a Castel) abbiano approfondito il rapporto fra biopolitica e stato sociale, poco sviluppato in Foucault.
Mentre in Agamben vi è un’interpretazione più drammatica della biopolitica, che egli lega alla sovranità, nella linea foucaultiana la biopolitica è decostruzione della sovranità perché oppone alla sovranità il paradigma disciplinante dall’interno e non dall’alto. Naturalmente si considera qui anche quel filone di studi che discende da Foucault, che ha utilizzato la nozione di dispositivo biopolitico per problematizzare e meglio decodificare dinamiche derivanti dalla crisi del Welfare State nel capitalismo maturo.
Il processo di macro-trasformazione che investe il legal system, legato alla parabola Welfare State biopolitico, si sviluppa in due momenti, connessi rispettivamente, a “funzionamento” e “disfunzionamento” del Welfare State, investendo due distinte dimensioni del legal system: prima, la dimensione di produzione normativa, dando luogo al processo di giuridificazione sociale; in un secondo momento (quando il Welfare State declina) il mutamento riguarda gli apparati giurisdizionali, dando luogo al fenomeno della giudiziarizzazione del sociale, effetto, quest'ultimo, condizionato da una modificazione qualitativamente intensa della cultura giuridica del tempo, come termine di mediazione tra mutamento sociale e mutamento giuridico.
Una vera e propria amministrativizzazione dell’attività del giudice, che appunto si manifesta con particolare rilevanza e veemenza soprattutto nel campo paradigmatico della tutela della concorrenza, all’insegna della parola chiave effettività, vettore di tale eccedenza.
Mentre la biopolitica del Welfare è essenzialmente una strategia governamentale che accetta la triade libertà-proprietà-mercato, ma risponde almeno parzialmente alla sfida dell’insicurezza prodotta dal mercato, la biopolitica neoliberale governa i processi sociali attraverso l’individualizzazione. Priva cioè i singoli dei supporti del Welfare e li spinge ad adeguarsi responsabilmente alle logiche del mercato.
Sui lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito, nella tua domanda c’è già un abbozzo di risposta. Non tornerò quindi su temi noti, quali le ronde o l’esternalizzazione delle carceri.
Mi limito ad aggiungere, per collegare la risposta alla prima parte della questione, che vi è chi teorizza pure una biopolitica post-disciplinare, propria dei tempi di crisi del Welfare State.
Alla base di ciò c’è una “truffa delle etichette”: qualche anno fa quando alcune correnti dottrinali, fondandosi sul carattere (asseritamente) aperto dell’art. 2 Cost., hanno teorizzato un inedito (almeno per la nostra tradizione continentale) “diritto alla sicurezza”, con le ricadute negative che ciò ha avuto nelle discutibili applicazioni dei princìpi di sussidiarietà – verticale e orizzontale – che hanno fondato le politiche pubbliche della sicurezza negli ultimi anni, non solo in Italia.
L'esaurimento delle tecniche di controllo disciplinare operative attraverso dispositivi e istituzioni, che anticipavano e rendevano possibile l'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), non significava fine della biopolitica, ma probabilmente, evoluzione della stessa. Lo scopo specifico del modello neobiopolitico d'integrazione lato sensu sociale, appare la responsabilizzazione del soggetto, l'individualizzazione del sociale, promuovendo una forma governamentale di potere finalizzata ad irreggimentare le forme cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli; un sistema, quello neobiopolitico, basato su flessibilità, esaltazione di responsabilità individuali e facoltà cognitive, un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili a ogni contesto. Centralità in questo modello viene data alle risorse comunicative e relazionali, alle risorse "sociali" produttive di "comunità", utilizzate (paradossalmente) per la de-socializzazione della moltitudine, la singolarizzazione delle responsabilità. La giustizia riparativa, ad esempio, potrebbe rappresentare un veicolo per questa forma tardo-moderna di biopolitica.
Si pensi anche, oltre ai temi da te menzionati, al governo del territorio. Il dinamismo delle trasformazioni impone alle istituzioni di mantenere costante consapevolezza della reale destinazione dei luoghi. Talora è necessario prendere atto di svolte non previste nella funzionalizzazione di spazi. La crisi del welfare e l’abbandono delle politiche della casa popolare alimenta la spazializzazione dei conflitti. Mi riferisco alle cd. gated communities. Si tratta di aree residenziali, con accesso limitato che rende privati spazi normalmente pubblici. L’accesso è controllato da barriere fisiche, pareti o perimetri recintati e da ingressi custoditi o chiusi da cancelli. Le gated communities precludono l’accesso del pubblico alle strade, ai marciapiedi, ai parchi, agli spazi aperti, e alle aree da gioco, tutte risorse che sarebbero state aperte e accessibili a tutti i cittadini di una località.
È chiara qui la crisi delle teorie sulla «città sostenibile» quale luogo di affermazione del diritto fondamentale «alla città» ed elemento delle politiche di sviluppo sostenibile elaborate a livello internazionale ed europeo.
(M.T.) 8) Il capitolo finale è dedicato alla giustizia amministrativa. In realtà l’attenzione alla giurisdizione è una costante dell’intero libro come della tua vasta produzione scientifica. In quasi tutti i capitoli emerge l’immagine di un giudice che esorbita dalla funzione tradizionale del processo, che è quella di risolvere liti. Il protagonismo del giudice è fenomeno oggi osservato da tutti e a tutti i livelli, ma la caratteristica del tuo lavoro è di trovarne una spiegazione all’interno del modello neoliberale. La governamentalità diffusa che caratterizza questo modello fa sì che il giudice si senta e agisca anch’egli come tessitore di una trama funzionale all’esaltazione del mercato e della concorrenza. Anzi, di più: il giudice subisce nella sua azione la logica del mercato e in qualche modo mette a servizio dello stesso il suo potere precettivo. Vorresti indicarci brevemente perché intravedi tutto questo in prassi giudiziali che anch’io osservo con una certezza preoccupazione: dall’insistenza del giudice sulla clausola dell’abuso del processo, alla rivalutazione dell’interesse procedimentale nell’ambito del contenzioso sui contratti pubblici, per finire al prospective overruling?
(G.T.) Ho cercato qui, in effetti, di trovare una linea esplicativa di fenomeni che noi tutti abbiamo quotidianamente modo di osservare, anche nella rivista e in chat. E ho questa volta compiuto un’indagine di metagiurisprudenza su quella che mi sembra l’ideologia di fondo del nostro g.a.
Un’operazione che andava molto di moda negli anni ’60 (Cappelletti, Cassese), ma oggi ha perso un po' di fascino. Al contrario, In Francia si segnalano indagini sulla giurisprudenza amministrativa in chiave neoliberale, ma si tratta di analisi eminentemente storiche.
A mio avviso ci troviamo dinnanzi a un nuovo, e inedito, neoliberale “uso alternativo del diritto”.
In un senso più mainstream tale definizione può considerarsi insita nei caratteri del giudice amministrativo inteso quale giudice del grande contenzioso economico del nostro Paese, e non solo.
Mi pare però opportuno mettere in luce un secondo punto di vista, meno scontato. Il nostro giudice e la sua sentenza si collocano al centro del rimodellamento dello Stato in Stato amministrativo, che ha sinora trovato la sua acme nell’esperienza pandemica ma che, specie nel settore della concorrenza e della sua tutela, ha già manifestato importanti mutazioni di ordine istituzionale. Il fenomeno è generale: si parla (F. Ost) di un passaggio da un giudice-Giove, il giudice arbitro dello Stato liberale fedele al principio dispositivo, a un giudice-Ercole, il giudice dello Stato interventista che si occupa della gestione degli interessi minacciati nello Stato sociale; ma soprattutto si aggiunge una nuova figura: il giudice-Ermes, che illustra perfettamente il fenomeno di una nuova regolamentazione propria di una società dove le regole e i governi istituiti gerarchicamente lasciano il posto ad una moltitudine di reti e di poteri in costante interazione. In tale contesto lo Stato rinuncia alle grandi politiche di welfare e diventa riflessivo e procedurale, preferendo affidare ai partner interessati lo sviluppo di un diritto concordato, flessibile, regolabile e fluido.
Ciò è avvenuto all’insegna di alcuni vettori retorico-argomentativi della governamentalità neoliberale: la buona fede e l’abuso del diritto e del processo, la tutela della concorrenza appunto, il principio di effettività della tutela (applicato spesso per erodere il principio di autonomia procedurale degli Stati dell’UE).
La nozione di effettività e quella di giusto processo divengono vettore di politiche giurisprudenziali neoliberali, consentendo progressivi smottamenti dall’istanza nomofilattica a quella nomopoietica. Essa appare come grimaldello interpretativo capace di fare affermare la prospettiva assiologica dell’interprete, specie se declinato nel contesto valoriale proconcorrenziale europeo.
Peraltro, qui c’è una seconda “truffa delle etichette”, come si evidenzia nella questione dell’abuso del processo e della meritevolezza della tutela. Il suggestivo “mantra” della giurisdizione come “servizio pubblico”, e non più “funzione pubblica” tradizionale (tesi che già in sé sarebbe discutibile, in quanto in senso molto lato anche la difesa e l’ordine pubblico sono “servizi” rivolti al cittadino, ma di essi non si mette in dubbio il carattere di “funzione”), svela un uso fuorviante di un concetto che – solo apparentemente – si rivela in linea con i diritti costituzionalmente tutelati del cittadino, portando, al contrario, come conferma l’insistito richiamo al principio di proporzionalità nel processo, alla diversa (e temibile) prospettiva “orizzontale” del bilanciamento, fra un diritto fondamentale (diritto d’azione) e un interesse pubblico (giusto processo nella sua declinazione in termini “economico/efficientistici”) .
L’effettività della tutela resta certamente centrale per la giurisprudenza, ma alla dottrina spetta un importante compito di segnalazione e controllo, affinché i rischi della «distorsione da desiderabilità sociale» (Villata) non determinino un’alterazione eccessiva del confine, sì mobile, ma a un certo stadio invalicabile, dell’assetto costituzionale tra Giudice e Amministrazione e Giudice e Legislatore.
(M.T.) 9) L’incipit del titolo dell’epilogo del libro è eloquente: “senza respiro?”. In effetti dalla lettura complessiva del libro emerge un panorama desolante. La rappresentanza politica non conta più niente. Le funzioni dello Stato sono confuse e si sovrappongono continuamente. Tutto obbedisce a una sola logica, che è la logica del neoliberalismo. Però tu sostieni che nel libro “non c’è solo decostruzione, facile se si segue la strada della radicalizzazione biopolitica, ma c’è anche desiderio di ricostruzione”. La ricostruzione, tu dici, passa “dal recupero dei capisaldi del pensiero liberale, e da un certo formalismo e positivismo temperato che ha sempre animato il mio lavoro”. Ma, se è corretta la tua analisi biopolitica, non sono questi a propria volta dogmi che la realtà si è presa carico di smentire, e da tempo? Inoltre, la proposta di trovare la soluzione in una “rivisitazione in chiave produttiva e affermativa della biopolitica”, e in particolare nella promozione di un’etica e una politica come “immunizzazione di gruppo contro la bassezza”, non ti pare una soluzione tendenzialmente elitaria?
(G.T.) Sul positivismo temperato ho già detto.
Vorrei qui aggiungere qualcosa sulla prospettiva della biopolitica affermativa, per provare a rintuzzare il tuo rilievo sulla prospettiva elitaria che pare discendere da questa proposta.
Al contrario, a me pare elitario e desolante lo scenario di Agamben. L’approccio di questo importantissimo filosofo lascia spesso il giurista in uno stato di sgomento, dinanzi alla deriva decostruttivista cui è andato sovente incontro; ma è anche per questa ragione che il giurista deve provare a dare una risposta alla sfida lanciata dalle componenti più radicali del pensiero moderno: quare siletis juristae in munere vestro? In questi mesi qualche giurista (es. Laura Buffoni) ha provato a dare risposte alle domande di Agamben, ma esse sono state tenute in non cale dal filosofo, che tuttora parla di un’intera società complice e di un nuovo patto hobbesiano, estrema configurazione della biopolitica, in cui il non-complice è escluso dal patto sociale.
Ho pensato di scrivere questo libro anche perché mi è parso che in questi anni la biopolitica sia stata usata dal giurista più come orpello argomentativo che scendendo nelle sue implicazioni più intime (con alcune notevoli eccezioni, che non a caso sono state molto approfondite, penso ai libri di Perfetti, Zito, Portaluri, Fracchia-Occhiena).
Si è trattato di un tentativo apparentemente aporetico, se si considera lo scetticismo per la versione giuridica del potere presente in Foucault, e soprattutto i suoi sviluppi “destituenti” (la tanatopolitica) in pensatori come appunto Agamben.
Sennonché a mio avviso non è solo questo il modo in cui il potere e il diritto amministrativo possono avvalersi di quel pensiero, come dimostrano correnti filosofiche maggiormente disposte a colliquare col diritto pubblico, ad esempio l’elaborazione feconda della nozione di istituzione in Roberto Esposito.
Il filosofo napoletano ha prima rielaborato la nozione di pensiero istituente, in cui si tenta una ricomposizione tra vita e istituzione, drasticamente separate proprio dalla figura del potere. Ciò è confermato dalla speculare visione di Foucault e Arendt: se il primo critica le istituzioni perché repressive del libero corso della vita, la seconda individua nella vita biologica la forza irresistibile che dissesta le istituzioni, consegnandole alla violenza. Si conclude così nel senso di ripensare la categoria della biopolitica, superando quella divaricazione latente tra quello che ad alcuni appare potere assoluto sulla vita e ad altri una vita libera da ogni potere. Bisogna, quindi, integrare il paradigma istituente e quello biopolitico in modo produttivo per entrambi.
Più di recente egli ha ritenuto – con la felice sintesi ossimorica dell’immunità comune – che l’immunità possa non essere, come in passato, una lama che taglia la comunità svelando il lato oscuro/securitario delle varie forme del paradigma moderno di immunizzazione (sovranità, proprietà, libertà), ma che possa divenire la stessa forma della comunità.
Ecco perché si parla di biopolitica affermativa, non più sulla vita ma della vita, conciliabile finalmente con la libertà e la vita degli individui.
Nella mia citazione finale a Sloterdijk il disprezzo è riferito all’approccio cinico e rassegnato del complottista in questi terribili anni, mentre la prospettiva è quella che, pur consapevole dei tanti rischi di derive autoritarie insite nell’evoluzione tecnica e scientifica, non rinuncia a cercare modelli di integrazione – anche sul piano giuridico – tra tecnica e natura.
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