ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione: la novità della sentenza - 2. La valutazione della rarità nei due gradi del giudizio - 3. Osservazioni sul sindacato e sui punti di novità - 4. Il sindacato di legittimità e la sua estensione - 5. Il problema della sostituzione.
1. Introduzione: la novità della sentenza.
La sentenza in esame riguarda la discrezionalità tecnica in materia di beni culturali, nel caso di un’autorizzazione alla libera circolazione del bene. È interessante perché entra nel vivo della valutazione tecnica, la rarità di un dipinto di Morandi. Il Consiglio di Stato valuta la rarità con il criterio della “specifica” e maggiore attendibilità scientifica. Si inscrive così in quell’orientamento recente, che mette l’accento sulla attendibilità prevalente.
La sentenza è interessante anche per un altro aspetto: considera non solo la parte del fatto ma anche quella del diritto. In “linea di diritto”, dice la sentenza, l’interesse culturale è nella norma giuridica, nell’art. 68 del Codice dei beni culturali, e la sua “importanza” è nella considerazione della norma stessa.
Infine, la sentenza ridefinisce i criteri del sindacato sulla discrezionalità tecnica. Viene fuori così il problema del limite e della sostituzione nel merito; su questo punto la sentenza individua un limite inedito, tentando la risoluzione dello storico problema.
Si delinea così una sentenza che offre una gamma di principi. E, riteniamo, qualcosa di diverso nel modo di sentire e di rappresentare il sindacato di legittimità sulla discrezionalità tecnica[1]. Questo modo, in fondo, riflette l’idea stessa della giurisdizione e dei suoi limiti. Corrisponde a un grande e noto dibattito, anche nella dottrina contemporanea, specie per un suo profilo, l’alternativa tra sindacato debole e sindacato forte, quando vi sia un concetto giuridico indeterminato. Conviene dunque studiare il caso, che già fa emergere tutto il problema. Infine, si potrà fare un’osservazione sull’idea di legittimità, quando in essa entri un concetto, e un interesse, indeterminato.
2. La valutazione della rarità nei due gradi di giudizio
Si tratta dell’opera Fiori, di Giorgio Morandi, dipinto a olio del 1943, proveniente dalla collezione Plaza di Caracas e poi giunto a Milano e appartenente a un soggetto privato. Il proprietario chiede l’autorizzazione alla libera circolazione del bene e il Ministero adotta un provvedimento di diniego. TAR Lombardia, sez. III, Milano, 20 aprile 2022 n. 880 annulla il diniego, mentre la sentenza in esame accoglie l’appello dell’amministrazione e conferma la legittimità del diniego.
Tutto il punto è sul giudizio di valore: l’interesse culturale e la sua importanza. Nella valutazione tecnica, l’importanza si traduce in rarità e qualità dell’opera.
Nel particolare, il provvedimento nega l’autorizzazione alla circolazione ai sensi dell’art. 68 del decr. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, che rinvia ad un decreto ministeriale. La norma dell’art. 68 prevede che l’amministrazione possa autorizzare o negare la libera circolazione “con motivato giudizio”, accertando “se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico … a termini dell'articolo 10. Nel compiere tale valutazione gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministro”.
Gli indirizzi sono adottati con D.M. 6 dicembre 2017, n. 537, “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell'attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico”.
Il decreto ministeriale enuncia sei criteri di valutazione, che permettono di desumere “l’importanza” dell’interesse culturale. In questo caso, l’Ufficio dei beni culturali ne utilizza quattro:
1. qualità artistica dell'opera;
2. rarità in senso qualitativo e/o quantitativo
3. rilevanza della rappresentazione;
4. testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo.
Di conseguenza, l’Amministrazione ritiene che Fiori del 1943 sia un’opera rara, di rilevante rappresentazione, una testimonianza significativa per la storia del collezionismo. Per questi motivi adotta il diniego.
Il Tar annulla il diniego per vizio della motivazione. Ritiene la motivazione inadeguata, perché mostra una decisione che non ha osservato il criterio della rarità, in senso qualitativo e in senso quantitativo.
È dimostrato dal ricorrente, dice la sentenza, che Morandi ha dipinto i Fiori più volte e che vi sono “moltissimi dipinti simili”, in collezioni pubbliche o in contesti privati vincolati; precisamente: “Rose (Fiori), 1917, Collezione Gianni Mattioli e ora in presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia; Fiori, 1918, conservato alla Pinacoteca di Brera a Milano e lascito di Vitali; Fiori 1924, Fiori 1950 e Fiori 1958, presso il Museo di Bologna; Rose secche (Fiori), 1940, Fiori 1941 e Fiori 1952, conservati presso la Casa Museo Boschi di Stefano a Milano; Fiori 1940, Fiori 1943, Vaso di fiori 1947, Fiori (Vaso di fiori) 1950 e Fiori (Vaso di fiori) 1951, mantenuti presso la Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi a Firenze; Fiori 1952 esposto al MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto; Fiori 1946 e Fiori 1957, parte della Collezione Enos e Alberto Ferri, in deposito in comodato Gratuito al Museo di Bologna; Fiori 1954 della Collezione Cerruti di Torino; Fiori 1940 e Fiori 1962 conservati presso il Museo d’Arte Moderna Mario Rimoldi a Cortina d’Ampezzo” .
Esistono, dunque, “quasi venti opere, tutte col medesimo soggetto, conservate in pubbliche collezioni, di cui sette con datazione simile a quella per cui è causa”.
Dunque, secondo il Tar, non è dimostrata la rarità del dipinto. Non c’è, in particolare, quella “rilevanza” o “diversità” del dipinto in esame rispetto alle restanti opere similari già tutelate, come invero richiesto negli indirizzi ministeriali”. D’altro canto, secondo il Tar, la motivazione del diniego enfatizza altri aspetti: la circostanza che si tratti di “fiori naturali anziché secchi”, la presenza dei Topinambur nella composizione del vaso, la firma dell’autore e la data 1943; ma questi elementi, per il Tar, non denotano alcuna rarità o “diversità”; al più, potrebbero denotare la qualità artistica dell’opera”, cioè soddisfare il primo criterio (l’elemento n. 1 dei criteri del D.M. citato), ma, conclude il Tar, per disposizione del decreto ministeriale, la qualità non può mai essere l’unico criterio di prevalenza e quindi anche in questo caso la valutazione sarebbe illegittima.
In appello questa valutazione si rovescia. Per il Consiglio di Stato, la premessa è in “linea di diritto: la dichiarazione dell’interesse culturale «accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto» dell’«interesse particolarmente importante» (combinato disposto degli articoli 10, comma 3, lett. a) e art. 68 del Codice)”.
L’importanza dell’interesse, dunque, si desume dal decreto ministeriale e dai suoi criteri, ma cambia la lettura. Mentre il Tar riteneva che quei criteri non siano osservati, perché le quasi venti opere sui Fiori possono dimostrare che non c’è rarità qualitativa del dipinto, secondo il Consiglio di Stato questo giudizio è in contrasto con i “limiti del sindacato” di legittimità e con le “risultanze degli atti”.
La sentenza del Consiglio di Stato ribadisce che il caso è in tema di “discrezionalità tecnico-valutativa” e richiama le note distinzioni con la discrezionalità amministrativa[2].
Nel caso in esame, dice il Consiglio di Stato, “l’interesse culturale dell’opera viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto <<mediato>> affidato alla valutazione dell’Amministrazione. Ne consegue che il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione”. (4.2).
Il giudice deve di regola verificare se “l’opzione prescelta dall’amministrazione rientri nella gamma delle risposte plausibili e convincenti alla luce delle scienze. È possibile, dunque, che l’interessato possa “contestare il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso”, ma ha “l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile” (4.3).
Infine, per la prova, quando si confrontano “opinioni divergenti, tutte parimenti argomentabili”, il giudice deve dare “prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla posizione <<individuale>> dell’interessato”.
La Sezione applica dunque questi principi al caso di specie (par. 5). Così, i motivi accolti dal Tar, i motivi di non rarità, si “scontrano con la sola opinabilità delle valutazioni ministeriali e non possono dirsi scientificamente inaccettabili”. Sono “diverse valutazioni di merito” e quelle ministeriali non sembrano meno pregevoli, anzi.
La sentenza passa così alla valutazione specifica della rarità (par. 6). Ritiene che la relazione storico-artistica, assunta a motivazione del provvedimento impugnato, spieghi e dimostri la rarità. Nel particolare, “Morandi, 1943”, è indicazione di un momento storico particolare e rivela il fatto inedito che l’Autore intendeva reagire alle brutture della guerra con un’espressione originale, non ripetitiva delle altre nature morte sui i fiori secchi, ma con una creazione diversa, ritraendo i Topinambur, fiori rari in botanica. Così si dimostra la rarità dell’opera e, quindi, la sua importanza storica e stilistica.
3. Osservazioni sul sindacato e sui punti di novità
Si svolgono alcune osservazioni su questo tipo di sindacato, per punti.
a. La questione della rarità costituisce il nucleo interno dell’apprezzamento, è la valutazione stessa. Resta il velo della discrezionalità tecnica, richiamata nel testo della sentenza, ma l’essenziale è che il sindacato verifica la valutazione nella sua attendibilità scientifica. Si concentra su precisi elementi: la rarità, la data del 1943, i Topinambur, inediti in botanica e nella produzione di Morandi, dunque, non la ripetizione ma il modo diverso e infinito di vedere la stessa cosa, i Fiori, con un diverso metodo stilistico; tutti motivi che designano la rarità qualitativa, e, per giunta, la differenza tra rarità qualitativa e qualità. Insomma, una diversa espressione artistica del Morandi del 1943, da cui un’attendibilità che è “specifica” e maggiore. Prevale.
In tutti i punti visti sopra, si delinea un sindacato che verte sul merito della valutazione tecnica. È un sindacato forte. Apre due problemi, la prova e la sostituzione.
b. È forte, questo sindacato, anche nella distribuzione della prova: esige che la inattendibilità scientifica della opinione dell’amministrazione sia dimostrata dal ricorrente, con una attendibilità maggiore e prevalente; e, in mancanza, davanti a opinioni parimenti argomentabili, presume che l’attendibilità che prevale sia quella dell’amministrazione. Questo perché, secondo la sentenza, l’amministrazione è il soggetto “istituzionale”, chiamato dall’ordinamento, “in forme democratiche”, a esprimere la valutazione [3].
c. Infine, il sindacato di legittimità. Nella sentenza si dice che il giudizio riguarda il presupposto del potere, per come è rappresentato nella norma attributiva del potere, ovvero l’interesse culturale e la sua importanza. La sua valutazione è alla stregua dell’art. 68 del Codice e del decreto ministeriale.
Il che è dire che l’interesse e la sua importanza, il grado più o il grado meno del merito, come direbbe Cammeo, sono entrati nella legge. Il merito vi entra sotto forma di importanza dell’interesse.
In questo caso, il passaggio è agevole perché la stessa norma dell’art. 68 prevede “l’importanza” dell’interesse e rimanda il suo apprezzamento a un decreto ministeriale. Ma, oltre questo caso – la sentenza parla di un Codice di “settore”- vi può essere un principio?
Non a caso, nella parte in diritto la motivazione della sentenza esordisce stabilendo che l‘importanza dell’interesse è anzitutto in “linea di diritto”, nella premessa maggiore, nella considerazione della norma. Senz’altro si può dire, rispettando la logica della sentenza, che la considerazione dell’interesse non è solo nel merito amministrativo.
4. Il sindacato di legittimità e la sua estensione
Questa apertura della sentenza fa sentire che nel sindacato di legittimità sulla discrezionalità tecnica vi sia la prospettiva dell’interesse e del suo valore. Sembra la zona meno esplorata e più interessante. Si svolgono qui alcune osservazioni, che riflettono il pensiero di scrive e l’intento di dare alcuni spunti.
Come indicato dalla sentenza, il punto di partenza è il diritto e non solo il fatto complesso. Da tempo, si va considerando l’estensione del sindacato al fatto complesso, nel senso che la valutazione tecnica sul fatto è ritenuta parte integrante del fatto stesso. Ma, per la sentenza, prima viene il diritto e poi il fatto complesso. È un’inversione di metodo notevole, che rievoca, così sembra al lettore, quel passo della sentenza Baccarini, quando la tecnica è inserita nella struttura della norma giuridica… [4]
Qui si potrebbe determinare l’estensione del sindacato, e anche il suo limite.
Intanto, in estensione, si può fare un’osservazione in più: se l’interesse entra “dentro la struttura della norma giuridica”, la conseguenza non è marginale e, aggiungiamo, non è solo nell’art. 68. Difatti, l’interesse è anche in tutte le altre norme attributive del potere amministrativo, e, in generale, è nel principio stesso di legittimità amministrativa, se si rilegge l’art. 1 della legge n. 241 del 1990 come principio che impone di perseguire i “fini determinati dalla legge”. È una legittimità funzionale e finalistica[5].
Per completare, sul lato del diritto, si osserva che l’amministrazione contemporanea, che è amministrazione della scienza e della tecnica, non vive isolata e ha un suo ordinamento, che resta ordinamento giuridico, a partire dal principio di legittimità funzionale e a finire nelle norme tecniche e nelle norme interne[6].
Una risposta- e un passo avanti- può dunque venire dalla legittimità funzionale. Il passo avanti è già visibile nel caso in esame, nel metodo di giudizio messo in pratica: come detto dal giudice, “l’importanza dell’interesse” è anzitutto nella legge, nella stessa norma dell’art. 68 del codice dei beni culturali, anche se, in questo caso, la volontà della norma non predetermina un assetto degli interessi e lo affida all’amministrazione. Eppure, qui il giudice non si ritrae e fa un passo in più rispetto agli orientamenti precedenti[7]. Questi orientamenti poggiavano la soluzione su una distinzione teorica che ha due ipotesi opposte: la norma assume il concetto indeterminato, ma impone un assetto preferenziale degli interessi e quindi il sindacato è possibile; la norma lascia il concetto indeterminato e non delinea un assetto preferenziale e quindi, almeno per una parte della dottrina, che riprende una parte della giurisprudenza, il sindacato non è possibile, perché equivarrebbe a sostituzione nel merito[8].
Sul piano della teoria delle norme, si tratterebbe di una “rarefazione deduttiva”[9], o, meglio, di una “potenza espressiva delle norme” non ben sviluppata e forse troppo debole[10]; dunque, in teoria, davanti al concetto giuridico che lasci indeterminato l’interesse prevalente, il sindacato forte o si ferma o va avanti, ma qui si espone ai pericoli della sostituzione nel merito.
Nella sentenza in esame il giudice non si ferma, svolge il sindacato di legittimità, pur se in questo caso il concetto giuridico, l’interesse, resta indeterminato.
Si tratta, a parere di chi scrive, di un progresso del sindacato di legittimità e della tutela giurisdizionale. Potrebbe riflettere non solo la norma dell’art. 68, ma il carattere funzionale della legittimità stessa, ove si ritenga che l’interesse e il suo valore siano insiti nella legittimità cui la tecnica soggiace, secondo la teoria autorevole di Ledda[11], che forse ha ispirato la sentenza Baccarini e gran parte della dottrina contemporanea[12], e che, aggiungiamo, si riflette oggi nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 e nel principio di legittimità funzionale.
5. Il problema della sostituzione
A questo punto, in un sindacato che tende a estendersi al merito della valutazione tecnica, che ne è del limite e della sostituzione, nel punto specifico, e inedito, affrontato dalla sentenza?
Su questo punto, per una sensazione di chi legge la sentenza, la preoccupazione del limite si vede nel seguente passo della motivazione (par. 4.1): “Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie”.
Dunque, resta il limite del merito amministrativo e della sostituzione, ma si apre una possibilità di “definizione” della fattispecie. Pone un interrogativo: non è forse vero che, in fondo, il Consiglio di Stato entra nel giudizio di valore della rarità, come aveva fatto il Tar, solo che rovescia la questione e ritiene che gli indici di valore denotino rarità e che l’amministrazione abbia ragionato bene?
Il che serve a porre il vero interrogativo di fondo: un sindacato forte è possibile – e non viola il limite- solo nel caso in cui l’appello confermi la legittimità del provvedimento amministrativo, come in questo caso, o il sindacato forte è possibile anche nel caso inverso, in cui l’appello annulli il provvedimento ammnistrativo, sostituendo il suo giudizio, e il suo motivo giuridico, a quello dell’amministrazione? E questo è possibile quando il concetto sia indeterminato al punto che la norma non detta un assetto preferenziale, un interesse prevalente?
La risposta resta aperta. Seguendo e sviluppando la soluzione della sentenza, in teoria, si può dire che nel primo caso, in cui vi è conferma della legittimità del provvedimento amministrativo e conferma che l’amministrazione è attendibile, il sindacato può essere forte[13] e, invece, nel secondo caso, illegittimità del provvedimento e amministrazione inattendibile, il problema resta aperto. Dipende molto dal concetto indeterminato, se lasci o meno trasparire un interesse prevalente, come visto sopra; e dipende dal giudice stesso, perché, è chiaro, il rischio è che nel secondo caso la valutazione la faccia il giudice. Quindi, aggiungendo qualcosa al dictum della sentenza, la soluzione, almeno per una parte della dottrina, potrebbe essere quella di mantenere, nel solo caso della illegittimità- inattendibilità, un sindacato senza indicazioni, senza soluzioni finali[14].
In definitiva, senza prendere una posizione, nel caso del concetto indeterminato, si delinea un sindacato double face, ora forte e ora debole, a seconda della legittimità o della illegittimità del provvedimento amministrativo, e a seconda del concetto d’interesse insito nella norma, determinato o indeterminato. Nella sentenza, in questo secondo caso, il sindacato di legittimità è possibile.
Quella della sentenza è dunque una risposta coraggiosa e pragmatica[15]. Tutta la soluzione, così definita, si può esporre alle note obiezioni teoriche che la dottrina solleva, e, solo per accennare alle difficoltà maggiori, ricordiamo la gamma dei problemi: resta il problema del giudicato debole dopo l’annullamento[16]; il sindacato debole sulla inattendibilità, sotto il velo ineccepibile del suo aspetto logico-formale, può nascondere gravi errori di valutazione tecnica[17]; infine, il limite dà adito al problema, più ampio, della giustizia negata[18]. Problemi, questi, di ordinamento, visibili nel noto triangolo che si forma tra legge, giudice e amministrazione, immagine di una relazione quasi insolubile a priori, se non prendendo posizione per uno di quegli angoli[19].
E allora, anche nel caso del concetto indeterminato che non indichi un interesse prevalente, si può dire, considerando l’esperienza storica, che molto, quasi tutto, è nell’idea stessa di giurisdizione, nell’idea che la giurisdizione di legittimità ha di sé stessa e dei suoi limiti, secondo la sensibilità del giudice, secondo la sua cultura giuridica. Dunque, si pone una domanda finale: se in origine tutto era nell’idea che la Sezione IV ebbe di sé stessa e dei suoi limiti verso la Sezione V, e in fondo nella positiva idea di sintesi di legittimità e giustizia, che già era visibile nei principi dell’ordinamento[20], non si può risolvere allo stesso modo la questione contemporanea della tecnica e del concetto giuridico indeterminato ?
[1] La letteratura sulla discrezionalità tecnica è immensa e quindi conviene limitarsi ai soli riferimenti pertinenti al ragionamento svolto nel testo ed ivi citati. In ogni caso, un quadro ricostruttivo completo si può leggere in P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica, Dig. Disc. pubbl., vol. aggiornamento, IV, 146 ss.; F. CINTIOLI, Discrezionalità tecnica (dir. amm.), Enc. dir., vol. aggiornamento, II, 471 ss. Sul punto specifico affrontato dalla sentenza, in materia di discrezionalità tecnica e interesse culturale v. A. MOLITERNI, Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice. Concrete dinamiche dell’ordinamento, Napoli, 2021, spec. 159 ss., nella parte dedicata ai vincoli storico-artistici (a cura di M. Bray); G. TROPEA, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità: "relazione pericolosa" o "attrazione fatale", Dir. proc. amm., 2021, 714; P. L. PORTALURI, Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini, in questa Rivista, maggio 2021; A. ROTA, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002.
[2] Secondo la sentenza, la valutazione dei fatti complessi riguarda la discrezionalità tecnica, che è “differente dalla discrezionalità amministrativa, che implica “ponderazione di interessi diversi e non previamente selezionati dalle norme”. In particolare, la discrezionalità tecnica è oggetto di “particolari competenze ed è vagliata dal giudice con riguardo a una “specifica <<attendibilità>> tecnico-scientifica”.
[3] Ci si chiede: se un’opinione prevalente non è raggiungibile, è possibile ragionare presumendo che sia prevalente l’opinione dell’Amministrazione, solo perché è istituzionale, per posizione data?
La domanda si pone, è chiaro, non per la posizione assunta nella sentenza, ma perché la sentenza stessa spinge il sindacato più in là, e nella scienza, e quindi ha bisogno di nuove definizioni della prova. Una prima risposta si può trovare leggendo la dottrina, che da sempre, e di più negli ultimi tempi, afferma il principio di effettività della tutela, come principio adatto a risolvere anche la questione dell’onere della prova. In questa luce potrebbero sciogliersi i problemi della presunzione, in senso logico e in senso relativo, senza posizioni a priori. Sulla questione, per esempio, cfr. D. GRANARA, Sindacato pieno della discrezionalità tecnica e principio di effettività della tutela giurisdizionale: dialogo tra le Corti, in www . Giustizia amministrativa, sito istituzionale, anno 2021. La questione è ripresa nelle conclusioni.
[4] Cfr. il risalto del passo in M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, Dir. proc. amm., 2000, 185 ss., 198.
[5] ALB. ROMANO (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2022, spec. 179-180, nel collegamento funzionale visibile tra art. 10 del codice dei beni culturali e principio di legalità ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990.
[6] L’idea della incorporazione della norma tecnica nell’ordinamento giuridico è di P. LAZZARA, Discrezionalità tecnica … cit., 156 ss. L’idea che la norma interna possa assumere una sua rilevanza giuridica oltre il limite interno, nell’ordinamento generale, è efficacemente argomentata nelle dottrine contemporanee: cfr. F. FRACCHIA- M. OCCHIENA, Le norme interne: potere, organizzazione e ordinamenti. Spunti per definire un modello teorico-concettuale generale applicabile anche alle reti, ai social e all’intelligenza artificiale, Napoli, 2020; M. ROVERSI MONACO, Le norme interne nel sistema amministrativo italiano. Uno studio introduttivo, Milano, 2020. Per uno sviluppo ulteriore di queste teorie, v. G. BOTTINO, Norme interne e discrezionalità della pubblica amministrazione, Il dir. dell’economia, n. 1 /2023, 273 ss.; A. CIOFFI, La norma interna nell’ordinamento giuridico, ibidem, 287 ss. Infine, di recente, su scienza, tecnica e diritto, v. G. TROPEA, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, Napoli, 2023.
[7] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019 n. 1321; Cons. St., sez. VI, 19 luglio 2019 n. 4990; Cons. St., Sez. III, Ordinanza 11 dicembre 2020 n. 7097.
[8] Per questa distinzione cfr. A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? Riflessioni a margine di una recente “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale… cit. 358-360.
[9] Cfr. S. COGNETTI, Sindacato giurisdizionale tra discrezionalità amministrativa e indeterminatezza della norma, in www. Giustizia amministrativa, sito istituzionale, anno 2020, 1 ss., 13.
[10] Così E. CANNADA BARTOLI, Giustizia amministrativa, Dig. Disc. pubbl., VII, 3 ss., 41: nel pensiero di Spaventa, il termine giurisdizione era assunto in due significati: “l’uno forte, riferibile al giudice civile o a quello penale; l’altro debole, riferito alla norme che, se non hanno raggiunto una <<potenza di espressione giuridica da servire di base a veri e propri giudizi di un’autorità indipendente dall’amministrazione, possono bastare al sindacato che questa deve esercitare gli atti dei suoi organi, e questa è anche giurisdizione>>”.
[11] Cfr. F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, Dir. proc. amm., 1983, 371 ss.
[12] Per esempio, v. M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, Dir. proc. amm., 2000, 185 ss., 198; P. LAZZARA, <<Discrezionalità tecnica>> e situazioni giuridiche soggettive, Dir. proc. amm., 2000, 212 ss.
[13] “Forte”, nelle dottrine contemporanee, significa che il sindacato ha ad oggetto la valutazione stessa e fa uso di massime non di esperienza comune ma di leggi scientifiche- v. M. DEL SIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche … cit., 200-201 e, di recente, fra i numerosi contributi in materia, A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? Riflessioni a margine di una recente “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale, Dir. proc. amm., 2021, 335 ss.; A. MOLITERNI, Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecnico-scientifiche e l’instabile confine tra amministrare e giudicare, Dir. proc. amm., 2021, 398 ss.
[14] A. GIUSTI, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica … cit., 359.
[15] Però, a completare la soluzione, e a ripresa di un altro punto della sentenza sulla prova, pensiamo che si dovrebbe evitare ogni rischio di collateralità istituzionale, evitando che la prova della inattendibilità sia orientata dal giudice creando una presunzione a favore della amministrazione, per una sua posizione istituzionale, data a priori, sciogliendo invece la prova in una situazione alla pari e non precostituita V. nota 2.
[16] Cfr. F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 106-110; 613 ss.; M. TRIMARCHI, L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 80 ss.
[17] Così F. LEDDA, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, Dir. proc. amm., 1983, 371 ss., 422.
[18] Per tutti v. F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro, in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Id, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 2020 e Id., Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, ibidem, 2022; nonché M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia Insieme, 30 novembre 2020.
[19] Cfr. S. COGNETTI, Sindacato giurisdizionale tra discrezionalità amministrativa e indeterminatezza della norma … cit., 4.
[20] Così E. CANNADA BARTOLI, Giustizia amministrativa… cit., 16 e 41-65.
Sommario: 1. Il fondamento costituzionale del parlamentarismo inglese - 2. Il Committee of privileges della House of Commons – 3. L’indagine devoluta al Committee of privileges: conclusioni e proposte – 4. Le implicazioni politiche, giuridiche ed etiche del rapporto del Committee of privileges: un insegnamento ed un esempio finale.
Abstract: Lo studio prende le mosse dall’indagine portata a termine il 15 giugno 2023 dal Committee of Privileges della House of Commons inglese in merito all’effettiva osservanza, durante il recente periodo pandemico, da parte del Primo Ministro in carica Boris Johnson delle regole varate dal governo da lui presieduto dirette a prevenire la diffusione del Covid 19. L’accertata violazione di tali regole nel corso di riunioni non consentite svoltesi nei locali della sede governativa del numero 10 di Downing Street e la severità delle conclusioni (a schiacciante maggioranza approvate in sede di assemblea plenaria il successivo 20 giugno) cui il Committee è pervenuto rendono agevole una breve analisi della condizione giuridica del parlamentare inglese alla luce dei principi elaborati in dottrina e costantemente aggiornati dalla prassi. La conclusione è nel senso dell’esistenza di un severo apparato di regole, dalle evidenti e coerenti ricadute nel terreno dell’etica pubblica, che governa il funzionamento del parlamento ed il comportamento dei suoi componenti ispirate al senso di onore e disciplina. Apparato di tale solidità da costituire un esempio imitabile in altri contesti geografici.
1. Il fondamento costituzionale del parlamentarismo inglese.
Uno dei padri del costituzionalismo inglese, Albert Venn Dicey, nella sua fondamentale opera[i], dedicò allo studio del funzionamento, delle attribuzioni e delle prerogative delle due camere del Parlamento del suo paese riflessioni di duratura importanza. Egli, infatti, sublimò la teoria della tripartizione dei poteri costituzionali ponendo a suo fondamento l’idea assoluta e centrale della sovranità del parlamento in quanto espressione del potere legislativo, da nessun altro potere statale usurpabile o menomabile. L’altro grande teorico del diritto parlamentare inglese considerato in chiave costituzionale, Walter Bagehot, si era già a propria volta soffermato sulla definizione delle funzioni della House of Commons, tutte contraddistinte con l’aggettivo “dignified”, meglio traducibile come “nobili”, in quanto esercitabili in forma solenne (“stately”) ed allo scopo non di intimorire il popolo ma di utilizzare il proprio potere allo scopo di dare alla nazione governo ed indirizzo[ii]. Tali funzioni consistono: a) in quella propriamente legislativa, la più importante ed anche quella soggetta al più attento controllo popolare circa la sua efficienza; b) in quella rappresentativa del pensiero e delle opinioni dei cittadini; c) in quella di orientamento e di informazione nei confronti del corpo elettorale; d) in quella consultiva a favore della Corona nelle materie al Parlamento stesso devolute al fine di prevenire la possibilità di emanazione di atti illegittimi o pregiudizievoli. La costruzione del diritto costituzionale inglese nel cavaliere tra i secoli diciannovesimo e ventesimo ha proceduto ovviamente di pari passo con la edificazione di una nozione di costituzione sufficientemente nitida da assorbire il vuoto formale dipendente dalla sua mancata verbalizzazione in un documento modellato su quello delle esperienze di altri ordinamenti europei. Fu così che se ne enucleò una composizione in termini funzionali, ossia di raccolta di ogni regola destinata a governare direttamente o indirettamente le materie riflettenti la distribuzione o l’esercizio dei poteri attinenti alla sovranità statale[iii]. Al tempo stesso Dicey si preoccupò di elaborare uno statuto critico ed interpretativo basato sull’autorità degli storici, dei giuristi, dei filosofi. Si fece così ricorso al pensiero dei maggiori pensatori giuridici della storia del diritto inglese, di cui si sfruttò la profonda capacità intuitiva dell’evoluzione dell’intero common law britannico. Edward Coke[iv] venne accreditato[v] del merito di aver dipinto il potere e la giurisdizione del Parlamento in termini di elevatezza ed assolutezza di tale vastità da non poter essere confinati, per ragioni oggettive o personali, entro alcun genere di limitazione[vi]. Conseguenza diretta di questa opera conformatrice del contesto costituzionale entro il quale si svolge l’opera del Parlamento fu la puntuale identificazione delle ulteriori attribuzioni delle sue Camere rispetto a quelle prima illustrate, tra le quali spicca il diritto alla designazione, ai fini dell’incarico conferibile dal Monarca, della persona del primo ministro e degli altri membri del Gabinetto ministeriale[vii]. Più esattamente l’opera dottrinaria dei pionieri del costituzionalismo inglese si estrinsecò nel coniare istituti da affiancare con efficacia concorrente alle norme costituzionali in senso stretto[viii]. È il caso delle convenzioni, le quali, pur non ascendendo al livello di queste, ne possiedono caratteri comuni quale quello della vincolatività[ix]: proprio il potere di designazione del governo va ascritto a tale ambito. Il passo successivo ed indefettibile nella esplicazione di una teoria parlamentare fu quello diretto a munire le due camere di uno statuto regolamentare, nonché, per le ragioni prima indicate, convenzionale, che ne preservasse la funzione e la dignità e, al contempo, proteggesse i loro componenti nella rispettiva libertà di determinazione. Gli albori del diritto parlamentare inglese, inteso come corpus normativo autosufficiente, dovettero, pertanto, fare i conti con il tema dell’area di autonomia delle sue due camere, la House of Commons e la House of Lords (quest’ultima costituita, fino al 2009, anno di entrata in funzione della Supreme Court, anche in Appellate Committee, ossia nel supremo e finale organo giurisdizionale). Tema di scottante rilevanza sia per la chiara determinazione della struttura del parlamento in quanto organo costituzionale che si inserisce nel quadro della tripartizione dei poteri statali sia per la non meno essenziale questione della condizione giuridica dei suoi componenti. Ai fini del presente studio va ricordato il fondamentale principio di autodichia secondo il quale ognuna delle due camere è dotata di competenza esclusiva con riguardo ai propri lavori ed alla tutela delle proprie prerogative nei confronti di chiunque, anche parlamentare, vi attenti o commetta atti di disprezzo (contempt, inteso quale lesione del generale statuto delle camere): in tal caso sarà la stessa camera destinataria di condotte disdicevoli, e non un’ordinaria corte di giustizia, ad esercitare i propri poteri di indagine e sanzionatori[x]. Si contrappongono così i concetti di privilegio parlamentare, inteso come immunità da misure restrittive della libertà personale nonché come insindacabilità delle opinioni espresse, e di offesa al parlamento[xi]. Esso resta giudice di entrambe le situazioni che possano interessare un suo membro. Ed è sempre stato affermato che, nel perseguire i propri compiti nel campo delle prerogative parlamentari, ciascuna camera non agisce alla stregua di un organo giurisdizionale ma in virtù di un attributo ad essa intrinseco. Il delicato concetto fu lucidamente rappresentato in un caso del 1840[xii] il cui valore fondativo dell’immunità parlamentare traspare immediatamente dalle circostanze del suo svolgimento. Si trattava di una pronuncia direttamente collegata a quella dell’anno precedente nel caso Stockdale v Hansard. Ed infatti, il presidente della House of Commons, lo Speaker, aveva tratto in arresto lo sceriffo incaricato dell’esecuzione della condanna pecuniaria pronunciata da una ordinaria corte di giustizia, la Queen’s Bench, nei confronti dell’editore dei lavori parlamentari. L’intervento del presidente dell’assemblea parlamentare, che portò all’arresto dello sceriffo, solo colpevole di aver obbedito ad un ordine giudiziale, fu disposto a tutela dell’immunità parlamentare, estesa anche all’editore dei lavori della camera dei comuni. Fu lo stesso giudice Stephen ad assoggettarsi al provvedimento parlamentare ed a chiarire che le risoluzioni di una delle due camere non sono sottoposte a revisione giurisdizionale, seppur non provengano da un organo di giustizia. Ed infatti, l’effetto del privilegio parlamentare trova la sua più compiuta espressione nel potere di ciascuna camera di regolare i propri affari interni attraverso provvedimenti di efficacia equivalente a quella delle pronunce giudiziarie[xiii]. Un corollario di questa concezione molto spiccata della sovranità parlamentare si deduce considerando il rapporto fiduciario che deve legare il governo ed i suoi ministri al parlamento: ciò comporta la rimozione dal rispettivo ufficio di quello dei ministri che non goda più della fiducia del parlamento stesso[xiv].
2. Il Committee of privileges della House of Commons.
L’affinamento dell’esperienza parlamentare inglese ha portato nel tempo all’istituzione di organismi interni alle camere indirizzati alla tutela dei “privileges” ed al perseguimento dei casi di “contempt”. Dal gennaio 2013 convivono all’interno della House of Commons due distinte commissioni (unificate nel periodo 1995-2013), il Committee on standards (composto anche da membri estranei alla camera e competente a fissare i modelli comportamentali che i parlamentari sono tenuti ad adottare) e il Committee of privileges. Quest’ultimo è titolare di un potere delegato dall’intera camera diretto a svolgere indagini, riferirne i risultati e proporre misure conseguenti all’autorità delegante. È composto esclusivamente da parlamentari, siede in permanenza durante l’intera legislatura e viene convocato con riferimento a specifiche vicende relative alla materia dei “privileges”: i suoi poteri di indagine hanno ad oggetto tutte le questioni afferenti alla fattispecie ad esso devoluta. Nel corso del tempo ed in virtù dei doviziosi approfondimenti condotti dal primo esperto di diritto parlamentare inglese[xv] si sono andati stabilizzando principii non più revocati in dubbio in ordine alle immunità parlamentari, via via arricchitesi di nuove figure in aggiunta a quelle tradizionali, prima menzionate, riguardanti la libertà personale[xvi] e quella di espressione del pensiero. Ad esempio, si annovera quella di autorizzare un parlamentare a lasciare la camera prima del termine di una specifica sessione di lavori (“privilege to license Mps to depart from the House before the end of the session”); allo stesso modo si è consolidata la potestà delle camere di procedere alla convalida dell’elezione dei propri membri, in attuazione delle disposizioni del Parliamentary Elections (Returns) Act del 1965[xvii]. Ed ancora, la lista delle violazioni dei privilegi parlamentari (“breaches of privileges”) contempla ipotesi disparate quali la notificazione di mandati di accompagnamento per comparire come testimoni davanti ad una corte di giustizia[xviii]. Tuttavia, nel 1999 il Joint Committee on Parliamentary Privilege suggerì l’abolizione di questa prerogativa: la proposta fu respinta quattro anni dopo dal Committee of Privileges della House of Commons. Corrispondentemente, anche l’elenco delle condotte disdicevoli dei parlamentari idonee a recare offesa alla camera di appartenenza e risolventisi in comportamenti tendenti ad impedire o ostruire, direttamente o indirettamente, il funzionamento del Parlamento si è infittito, fino ad includere, secondo una comunemente accettata formula definitoria, tutte le azioni il cui effetto sia quello di recare discredito all’autorità dell’istituzione[xix]. In questa cornice si innesta il fatto - che, come si vedrà, ha assunto notevole rilievo nel caso Partygate - di divulgare i rapporti provvisori, di natura strettamente e dichiaratamente riservata, fatti circolare agli interessati dal Committee of Privileges. Naturalmente appartengono alla casistica delle condotte costituenti “contempt” e come tali rientrano nella competenza esclusiva del Committee of Privileges, quelle che danno vita a gravi illeciti penali quali la corruzione ed il traffico illecito di influenze[xx]: il disvalore di siffatte azioni, come ricorda Erskine May[xxi], era già stato duramente evocato in una risoluzione della House of Commons del 1695 che le aveva definite come un gravissimo delitto[xxii].
Come è apparso chiaro l’intera materia della condizione giuridica del parlamentare inglese (rispetto alla quale si dispiega la competenza del Committee of Privileges) copre uno spazio aperto al cui interno si colloca la sua generale posizione funzionale e personale. In sostanza, i termini antagonisti “privilege” e “contempt” non vengono utilizzati nella prassi quali sinonimi rispettivamente di singolari prerogative d’ufficio o di disdicevole abuso delle stesse. Essi sembrano, piuttosto concorrere a formare lo “status” di parlamentare, inteso come sintesi coordinata di situazioni attive e passive che allo stesso fanno necessariamente capo e la cui concreta valutazione spetta ad un organo delegato, quale il Committee of Privileges. In particolare, la dottrina si esprime nel senso che i cosiddetti “privileges” garantiscono al titolare determinate immunità all’espresso scopo di consentirgli di adempiere i propri doveri senza interferenze esterne[xxiii]. È incontroverso che essi facciano parte integrante del generale ordinamento giuridico e non siano intesi a porre il parlamentare al di sopra della legge. Tra essi, la prerogativa della libertà d’espressione ha un’origine particolarmente prestigiosa in quanto ascende al Bill of Rights approvato nel 1689. A propria volta il Parliamentary Papers Act del 1840, emanato all’indomani del dibattuto caso Stockdale v Hansard, attribuì la completa immunità, sia civile sia penale, agli editori dei resoconti parlamentari nonché a quanti, esterni al parlamento, ne pubblichino in buona fede estratti[xxiv]. Non può, peraltro, disconoscersi che già un semplice sguardo alla casistica prodottasi sul tema consente di ravvisare un profondo fondamento etico in ogni regola che circonda la vita del Parlamento e quella dei suoi componenti. Ed infatti, non può sfuggire che già dal punto di vista lessicale “contempt” addita condotte che sfuggono ai correnti criteri di moralità pubblica che sempre devono informare il funzionamento delle Camere. Il compito che attende l’osservatore delle varie vicende, come quella oggetto della presente ricerca, lo obbliga a verificare se il giudizio su comportamenti individuali abdichi alla propria, necessaria valutazione in termini di puro diritto, per deviare verso incontrollabili approdi extragiuridici, o se, viceversa, si spieghi lungo un virtuoso itinerario di compenetrazione di diritto e morale pubblica.
Con questo costruttivo spirito laico è opportuno accostarsi alla vicenda che ha riguardato le numerose dichiarazioni rese davanti alla House of Commons, nella qualità di Primo Ministro in carica, da Boris Johnson nel periodo compreso tra il primo dicembre 2021 ed il 25 maggio 2022 relative allo svolgimento presso la sede governative del numero 10 Downing Street di affollate riunioni svoltesi tra il 20 maggio 2020 ed il 14 gennaio 2021 durante la vigenza delle misure per prevenire la diffusione del Covid 19 e delle relative linee guida, entrambe emanate dal governo da lui presieduto.
3. L’indagine devoluta al Committee of privileges della House of Commons: conclusioni e proposte.
Nel proprio corposo rapporto (integralmente approvato dalla House of Commons il 20 giugno 2023, ossia 5 giorni dopo la sua pubblicazione, con 354 voti a favore e 7 contrari) oltre un centinaio di pagine, includenti 3 appendici ed i verbali delle sedute, il Committee of Privileges spiega dettagliatamente la genesi dell’indagine, il suo oggetto, lo scopo, le regole applicate, le conclusioni alla luce delle complessive risultanze istruttorie, le proposte finali sottoposte all’assemblea plenaria.
In particolare, il mandato che la commissione (con una maggioranza di membri del partito conservatore, lo stesso di Boris Johnson) ha ricevuto unanimemente dalla camera riguarda l’accertamento e la qualificazione della condotta tenuta in ripetute occasioni davanti all’assemblea plenaria in qualità di Primo Ministro da Boris Johnson, eletto alla House of Commons nel collegio londinese di Uxbridge e South Ruislip. Ciò che era stato chiesto al Committee of Privileges di appurare era se egli avesse reso dichiarazioni fuorvianti (ma nella sostanza ingannevoli) e se, pertanto, si fosse reso responsabile di un’offesa al Parlamento[xxv]. Il riferimento è proprio alla veridicità delle reiterate affermazioni fatte da Johnson circa il costante rispetto della normativa antipandemica in occasione di plurimi incontri sociali nella sede governativa effettuati con la partecipazione di molte persone, anche suoi collaboratori.
Dal punto di vista dell’inquadramento del lavoro della Commissione si rivela senz’altro maggiormente stimolante il preambolo del rapporto, che, per il suo alto esempio simbolico, merita di essere riportato per esteso: “Questa inchiesta si dirige al cuore stesso della nostra democrazia. Fuorviare la House of Commons non è una semplice questione tecnica, ma un tema di grande importanza. La nostra democrazia si fonda sull’elezione popolare di parlamentari non solo per consentire la formazione di un governo che goda del sostegno delle camere ma anche per sottoporre ad un giudizio critico il processo legislativo e chiedere all’esecutivo il conto del suo operato. La nostra democrazia dipende dalla fiducia che i parlamentari possono prestare alla veridicità delle dichiarazioni rese alle camere dai ministri. Se manca la fiducia nella veridicità delle dichiarazioni dei ministri la camera non è in grado di assolvere la propria funzione e la fiducia del popolo nella democrazia è incrinata. La democrazia funziona al meglio quando un ministro commette un errore in buona fede e successivamente lo corregge”[xxvi]. È evidente già da questa premessa introduttiva che il mandato si traducesse nella valutazione circa il corretto uso da parte del primo ministro della propria prerogativa, in quanto parlamentare, di non rispondere delle dichiarazioni e delle affermazioni rese davanti la House of Commons. È altrettanto palese che l’accertamento negativo sulla fedeltà al vero delle parole pronunciate in assemblea si sarebbe automaticamente convertito in una condotta offensiva (un “contempt”) tale da privare l’oratore dello scudo immunitario, solo disponibile a favore di chi non tenda a fuorviare, ingannandola, la camera. In questa esigenza di conformità alla verità delle dichiarazioni parlamentari si è comprensibilmente reputato risiedere l’alto valore dell’indagine, indirizzata ad impedire comportamenti capaci di comportare l’impedimento dell’attività parlamentare: in altri termini, capaci di attentare alla democrazia. Non deve, quindi, apparire enfatico o ridondante il preambolo prima riportato, perché nella semplicità e nettezza delle espressioni utilizzate spicca l’idea che un componente il governo, ancor di più chi lo guida, debba quotidianamente meritare e mantenere la fiducia del parlamento, senza tradirla con comportamenti contrari ai doveri di lealtà e verità. Perché, in fondo, ingannare il Parlamento è una sorta di inganno esponenziale al popolo che lo ha eletto.
E la peculiarità del caso, ben si può aggiungere, risiede collateralmente nella futilità delle occasioni generatrici dell’indagine, ossia lo svolgimento di manifestazioni sociali molto partecipate nei locali del numero 10 di Downing Street durante un prolungato periodo di contenimento dei contatti interpersonali che, in alcuni, dolorosi casi, ha precluso la possibilità di porgere l’estremo saluto a familiari in punto di morte[xxvii]. Sbaglierebbe chi pensasse che la relazione del Committee of Privileges costituisca un arretramento sul piano delle guarentigie parlamentari. È, infatti, puntualmente e nuovamente enunciato, al punto 15, il principio tradizionale secondo cui i privilegi parlamentari costituiscono una forma di protezione dei deputati in relazione ai lavori della camera di appartenenza (dibattiti, commissioni, audizioni, voti, etc.) e solo indirettamente ridondano a vantaggio dei singoli che vi prendono parte. In sostanza si è in presenza di una sorta di salvaguardia tesa ad assicurare che i parlamentari, in quanto rappresentanti eletti dal popolo, siano posti in condizione di adempiere i propri doveri al meglio delle loro possibilità e, al tempo stesso, che le vitali funzioni costituzionali assegnate al parlamento vengano espletate alla stregua dei più elevati criteri possibili[xxviii]. Il rapporto prosegue aderendo alla nozione di “contempt” stratificata nel tempo, individuandola, alla luce della prospettiva dei curatori dell’ultima edizione di Erskine May[xxix], in quelle condotte che, pur non dando origine in sé a violazioni di specifici privilegi (“breaches of any specific privilege”), causino ostruzioni o impedimenti al funzionamento del parlamento o ne offendano l’autorità o la dignità, ad esempio disobbedendo ad ordini legittimamente dati ovvero recando ingiuria alla camera di appartenenza, ai suoi membri o funzionari. Viene citata, onde rendere tipiche e nominate le condotte ascrivibili a fattispecie di “contempt” la lista redatta nel 1999 dal Joint Committee on Parliamentary Privileges che nel proprio rapporto comprende il disturbo ai lavori della camera di appartenenza, l’ostacolo frapposto all’attività di un membro o di un funzionario, il deliberato fuorviamento del parlamento stesso, l’alterazione o la falsificazione di documenti parlamentari, il rifiuto, privo di legittima giustificazione, di comparire davanti ad una commissione o di rispondere alle domande da essa poste, la corruzione, consumata o tentata, di un altro parlamentare, la subornazione di testi, la diffusione di documenti riservati provenienti da una commissione.
Sulla base di queste premesse teoriche e dei precedenti consegnati dall’esperienza la Commissione ha proceduto ad una serrata disamina della complessiva condotta dell’ex Primo Ministro, scomponendola nei vari segmenti corrispondenti alle molteplici dichiarazioni rese alla House of Commons, specialmente in occasione delle risposte alle domande formulate dagli altri parlamentari nel settimanale appuntamento del mercoledì durante il Prime Minister’s Questions.
Ridotta alla sua essenza la questione che aveva sollecitato l’inchiesta parlamentare era riconducibile all’acclarato svolgimento durante il tempo di massima diffusione pandemica, nel quale erano in vigore (come in molti altri paesi europei), severe disposizioni in materia di distanza sociale e di divieti di assembramenti, di parecchie riunioni festive (veri e propri “parties”), a base di alcoolici e di cibo, all’interno ed all’esterno degli uffici del primo ministro cui lo stesso aveva preso parte con numerosi collaboratori. Nel corso dei vari interventi alla camera Johnson aveva sempre negato che quelle riunioni avessero infranto le previsioni amministrative in atto ed asserito che durante le stesse fossero state osservate, in quanto possibile, le proibizioni. Man mano che pervenivano le contestazioni politiche (anche da rappresentanti del proprio partito ed in particolare dalla sua dante causa alla guida del governo, Theresa May, che in suo intervento si era sarcasticamente chiesta se per Johnson valessero o meno le regole che egli stesso aveva imposto al resto della popolazione) l’ex Primo Ministro aveva pubblicamente affermato di essere stato rassicurato dai suoi collaboratori (dei quali, con un’unica eccezione, non aveva fornito alla commissione il nome) circa la perfetta rispondenza degli incontri ai canoni normativi.
Al termine di una lunga attività istruttoria, corroborata da materiale documentario delle medesime riunioni, da dichiarazioni testimoniali scritte rese in forma di affidavits, da un prolungato esame (esacerbato da frasi molto polemiche rivolte all’indirizzo dell’imparzialità dei commissari) di Johnson da parte di tutti i componenti il Committee, questo ha depositato le proprie articolate e perentorie conclusioni, corredate dalla proposta di sospendere l’accusato dalle funzioni parlamentari per la durata di 30 giorni, che di seguito vengono riassunte.
Triplice è stato l’accertamento compiuto dalla Commissione in ordine: alla piena conoscenza da parte di Johnson delle disposizioni relative al Covid e delle relative linee-guida; alla sua consapevolezza della loro violazione durante lo svolgimento dei parecchi incontri; all’effettivo, deliberatamente ingannevole fuorviamento della House of Commons nel corso dei vari interventi svolti sul tema. Particolarmente duro suona il rapporto nel delineare con precisione le occasioni e le modalità del “misleading” posto in essere da Boris Johnson a danno della camera. In primo luogo l’attività decettiva si è concretizzata: nell’aver dato false assicurazioni circa l’effettiva osservanza delle regole sulla prevenzione del Covid; nell’aver taciuto la propria conoscenza della violazione delle regole durante i parties; nella reticenza circa l’identità di chi gli aveva garantito che quegli incontri si svolgevano in conformità alle regole valevoli per ogni cittadino; nell’aver dato l’inveritiera impressione che, prima di rispondere alle interrogazioni parlamentari durante i pubblici dibattiti, dovesse essere previamente esperita un’indagine interna da parte dei suoi uffici; nell’aver disatteso la promessa della successiva correzione delle proprie dichiarazioni; nell’aver capziosamente interpretato le proprie pubbliche dichiarazioni allo scopo di mistificare il loro chiaro significato letterale; nell’aver proposto letture giuridicamente insostenibili della legittimità degli incontri. La condotta dell’ex premier è stata aggravata, a giudizio del Committee of Privileges, dalla circostanza che egli, ricevuta per le sue osservazioni in forma espressamente riservata e con l’ammonimento della non divulgabilità, la versione preliminare del rapporto ne abbia fatto ampia diffusione mediatica, al tempo stesso utilizzando pesanti e diffamatori commenti critici sul lavoro e l’imparzialità della Commissione. A tale stregua è stata proposta la sospensione dalle funzioni parlamentari per 90 giorni. Poiché, nelle more della pubblicazione della versione definitiva del rapporto e dopo la ricezione di quello preliminare e provvisorio, Johnson aveva pubblicamente rassegnato le proprie dimissioni, la commissione, rigettata la richiesta di due suoi membri di adozione del massimo provvedimento espulsivo, ha suggerito che fosse negato a Johnson l’accesso (“former Members’ pass”) ai locali della House of Commons che viene generalmente riconosciuto ai parlamentari cessati dalla carica. Come ricordato, tutte le proposte istruttorie sono state approvate dall’assemblea plenaria con una larghissima maggioranza. Conclusivamente e riassuntivamente gli addebiti mossi ed accertati a carico dell’ex Primo Ministro possono così rappresentarsi: intenzionale inganno della camera di appartenenza; violazione dei doveri fiduciari nei confronti di essa; strumentale discredito propalato nei confronti dell’operato della Commissione e conseguente messa in pericolo del processo democratico parlamentare; complicità nella campagna denigratoria ed intimidatrice in pregiudizio del Committee.
4. Le implicazioni giuridiche, politiche ed etiche del rapporto del Committee of privileges: un insegnamento ed un esempio finale.
Il peso, destinato a lasciar indelebile traccia di sé in futuro, della capillare attività espletata dal Committee va innanzitutto colto nel già richiamato preambolo in cui è stato gettato l’espansivo seme
dell’insopprimibile raccordo tra la condotta dei membri del governo e la fiducia di cui essi devono godere agli occhi delle Camere. Fiducia, a propria volta, insuscettibile di una concezione restrittiva e formale, ossia circoscritta al merito dell’azione politica, ed improntata, piuttosto alla presupposta certezza della lealtà e sincerità delle dichiarazioni governative davanti alle camere. In altri termini, nulla ripugnerebbe maggiormente al senso dell’etica pubblica del tradimento della ragionevole aspettativa che, un componente del governo, nell’affrontare un pubblico dibattito al cospetto dei rappresentanti eletti del popolo, non si esprima in termini di sincerità ed aderenza alla verità e che, in ogni caso, si astenga dal rettificare le proprie dichiarazioni una volta resosi conto della loro involontaria erroneità. A ben vedere, la pesante censura mossa a Johnson coinvolge negativamente un doppio profilo della sua condotta: il carattere fuorviante (e quindi ingannevole) sia della rappresentazione dei fatti rilevanti sia della rispettiva interpretazione ed il mancato, successivo ristabilimento della verità dinanzi alle insuperate contestazioni avanzate dalla Commissione. Ed è sicuro che, secondo il metro valutativo adottato da questa, la perseveranza ostinata nell’errore si sia risolta in un’autonoma lesione al prestigio degli organi parlamentari. La statuizione del Committee costituisce un faro di orientamento dell’etica pubblica. Di essa si pretende la riferibilità a parametri di oggettiva verificabilità con riguardo ai comportamenti individuali che da essa devono trarre ispirazione. Sfugge, pertanto, ai coefficienti propri della morale pubblica non solo il comportamento ingannevole commissivo ma anche quello omissivo per mancata resipiscenza rispetto all’errore. È una considerazione, questa, che combina in sé gli aspetti politici ed etici della presenza in Parlamento, quale viene percepita dal pubblico che ad essa ha il fondamentale diritto di matrice costituzionale di guardare con fiducia. Mentire al Parlamento consapevolmente, o astenersi dal correggere la dichiarazione fuorviante resa in assenza di dolo, spezza il filo di comunicazione tra Parlamento, quale luogo di rappresentanza popolare, ed esecutivo su cui si regge il principio democratico ed ideale della separazione dei poteri. C’è da chiedersi retoricamente se a questa basilare massima comportamentale si assoggettino quei governanti e quei parlamentari che, ad ogni latitudine, trascurino il proprio dovere pubblico di agire con onore e disciplina rispondendo, ad esempio, ad interrogazioni o interpellanze o durante il “question time”. Ma il delicato tema esibisce con eguale intensità profili di esclusivo interesse giuridico. E questo, sebbene il Committee of Privileges della House of Commons non eserciti, come già detto, funzioni giurisdizionali in senso stretto e tradizionalmente si avvalga con molta parsimonia della prerogativa, riconosciutale da una risoluzione assembleare del 1978, di avvalersi della propria giurisdizione penale nell’ipotesi in cui si riveli necessario allo scopo di tutelare la Camera, i deputati ed i funzionari da condotte illecite dirette ad impedire od ostruire il funzionamento dell’organo parlamentare, o ad interferirne nell’attività.
Ed invero, il principale “thema decidendum” affidato al Committee era quello di stabilire se il complessivo contegno di Johnson realizzasse gli estremi del “contempt of Parliament”, ossia di quella figura la quale ricorre nel caso di condotte biasimevoli ostative al regolare funzionamento del Parlamento. A tal riguardo la commissione ha attinto all’autorevole opinione del Clerk of the Journals, ossia la maggior fonte di conoscenza delle procedure parlamentari e di consulenza per le camere e per i relativi componenti in materia di “privileges”. Egli, infatti, ha osservato in un allegato al rapporto della stessa commissione che le dichiarazioni fuorvianti dei Ministri costituiscono di per sé prevedibili impedimenti ai lavori parlamentari[xxx]. Muovendo da questo dato di fatto, il Committee si è dato un doppio criterio qualificativo della condotta di Johnson come di un “contempt”: la sua compatibilità con i parametri adottati in materia dalla House of Commons ed il grado dell’elemento soggettivo del suo autore. L’organo delegato ha motivatamente ritenuto che entrambe le condizioni fossero soddisfatte nella fattispecie. E ciò perché, da un canto, le dichiarazioni fuorvianti hanno precluso al Parlamento di svolgere il proprio centrale compito di scrutinare l’attività del governo e, d’altro canto, esse erano di natura tutt’altro che secondaria in quanto avevano un notevole impatto su una questione di salute pubblica, quale quella della costante obbedienza da parte del vertice governativo alle complesse ed inderogabili misure volte alla riduzione dei rischi di propagazione della pandemia che già aveva stroncato un altissimo numero di vite umane. Tenendo conto di queste circostanze il Committee si è proposto di graduare la sanzione da suggerire all’assemblea plenaria, individuandola nella penultima della scala desumibile dai precedenti della consorella Standards Committee, ossia la sospensione delle funzioni e dallo stipendio per un periodo di 30 giorni[xxxi]. Particolarmente abrasivo è il passaggio conclusivo della parte dosimetrica del rapporto. In essa, infatti, si dà atto della cospicuità delle offese inferte al Parlamento per la prima volta nella storia costituzionale inglese dal la massima figura del governo. Egli, dopo aver mentito circa la legittimità del proprio operato ed artificiosamente difeso contro ogni evidenza la tesi dell’ignoranza della perpetrata violazione delle regole, ha perfino ricusato la possibilità offertagli dal Committee di ritrattare le precedenti dichiarazioni di fronte alla House of Commons. Può giovare a gettare ulteriore luce sull’atteggiamento mostrato nel tempo da Johnson il ricordo, pur non evocato nel rapporto della commissione ma rimasto saldamente impresso nella mente degli osservatori di ogni provenienza, che egli fu impietosamente censurato nel settembre 2019 da una Supreme Court unanime che dichiarò l’invalidità del suo provvedimento di sospensione dei lavori parlamentari con chiari intenti elettorali[xxxii]. Non è difficile scorgere una disarmante continuità di atteggiamento sprezzante nei riguardi del baluardo della democrazia inglese che sembra lasciar trasparire una sorta di insofferenza verso le sue prerogative ed una plateale trascuratezza della sua funzione amplificatrice e rappresentativa della volontà popolare. Un autentico schiaffo a quell’elevato pensiero fondativo della democrazia liberale e costituzionale inglese che vede riconosciuta da parte del Sovrano del tempo nel parlamento inglese la suprema autorità legislativa del paese[xxxiii]. In diretta proporzione con tale elevato ruolo deve misurarsi il comportamento di chi con esso, in ogni qualità costituzionalmente rilevante, e massimamente in quella di capo del governo, intrattenga rapporti istituzionali: perché, a causa di deviazioni, non venga disperso lo spirito che anima la funzione di controllo sull’esecutivo svolta dalle Camere.
La vicenda che ha condotto all’esito qui descritto si carica certamente di tinte cupe quanto al totale deragliamento dai doveri istituzionali, politici e morali di un Primo Ministro sfrontato e protervo che non ha esitato a mettere a repentaglio molte vite solo per non rinunciare all’ebbrezza (in senso etilico) di una festa imprudente ed illegale ed, ulteriormente, ha preteso dalla stragrande maggioranza dei cittadini timorosi del comando normativo il sacrificio più crudele, quello di astenersi dal rendere il saluto d’addio ai familiari morenti.
Ma la stessa vicenda ha saputo, altresì, offrire uno spunto rassicurante in termini di prontezza di reazione da parte dell’istituzione ferita, insorta contro l’oltraggio patito anche a difesa della sovranità popolare.
In sostanza, una vicenda, forse replicabile in altri contesti politici ma altrettanto probabilmente con esiti differenti e più addomesticati, da incorniciare nel contesto di una democrazia costituzionale matura, tale, cioè da essere in grado di risollevarsi dal baratro contingente per riaffermare l’intramontabile primato della “rule of law”. Sta ad altre esperienze ed altri ordinamenti emularla, non sottraendosi, tramite infingimenti o parrocchiali difese di bandiera, al dovere di difendere l’integrità dell’istituzione parlamentare ed impedendo futili e mendaci scorribande ministeriali. Proprio ora, il tempo e l’occasione imminenti drammaticamente incalzano. Sarà quello il momento propizio per elevare il livello della comparazione giuridica fino alla soglia della sorveglianza diffusa sull’etica pubblica.
[i] An introduction to the study of the Constitution, l’ultima edizione della quale, dall’autore direttamente curata, fu pubblicata nel 1915. Sempre stimolanti e ricchi sono gli studi di Torre sul pensiero del grande giurista britannico. Si veda, ad esempio, Albert Venn Dicey: un constitutional lawyer al tramonto dell'età vittoriana, in Giornale di storia costituzionale, 2007, pag. 11 ss.)
[ii] Bagehot, The English Constitution, 2°ed. 1873, pag. 117 ss.
[iii] An introduction, cit., pag. 22.
[iv] Fourth part of the Institutes of the laws of England, 1644, pag. 36.
[v] Da Blackstone nei suoi Commentaries 1765-1769.
[vi] “The power and jurisdiction of Parliament is so transcendent and absolute that it cannot be confined, either for causes or persons, within any bounds”: Coke, cit. Sul tema della “parliamentary sovereignty” merita di essere ricordata la più recente polemica tra Wade (autore del seminale The legal basis of sovereignty, in Cambridge Law Journal, 1955, pag. 172 ss.) in Sovereignty - Revolution or Evolution, in The Law Quarterly Review, 1996, pag. 568 ss. e Allan, Parliamentary Sovereignty: Law, Politics, and Revolution, nella medesima rivista, 1997, pag. 443 ss. a proposito della permanente rilevanza della teoria costituzionale in materia, dal secondo strenuamente difesa.
[vii] Dicey, op. cit., pag. 269.
[viii] Un importante dibattito si sviluppò in un caso del 1670, Craw v Ramsay, in cui si controverteva circa l’applicabilità nel territorio inglese delle leggi approvate dal Parlamento irlandese. La questione è attentamente esaminata da Baker, Collected papers on English legal history, vol. II, Cambridge, 2013, pag. 907 ss., che diffusamente tratta del periodo cosiddetto della Anglo-Hibernian constitution, per riferirsi agli effetti dell’unione alla maggiore, dell’altra, più piccola nazione in posizione di sostanziale subordinazione.
[ix] Dicey, op.cit., pag. 293.
[x] Dicey, cit., pag. 52.
[xi] Il principio fu sancito in conseguenza del precedente del 1839 nel caso Stockdale v Hansard in cui quest’ultimo, storico editore dei lavori parlamentari, era stato ritenuto responsabile di diffamazione nei confronti di una persona alla quale si era rivolto un parlamentare, le cui frasi erano state appunto pubblicate dall’editore.
[xii] The case of the Sheriff of Middlesex.
[xiii] The House of Commons is not a court of justice; but the effect of its privilege to regulate its own internal concerns, practically invests it with a judicial character when it has to apply to particular cases the provisions of Acts of Parliament.
[xiv] Dicey, cit., pag. 300.
[xv] Erskine May, Treatise on the Law, Privileges, Proceedings and Usages of Parliament, la cui prima edizione risale al 1844 e, l’ultima la 25°, al 2019: l’opera costuisce ancora l’imprescindibile punto di riferimento per i lavori della House of Commons, come emergerà dal testo.
[xvi] È opinione comune e ricevuta da casi del passato, a partire da Barnard v Mordaunt del 1754, che l’immunità dall’arresto si protragga fino ai 40 giorni successivi alla sospensione dei lavori della camera o al suo scioglimento. In ogni caso, dell’avvenuto arresto lo Speaker deve informare la camera di appartenenza e la relativa comunicazione va inserita nei resoconti ufficiali: Erskine May, op.cit., par. 14.3.
[xvii] Erskine May, cit., 25° ed, par. 12.8.
[xviii] Op.ult.cit., par. 14.10.
[xix] Erskine May, par.15.11.
[xx] Negli anni 2008 e 2009 la House of Commons ha approvato un codice di condotta per i parlamentari (Code of conduct) ed una guida alle regole relative ai loro comportamenti (Guide to the rules relating to the conduct of Members).
[xxi] Treatise, cit., par. 15.28, nota 1.
[xxii] “The offer of money or other advantage to any Member of Parliament for the promoting of any matter whatsoever, depending or to be transacted in Parliament, is a high crime and misdemeanour”.
[xxiii] Erskine May, 22° ed., 1997, pag. 65.
[xxiv] Trattandosi di un’immunità per così dire esterna al Parlamento la dottrina suole parlare al riguardo di “qualified immunity”.
[xxv] “Whether he had misled the House and whether that conduct amounted to a contempt”.
[xxvi] “The inquiry goes to the very heart of our democracy. Misleading the House is not a technical issue, but a matter of great importance. Our democracy is based on people electing Members of Parliament not just to enable a government to be formed and supported but to scrutinise legislation and hold the Executive to account for its actions. Our democracy depends on Mps being able to trust that what Ministers tell them in the House of Commons is the truth. If Ministers cannot be trusted to tell the truth, the House cannot do its job and the confidence of the public in our democracy is undermined. When a Minister makes an honest mistake and then corrects it, that is democracy working as it should”.
[xxvii] Drammatica è la testimonianza finale di Jonathan Coe nel suo struggente Bournville a proposito del mancato commiato alla madre.
[xxviii] Parliamentary privilege is a protection for the proceedings of Parliament-debates, committees, hearings, votes and so on- and only indirectly for the individuals who participate in them. It is a safeguard to ensure that parlamentarians, including the public’s elected representatives, are able to carry out their duties to the best of their ability, and that all of parliament’s vital constitutional functions can be carried out to the highest possible standards.
[xxix] 25a edizione datata 2019 del Treatise on the Law, Privileges, Proceedings and Usages of Parliament, curata da Limon e McKay.
[xxx] “Misstatements by Ministers are inherently likely to obstruct or impede the House”.
[xxxi] Le altre possibili misure a disposizione del Committee sono: l’accertamento dell’infrazione senza irrogazione di sanzione; l’ammonizione o il rimprovero; la privazione temporanea di stipendio ed indennità, pur in assenza di sospensione; l’espulsione.
[xxxii] Si può vedere sul punto, Serio, Prime impressioni relative alla sentenza 41/2019 della Supreme Court sulla (il)legittimità della sospensione dei lavori del Parlamento inglese, nell’edizione di questa Rivista del 30 settembre 2019.
[xxxiii] Così si esprime in The rule of law, Londra, 2010, pag. 160, suo canto del cigno biologico ma imperituro testamento culturale e morale, Lord Bingham, illuminato giudice e Presidente dell’Appellate Committee della House of Lords: “If asked to identify the predominant characteristic of our constitutional settlement in the United Kingdom today, most of us would, I think, point to, or at any rate include in any list, our commitment to the rule of law and our recognition of the Queen in Parliament as the supreme law-making authority in the country”.
La provvisoria esecutorietà della sentenza civile di primo grado e i presupposti della sua sospensione costituiscono uno snodo essenziale del processo. L'evoluzione di tali istituti evidenzia il rischio che l'attuale enfasi sull'insolvenza dell'appellato come motivo per la sospensione abbia effetti discriminatori, che meritano di essere contrastati con proposte di segno diverso.
Sommario: 1. Il nuovo art. 283 c.p.c. - 2. La limitata esecutorietà della sentenza di primo grado fino al 1993 - 3. L'esecutorietà generalizzata e l'infittirsi delle preclusioni - 4. La revisione dell'art. 283 c.p.c.: verso l'inibitoria dei ricchi - 5. La portata classista dell'attuale art. 283 c.p.c. - 6. Prospettive - 6.1. Un diverso concetto di fumus - 6.2. Idee per modifiche normative.
1. Il nuovo art. 283 c.p.c.
Il nuovo testo dell'articolo 283 del c.p.c., introdotto dal d.lgs. 149/22 e applicabile alle impugnazioni proposte dall'1.3.2023 in poi, opera per la prima volta la netta scissione del fumus boni iuris e del periculum in mora, presupposti che in precedenza la norma teneva uniti, richiedendoli entrambi per la sospensione dell'esecutorietà della sentenza di primo grado. Peraltro, la prassi si era da tempo orientata a concedere l'inibitoria in presenza anche di uno solo dei due, se evidente, e viceversa a negarla motivando sull'evidente assenza di uno dei due.
Il nuovo art. 283 c.p.c., invece, ha previsto in modo alternativo l'ipotesi dell'impugnazione che appaia “manifestamente fondata” e quella del pregiudizio grave e irreparabile che possa derivare dall'esecuzione della sentenza, “pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.
La laconicità del riferimento al fumus e la prolissità del riferimento al periculum non lasciano dubbi sull'intento del legislatore di promuovere, alla luce della nota riluttanza del giudice dell'impugnazione a formulare prognosi sul merito prima della sentenza, un'inibitoria tutta centrata sul pericolo nel ritardo. Ed è verosimile che il messaggio venga recepito.
Finora le inibitorie concesse per la sussistenza del fumus si sono spesso basate su motivazioni apparenti, con le quali il giudice evitava di esplicitare il suo pensiero sul merito della causa. La nuova tipologia di inibitoria imporrà invece di motivare in modo effettivo l'affermazione di manifesta fondatezza (qualunque cosa significhi) dell'impugnazione, il che potrebbe indurre il giudice che non voglia “esporsi” a ravvisare il fumus solo in casi estremi, magari anche allora mascherando il suo giudizio con qualche artificioso richiamo al solo pericolo.
Il fatto è che, come si vedrà, il legislatore non ha voluto soltanto ridimensionare il fumus, ma ha pure riformulato il periculum in maniera ben discutibile.
2. La limitata esecutorietà della sentenza di primo grado fino al 1993
Nel sistema originario del codice di procedura civile, l'art. 282 prevedeva solo su istanza di parte (riproponibile in appello) l'esecutorietà della sentenza di primo grado, che era facoltativa in caso di pericolo nel ritardo o di domanda fondata su atto pubblico o scrittura privata riconosciuta o sentenza passata in giudicato, e invece obbligatoria (tranne “particolari motivi per rifiutarla”) nel caso di condanna al pagamento di provvisionali o a prestazioni alimentari. A fronte delle non frequenti clausole di esecuzione provvisoria, poi, era ridotto il ruolo riservato dall'art. 283 c.p.c. alle richieste di inibitoria per assenza dei requisiti per la concessione.
La tendenziale non esecutorietà della sentenza di primo grado si giustificava in un sistema di fatto gerarchico, nel quale dell'appello si occupava un giudice “superiore” che riesaminava il caso nei limiti del petitum devoluto, ma con vincolo attenuato quanto alla rivalutazione dei fatti (si parlava di appello come mero gravame) e potendo tener conto di nuove eccezioni, nuovi documenti e nuovi mezzi di prova. Di regola, quindi, la stabilità della sentenza di primo grado non era un valore, mentre lo era quella della sentenza di appello, la cui esecutorietà era (e ancora è) soggetta a sospensione solo in presenza di un pericolo qualificato (di “grave e irreparabile danno”).
Questo sistema non favoriva gli attori meno abbienti che avessero avuto ragione in primo grado, i quali erano esposti ad appelli dilatori di avversari benestanti che potevano sopportare i costi della prosecuzione del giudizio e in tal modo indurli ad accettare nelle more dell'appello delle transazioni al ribasso. La disfunzione, particolarmente avvertita in materia di lavoro, spinse il legislatore della riforma approvata con l. 533/73 a rendere esecutiva la sentenza di primo grado, a favore del solo lavoratore e sulla base del solo dispositivo; regola la cui razionalità si apprezzava in un processo caratterizzato da rigide preclusioni sin dalla fase introduttiva del primo grado, destinato a concludersi con una sentenza la cui stabilità tendenziale era un valore da tutelare.
L'esecutività immediata venne poi estesa dall'art. 5-bis l. 39/77 alle sentenze di condanna a risarcimenti in favore dei soggetti danneggiati dalla circolazione dei veicoli. Anche in questo caso, pur trattandosi di controversie di rito ordinario non soggette a rigide preclusioni, il legislatore valorizzava l'esigenza di scoraggiare appelli dilatori delle compagnie assicurative, idonei a ritardare la soddisfazione dei diritti di persone talvolta lese in modo gravissimo.
3. L'esecutorietà generalizzata e l'infittirsi delle preclusioni
La situazione è mutata a partire dall'1.1.1993, quando l'esecutorietà della sentenza di primo grado è diventata regola generale, prevista dal nuovo art. 282 c.p.c. Nello stesso periodo, anche il rito ordinario ha posto al centro il giudizio di primo grado e si è caratterizzato per le preclusioni, rese via via più rigide dalle riforme succedutesi fino ad oggi.
Che da tale evoluzione sia derivato un miglioramento della qualità e dell'efficacia della risposta giudiziaria, è cosa di cui dopo un trentennio è lecito dubitare, nonostante il legislatore reagisca alla constatazione delle disfunzioni incrementando le dosi e la rigidezza delle preclusioni. E neppure considerando che, quanto meno sul piano probatorio, in una quota crescente di cause civili il principio di preclusione ha scarso rilievo: oltre a quelle di stato, di famiglia e delle persone, tutte quelle - alla stregua della saggia pronuncia nr. 5624/22 delle Sezioni Unite – nelle quali la “prova regina” sia di fatto costituita dalla CTU.
La valorizzazione di quel principio, egemone nella cultura giuridica di 40-50 anni fa, si è ormai trasformata in una mitologia opprimente e retriva, che subliminalmente induce il giudice ansioso di far presto per non doversi giustificare per la legge Pinto (la ragionevole durata del processo come diritto tiranno) a scovare negli atti di parte vere o presunte carenze che gli consentano di decidere senza accertare i fatti e senza ponderare gli interessi in gioco.
Questa mitologia, i cui effetti perversi nessuno ovviamente rivendica, ha favorito la celebrazione di sempre meno rari processi di primo grado nei quali, dopo un'iniziale sommaria reiezione delle richieste di prova, si emettono sentenze composte di lunghe e inutili descrizioni stereotipate degli istituti applicabili, seguite da poche righe in cui si “motiva” il rigetto della domanda perché non provata[1]. Sentenze, la cui immediata esecutività non risulta certo socialmente accettabile.
4. La revisione dell'art. 283 c.p.c.: verso l'inibitoria dei ricchi
Alla regola dell'immediata esecutorietà della sentenza di primo grado si accompagnò a partire dall'1.1.1993 la modifica dell'art. 283 c.p.c., che ampliava la possibilità di sospensione dell'esecutorietà ai casi di sussistenza di “gravi motivi”, locuzione che la l. 263/05 ha sostituito con quella di “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”.
Mentre la clausola dei “gravi motivi” affidava alla discrezionalità del giudice la valutazione dei presupposti, la successiva tipizzazione del pericolo nel ritardo mediante il riferimento alla possibilità di insolvenza, unita alla tendenza dei giudici di appello a motivare le decisioni dando un rilievo preponderante al periculum, finiva per richiamare l'attenzione sull'indigenza (così dovendosi intendere l'uso atecnico del termine “insolvenza”, proprio della materia fallimentare) della parte vincitrice in primo grado. Attenzione di oggettiva portata colpevolizzante, perché considera l'appellato povero che abbia vinto in primo grado come persona sospettabile di voler spendere il denaro che le deriverebbe dall'esecuzione provvisoria non già per i bisogni primari reintegrando il suo patrimonio, ma per il gusto di sottrarsi alle future restituzioni all'appellante non indigente: una singolare riedizione dell'intramontabile retorica delle classi pericolose.
5. La portata classista dell'attuale art. 283 c.p.c.
Nel testo attuale dell'art. 283 c.p.c., alla luce del contesto normativo e dell'esperienza giudiziaria via via formatisi, l'espressione “anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”, pur immutata dal 2005 a oggi, ha assunto una portata alquanto tossica. Essa non può che esser letta in unione con la premessa (di per sé superflua, non essendo controversa la possibilità di un periculum rispetto a condanne pecuniarie) “pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro”, sì da costituire per il giudice di appello una sorta di memento, di invito a dare la massima importanza sia al denaro della parte condannata in primo grado, sia al denaro (se poco) della parte vittoriosa: il messaggio classista forse involontario della l. 262/05 diventa così un netto richiamo a pensarci bene, prima di consentire all'indigente di godere subito della somma riconosciuta in primo grado.
E la prassi si va adeguando a questo messaggio, con appellanti economicamente forti che si affannano a dimostrare la povertà della controparte, l'assenza di immobili o di beni mobili registrati, la modestia dello stipendio o della pensione, la disoccupazione o la percezione di reddito di cittadinanza. E con appellati che, anziché respingere con sdegno questo tipo di argomentazioni, comprensibilmente si affannano a dimostrare che non sono poi così poveri, che alla bisogna saranno in grado di restituire tutto, eccetera.
Non richiede particolari argomentazioni l'estraneità al sistema costituzionale dell'indecente inibitoria dei ricchi che in tal modo si delinea, con “l'ingresso massiccio nelle Corti di prospettazioni difensive classiste, che in passato sarebbero state sconvenienti ex art. 89 c.p.c. e oggi non lo sono più” di cui mi è capitato di scrivere in altra occasione[2], ingresso che ormai è diventato un flusso inarrestabile.
Al di là di quanto le decisioni dei giudici di appello in tema di inibitoria possano in concreto essere condizionate da questa deriva (ma che non lo siano affatto è tanto impensabile quanto non verificabile, attesa la non impugnabilità delle ordinanze), deve anche considerarsi lo svilimento, che alla funzione difensiva viene imposto dalla normativa: il difensore dell'appellante benestante, che per ripugnanza morale o sensibilità sociale evitasse di motivare la richiesta di inibitoria con la povertà della controparte, e ovviamente di documentarla, sarebbe forse una brava persona ma certamente un cattivo avvocato, perché rinuncerebbe a tutelare gli interessi del suo assistito con gli strumenti forniti dalla legge.
E questa situazione non è paragonabile ad es. a quella del difensore del mafioso o del pedofilo o dello stupratore che cerchi di far invalidare la prova viziata da cui emergerebbe la colpevolezza dell'imputato, difensore che comunque tutela l'interesse del suo assistito alla libertà personale e quello dell'ordinamento a condannare solo sulla base di prove genuine. Il difensore dell'appellante benestante che debba sostenere, davanti al giudice di appello, che l'appellato non deve godere della sentenza di primo grado perché è povero, quale funzione è costretto a svolgere?
6. Prospettive
In questo quadro desolante, bisogna pur provare a immaginare forme di mitigazione, e magari di innovazioni per un futuribile legislatore illuminato.
6.1. Un diverso concetto di fumus
Nonostante l'approssimativo riferimento del nuovo art. 283 c.p.c. all'impugnazione che appaia “manifestamente fondata”, è sicuramente necessario recuperare un ruolo effettivo al fumus boni iuris.
Ai fini dell'inibitoria, infatti, la manifesta fondatezza dell'impugnazione, sia perché “apparente” sia perché valutata in un provvedimento interlocutorio, non può e non deve avere la stessa concludenza richiesta ai fini della sentenza di accoglimento dell'appello. Al di là quindi delle ipotesi in cui tale accoglimento sembri certo, dovranno considerarsi quei casi sempre più diffusi, in cui la sentenza di primo grado risulti affetta da errori procedurali o di giudizio così gravi, che la sua eventuale conferma possa derivare soltanto da una rinnovata/integrata istruzione e/o motivazione.
Se risulta che prove orali non ammesse in primo grado debbono dal giudice di appello essere ammesse, oppure rinnovate a causa dell'approssimazione con cui sono state assunte, l'impugnazione “apparirà” manifestamente fondata, perché al di là dell'esito finale la decisione andrà motivata in modo totalmente nuovo. Se risulta che una CTU è stata indebitamente omessa, oppure mal fatta o non approfondita, oppure travisata dal primo giudice, sì che se ne rende necessaria la rinnovazione o l'integrazione o il riesame, ugualmente l'impugnazione “apparirà” manifestamente fondata, perché al di là dell'esito finale la decisione andrà motivata in modo totalmente nuovo. E lo stesso dovrà ritenersi, quando risulti l'omesso esame di un punto essenziale della causa, sul quale solo l'appello per la prima volta appunterà l'attenzione.
Con la sospensione dell'esecutorietà in queste non rare ipotesi di grave approssimazione della decisione di primo grado, la tutela dei diritti dell'appellante (anche benestante) sarà sicuramente più pregnante, e scevra di aspetti degradanti, rispetto a quella ottenuta additando al giudice la controparte quale malfidato povero.
6.2. Idee per modifiche normative
Sul piano normativo, si dovrebbe ripensare la generalizzata esecutorietà della sentenza di primo grado, il cui concreto funzionamento ha tradito le aspettative. Se il giudizio di primo grado è diventato il centro del processo quanto alla riduzione del diritto delle parti ad adeguare le difese al suo andamento, ma non quanto all'affidabilità del suo prodotto finale dato dalla sentenza, allora insistere in quella esecutorietà sembra inutile e disfunzionale, tranne che per materie specifiche come il lavoro o i danni da circolazione automobilistica. Un sorvegliato ritorno all'originaria formulazione degli articoli 282 e 283 c.p.c., pur opportunamente rivisitati, costituirebbe oggi un progresso, rispetto alla regressione che incombe.
Si dovrebbe poi metter mano al vecchio e incomprensibilmente inalterato art. 373 del codice, consentendo la sospensione della sentenza di secondo grado anche in presenza di fumus di fondatezza del ricorso di legittimità, e affidando la relativa decisione alla Corte di Cassazione. Non si vede infatti perché, a fronte di Corti sovranazionali che possono disporre forme di tutela immediata della parte ricorrente (come la Corte EDU, competente a impartire ordini urgenti agli Stati convenuti), non possa essere il nostro giudice di legittimità a valutare, nella pienezza delle funzioni anche quanto al fumus, se meritino stabilità le singole sentenze di appello. Sentenze la cui presunzione di buona qualità è rimasta finora, ai fini dell'inibitoria, un dogma del nostro sistema.
[1] A tale proposito, un magistrato di lunga esperienza ha affermato di vedere nella previsione ordinamentale di un fascicolo che riporti le “gravi anomalie” del magistrato “qualche conseguenza positiva. Qualche collega che non motiva i provvedimenti, sarà costretto a farlo. Il giudice, che respinge sempre le prove richieste dalle parti e poi rigetta la domanda per mancanza di prove, dovrà essere più professionale” (cfr. Milella: Spera: “Non sposo le ragioni di questa ANM divisa in correnti”, in “La Repubblica”, 15.5.2022)
[2] In https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/93-diritto-ed-economia/2453-il-ritorno-del-diritto-di-classe
Sommario: 1. Il volume di Lauréline Fontaine e la prefazione di Alain Supiot - 2. La funzione di un Consiglio costituzionale quale contro-potere a tutela dei diritti di libertà dei cittadini - 3. Le critiche di Lauréline Fontaine al funzionamento della giustizia costituzionale francese. I legami con il mondo politico e l’assenza di una vera indipendenza - 4. Segue: l’inadeguatezza dei membri che la compongono - 5. Segue: l’inadeguatezza dell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della decisione, normalmente rimesso alle indicazioni del Governo o del Parlamento - 6. Segue: l’inadeguatezza della procedura e delle motivazioni delle decisioni - 7. Osservazioni riassuntive delle questioni sollevate.
1. Il volume di Lauréline Fontaine e la prefazione di Alain Supiot
Ho avuto occasione di leggere questo libro di Lauréline Fontaine, La Constitution maltraitée, Paris, 2023, e mi fa piacere presentarlo ai lettori di Giustiziainsieme, in quanto l’ho trovato sbalorditivo, in Italia nessuno si permetterebbe di scrivere cose del genere.
Si tratta, come può comprendersi dal titolo del lavoro, di un’analisi che ella compie sul Consiglio costituzionale francese, e il suo pensiero al riguardo viene così sintetizzato nella quarta di copertina: “Lauréline Fontaine getta una luce cruda sulla realtà della giustizia costituzionale sotto la V Repubblica, ella pone una diagnosi travolgente: lontano da essere una vera Corte costituzionale, il Consiglio costituzionale resta una istanza essenzialmente politica, non costituisce un contro-potere ma una anomalia democratica”.
Questo giudizio si ha (ancora quarta di copertina): “al termine di una riflessione solidamente argomentata, tanto in fatto che in diritto”, con la quale Lauréline Fontaine “sfata, uno ad uno, i miti che circondano - les sages de la rue de Montpensier-”.
E ancora: “L’assenza di una procedura a contraddittorio paritetico tra le parti e di misure di sicurezza volte a prevenire conflitti di interesse, dimostra che il modo con il quale la giustizia costituzionale è resa in Francia è assolutamente incompatibile con i principi elementari di democrazia e di Stato di diritto”(sempre dalla quarta di copertina).
Si tratta, quindi, di una posizione gravemente critica, con un atteggiamento che, ripeto, vanamente si potrebbe ricercare negli scritti giuridici italiani; e tuttavia Lauréline Fontaine non può essere considerata ne’ una sprovveduta, ne’ un’ignorante: ella è infatti professore di diritto pubblico e costituzionale presso la Sorbonne Nouvelle à Paris, e quindi va annoverata tra gli esperti del diritto costituzionale francese, senz’altro una studiosa.
Il libro, poi, contiene una prefazione di Alain Supiot, un giurista e sociologo noto in Francia, professore emerito del Collège de France, avendo insegnato lì dal 2012 al 2019.
Alain Supiot, nella presentazione del volume, precisa che “il libro potrà sembrare a qualcuno troppo severo, a tratti brutale” (pag. 19); tuttavia esso è il frutto “di una ricerca approfondita, ricca di dati fattuali, di casi concreti” (pag. 14).
Alain Supiot ricorda il Vangelo di Matteo: “con il metro con il quale giudicate sarete giudicati” (pag. 13), e poi afferma che Lauréline Fontaine, con “una ricerca sociologica e un’analisi giuridica solidamente argomentate”, ha fatto la stessa cosa, e i risultati della ricerca sono inquietanti “sia che si tratti della composizione del Consiglio costituzionale, della motivazione delle sue decisioni, dell’equità delle sue procedure, del modo di designazione dei suoi membri, delle loro competenze giuridiche, del loro statuto materiale e deontologico o delle loro condizioni di lavoro, vanamente si potrebbe ricercare un solo registro sul quale la Francia possa dare delle lezioni al resto del mondo” (pag. 13).
E ancora Alain Supiot: “Salvo rare eccezioni, i suoi componenti non devono la poltrona a una dimostrazione d’indipendenza di spirito e di alte competenze giuridiche, ma piuttosto al favore politico”.
Egli arriva, con una espressione che a noi suona offensiva, a considerare il Conseil constitutionel una specie di “casa di riposo” (maison de retraite) “des anciens présidents de la République” e “pour les personnalités bien en cour” (pag. 14/5).
Sottolinea che lo spirito di Lauréline Fontaine è quello di “aprire un dibattito su la riforma continuamente rinviata del nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi”; anche se, avverte: “Lauréline Fontaine ci chiarisce le ragioni profonde dello strano consenso che vi è presso il Conseil constitutionel per mantenere lo status quo” (pag. 16).
Nei ringraziamenti Lauréline Fontaine conclude altresì asserendo che: “Negli ultimi tempi, mi è spesso stato detto di essere coraggiosa” (pag. 271), e può apparire paradossale che nella terra di Voltaire l’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sacro e inviolabile, possa considerarsi un atto di coraggio.
Ci sono quindi elementi sufficienti a giustificare una segnalazione del volume, e ciò, se si vuole, anche alla luce del dovere di diffondere, all’interno dell’unione europea, lo studio e la ricerca giuridica.
2. La funzione di un Consiglio costituzionale quale contro-potere a tutela dei diritti di libertà dei cittadini
Ciò premesso, nella introduzione l’autrice precisa che l’esistenza di una Corte costituzionale: “distingue uno Stato di diritto da uno Stato arbitrario, uno Stato liberale da uno Stato autoritario” (pag. 25).
Infatti, si può sostenere, avere una Corte costituzionale significa soprattutto avere: “la possibilità di regolare il diritto in virtù della costituzione, di limitare l’esercizio del potere politico a partire dal riconoscimento dei diritti di libertà e dell’essere umano” (pag. 25).
Lauréline Fontaine ricorda poi che il Conseil costitutionel nasceva in Francia nel 1958 “per controllare la conformità delle leggi al testo della costituzione” (pag. 26), e la sua storia ha avuto fasi diverse: nasceva nella V° Repubblica per volere soprattutto del generale De Gaulle, e, nel primo periodo, “semplicemente incaricato di proteggere il potere esecutivo, cioè il Governo e il Presidente della Repubblica dagli eccessi del parlamento”; non a caso, nei primi anni, il Conseil costitutionel taluni lo nominavamo “il cane da guardia dell’esecutivo (chien de garde de l’exécutif)” (pag. 27).
La svolta si aveva nel 1971, dopo la morte del generale De Gaulle, che già nel 1969 aveva lasciato il potere.
“Il Consiglio rende una decisione con la quale censura una legge modificante le condizioni di esercizio della libertà di associazione……….detto in altri termini, con ciò nasceva il controllo di costituzionalità di garanzia dei diritti e delle libertà. Il Consiglio non cesserà in seguito di impegnarsi in questo percorso, censurando oppure validando le leggi sottoposte al suo esame, sempre sul fondamento dei diritti di libertà protetti dalla Costituzione. I francesi avevano finalmente la loro giustizia costituzionale” (pag. 28).
Ma le cose cambiavano ancora avvicinandosi ai nostri giorni.
Lauréline Fontaine nota che “molti osservatori della vita politica e giuridica francese constatano come, da trenta anni a questa parte, le libertà siano progressivamente e rigorosamente diminuite…..le leggi adottate dal Parlamento, quasi sempre assunte ad iniziativa del Governo, hanno abbassato costantemente e sicuramente il livello di protezione dei diritti di libertà, ovvero dei diritti di libertà individuale, di libertà di circolazione, di pensiero, di espressione, di riunione e di manifestazione, di protezione della vita privata, di protezione dalle decisioni arbitrarie del potere amministrativo e giudiziario” (pag. 29).
E aggiunge: “ora, però, queste leggi sono state egualmente validate dal Conseil costitutionel, che non ha dunque niente impedito” (29); e seppur sia purtroppo questa la realtà, intorno al Conseil costitutionel si è costruito un vero catechismo (véritable catéchisme) in senso contrario dal 1970 “che gli studenti di giurisprudenza apprendono dal primo anno di studi, e che quindi in seguito è difficile smontare. Anche i più ardenti difensori dei diritti cedono sorprendentemente dinanzi a questi discorsi” (pag. 30).
Lauréline Fontaine critica duramente il Conseil costitutionel e asserisce: “i rudimenti di una giustizia indipendente, imparziale e democratica sono ignorate ad un punto tale che, alle volte, è difficile da credere” (pag. 30).
Ella rileva ciò in base a più fattori, che poi nel corso del libro cerca di spiegare e dimostrare: “à la déontologie”, a ”gli incarichi concessi come compiacimento del potere (une complaisance que le pouvoir leur a fait)”, a “les pratiques de conseil” a “la motivation de ses décisions”, ecc….(pag. 31).
In conclusione, il giudizio che Lauréline Fontaine dà del Conseil costitutionel è tranchant: “In breve” ella scrive: “il consiglio costituzionale non può essere considerato un giudice indipendente e imparziale, presenta una giustizia al ribasso, ove la riflessione costituzionale non ha quasi mai spazio” (pag. 32).
Il Consiglio costituzionale, che dovrebbe svolgere la funzione di garanzia per i cittadini e di contro-potere (contro-pouvoir) a fronte dell’esercizio del potere esecutivo e legislativo, non svolge più la sua funzione, e ciò con gravi conseguenze poiché “è in gioco la democrazia del paese……..e ciò sotto ogni livello di questioni che si voglia porre: dall’indipendenza, l’imparzialità, l’etica, la deontologia dei giudici…..Se in questo paese noi non conosciamo la giustizia costituzionale, è perché questa non è più un contro-potere e non è più all’altezza degli enunci di una Costituzione considerata la fonte del nostro sistema di libertà (pag. 32/33)”.
3. Le critiche di Lauréline Fontaine al funzionamento della giustizia costituzionale francese. I legami con il mondo politico e l’assenza di una vera indipendenza
Ma quali sono più precisamente gli argomenti di Lauréline Fontaine per rivolgere al Conseil costitutionel critiche così severe?
La prima, come anticipato, è quella di non essere indipendente, soprattutto nei confronti del governo e del mondo politico.
Lauréline Fontaine premette che quando il Conseil costitutionel deve verificare la costituzionalità di una legge “giudica il lavoro di più attori: il Governo, che è spesso all’iniziativa della legge, il Presidente della Repubblica, che ne può aver dato l’impulso, e il Consiglio di Stato, che si è pronunciato a monte sul progetto”; e in questo contesto è evidente che dunque: “il Governo svolge un ruolo di difensore della legge davanti al Consiglio costituzionale” (pag. 39).
Ora, a fronte di ciò, si ha invece una situazione nella quale il Conseil costitutionel “è essenzialmente composto di personalità tutte uscite dal mondo politico che dovrebbe essere controllato. Dal 1959 sono infatti soprattutto nominate personalità la cui carriera è stata principalmente politica, e che sono stati implicati nella preparazione o nell’adozione delle leggi che il Consiglio è chiamato a giudicare” (pag. 40/1).
Precisa Lauréline Fontaine: “in seno al Conseil costitutionel si possono trovare ex Presidenti della Repubblica, ex primi ministri (attualmente due, di cui uno presiede l’istituzione), ex ministri (attualmente due), ex titolari delle più alte posizioni amministrative (attualmente un ex segretario generale dell’Assemblea nazionale), o ex direttori di gabinetti ministeriali (attualmente due). Non vi si trovano personalità che non hanno avuto attività direttamente legate all’esercizio del potere se non in via di eccezione (attualmente nessuna)” (pag. 41). Ciò fa sì che: “un consigliere deve controllare una legge che egli stesso può aver concorso a fare, o a livello di iniziativa, o a livello di adozione, e ciò quando egli era ancora membro del Consiglio, o era ministro, o direttore di gabinetto, o parlamentare” (pag. 41).
Nelle pagine successive Lauréline Fontaine fa esempi concreti in cui ciò è avvenuto, con tanto di nomi e di date.
Sono casi che non interessano un pubblico italiano, ma sui quali Lauréline Fontaine, per dimostrare la bontà delle sue tesi, si dilunga: ricordo solo la decisione 1 aprile 2022 a proposito della legge urbanistica detta ELAN; due membri del Conseil costitutionel avevano conosciuto la legge quali ministri, uno di questi aveva addirittura adottato la circolare attuativa della legge (pag. 44); v’è poi l’esempio della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, di cui un membro del Conseil aveva partecipato all’approvazione della legge (décision n° 2001-446 DC); o quella relativa alla legge sull’indipendenza dei professori universitari, di cui una personalità aveva avuto un ruolo prima in Parlamento e poi in seno al Conseil costitutionel (décision n° 2010-20/21 QPC), ecc…..(pag. 45).
Spesso, avverte Lauréline Fontaine, la nomina a consigliere avviene “Quando questi sono ancora membri del governo o del parlamento” (pag. 45), e fa gli esempi di Jacqueline Gourault e Laurent Fabius (presidente del Conseil dal 2016), nominati quando ancora erano ministri in esercizio, o di Jacques Mézard e Francois Pillet, che al momento della nomina sedevano ancora in Senato (pag. 46).
Ed inoltre: “Al momento di prendere le funzioni Laurent Fabius indicava in effetti che egli avrebbe conservato la presidenza del COP 21 (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), e a tale titolo conservava un ufficio a Quai d’Orsay” (pag. 172).
Sono molti i casi del genere e così Lauréline Fontaine sottolinea che v’è indiscutibilmente presso il Conseil costitutionel: “una concezione leggera delle incompatibilità con l’esercizio d’altre funzioni” (pag. 196).
A colorire la situazione v’è poi la questione delle decorazioni della Légion d’honneur: “Ora, queste decorazioni sono sotto la responsabilità del Presidente della Repubblica, gran maestro dell’Ordine della Légion d’honneur. Tra coloro che hanno accettato questo onore mentre erano giudici del Conseil costitutionel si conta Louis Gros, Léon Jozeau-Marigné, Louis Joxe, Pierre Mazeaud, Pierre Steinmetz, Hubert Haenel, Lionel Jospin, Laurent Fabius; nessuno di loro, peraltro, era estraneo al mondo politico. Domenique Schnapper, ex membro del Conseil costitutionel fa questa constatazione: Alcun testo lo vieta, ma sarebbe più dignitoso, per sottolineare l’indipendenza del Consiglio, di accettare queste decorazioni alla fine del mandato, o, in ogni caso, di evitare che esse siano rimesse dall’autorità che ha il potere di nomina dei consiglieri quando questi sono ancora nell’esercizio delle loro funzioni. Una tale interdizione esiste per i parlamentari, è sbalorditivo che al contrario non esista per i membri del Conseil costitutionel” (pag. 171).
Evidentemente, osserva Lauréline Fontaine “Cette situation de double casquette est un problème pour la garantie d’un procès équitable”.
Ne’, prosegue ancora Lauréline Fontaine, avverso simili situazioni esistono norme che consentano “la ricusazione dei giudici che non offrono sufficienti garanzie d’imparzialità” (pag. 50); anzi, ella ricorda, a tal fine, che la legge 6 luglio 2016, che sottoponeva la magistratura al controllo delle incompatibilità e delle obbligazioni deontologiche, veniva dichiarata incostituzionale dal Conseil costitutionel in data 28 luglio 2016 (décision n° 2016 -732 DC): a) per quanto riguarda l’autorità giudiziaria ordinaria nella parte in cui sottoponeva detto controllo dell’Alta Autorità per la trasparenza della vita pubblica, e ciò, evidentemente, in nome dell’autonomia del potere giudiziario; b) e invece interamente, e in ogni sua disposizione, nella parte in cui essa si applicava anche ai membri del Conseil costitutionel: “Questi due pesi e due misure tra i membri del Consiglio costituzionale e i magistrati dell’ordine giudiziario sembra indegno. Il Consiglio così evita dunque ancora una volta di sottostare a delle regole ispirate dalla deontologia” (pag. 176).
Lauréline Fontaine ricorda infine il pensiero di Léon Duguit, che nel 1923 aveva detto: “se una Corte costituzionale si recluta per cooptazione, ella diventerà presto una sorte di corpo aristocratico incompatibile con una democrazia moderna”
Osserva Lauréline Fontaine: “Egli aveva visto giusto, poiché cento anni dopo, i membri del Consiglio costituzionale in Francia si reclutano con una procedura assimilabile a quella della cooptazione, ovvero con un semplice sistema di ricompensa per la carriera politica svolta” (pag. 66).
4. Segue: l’inadeguatezza dei membri che la compongono
La seconda critica mossa al Conseil costitutionel è quella che i suoi membri, in molti casi, non sono all’altezza dei compiti che devono svolgere.
I compiti di una Corte costituzionale sono infatti assai delicati e difficili, e quindi dovrebbero essere svolti da giuristi di chiara fama, indipendenti, i migliori che uno Stato abbia a disposizione.
Al contrario, secondo Lauréline Fontaine, in Francia: “si scelgono soprattutto delle personalità che hanno una carriera politica a livello nazionale…..pure quando sono nominati autentici magistrati di carriera, ciò avviene perché essi hanno una carriera all’interno dell’organizzazione amministrativa della giustizia" (pag. 94), ed anzi: “dal 1959 le autorità aventi potere di nomina hanno scrupolosamente tenuto a nominare delle personalità uscite dal mondo politico, e abbastanza spesso senza formazione o esperienza giuridica effettiva…….Questa pratica ignora le qualità necessarie che deve avere chi rende detto tipo di giustizia, e così il rischio che l’organo possa diventare un vero contro potere si riduce……..Il Consiglio è piuttosto considerato come un collaboratore del quale si ammette assai raramente che l’azione possa effettivamente contrariare quella di una maggioranza o di una coalizione in carica” (pag. 95); “Il potere politico, infatti, in tanto tollera una Corte costituzionale in quanto questa non va contro i suoi interessi” (pag. 102).
Ed ancora: “Qualcuno dei componenti del Conseil costitutionel ha avuto una formazione giuridica, ma dati alla mano ha sempre riguardato solo una minorità tra loro, e in tutti casi erano tutte personalità legate all’esercizio del potere politico. Quattro membri sono usciti dall’ENA, di cui due ex primi ministri, un ex direttore di gabinetto del presidente del Senato, e un ex direttore generale del gruppo AXA; un membro è stato un tempo professore di storia e geografia, esercitando in seguito funzioni locali e senatoriali e infine ministeriali, due membri sono avvocati di lunga esperienza ma hanno quasi sempre contemporaneamente esercitato delle funzioni politiche elettive, un membro infine è stato allievo della scuola nazionale della magistratura e poi magistrato” (pag. 93).
In sostanza: “Uno dei vecchi consiglieri lo confessa: il Consiglio vive in un clima di povertà intellettuale” (pag. 134); “Il Consiglio costituzionale manca di competenze e di esperienza nel campo della discussione giuridica” (pag. 135).
Si richiamano, infine, le testimonianze di Domenique Schnapper, universitaria e sociologica di formazione, membro del Conseil costitutionel dal 2001 al 2010, al termine del mandato ha scritto un libro dal titolo : “Une sociologue au Conseil costitutionel” (pag. 135/6). Onestamente ha confessato di essersi messa umilmente a studiare il diritto al suo ingresso al Consiglio, ma di essersi subito accorta che la formazione giuridica non era poi così necessaria per decidere i casi. E poi ancora così si rivolgeva Olivier Becht, in Assemblea nazionale, alla consigliera Jacqueline Gourault: “Non è precisato da nessuna parte della Costituzione che è necessario aver fatto studi di diritto per poter sedere al Conseil costitutionel. Voi avete, signora, esperienza di Stato e più ancora, quelle delle collettività locali. Voi disponete di tutte le competenze e di tutte le qualità richieste, il pragmatismo e il senso dell’equilibrio non sono inferiori per esercitare quelle funzioni” (pag. 137).
Lauréline Fontaine fa le sue osservazioni su questa situazione: “Valutare la costituzionalità delle leggi non è fare della politica, è stabilire al contrario cosa la politica può fare e cosa non può fare……..il lavoro del giudice costituzionale deve essere a distanza dalla politica………la cultura giuridica normalmente è assente tra i membri del Conseil costitutionel, soprattutto quella del diritto costituzionale. Se questa mancanza di conoscenze può far parte del giuoco nel momento della fabbricazione delle leggi, si comprende che tale ignoranza a livello della giustizia compromette il futuro stesso di una società secondo diritto” (pag. 139).
5. Segue: l’inadeguatezza dell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini della decisione, normalmente rimesso alle indicazioni del Governo o del Parlamento
La terza critica mossa al Conseil costitutionel è quella di non svolgere una vera funzione giurisdizionale.
Lauréline Fontaine osserva in proposito che la giustizia costituzionale, diversamente dalla funzione giurisdizionale ordinaria, non accerta sostanzialmente i fatti.
Si tratta di un aspetto non secondario, che è bene precisare.
Un giudice, infatti, prima di decidere, deve accertare i fatti controversi, e solo sull’accertamento di quei fatti, che egli compie personalmente e quale autorità terza e imparziale, provvede poi a rendere la sua determinazione di diritto, e quindi la sua decisione.
Nella giustizia costituzionale, al contrario, il momento dell’accertamento del fatto non esiste nelle modalità tipiche dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
E se alle volte l’accertamento del fatto non è rilevante nel giudizio di costituzionalità, e quindi la diversità della giustizia costituzionale con la giustizia ordinaria non pone problemi, altre volte invece la determinazione del fatto può essere rilevante, e ciò avviene soprattutto nei casi, sempre più frequenti, nei quali il giudizio di costituzionalità dipende da un’attività di bilanciamento tra diritti che si ritengono contrapposti tra loro.
Scrive Lauréline Fontaine: “nel controllo di costituzionalità di una legge nell’ambito di un giudizio di proporzionalità, le misure restrittive di un diritto devono effettivamente contribuire al perseguimento dell’obiettivo che si intende raggiungere, di tal sorta che non le si possa considerare eccessive rispetto al fine dato. L’idea essenziale che traversa questo controllo è, non lo si dirà mai abbastanza, che se delle misure meno restrittive possono egualmente raggiungere quel fine, allora quelle oggetto di controllo devono essere dichiarate sproporzionate. Si parla in proposito altresì di un controllo sulla necessità delle misure”. (pag. 123).
A pensarci, infatti, nei giudizi c.d. di bilanciamento, il giudizio di costituzionalità, potremmo dire, più che su una legge, cade su dei fatti, e precisamente cade su quei fatti in forza dei quali possa dirsi o meno corretto e proporzionato il sacrificio di un diritto in favore di un altro.
Lauréline Fontaine fa degli esempi, tra i quali v’è anche quello, ovviamente, relativo al Covid 19 (pag. 124 e ss.), e poi quelli: “alla lotta contro il terrorismo, lotta contro l’immigrazione clandestina” (pag. 230), oppure quelli nei quali: “Il Consiglio proclama esplicitamente la protezione dell’ambiente e la possibilità a questo fine di limitare la libertà imprenditoriale” (pag. 235), ecc…….
Ed infatti, e a titolo di esempio: se la condizione Covid 19 è grave, detta gravità giustifica per l’appunto la restrizione del diritto alla libertà di circolazione o l’imposizione dell’obbligo vaccinale; se la situazione dell’immigrazione è grave, detta gravità può giustificare talune compressioni del diritto di asilo e/o di accesso e/o soggiorno nel territorio dello Stato; se la situazione climatica e ambientale è grave, il livello di inquinamento generale e di degradazione delle condizioni del pianeta possono giustificare talune restrizioni alla libertà personale o imprenditoriale, oppure imporre talune altre condotte finalizzate alla salvaguardia dell’ambiente e/o della salute; ancora, se vi sono in corso minacce terroristiche od altri fatti gravi e concreti volti a minare la sicurezza personale dei cittadini, leggi repressive straordinarie possono ritenersi costituzionalmente legittime alla luce della situazione di fatto del momento; se infine la circolazione stradale produce ogni anno un numero assai elevato di morti o di feriti, talune limitazioni alla circolazione in automobile potrebbero essere poste in essere nel rispetto dei principi costituzionali, ecc……
In tutti questi casi, come ben si vede, il giudizio di costituzionalità non ha ad oggetto la legge, poiché la legge, infatti, escludendo un diritto di libertà garantito costituzionalmente, di per sé è sempre incostituzionale; il giudizio ha ad oggetto, al contrario, quei fatti in forza dei quali si ritiene che sia egualmente legittimo comprimere un diritto per salvarne un altro; e in tutti questi casi non è la legge che è costituzionale o incostituzionale; sono i fatti che la rendono, o non la rendono, tale.
Ora, però, ed è questa la questione, l’accertamento di questi fatti non è dato, nella sostanza delle cose, in modo terzo e imparziale dall’organo costituzionale che è tenuto ad esprimere il giudizio, bensì è dato dalla stessa pubblica amministrazione che ha posto la legge e che dinanzi al giudice costituzionale la difende.
Lauréline Fontaine: “Le ragioni presentate dal legislatore (e, nei fatti, dal Governo, che difende la legge davanti il Consiglio costituzionale) per giustificare una restrizione ai diritti, è data come vera”; e ciò perché: “secondo la formula normalmente usata, il Conseil costitutionel non dispone d’un potere generale d’apprezzamento dei fatti e di decisione della stessa natura del Parlamento.” (pagg. 126/7).
In sostanza, il Conseil costitutionel valuta la costituzionalità delle leggi sulla base degli elementi di fatto forniti dal legislatore e dal Governo e non ha la possibilità, ne’ rientra tra i suoi compiti, quella di indagare sulla bontà delle ragioni che hanno giustificato la legge.
“Il Conseil costitutionel espone dei fatti e delle idee: “sans avor l’air de les vérifier”, e quindi: “Il consiglio non svolge dunque una vera funzione di giudice, ma si basa precisamente sulla dinamica della posizione del legislatore per valutare la costituzionalità della legge” (pag. 125); seppur: “Il giudice costituzionale è teoricamente un giudice” (pag. 127).
Oltre agli esempi sopra richiamati, Lauréline Fontaine ne porta altri, e ricordo qui, per tutti, il caso Georg Vedel, relativo alla legge sulla cittadinanza del 12 dicembre 1981, nel quale si discuteva se il Conseil costitutionel potesse entrare nel merito dei fatti e delle idee che avevano indotto il legislatore a fare certe scelte: “Il problema della nazionalizzazione oppone una filosofia dirigista ad una liberale, il Consiglio non può entrare in questi giudizi” (pag. 128).
Dunque, la questione penso sia chiara: la circostanza che nei giudizi di costituzionalità c.d. di bilanciamento oggetto del giudizio siano soprattutto i fatti che giustificano la legge, e la circostanza che la fissazione di questi fatti non è data dal giudice ma dal potere politico, o da enti che a quel potere sono riconducibile, fa sì che la giustizia costituzionale debba considerarsi in tutti quei casi una giustizia al ribasso (Une justice au rebais, pag. 133 e ss.), ovvero inidonea a tutelare i diritti di libertà che uno Stato democratico assicura ai suoi cittadini.
Aggiungo che la questione, se si vuole, può presentarsi anche in Italia.
Il problema non esista in teoria, poiché il teoria il procedimento dinanzi alla nostra Corte costituzionale prevede una possibile attività istruttoria agli artt. 13 e ss. della l. 10 marzo 1953 n. 87, il problema esiste in pratica e a livello di consuetudine procedimentale, poiché a me personalmente non risulta che la Corte costituzionale abbia mai sfruttato questa possibilità a fronte invece dei molti giudizi basati sul bilanciamento di contrapposte esigenze.
E direi che questa è anche la posizione della nostra dottrina, se è vero che G.A. FERRO, Modelli processuali ed istruttoria nei giudizi di legittimità costituzionale, Torino, 2012, 252 ha asserito che: “Il giudice delle leggi ha voluto mantenersi sempre –nell’esercitare i propri poteri istruttori- entro i confini cognitivi della sfera del potere pubblico”, e G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 291, ha altresì precisato che il Governo “è spesso soggetto interessato, e comunque la sua attività di reperimento dei dati richiesti si svolge fuori di qualunque controllo e di ogni contraddittorio” (v. infatti, G. RAGONE, L’attivazione del potere istruttorio, AIC, 2020, I, 231).
6. Segue: l’inadeguatezza della procedura e delle motivazioni delle decisioni
È chiaro, e torno immediatamente in Francia, che una simile situazione incide altresì sul procedimento e sul giudizio.
Il procedimento dinanzi al Conseil costitutionel, escluso l’accertamento indipendente dei fatti rilevanti, si manifesta, conseguentemente, poco equo e poco rispettoso del principio del contraddittorio paritario tra le parti (“peu équitable et peu contradictoire”, pag. 202).
Le parti, infatti, sotto questo punto di vista, non stanno sullo stesso piano, poiché la parte che chieda la dichiarazione di incostituzionalità della legge non ha tuttavia la possibilità di contraddire e/o far verificare la ricostruzione dei fatti sulla base dei quali si fonda la ragione di bilanciamento tra diritti.
Lauréline Fontaine osserva che: “Ci sono, nel processo costituzionale, degli attori previlegiati: il Governo, il Segretario generale” (pag. 220), soprattutto quest’ultimo, visto che: “l’esperto della legge sulla quale il Conseil costitutionel deve pronunciarsi è proprio il Segretario generale del Governo, che può considerarsi come il più agguerrito e il più formato sulle questioni che devono essere dibattute” (pag. 203).
E’ di tutta evidenza, poi, che questi limiti incidono inoltre sulla qualità delle decisioni.
Su questo, Lauréline Fontaine si dilunga.
Osserva che, normalmente, i presupposti di fatto sono meramente riportati in sentenza sulla base della prospettazione presente negli atti difensivi dell’avvocatura dello Stato, e la motivazione delle sentenze normalmente non contengono disamine giuridiche particolari, ma solo la dichiarazione che il bilanciamento già effettuato dal Governo e/o dal Parlamento per legittimare la legge è conforme a Costituzione e proporzionato.
Lauréline Fontaine: “Il Conseil costitutionel chiude la porta all’argomentazione giuridica e risponde con una procedura che possiamo considerare tautologica. Nella premessa, il Consiglio normalmente ricopia l’enunciato dei valori costituzionali che ha scelto come referenza. Ma non esplicita le ragioni della scelta di quei principi, ne’ la sua origine, ne’ il suo contenuto. In seguito, il Consiglio non spiegherà le ragioni per le quali le disposizioni da giudicare sono o non sono contrari ai principi di referenza scelti. Tutte le decisioni rese dal Consiglio possono servire da esempio.” (pag. 147).
Gli esempi contenuti nel volume di Lauréline Fontaine sono molti, e non avrebbe senso riportarli in questa sede.
L’autrice ne evidenzia soprattutto le caratteristiche più ricorrenti.
La prima regola generale è quella di richiamare tutti i precedenti, alle volte in modo esteso: “Una prima soluzione consiste nell’andare a ricercare dei precedenti” (pag. 154).
Ciò, si osserva, può allungare la misura delle pagine dedicate alla motivazione, ma non renderla sufficiente se questa si limita, come in molti casi, a dei richiami meramente formali con argomenti di tipo tautologico.
Normalmente, secondo meccanismi ben conosciuti e ben rodati: “il giudice stabilisce l’opportunità di decidere in un modo o nell’altro, e solo dopo va a cercare le ragioni per giustificare la scelta che a monte aveva già fatto” (pag. 112)
V’è poi: “La pratica del Conseil costitutionel che consiste nel far passare ciò che dice come evidente” (pag. 152). O ancora: “Per mascherare una incostituzionalità il Conseil costitutionel può dare le apparenze della necessità di una tale violazione” (pag. 114). “Oppure può ricorrere a una nozione puramente e semplicemente inventata per l’escludere l’idea che la costituzione sia stata violata” (pag. 117). Od ancora il Conseil costitutionel può usare la tecnica della brevità, e: “la brevità della decisione fa passare per evidenti le circostanze particolari della fattispecie” che evidentemente possono però non esserlo (pag. 118). Lauréline Fontaine fa in proposito l’esempio della motivazione (standard): “tenuto conto delle circostanze particolari della fattispecie non v’è luogo di giudicare che questa legge (organica) sia stata adottata in violazione delle regole previste dall’art. 46 della Costituzione” (pag. 118)
O “Il Conseil costitutionel usa costantemente dei concetti generali che non sono formulati tra i valori costituzionali per legittimare scelte di politica legislativa” (pag. 120). Tra questi ricorda soprattutto l’interesse generale, la lotta contro qualcosa (lotta contro il terrorismo, lotta contro l’immigrazione clandestina, lotta contro l’evasione fiscale, lotta contro la delinquenza minorile, ecc…..pag. 121), o il controllo di proporzionalità (pag. 123 e ss.), o ancora quello del cavalier législativ, una espressione “che designa il fatto che il legislatore ha introdotto nella legge delle disposizioni che non hanno alcuna pertinenza, nemmeno indirettamente, con l’oggetto della legge o con l’oggetto delle altre disposizioni della legge stessa” (pag. 176), con ciò rendendo possibile, evidentemente, l’espulsione dalla legge, a discrezione, di un po’ tutto quello che si vuole.
“Altra tecnica del Consiglio consiste al riguardo a minimizzare la portata restrittiva posta in essere su un diritto garantito costituzionalmente da una parte, e a aumentare e potenziare la portata dell’interesse generale che è perseguito a scapito di quel diritto, da altra parte” (pag. 124).
Alle volte le decisioni del Conseil costitutionel sono lunghe e procedono per pagine e pagine di motivazione, “Ma una decisione più lunga non costituisce garanzia di una decisione argomentata” (150), poiché come nel caso della décision n. 2016-745 DC su eguaglianza e cittadinanza: “la decisione del Conseil costitutionel è lunga perché ha ad oggetto cinquanta diverse disposizioni di legge” (pag. 150).
Le osservazioni di queste prassi trovano critiche severe, e forse anche esagerate, da parte di Lauréline Fontaine: “In conclusione può dirsi che i consiglieri non hanno ne’ la formazione ne’ l’esperienza sufficiente per giudicare in queste condizioni. Ma l’idea che essi hanno della giustizia costituzionale non li conduce ad allarmarsi di ciò poiché essi non ritengono che il loro lavoro debba essere qualcosa di complesso, paziente e particolarmente esigente. Il risultato è che le decisioni sono povere, senza alcuna vera argomentazione, e non fanno apparire la giustizia costituzionale come un contro-potere ma come un'altra maniera d’esercitare il potere. Il problema è che nemmeno gli osservatori fino ad oggi hanno ritenuto di denunciare la situazione. Presso i giuristi l’idea è che si debba interpretare le decisioni del Consiglio con i magri elementi a disposizione, non altro. In questa maniera il Consiglio e i suoi membri hanno persistito nell’ignoranza di cosa sia una giustizia costituzionale degna di uno Stato democratico e continuano a considerarlo un semplice lavoro di collaborazione al potere politico…..e la lealtà della quale hanno dato prova all’esercizio del potere esecutivo è considerata come un atto necessario e salutare. La concezione minimalista della giustizia costituzionale regna dunque in seno al Consiglio” (pag. 165/6).
Con toni un po’ forti Lauréline Fontaine titola alcuni paragrafi del libro: “La justice constitutionnelle: un club privé” (pag. 202); “Les lobby à l’assaut de la justice constitutionnelle” (pag. 209); “La désillusion sociale de la justice constitutionnelle” (pag. 223), ecc...
7. Osservazioni riassuntive delle questioni sollevate
In conclusione, io credo che questo libro possa suscitare tre diverse reazioni, a seconda delle sensibilità:
a) alcuni possono ritenere che si tratti solo della posizione di una giurista, affatto corrispondente alla realtà, e relativa esclusivamente alla sua soggettiva interpretazione dei dati;
b) altri possono invece ritenere che le argomentazioni di Lauréline Fontaine sono documentate, e quindi che la sua rappresentazione dello stato della giustizia costituzionale sia reale, ma che tuttavia essa rappresenta solo la realtà della Francia e nient’altro;
c) ed altri ancora potrebbero essere indotti a valutare quanto di quelle critiche possono corrispondere a dei possibili difetti anche della nostra giustizia costituzionale, e ciò a prescindere dal fatto, sotto un certo profilo non di primordine, che Lauréline Fontaine abbia torto oppure ragione.
Aggiungerei che, in ogni caso, seppur i modi di Lauréline Fontaine siano inusuali per la dottrina italiana, e in taluni momenti brutali, le questioni che solleva, affinché il Conseil costitutionel mantenga la sua funzione, così come la indicava il Presidente Roger Frey nel 1977, “in favore della difesa delle libertà e della protezione dei diritti dei cittadini nei diversi ambiti assegnati al suo controllo dalla Costituzione” (pag. 260), non appaiono anodine, e a tal fine le riassumerei:
aa) la funzione della giustizia costituzionale è quella, si ripete ancora: “di limitare l’esercizio del potere politico a partire dal riconoscimento dei diritti di libertà e dell’essere umano” (pag. 25).
bb) In questa ottica ne consegue che i giudici costituzionali non devono avere legami con la politica e non devono aver svolto in precedenza funzioni governative, ed è altresì necessario che questa indipendenza dalla politica da parte dei giudici costituzionali vi sia anche nelle apparenze, e sia mantenuta successivamente alla cessazione dell’incarico.
cc) È necessario altresì che i giudici costituzionali siano giuristi di indiscutibile preparazione e indipendenza, i migliori tra quelli che lo Stato dispone, e non siano nominati con funzione premiale per le attività precedentemente svolte quali ministri, parlamentari o alti funzionari dello Stato.
dd) È necessario che nel giudizio di costituzionalità, così come avviene in tutti gli altri procedimenti aventi carattere giurisdizionale, il giudice accerti in autonomia e indipendenza i fatti rilevanti ai fini della decisione, e senza che gli elementi fattuali che servono per esprimere il giudizio di bilanciamento, o di congruità e/o di proporzionalità dei sacrifici imposti da una legge per favorire la protezione di altri valori, siano quelli prospettati dal Governo o da enti riconducibili al potere esecutivo.
ee) È infine necessario che le decisioni costituzionali siano compiutamente motivate, ove per motivazione completa debba intendersi qualcosa che non sia la mera ripetizione, o la semplice tautologia, di quanto già le relazioni governative e/o parlamentari hanno esplicitato per giustificare la legge in ordine alla sua legittimità costituzionale.
E possiamo, così, terminare con le parole di Alain Supiot, il quale osservava che, in fondo, “niente di così drammatico fortunatamente si trova nella storia del Conseil costitutionel tracciata in questo libro. Piuttosto qualche -épisode burlesques-, come quello della certificazione dei conti relativi alla campagna di M.M. Chirac e Balladur nel 1995. O francamente inquietante, la giurisprudenza covid, che ha sospeso, nel marzo 2020, il controllo di costituzionalità delle leggi nel momento preciso nel quale le restrizioni di libertà senza precedenti in tempo di pace l’avrebbero reso particolarmente necessario” (pag. 18).
E ancora cita Montesquieu: “c’est une expérience éternelle que tout homme qui a du pouvoir est porté à en abuser; il va jusqu’à ce qu’il trouve des limites” (pag. 18).
Garanzia di questi limiti è, appunto, il giudizio di costituzionalità delle leggi.
Sommario: 1. La forza contagiosa del rinvio pregiudiziale nel sistema delle relazioni fra giudici (nazionali e sovranazionali). - 2. Il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ed i protocolli di dialogo fra le Corti nazionali e la Corte edu: tutti figli del rinvio pregiudiziale di matrice eurounitaria. - 3. Il fattore tempo e le tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali (di ultima istanza). Dal rinvio pregiudiziale “esterno” a quello “interno” - art.363 bis c.p.c.-. - 4. La proposta di modifica delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale “esterno”. - 5. Il concetto scivoloso di “materia” alla base della competenza sul rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia e Tribunale. - 6. Lo smistamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale. - 7. Gli effetti indotti dalla modifica dello Statuto della Corte di giustizia. Dal piano sovranazionale a quello nazionale. - 8. Il giudice nazionale e le triangolazioni fra le Corti alla prova del nuovo rinvio pregiudiziale. - 9. Deferenza e fiducia fra le Corti nazionali e sovranazionali alla prova del “nuovo” rinvio pregiudiziale.
1. La forza contagiosa del rinvio pregiudiziale nel sistema delle relazioni fra giudici (nazionali e sovranazionali)
La riflessione che segue riguarda la proposta fondata sull’articolo 281, secondo comma, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha presentato, chiedendo al Parlamento UE ed al Consiglio la modifica del Protocollo n. 3 sullo Statuto della stessa Corte di giustizia volta a determinare le materie specifiche nelle quali il Tribunale sarebbe competente, ai sensi dell’articolo 256, paragrafo 3, TFUE a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte dalle giurisdizioni degli Stati membri ai sensi dell’articolo 267 di tale trattato[1].
Il ragionamento che si intende condividere è fortemente condizionato di una prospettiva culturale che si è nutrita ed alimentata a pane e rinvio pregiudiziale da alcuni lustri, quando a dialogare con la Corte di giustizia era soltanto il giudice comune, mentre la Corte costituzionale si interrogava, dubbiosa, se potesse o meno interagire con il giudice di Lussemburgo. È stato così naturale evidenziarne il senso ed il ruolo[2], avendolo sperimentato più volte come componente di collegi della Corte di cassazione che, in materia fiscale - IVA e doganale-[3], spesso si è rivolta alla Corte di giustizia in una prospettiva sulla quale altre volte ho avuto l’occasione di riflettere[4].
Questa prospettiva assolutamente personale reca in sé la precisazione, abbastanza scontata, che le considerazioni successive impegnano unicamente chi parla e non certo la Corte di cassazione, della quale peraltro chi scrive non ha alcuna veste rappresentativa.
Si tratta di una chiave prospettica che è andata peraltro progressivamente arricchendosi di nuova linfa giungendo nell’ultimo periodo addirittura a vedere in quello strumento le radici di un nuovo modo di essere giudice del giudice nazionale per effetto di nuovi istituti di matrice interna – dei quali si dirà nel prosieguo - a loro volta figli del rinvio pregiudiziale di matrice UE.
2. Il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ed i protocolli di dialogo fra le Corti nazionali e la Corte edu: tutti figli del rinvio pregiudiziale di matrice eurounitaria
In effetti, la capacità espansiva e contagiosa del rinvio pregiudiziale è particolarmente evidente nel sistema internazionale e nazionale di protezione dei diritti.
È figlia del rinvio pregiudiziale[5] la richiesta di parere preventivo alla Grande Camera della Corte edu che il Protocollo n.16 annesso alla CEDU ha inaugurato[6], essendosi i grandi saggi che il Consiglio d’Europa – fra i quali erano presenti autorevoli giuristi che avevano per l’appunto fatto parte della Corte di giustizia di Lussemburgo – ispirati a quell’istituto per offrire ai giudici nazionali – recte alle Alte giurisdizioni nazionali – l’opportunità di dialogare con la Corte edu. Opportunità assolutamente ignota al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, tutto al contrario, vedeva le autorità giudiziarie di ultima istanza elemento certo indefettibile del giudizio innanzi alla Corte di Strasburgo, ma unicamente come “osservato speciale” – se non come imputato-muto, assolutamente muto rispetto al proprio operato unicamente rappresentato dal provvedimento decisorio “impugnato” innanzi alla Corte edu.
Un sistema, dunque, quello convenzionale che non si nutriva affatto del dialogo fra le Corti, anzi fondandosi sull’opposto meccanismo della sussidiarietà che presuppone la definitività della risposta giudiziaria nazionale e che fondava lo stesso sistema di protezione sovranazionale sulle relazioni verticali fra le Corti stesse imponendo alla Corte edu il compito – recte il dovere – di condannare lo Stato al cui interno la giurisdizione aveva contribuito a determinare la violazione convenzionale.
Si badi bene, ancora, strumento, quello della richiesta di parere preventivo che, nelle corde dei suoi mentori, intendeva rappresentare un possibile rimedio al fattore tempo che pure affanna la Corte edu, vittima del proprio successo – sul punto tornerò nel prosieguo quanto al successo della Corte di giustizia – al punto da non riuscire ad offrire decisioni rispettose del canone della ragionevole durata del processo per il numero imponente di ricorsi a fronte della composizione numerica e strutturale di quell’organismo.
In questa prospettiva, il contatto preventivo con la Corte edu delle Alte Corti nazionali e lo strumento del parere non vincolante, si pensò, avrebbe potuto, a regime, ridurre il contenzioso innanzi alla Corte, così incidendo sul fattore tempo e dunque sull’effettività delle decisioni della Corte edu attraverso pareri capaci di offrire ai giudici nazionali dei paesi contraenti – e dunque non solo dei giudici che utilizzano la richiesta di parere – elementi importanti per orientarsi nella interpretazione convenzionalmente orientata dei sistemi interni. Strumento che aggrava, in apparenza, il peso dell’attività della Corte edu e non lo allevia ed ancora “allunga” i tempi del processo interno, ma sul quale la Corte edu ha comunque deciso di investire anche a costo di destinare, in termini organizzativi, una corsia privilegiata alla decisione dei pareri preventivi – e dunque di sottrarre risorse ai ricorsi ordinari – pur essendo come detto la Corte edu subissata di ricorsi[7]. Cogliendo, appunto, l’enorme potenzialità di un meccanismo preventivo di risoluzione di potenziali conflitti con le Corti apicali, per l’appunto destinato a ridurre, nel tempo, i fattori di innesco di nuovi contenziosi innanzi alla Corte edu. Un orizzonte, dunque, che si è inteso scrutare con una lente protesa più sul lungo periodo che sul breve, sfruttando un nuovo meccanismo – disegnato pur con le ovvie differente – sul rinvio pregiudiziale UE per suscitare il dialogo e la cooperazione franca fra le Corti.
Su un versante solo apparentemente diverso si colloca la creazione del protocollo di dialogo tra la Corte edu e la Corte di cassazione e del seguito, costituito dal gruppo di attuazione creato fra le due Corti. Un luogo di discussione pariodinato ed equiordinato, nato nella prospettiva di anticipare l’entrata in vigore del Protocollo n.16 e che si è andato arricchendo di nuovi contenuti e di nuove prospettive cooperative[8]. Una prospettiva di ricomposizione e riconfermazione del quadro giurisprudenziale interno che la Corte di cassazione – poi seguita dalle Alte corti nazionali – ha inteso favorire ed alimentare, consapevole della mutazione genetica della nomofilachia interna e sovranazionale[9].
3. Il fattore tempo e le tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali (di ultima istanza). Dal rinvio pregiudiziale “esterno” a quello “interno” -art.363 bis c.p.c.-
Il contagio prodotto dall’idea sottesa al rinvio pregiudiziale di stampo UE si è fatto sentire anche sul piano interno.
Si avverte, così, come il fattore tempo rispetto alle pronunzie ed alle tecniche decisorie delle Corti sovranazionali e nazionali condizioni notevolmente le scelte di politica legislativa rispetto al “come” quelle Corti devono far fronte ai compiti che istituzionalmente loro competono quando dialogano con le Corti nazionali[10].
Su queste ultime, d’altra parte, ricadono in via conseguenziale gli effetti del fattore tempo che questo dialogo determina.
Del resto, è noto a chi ascolta quanto il fattore tempo abbia costituito, a torto o ragione, lo spauracchio per il nostro legislatore interno che, evocando l’irragionevole durata dei processi che avrebbe determinato la sospensione del procedimento in attesa del parere preventivo della Corte edu, ha congelato il Protocollo n.16 di cui si è già detto escludendone la ratifica. E già altre volte si è tentato di evidenziare forse l’eccessiva enfatizzazione del fattore tempo, dovendosi distinguere le cause patologiche che protraggono irragionevolmente il processo da quei tempi “virtuosi” che sono tempi di giustizia, utili al migliore esercizio delle funzioni del giudicare riservati ai soggetti-giudici che entrano a vario titolo in contatto nel corso del processo[11]. Enfatizzazione che, nel caso del Protocollo, ha indotto il legislatore addirittura a non ratificare il Protocollo n.16, facendo del fattore tempo un super valore capace di costituire un avamposto delle garanzie costituzionali interne.
Ma a parte la posizione isolazionista scelta, almeno allo stato, dal nostro Paese rispetto al Protocollo n.16 attraverso un uso nazionalista del fattore tempo, il forte appeal per l’idea sottesa al rinvio pregiudiziale si è approfondito ulteriormente allorché con la riforma Cartabia – art.363 bis c.p.c. – è stato introdotto il meccanismo del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per ottenere lumi sull’interpretazione di norme relative a questioni esclusivamente di diritto non esaminate in precedenza dal giudice di legittimità in modo da suscitare l’adozione di un principio di diritto destinato a vincolare il giudice a quo. Meccanismo, quest’ultimo, che ha letteralmente scompaginato il sistema dei rapporti fra giudice di merito e di legittimità, introducendo una forma di dialogo, sulla quale non è possibile qui dilungarsi, il cui tratto caratterizzante prende sicuramente spunto oltre che similari istituti di derivazione transalpina anche dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE[12].
E tanto chi parla è stato condizionato da questa prospettiva dialogica che, come Presidente relatore della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Agrigento, ha di recente proposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione in materia tributaria[13], chiedendo l’interpretazione di una norma sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice tributario in tema di ristori post COVID sulla quale era sorto contrasto fra diverse pronunzie delle corti di merito[14]. Questione di estrema delicatezza – involgendo a monte la possibilità stessa di utilizzare il rinvio pregiudiziale da parte dei giudici di merito tributari e, a valle, quella di sollecitare, alla Corte di cassazione, con il rinvio pregiudiziale l’interpretazione di una disposizione che regola la giurisdizione, i plessi giurisdizionali – che la Prima Presidente della Corte di cassazione[15], alla quale spetta il filtro di ammissibilità sul rinvio pregiudiziale, ha rimesso all’esame delle Sezioni Unite civili.
Si tratta di un tema che si collega a doppia mandata a quelli oggetto di esame in questo convegno per due evidenti ragioni.
Ed infatti, lo strumento del rinvio pregiudiziale interno alla Corte di cassazione potrebbe collegarsi al rinvio pregiudiziale “esterno”- id est, alla Corte di giustizia UE – da parte della Corte di cassazione o, a monte, dallo stesso giudice di merito. Il che impone di chiedersi se in tali evenienze la Corte di cassazione operi come giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno (at.267 par.3 TFUE) e debba dunque considerarsi come “tenuta” a sollevare obbligatoriamente il rinvio pregiudiziale ovvero se il ruolo svolto nell’ambito della speciale competenza attribuitale dal rinvio pregiudiziale interno offra elementi per ritenere che la stessa non sia da considerare giudice di ultima istanza, ma unicamente organo investito di una peculiare forma di giurisdizione destinata unicamente a fisare un principio di diritto.
Ed è evidente che la questione non sia di scarso rilievo, chiamando l’interprete ad interrogarsi su un fascio di questioni complesse che si potrebbero racchiudere evocando tematiche già affrontate in passato in altro contesto quali quelle della “doppia pregiudizialità”, dell’efficacia del principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione rispetto alla contrarietà con il diritto UE, della sollevazione da parte del giudice di merito di rinvio alla Corte di giustizia successiva in esito al principio di diritto fissato dalla Cassazione incidente sul diritto UE senza che la Corte di legittimità abbia ritenuto di rivolgersi alla Corte di giustizia. Questione collegate alla natura ed alla forza della decisione resa dalla Cassazione in sede di rinvio pregiudiziale interno quale regola di giudizio sull’interpretazione della legge o quale “giudicato”.
Tutto ciò ancora una volta dimostrando quanto non sia per nulla indifferente ai fini della configurazione del rinvio pregiudiziale “esterno” individuare sotto il profilo soggettivo le autorità dialoganti, per come si dirà in seguito.
Orbene, tornando alle misure appena descritte, non sfuggirà che quanto fin qui ricordato a proposito del rinvio pregiudiziale interno e del Protocollo n.16 rappresenta, indiscutibilmente, un modo di affrontare il problema dell’arretrato che affligge la Corte di ultima istanza e dell’effettività dei tempi di decisione, investendo sulla naturale capacità deflattiva che tali strumenti possiedono rispetto all’aumento del contenzioso.
Entrambi gli strumenti di cui si è detto, tuttavia, tendono a guardare al ( e governare il ) tema fattore tempo, muovendo dal presupposto comune che il raccordo fra plessi giurisdizionali anticipato rispetto alla decisione di una lite è capace di produrre effetti “di sistema” attraverso l’intervento sollecitato dall’autorità giudiziaria che deve giudicare in via definitiva sulla lite. Prospettiva che non sembra ammettere l’idea che il dialogo fra le Corti debba essere implementato o ridimensionato cambiandone i naturali protagonisti ancorché in apparenza aggravino: a) il peso del lavoro dei dialoganti; b) i ruoli della Corte edu con le richieste di parere preventivo; c) i ruoli della Corte di cassazione che, come si dirà, già di suo affronta centomila ricorsi decisi all’anno. Si tratta, infatti, di un aggravio che richiede la gestione del peso aggiuntivo sui carichi di lavoro e che, proiettato su un orizzonte di medio lungo periodo, induce le Corti coinvolte a creare misure organizzative interne adeguate e corsie preferenziali in modo da favorire questo dialogo[16], attente ai tempi dei processi che, in entrambi i casi- parere preventivo alla Corte edu e rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Cassazione- determinano la sospensione del procedimento a quo.
4. La proposta di modifica delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale “esterno”
Direi che la riflessione potrebbe arrestarsi, offrendo in modo più o meno nitido uno spaccato in punto di comparazione che già sembra entrare in una qualche frizione con la proposta di modifica dello Statuto promossa dalla Corte di giustizia.
Ma sarebbe troppo facile per chi parla fermarsi qui e troppo poco onesto per chi invece si attende una opinione, per quello che vale, sulla proposta della Corte di giustizia.
Essa si inserisce su un tema ormai risalente e già da temo fatto oggetto di indagini approfondite da parte della dottrina, in questo modo rinvenendosi posizioni fra le più disparate, a volte indirizzate a ridurre in entrata la possibilità del rinvio pregiudiziale, altre a prevedere ipotesi di filtro da parte della Corte di giustizia o di individuazione di organi giurisdizionali nazionali dotati di specifiche competenze interpretative del diritto UE, altre ancora indirizzate a rendere effettiva la possibilità di rinvio pregiudiziale al Tribunale, secondo quanto previsto dall’art.225, p. 3, TCE.
In questa prospettiva si inserisce apertamente la proposta che qui si commenta.
Se la si guarda con l’occhio del giudice nazionale (e soprattutto quello di ultima istanza) la proposta potrebbe destare delle preoccupazioni, come ha già preconizzato la Professoressa Amalfitano nel saggio dedicato al tema[17].
Vi è anzitutto, da ragionare, sulla fonte di innesco della proposta che è, per l’appunto, rappresentata dalla Corte di giustizia UE.
Non proprio in linea con uno dei più noti brocardi latini- nemo iudex in causa propria- la Corte di giustizia UE, utilizzando un potere di impulso su Parlamento e Consiglio a modifiche normative del proprio Statuto riservatole dal TFUE (art.281, c.2) si fa in prima persona promotrice di una modifica del sistema del rinvio pregiudiziale. Ed il fatto che analogo potere venga riservato dallo stesso Trattato alla Commissione che sul tema non lo ha esercitato, invece esprimendo un parere (sostanzialmente positivo) alla proposta della Corte di Giustizia[18].
In questa prospettiva sembra emergere l’anima politica della Corte di giustizia che, in nome della salvaguardia dell’efficienza del procedimento di rinvio pregiudiziale e della “buona amministrazione della giustizia”, vorrebbe che si attribuissero al Tribunale alcune materie specifiche per rendere più agevole ed efficace il suo ruolo nelle questioni pregiudiziali “che contano”.
Il dato della lunghezza dei rinvii pregiudiziali – recte, dell’incremento che esso ha subito nell’ultimo torno di anni – se si guardano alle statistiche allegate alla stessa proposta è forse opinabile come già messo in evidenza dalla dottrina (Amalfitano).
Ma in disparte da questa considerazione fattuale v’è da dire che il fattore tempo sembra essere stato soltanto l’occasione per un intervento che pare avere altre ambizioni, nemmeno celate dalla Corte di giustizia.
Certo, alla Corte UE, sotto questo profilo, bisogna riconoscere una notevole dose di trasparenza per avere operato alla luce del sole, apertis verbis, con una proposta destinata, prima di diventare operativa, a passare al vaglio di tutti i soggetti che hanno la legittimazione a determinare la modifica dello Statuto.
Vi è tuttavia da osservare che la prospettiva, quella reale, che anima la proposta sembra essere quella di volere liberare la Corte di Giustizia di fette di contenzioso non “nobile”, in modo che essa resti giudice dell’interpretazione solenne del diritto UE per quello “nobile” perché relativo non solo a questioni e materia che tocchino il sistema dell’UE, ma più in generale che valorizzino il tratto costituzionale di quel giudice, avvicinandolo a quello delle Corti costituzionali nazionali.
E così, il fattore tempo è solo l’occasione della modifica e non il fine. Se intendo diventare giudice dei diritti fondamentali e delle questioni centrali per il sistema UE e non di altro la circostanza che la mia decisione giunga entro 15 o 17 mesi sembra infatti assumere marginale rilievo, a fronte della scelta valoriale che sta alla base della proposta e che, indubbiamente, colpisce se appunto si riflette sul fatto che questa prospettiva provenga dalla Corte di giustizia stessa. Certo, se si pensa alla natura pretoria di gran parte della giurisprudenza della Corte di giustizia in diverse questioni che poi hanno contribuito alla costruzione dell’edificio europeo, le preoccupazioni qui ventilate potrebbero apparire eccessive. Ma forse la comparazione con quanto appena rappresentato non torna utile, qui discutendosi dell’architettura costituzionale del sistema di tutela dei diritti all’interno del diritto dell’Unione europea. E che sia uno dei soggetti ad individuare le linee di questo cambiamento radicale del sistema non finisce di convincere per quel forse bizantino convincimento che le riforme del sistema debba pensarle il legislatore senza che questo senta il peso e l’autorevolezza di una proposta di normazione proveniente da chi è espressione massima della giurisdizione europea e che dovrebbe essa stessa beneficiare di questa riconfermazione del proprio ambito giurisdizionale per effetto di una proposta da essa stessa pesata, congegnata e partorita. Tanto più che questa nuova risagomatura delle competenze in tema di rinvio pregiudiziale va a toccare il ruolo e la funzione di altra autorità giurisdizionale che nel sistema è posta in posizione subordinata rispetto alla Corte di giustizia, lasciando in sottofondo la funzione delle autorità giudiziarie nazionali, rispetto alle quali l’idea di base della proposta sembra essere che per queste ultime è totalmente indifferente il cambio di competenza e cioè su chi debba decidere il rinvio pregiudiziale e se questi sia o meno l’autorità giurisdizionale comunitaria alla quale viene attribuito il ruolo di garante ed interprete dell’unità del sistema UE, fin qui unanimemente individuata nella stessa Corte di giustizia.
5. Il concetto scivoloso di “materia” alla base della competenza sul rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia e Tribunale
Veniamo al merito della proposta di modifica dello Statuto.
Nella scelta delle materie “trasferite” al Tribunale ecco dunque emergere complessi di contenzioso in materia fiscale (IVA, accise, codice doganale, classificazione tariffaria delle merci, compensazione pecuniaria, scambio di quote di emissione di gas ad effetto serra) assolutamente eterogenei, in qualche caso addirittura bagatellare – compensazione per i passeggeri – in altri fortemente tecnici – classificazione tariffaria delle merci, gas ad effetto terra – in altri ancora di notevole impatto finanziario – IVA, accise –.
Qualche breve annotazione sul punto.
All’eterogeneità corrisponde, ovviamente, la diversa rilevanza delle materie. E fra queste quella dell’IVA rappresenta sicuramente quella che sembra essere meno bagatellare o meno nobile delle altre.
La proposta di modifica sembra muovere dall’idea che il trasferimento al Tribunale non debba riguardare tutto il contenzioso indicato nelle aree testé indicate, ma unicamente quello che non coinvolga questioni che, pur ricadendo nel concetto di materia, “siano “sensibili”. Il che val quanto dire che se venissero in rilievo questioni relative ai diritti fondamentali, alla coerenza del sistema UE, alle libertà fondamentali, la materia sia “altra” e, dunque, tale da giustificare il trattenimento innanzi alla Corte di giustizia o comunque l’attrazione del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in caso di questioni connesse a quelle appena ricordate.
Questa idea di fondo, oltre che di non facile attuazione secondo parametri prestabiliti ex ante e dunque capaci di offrire quelle garanzie procedurali alle quali pure la proposta fa riferimento- prima delle quali rappresentata dall’individuazione a monte del giudice naturale- sembra certificare la debolezza del Tribunale che non potrà mai avere “piena” cognizione del rinvio pregiudiziale ad esso demandato.
Il tribunale, privato della possibilità di interpretare le disposizioni che più si prestano ad operazioni di innovazione e creazione della portata di senso delle stesse, viene depotenziato a mero giudice chiamato ad emettere giurisprudenza riproduttiva, se si vuole “non nobile” in quanto collegata all’applicazione di disposizioni contemplate da testi normativi che poco si prestano a costruzioni giurisprudenziali di valore.
Se dunque si toglie ad un giudice la possibilità di misurarsi con le regole primarie, con i principi, con ciò che rappresenta il sistema UE nel suo complesso, non si crea forse un giudice dimidiato, un giudice cadetto e di serie B?
Se così fosse la stessa specializzazione per materie che pure si ipotizza da parte del Tribunale competente sui rinvii pregiudiziali non consentirà comunque a quel giudice di ragionare sul sistema trasferito quando in gioco ci sono diritti fondamentali o questioni concernenti l’architettura complessiva del sistema UE. Viene a questo punto spontaneo chiedersi quale autonomia si possa dunque riconoscere ad un giudice specializzato che conosce di una materia ma non può decidere su quella materia quando su essa si innesta un diritto fondamentale di matrice UE una questione che intercetta problemi relativi al modo con il quale opera il sistema UE.
Orbene, è immaginabile che nel nostro momento storico un giudice internazionale che ha il governo dell’interpretazione del diritto UE- su specifiche materie - non abbia alcuna legittimazione a decidere un rinvio pregiudiziale sulla sua materia sol perché in gioco vi sia un diritto fondamentale, spesso inscindibilmente connesso alla fisiologia stessa assunta da un istituto regolato dal diritto UE? Quale garanzia può offrire un giudice che decide quando a monte sa che, ove dovesse emergere dall’esame del caso il coinvolgimento di un diritto fondamentale che merita di essere considerato nell’attività di bilanciamento propria di qualunque giudice, non potrà affrontare il contenzioso allo stesso demandato con l’occhio proteso ai diritti fondamentali o al sistema UE nel quale la materia si innesta?
Che giudice sarà il Tribunale se, quando interpreta il diritto relativo alla materia oggetto di dubbio da parte del giudice nazionale, non ha nella sua cassetta degli attrezzi le chiavi per tenere in considerazione i diritti fondamentali, il sistema UE, i principi cardine che lo governano, le questioni relative all’efficacia diretta e via discorrendo, le libertà fondamentali se incise dall’interpretazione che viene offerta? Come potrà ragionare sulle questioni di ordine sostanziale e processuale che ormai continuamente agitano i contenziosi in ambito nazionale proprio in ragione dell’esplosione del tema dei diritti delle persone, soprattutto nell’era del post Covid? E, ancora, se davvero in tutte le ipotesi che qui si è cercato di evidenziare nessuna competenza potrà mai riconoscersi al Tribunale, rimando la stessa ancorata alla Corte di giustizia quale potrà essere, in termini concreti, l’effetto positivo in termini di efficienza e riduzione dei tempi dei rinvii pregiudiziali trattati dalla Corte di giustizia?
Le perplessità appena espresse non si attenuano se si guarda alle ricadute sul piano delle autorità nazionali, delle quali la proposta sembra totalmente prescindere, provando a sfruttare il canone della comparazione fra sistemi diversi.
Colpisce, per un verso, che tutte le materie trasferite alla competenza del Tribunale quanto al rinvio pregiudiziale riguardino, sul piano interno, prevalentemente il giudice ordinario-tributario e non quello amministrativo. Il che rileva sotto due punti di vista.
Per un verso, la suddivisione di competenze (solo) in tema di rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale fa ricordare, pur con gli ovvi debiti distinguo, la storia del rapporti fra g.o. e g.a. sul piano interno e le contese, nemmeno in atto totalmente sopite, per la individuazione di fette di contenziosi in sede di riparto di giurisdizione dalla quale è derivata la suddivisione dei plessi giurisdizionali sempre più basata, in nome di un’esigenza di semplificazione rispetto a criteri di riparto considerati più complessi e tortuosi, sulla base di “blocchi di materie” fra giudice ordinario e giudice amministrativo[19].
Quel riparto di competenze (giurisdizionali) ruota attorno all’esercizio del potere ed all’esistenza di una posizione giuridica sui generis rispetto al diritto soggettivo – quella dell’interesse legittimo – emergente quando la p.a. esercita autoritativamente le sue prerogative istituzionali.
Ora, analoghi problemi a quelli prodotti da quel riparto sembrano, mutatis mutandis, già intravedersi all’orizzonte sullo spezzettamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di Giustizia e Tribunale.
Basti qui accennare al tema – agitato – della incidenza, ai fini del riparto di giurisdizione, dei diritti fondamentali sulle “materie” di giurisdizione esclusiva e sul potere dell’amministrazione e sulla incidenza di tali diritti fondamentali ai fini del riparto delle giurisdizioni[20].
Ora, la Corte di giustizia UE sembra muovere dall’idea che se nei settori trasferiti entrino in gioco i diritti fondamentali – o i principi del diritto UE o l’unità del diritto UE o le libertà fondamentali del diritto UE – il rinvio pregiudiziale sollecitato non rientrerebbe più nelle materie trasferite al Tribunale, ma dovrebbe rimanere alla Corte di giustizia.
Come dire…corsi e ricorsi storici dimostrativi di quanto sia complesso pensare ad una frammentazione delle competenze per una materia sol perché si discuta dell’interpretazione di un diritto fondamentale o di una libertà fondamentale le quali, verrebbero in gioco rispetto con specifico riferimento alla questione pregiudiziale e non in termini generali. Da qui, ritornando per saltum alle contese interne fra g.o. e g.a. – affidate alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione – le eterne contrapposizioni fra g.o. e g.a.[21] sulla incidenza ai fini del riparto di diritti fondamentali rispetto all’agire della p.a., alla natura del potere rispetto al diritto fondamentale in gioco.
6. Lo smistamento del rinvio pregiudiziale fra Corte di giustizia UE e Tribunale
Se ora si passa alla riflessione sulle modalità operative concernenti l’individuazione concreta del giudice UE chiamato a decidere i rinvii pregiudiziali rispetto alle materie specifiche individuate nella proposta i dubbi non si attenuano.
Ed invero, la sensazione, a prima lettura, è quella di un sistema non privo di difficoltà che introduce una sorta di filtro in entrata delle questioni pregiudiziali riservato alla Corte di giustizia UE, giustificato in nome di una asserita semplificazione offerta al giudice nazionale, il quale non avrà dunque il dubbio su chi investire.
Ed invero, benché la Corte di giustizia si periti di chiarire che “la verifica effettuata dalla Corte in tale contesto non consiste in una valutazione vertente l’opportunità di rinviare la causa dinanzi al Tribunale o di trattenerla presso la Corte” mirando “esclusivamente a garantire il rispetto del principio di attribuzione delle competenze” sembra che tale meccanismo possa realmente rappresentare una sorta di filtro in entrata da parte della Corte di giustizia, alla quale spetterà così di verificare se esso riguardi o meno la materia riservata al Tribunale ma anche se esso metta in gioco, come si diceva questioni “di sistema”.
Se, infatti, dovesse risultare che la Corte di giustizia, all’atto della presentazione del rinvio pregiudiziale, potrà indirizzarlo verso il Tribunale o trattenerlo in base alla previa verifica della portata del rinvio e delle sue implicazioni di sistema, ci si troverebbe in presenza di una verifica preliminare “in entrata” che non potrà non considerare il contenuto sostanziale del rinvio pregiudiziale e dei quesiti posti. Meccanismo che appare sicuramente un novum rispetto alla disciplina contenuta nell’art. 256 TFUE, ove era prevista la competenza secca del Tribunale in materie specifiche[22].
Un test che condurrà il rinvio pregiudiziale dunque verso l’una o l’altra corsia giudiziaria in base alla scelta che passa dall’interpretazione del rinvio stesso da parte della Corte di giustizia, evidentemente considerata come organo di vertice della giurisdizione UE.
Insomma, una competenza delicata, evidentemente di natura giurisdizionale, preliminare e preventiva anche se volta a verificare che in tesi la ricevibilità e/o strumentalità di una richiesta di rinvio pregiudiziale che involga in modo non pertinente e/o non rituale la prospettata violazione dei diritti e libertà fondamentali del diritto UE connessa al rinvio rispetto alle specifiche materie rimesse all’esame del Tribunale.
Ora, è ben evidente che questo vaglio preliminare potrebbe essere visto positivamente se appunto inteso a salvaguardare l’unità del sistema e, dunque ad evitare la trattazione innanzi al Tribunale di cause “delicate” per i contenuti che esse sollecitano.
Ma questa verifica fino a quale punto potrà spingersi e fino a che punto limiterà la competenza del Tribunale?
Riguarderà le ipotesi nelle quali, ad esempio, l’autorità giurisdizionale nazionale ipotizzi un overrulling rispetto alla giurisprudenza consolidata in essere presso la Corte di giustizia rispetto alle materie trasferite? Ed in tali casi la Corte di Giustizia, proprio in nome della salvaguardia del sistema UE, scenderà in sede di vaglio preliminare a verificare le chances di cambiamento per poi ponderarle al fine della scelta sul trattenere o meno la decisione sul rinvio? E a questo punto la scelta orienterà verso la Corte di giustizia quando e perché? E, vista invece da parte del Tribunale – e di coloro che sollevano il rinvio pregiudiziale –, quale sarà la libertà di quell’organo giurisdizionale nel decidere il rinvio rispetto alla giurisprudenza consolidata che ha costituito la base di partenza per il trasferimento di settori al Tribunale? Sarà pienamente libero di interpretare il diritto UE relativo alla materia o si sentirà in dovere di orientarsi sui binari già fissati dalla Corte di giustizia, con il rischio di incorrere nella procedura di riesame innanzi alla Corte di giustizia stessa?
Ne esce un quadro a tinte in atto non molto nitide, pieno più di interrogativi che non di risposte, rispetto al quale verosimilmente seguirà un’attuazione della riforma con l’attribuzione del rinvio senza alcuna motivazione esplicita o articolata delle scelte operate al momento dello smistamento del rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia, ma semplicemente una para-motivazione volta a riconoscere unicamente la ricorrenza della materia riservata al Tribunale o, in caso contrario, la competenza della Corte di giustizia in ragione della ritenuta esistenza di materie connesse.
Il che, a ben considerare, solleva sicuramente il giudice a quo dai problemi di individuazione del suo interlocutore, ma lascia incerto il destino del rinvio, che rimarrà ignoto al giudice nazionale quando questi si propone come dialogante con il giudice UE.
L’essere in magistratura da circa trentadue anni ha portato chi scrive a cogliere in chiaro l’esistenza di un che di politico nelle scelte decisionali di qualunque plesso giurisdizionale ed a ragionare in più occasioni sul volto politico della Corte costituzionale a proposito della scelta di campo inaugurata dalla sentenza n. 269/2017[23]. sulla quale tornerò nel prosieguo.
Qui interessa solo evidenziare che la dimensione politica della Corte di giustizia sembra emergere con la proposta di cui discutiamo. Come che sia, da questo test iniziale si comprende bene che il dialogo in sede di rinvio potrebbe uscire ridimensionato o geneticamente modificato.
In altri termini, se a decidere il rinvio sarà il Tribunale ci si potrà legittimamente chiedere – da parte del giudice nazionale – quale ambito di autonomia tale organo avrà nell’esaminare le questioni rimesse?
Un Tribunale che sarà per l’un verso gratificato dall’avere ricevuto il rinvio pregiudiziale e che già in questa prospettiva immagina che la Corte di giustizia abbia stimato che la controversia non presenti un rilievo tale, vuoi per la concorrente esistenza di questioni di altra natura, vuoi per la ritenuta insussistenza di presupposti per immaginare un overruling capace di incidere sulla certezza del diritto, sull’unità del sistema o sui diritti e libertà fondamentali – salvo a domandarsi lui stesso, al momento dell’esame del rinvio pregiudiziale, se anche la ricorrenza delle ipotesi anzidette costituiscano una sorta di controlimite al rinvio al Tribunale tanto che in presenza di questioni che attengono alla forza dei giudicati nazionali o alle altre che ordinariamente si pongono all’interno di controversie nelle quali entra in gioco il diritto UE- efficacia diretta, efficacia orizzontale, contraddittorio ecc., – lo stesso non potrà che rimettere la soluzione del rinvio alla Corte di giustizia?
Ora è indubbio che l’autonomia, indipendenza ed autorevolezza dei giudici del Tribunale non possa né debba essere messa in discussione. Ma qui non si tratta di valutare le qualità personali dei giudici che compongono la Corte di giustizia e il Tribunale, nessuno potendo e volendo dubitare della assoluta autorevolezza di entrambi i plessi giurisdizionali, quanto del fatto che il cambio di regole sulla competenza incide sul piano soggettivo degli organi chiamati a dialogare e della loro posizione all’interno della struttura degli organi che non pare essere affatto neutra rispetto a chi solleva il rinvio pregiudiziale.
Se infatti cambiano i soggetti che dialogano e cambia il ruolo che gli stessi assumono nell’architettura dell’ordinamento UE non sembra peregrino pensare che cambi anche il meccanismo e i rapporti fra i dialoganti, come si avrà modo di precisare alla fine di queste riflessioni.
Resta poi il fatto che il cambio di giurisprudenza o comunque la presa di posizione del Tribunale rispetto alla giurisprudenza consolidata già formatasi sulle materie trasferite appaiono remote se appunto il criterio base utilizzato dalla Corte di giustizia per individuare le materie trasferite è stato quello dell’esistenza di un diritto consolidato, leggermente incrinando l’immagine del Tribunale come organo che dialoga (ma solo in via mediata) con il giudice nazionale dopo il semaforo verde della Corte di Lussemburgo. Immagine ancor più messa in discussione se si pensa alla possibilità che le decisioni del Tribunale in sede di rinvio pregiudiziale possano essere messe sotto tutela dalla Corte di giustizia in caso di richiesta di riesame proveniente dall’Avvocato generale – stando a quanto previsto dall’art.256 TFUE –.
Insomma, meccanismi tutti sui quali si può oggi ragionare solo in astratto perché immaginati in vitro e non in vivo in mancanza di precedenti – e delle norme regolamentari che verosimilmente seguiranno alla introduzione della modifica dello Statuto – dai quali comprendere come si orienterà la Corte. Ma che già si dimostrano forieri di dubbi non marginali.
Il che val quanto dire che le risorse necessarie per affrontare i nodi che qui si sono ipotizzati e gli esiti stessi di questi possibili test e verifiche, ex ante ed ex post, rischiano di depotenziare l’effetto voluto dalla proposta – id est il risparmio di tempo nei procedimenti trattenuti dalla Corte di giustizia – se si pensano al modo con il quale si dovrà intendere il concetto di materia e quello delle questioni che giustificano il “trattenimento”.
Se dunque la delimitazione dei confini non si immagina essere agevole e, soprattutto, sembra molto condizionata da scelte valoriali della Corte di giustizia – e solo di questo organo – in entrata o dell’Avvocato generale della Corte di giustizia, che è sempre organo esterno al Tribunale nel valutare la richiesta di riesame, le ragioni dubbiose sulla proposta crescono più che attenuarsi, venendo quasi naturale chiedersi quale si debba intendere la relazione ed il rapporto fra Corte di Giustizia e tribunale e, soprattutto se la tipologia di questo rapporto debba essere fissata sulla base di una proposta che viene dall’interno dei plessi giurisdizionali coinvolti – recte da uno dei plessi che rivendica, probabilmente non infondatamente, una certa primazia sul Tribunale –.
7. Gli effetti indotti dalla modifica dello Statuto della Corte di giustizia. Dal piano sovranazionale a quello nazionale
Passando ora al piano delle riflessioni che riguardano più direttamente il giudice nazionale, anticipando il senso delle conclusioni del ragionamento, sembra di poter dire che il rinvio pregiudiziale potrebbe uscire in qualche modo depotenziato nella parte che soprattutto riguarda le autorità giudiziarie nazionali.
Invero, di tutto sembra preoccuparsi la proposta tranne che dell’altro dialogante naturale del rinvio pregiudiziale e, appunto, di quel dialogante che ha dato alla Corte di giustizia l’occasione di diventare centrale nei sistemi di tutela giurisdizionale dei paesi membri. Il che, a ben considerare in parte sembrerebbe distonico a quell’immagine del rinvio pregiudiziale che vedeva rispetto alle parti assoluto protagonista il giudice nazionale, investito di un potere (dovere nel caso di giudice di ultima istanza) di rilievo centrale per la formazione del diritto al UE, al punto di essere indicato come “collega” al quale chiedere l’interpretazione del dato UE in modo che di esso possa tenersi conto.
È ben evidente che il sistema del rinvio pregiudiziale si basa su un sistema di checks and balances estremamente delicato, rispetto al quale la proposta di modifica dello Statuto, apparentemente di mera natura organizzativa, muove dall’idea che per il giudice nazionale sia totalmente indifferente a che la decisione sul rinvio pregiudiziale provenga dal Tribunale o dalla Corte di giustizia, quasi che tali autorità giudiziarie possano essere considerate come tra loro fungibili e quasi che il giudice nazionale abbia unicamente la necessità di confrontarsi con qualcuno, Corte o Tribunale che sia, che gli “risolva un problema interpretativo” relativo al diritto UE. Idea che sembra non considerare adeguatamente il caso in cui a dialogare con il giudice UE sia un giudice nazionale di ultima istanza. E non è qui un discorso di autoreferenzialità o di fastidio rispetto ad un eventuale interlocutore che non occupa nel sistema UE un rilievo ed un ruolo pariordinato a quello del giudice di ultima istanza nazionale, ma di vera sostanza. La circostanza che il Trattato prevede la possibilità di demandare materie specifiche al Tribunale non supera i rilievi fin qui espressi laddove appunto il rinvio al Tribunale sia attuato con le modalità previste all’interno della proposta.
Ora, la professoressa Amalfitano si è chiesta come sarà considerato il nuovo volto del rinvio pregiudiziale dal giudice di ultima istanza e, stando alle materie trasferite, dalla Corte di cassazione italiana più che da altri plessi giurisdizionali.
Non ho il dono oracolare di Prometeo, ma mi sento in qualche modo destinatario di alcuni dei doni che egli fece all’uomo sfidando Zeus e fra questi quello della coscienza.
A pensar male si potrebbe ritenere che il giudice di ultima istanza, consapevole del nuovo sistema e della sorte che potrebbe subire il rinvio pregiudiziale e per garantirsi un interlocutore pariordinato rispetto al ruolo assunto nell’ordinamento interno potrebbe o spostare la leva del rinvio su tematiche di sistema in modo da sperare che il rinvio venga esaminato dalla Corte di giustizia ovvero ridurre i casi di dubbi in ordine all’interpretazione del diritto UE che viene in considerazione.
Ad indurre questi cattivi pensieri, del resto, come si diceva in precedenza, potrebbe spingere la paura che il suo interlocutore a Lussemburgo possa, anche solo in astratto, essere un giudice in qualche modo dimidiato delle sue prerogative per le considerazioni appena espresse e che, comunque, non abbia in sé le caratteristiche di equiordinazione che hanno fin qui costituito il dato di rilievo unificante delle giurisdizioni di ultima istanza nazionali con la Corte di giustizia UE. In gioco, d’altra parte, quando il rinvio è proposto dal giudice di ultima istanza, vi è l’uniforme interpretazione del diritto che costituisce un valore che assume rilevanza anche costituzionale se esso viene visto come proiezione del principio di effettività e di certezza del diritto.
Solo un cenno, a campione, si può qui fare all’IVA che è “materia” di estremo interesse per l’UE – EPPO è stata creata soprattutto per contrastare fenomeni criminali di evasione dell’IVA su scala transfrontaliera e nell’ambito dell’IVA si pongono i maggiori problemi in tema di proporzionalità delle sanzioni di ne bis in idem e di frodi fiscali, aventi anche rilievo penale – e che proprio su temi centrali quali quelli delle operazioni inesistenti vede i singoli Paesi dell’Unione confrontarsi con questioni di indubbio rilievo, spesso riguardanti “gli interessi dell’UE” e coinvolgenti i diritti fondamentali protetti dalla Carta UE – art.47 per esempio[24] –.
Il discorso non è affatto posto, questa volta, in vitro ma, in vivo.
Basti menzionare, per l’Italia, la recente riforma processuale che ha innovato, secondo una larga opinione dottrinaria, il sistema in tema di prova fra fisco e contribuente- art.5, c.7 bis d.lgs. n.546/1992, introdotto dalla l.n.130/2022-. Materia assolutamente nuova che sta già condizionando le decisioni della giustizia tributaria di merito e la dottrina[25] che, verosimilmente vedrà prima o poi coinvolta la Corte di cassazione, al fine di comprendere se l’attuale diritto vivente che può dirsi consolidato in ordine all’onere della prova in materia di operazioni soggettivamente o oggettivamente inesistenti possa o debba essere rivisitato.
Ed è ben chiaro che la scelta del giudice nazionale di investire o meno quello comunitario rispetto al tema dell’onere della prova ed alla sua riconducibilità o meno al diritto UE – in via diretta o mediata – si presta a raffinate operazioni interpretative che, sicuramente il giudice nazionale (nel caso di specie la Corte di cassazione) è pienamente in grado di svolgere proprio per il ruolo e la funzione che essa persegue nel sistema di protezione dei diritti interno.
Andando al fondo del problema, ci si dovrà chiedere se l’assenza di una legislazione UE in materia di prova sull’Iva, che la Corte di giustizia ha spesso evocato per escludere incursioni sugli ambiti interni, sia tale da escludere l’intervento del giudice UE sulla questione relativa alla portata, innovativa o meno che sia, della nuova normativa interna visto che il restraint della Corte di giustizia incontra per sua stessa precisazione il solo limite che le norme interne non pregiudichino l’efficacia del diritto dell’Unione-cfr., fra le più recenti, Corte giust., 1 dicembre 2022, causa C‑512/21, p.31-.
Limite al limite, quest’ultimo che, leggendo le decisioni della Corte di giustizia in materia, in parte fa forse comprendere la voglia di “liberazione” da una materia in bilico fra il pendolo comunitario e quello interno, che sembrerebbe da un lato poco richiedere il compito “alto” del giudice posto al vertice delle istituzioni giudiziarie ma che, dall’altro, evoca giustificazioni riduzioniste magari comprensibili emotivamente, meno sul piano della centralità della materia per il sistema UE e del ruolo che la Corte di giustizia ha nell’ambito della giurisdizione UE.
Ciò a conferma della debolezza del criterio che ha indotto la Corte di giustizia a spogliarsi di contenzioso che riguarderebbe, per un verso, un numero significativo di procedimenti e, per altro verso, si fonderebbe su un diritto vivente consolidato tale da non fare preconizzare l’insorgenza di dubbi consistenti sul “come” decidere i rinvii pregiudiziali.
Ed è in questo contesto che sembra pure annidarsi qualche punto non pienamente condivisibile nel ragionamento che proietta sul Tribunale contenziosi – qui quello dell’IVA – che non sono mai rientrati nelle corde della competenza di quello stesso giudice e per i quali l’esistenza di un ormai “diritto consolidato” formatosi nel tempo per mano della Corte di giustizia dovrebbe costituire al tempo stesso la ragione del trasferimento della competenza – one evitare l’insorgenza di contrasti con la Corte di giustizia – e fattore tale da ridurre il numero stesso dei rinvii pregiudiziali.
Il che, per le considerazioni da ultimo esposte, costituisce un dato ipotetico tutto da verificare proprio in ragione della centralità e delicatezza del settore fiscale nel quale gli ordinamenti nazionali continuano a confrontarsi con risposte spesso eterogenee. Ancora una volta, la prospettiva del giudice nazionale non sembra essere stata fra le corde principali della proposta.
8. Il giudice nazionale e le triangolazioni fra le Corti alla prova del nuovo rinvio pregiudiziale
Ma a questo punto entra in campo un’altra ed ulteriore preoccupazione anch’essa collegata questa volta ai rapporti ed alle relazioni o meglio alle triangolazioni fra giudice comune nazionale Corte costituzione e Corte di giustizia[26].
La questione è troppo nota ai presenti per meritare anche solo di essere riassunta[27]. Merita semmai sottolineare che all’indomani dell’idea di un riaccentramento verso la Corte costituzionale della verifica di coerenza dell’ordinamento interno rispetto ai diritti della Carta UE dei diritti fondamentali una volta riconosciutane la natura materialmente costituzionale, erano emerse anche fra i giudici comuni riflessioni volte a mostrare i pericoli rispetto all’idea che sembrava prendere campo con quella pronunzia. Si disse poi che quelle preoccupazioni erano state eccessive e in definitiva mal poste, poiché non si era capito che non si voleva affatto realizzare quel progetto di riaccentramento.
Orbene, prima della proposta di modifica dello Statuto il giudice costituzionale lascia libero il giudice comune di scegliere la strada che meglio ritiene rispetto al caso, pur apertamente mostrando di assecondare con maggiore entusiasmo le scelte che ad essa si rivolgono da parte del giudice comune – cfr. Corte cost.n.20/2019 e Corte cost.n.63/2019[28] –.
Ma il punto è che già oggi e ancora oggi il sistema dei rapporti fra diritto interno, diritto UE e controllo di costituzionalità e di conformità alla Carta UE è tutt’altro che stabile, bastando pensare anche alle recenti schermaglie fra la Corte di cassazione e la Corte costituzionale originate dalle sentenze nn.50/2019 e 67/2022[29] alle quali ha fatto riferimento, di recente, l’ordinanza della Cassazione n. 6979 depositata l’8 marzo 2023 della Corte di cassazione. Essa ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, 1, n. 388/2000, nella parte in cui condiziona la corresponsione dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari al possesso della (ex) carta di soggiorno, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1°, Cost., nonché in relazione agli artt. 111 e 117 Cost., con riferimento all’art. 34 CDFUE e all’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE. E questo giudizio incidentale di costituzionalità è stato attivato ritenendo che proprio la sentenza n. 269/2017 rendesse necessario l'intervento del giudice costituzionale per la concorrenza di parametri- costituzionali e della Corte UE-.
Ora in questo terreno ancora minato da incertezze e prese di posizione, più o meno ideologiche, la riforma del rinvio pregiudiziale potrà soffiare come un vento che porta verso il profilo nazionale più che verso quello UE?
9. Deferenza e fiducia fra le Corti nazionali e sovranazionali alla prova del “nuovo” rinvio pregiudiziale
Per descrivere lo stato dei rapporti fra le Corti nazionali e sovranazionali non è infrequente l’uso da parte di studiosi e giuristi insigni del termine “deferenza” ad esso attribuendosi ruoli e portata non sembra omogenea.
Ci si riferisce, in particolare, a due importanti contributi della Presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra ed al Prof. Luciani- nei quali a me è parso, sperando di non errare, di cogliere un atteggiamento di base non omogeneo sul ruolo della deferenza, intesa dalla prima come esempio di cooperazione virtuosa ed alla pari fra giurisdizioni nazionali e sovranazionali che hanno a cuore i diritti delle persone[30] e dal Prof. Luciani come alternativa e risposta secca- ed auspicabile - al “judicial activism” ed all’incedere del diritto moderno, ormai lontano sideralmente dal diritto dei padri, dalle categorie, dalla individuazione di parametri agganciati alla certezza ed alla legalità nazionale costituzionale[31] e dalla dignità della legislazione[32].
Piace allora qui ricordare, come tertium comparationis rispetto alle visioni che stanno a monte del canone della “deferenza” come categoria para giuridica o sociologica le Conclusioni dell’Avvocato Generale Colomer presentate il 25 giugno 2009 nella causa C-205/08, ove si intravede nel dialogo pregiudiziale uno strumento straordinario per il “rafforzamento della voce istituzionale di un potere degli Stati membri: la giustizia”. Tanto, in definitiva, significa valorizzare il ruolo centrale dei giudici nello spazio costituzionale europeo. È dunque la giurisdizione “in quanto potere basato sull’indipendenza, sul rispetto della legge e sulla risoluzione delle controversie” a godere di “una voce singolare, staccata dallo scenario politico e legata unicamente alla volontà del diritto”. Diceva, ancora, Colomer, “L’autorevolezza dell’ordinamento europeo è quindi intrisa di una forte componente giudiziaria. Non è esagerato ritenere che la Corte di giustizia sia il responsabile ultimo del diritto dell’Unione grazie ai giudici nazionali”. Sempre Colomer non mancava di sottolineare che sotteso al rinvio pregiudiziale vi era da parte della Corte di giustizia l’intenzione di rispettare e mostrare una certa deferenza nei confronti della concezione della funzione giurisdizionale in ciascuno Stato membro.
Ora, il concetto di deferenza al quale si riferivano Colomer e la Prof.ssa Sciarra potrebbe uscire ridimensionato e depotenziato dalla proposta di modifica dello Statuto, che preoccupandosi quasi esclusivamente della nuova fattura da dare al rinvio pregiudiziale sembra avere considerato in modo marginale la fiducia che fin qui ha tenuto uniti il giudice nazionale e quello UE. Quella cooperazione che ha costituito la fonte del successo della Corte di giustizia.
Per tali ragioni la struttura portante del rinvio pregiudiziale non può limitarsi, ad avviso di chi parla, a coglierne il dato obiettivo, ma involge ineludibilmente la centralità delle componenti soggettive che lo hanno alimentato e lo alimentano senza sosta, apparendo entrambi gli elementi indissolubilmente legati fra loro da una reciproca fiducia.
È proprio la consapevolezza della complessità e della imprescindibilità del dialogo e della cooperazione a “riscrivere” l’imperatività e l’inoppugnabilità del giudicato ed a consumare il passaggio da una fase in cui la sovranità del potere giurisdizionale si esprimeva con la forza del giudicato -pari alla legge- ad una realtà nella quale il giudice non decide solo quando decide, ma decide anche quando non decide, instillando meccanismi di confronto fra giudici altri che coinvolgono inevitabilmente altri operatori del diritto: il ceto forense, l’accademia e, in definitiva, le parti, la carnalità delle questioni che innanzi a loro si agitano. Il caso Ramstad[33], che tanto ha agitato le acque della dottrina e di alcuni settori della magistratura, altro non è stato se non il frutto di un confronto aperto, solare e costruttivo fra le Corti su questioni che il giudice nazionale per costituzione chiamato ad esaminare motivi inerenti la giurisdizione ha condiviso con la Corte di giustizia, inserendola in un circuito di dialogo fino a quel momento intercorso soltanto con la Corte costituzionale ed il Consiglio di Stato. Un frutto fecondo e virtuoso si è andato così aggiungendo all’interno di una questione complessa, nella quale ha davvero poco senso ragionare in termini di vincitori e vinti.
Tutto questo attesta il passaggio progressivo da un periodo di rappresentazione della giustizia centrata essenzialmente sui concetti di imperatività e decisorietà ad un altro più mite e al contempo più oneroso, della giustizia dialogante fatta di condivisione e cooperazione – ed anche di frizioni più o meno manifestate – di diverse autorità giudiziarie – nazionali e sovranazionali – sempre più inserite in un sistema nel quale ciascuna di esse non è monade che decida una causa, ma turbina capace di produrre decisioni idonee a migliorare il sistema nel suo complesso, favorire prevedibilità senza ridurre il respiro ai diritti fondamentali, ridurre gli ambiti di discrezionalità interni a ciascun plesso giurisdizionale in ragione della piena consapevolezza del ruolo centrale svolto dagli altri plessi giurisdizionali. Il che sembra dimostrare quanto tali meccanismi siano agli antipodi da prospettive antidemocratiche o irrispettose della centralità della legislazione, ma tutto al contrario si sforzino di offrire una risposta giudiziaria che non tralasci alcun aspetto capace di renderla monca, fidandosi dei propri interlocutori.
Ora, cambiare le regole del gioco unilateralmente, pur sulla base di esigenze legate all’indubbio accrescimento del quadro normativo comunitario, come se fosse totalmente indifferente per l’altro dialogante l’identità del giudice con il quale dialogare rischia di minare la fiducia reciproca che insieme alla deferenza reciproca stanno alla base di quel dialogo.
Quello della fiducia è un concetto che non può essere riservato soltanto a campi estranei al diritto, esso al contrario tendendo ad assumere, progressivamente, anche in quel contesto notevole rilevanza come Tommaso Greco ha dimostrato brillantemente nel suo recente saggio[34].
E non pare affatto casuale che Alessandro Pajno abbia dedicato anche lui una riflessione sulla rilevanza della fiducia nell’amministrazione della giustizia, mettendola condivisibilmente in diretto contatto con il bisogno di verità[35], pur offrendone una lettura forse limitata, correlata al solo piano interno, quasi che essa possa e debba costituire collante dei soli rapporti fra le giurisdizioni nazionali. E così, indirettamente, mostrando forse di non nutrire grande fiducia nel ruolo delle giurisdizioni sovranazionali. A dimostrazione di quanto sia delicato il tema dei rapporti fra giudici nazionali e corti sovranazionali.
Ora, sembra a chi scrive che il cambio di rotta del rinvio pregiudiziale per mano del dialogante sovranazionale non abbia adeguatamente considerato la fiducia e la deferenza e che le istanze nazionali, soprattutto (ma non solo) quelle di ultima istanza, avevano riposto in un modo di essere giudici assolutamente nuovo e diverso dal “giudicare”, nel quale cioè il giudicante si fa prima ancora che decisore del caso, artefice di un modo di esercitare la giurisdizione al servizio della giustizia, si potrebbe dire del composito “sistema giustizia” quale esso è diventato nel terzo millennio.
Un sistema nel quale la soluzione di un caso da parte del decisore di turno condiziona ineludibilmente l’intero sistema di tutela giurisdizionale al di là del ruolo, apicale o non, ricoperto all’interno del sistema, al punto che una pronunzia su rinvio pregiudiziale non potrà non condizionare il futuro del diritto vivente anche delle Corti supreme, mettendone in discussione l’orientamento proprio per effetto della “forza” del precedente proveniente dalle Corti sovranazionali.
Tutto questo ha un senso e può avere un senso in quanto il dialogo avvenga fra giudici dotati pleno iure di tutte quelle caratteristiche che vengono riconosciute a qualsiasi autorità giudiziaria, interna o sovranazionale, fra le quali spiccano quelle della autonomia e dell’indipendenza e, soprattutto, della libertà di considerare nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni i principi fondamentali che tengono sempre e comunque unito il sistema. Se, in definitiva, il dialogo fra autorità giudiziarie diverse nasce in modo tale da porre in discussione l’essenza paritaria, autonoma e indipendente del dialogo stesso, sottoponendolo a limitazione del tipo di quelle qui rassegnate non è ardito pensare ad un ripensamento radicale delle virtù che in esso si sono fin qui viste, malgrado la ben nota obbligatorietà del rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza e l’obbligo di motivazione sullo stesso incombente in caso di omesso rinvio.
Si diceva che queste riflessioni non si attagliano unicamente ai rapporti fra giudici di ultima istanza e giudice dell’UE ma investo, forse in modo ancora più profondo, il rapporto fra giudice “non” di ultima istanza e Istituzioni giudiziarie dell’UE.
Giovano ancora una volta, le profonde riflessioni dell’Avvocato Generale Colomer rese il 16 maggio 2006 nelle cause C- ove era necessario affrontare il tema, spinoso, della disapplicazione da parte del giudice di merito di norme comunitarie andando in contrario avviso con la giurisprudenza di ultima istanza del proprio paese. In tale contesto Colomer osservava che
“La funzione primaria della Corte di giustizia consiste nel garantire con carattere esclusivo l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione delle norme europee. Il rinvio pregiudiziale mira, secondo la sentenza 24 maggio 1977, Hoffmann-La Roche, ad «impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie». Un mezzo diretto per conseguire ciò può essere quello di mediare nella disputa giuridica tra gli organi giudiziari di un paese con riferimento all’interpretazione dell’ordinamento dell’Unione effettuata da un giudice di grado superiore. 88. In questa linea di pensiero, nella sentenza 16 gennaio 1974, Rheimühlen-Dusseldorf , la Corte ha ammesso che la questione pregiudiziale svolge la funzione essenziale di garantire che il diritto istituito dal Trattato abbia la stessa efficacia in tutto il territorio della Comunità; ha aggiunto che intende anche assicurare l’applicazione uniforme, «offrendo al giudice nazionale il mezzo per sormontare le difficoltà che possono insorgere dall’imperativo di conferire al diritto comunitario piena efficacia nell’ambito degli ordinamenti giuridici degli Stati membri» (punto 2), con una discrezionalità molto ampia per sottoporre la questione alla Corte di giustizia (punto 3), di modo che «il giudice che non si pronuncia in ultimo grado, qualora ritenga che il vincolo a rispettare le valutazioni contenute nella sentenza di rinvio del Tribunale superiore possa risolversi in pratica in una sentenza incompatibile con il diritto comunitario deve rimanere libero di interpellare la Corte di giustizia sui punti che gli paiono nebulosi» giacché, se fosse vincolato, senza sottoporre la questione, la competenza della Corte di giustizia e l’applicazione del diritto comunitario in ogni grado di giudizio dinanzi alle magistrature nazionali «ne verrebbero pregiudicate», salvo se le questioni «[fossero] materialmente identiche» a quelle formulate dal giudice di ultimo grado (punto 4). 89. Senza dubbio, la proposta genera inconvenienti, come la proliferazione del numero di questioni pregiudiziali o l’apparente rottura della gerarchia dell’organizzazione giudiziaria nello Stato. Il primo svantaggio è privo di rilevanza, poiché il carico di lavoro non deve condizionare l’opzione giuridica adeguata ). Il secondo svantaggio ignora la funzione della Corte di giustizia quale supremo interprete dell’ordinamento europeo, vertice essenziale per l’esistenza di una vera comunità di diritto. In ogni caso, gli inconvenienti sarebbero minori che se si adottasse qualsiasi altra alternativa- corsivo aggiunto).
Ora, le riflessioni di Colomer, quasi vaticinatrice dei problemi che sarebbero insorti alcuni lustri dopo, non manca di sottolineare che il ruolo dell’interprete giudiziario del diritto dell’Unione è fondamentale e attiene esso stesso all’unità del diritto, al rispetto dei principi fondamentali che governano le relazioni ed i rapporti fra gli organi decisori nazionali e l’UE. Di guisa che immaginare che il cambio di giudice competente sul rinvio pregiudiziale sia neutro rispetto alla funzione allo stesso affidata tralascia forse di considerare che solo l’autorità di vertice della giustizia comunitaria può e deve assumersi il ruolo centrale ad essa affidato. Ruolo che, come si è visto è di interpretare il diritto UE, ma appunto anche di dare il là ad operazioni di disapplicazione del diritto interno contrastante con l’UE, di orientare la risoluzione dei contrasti interni fra giurisprudenze difformi dei paesi. Insomma, un ruolo che è centrale e non può che essere affidato all’autorità giurisdizionale più elevata dell’Unione europea, a pena di incrinare il senso di fiducia nel quale la Corte di giustizia ha investito fin dalla sua nascita. Una fiducia che mette nel conto le diversità di prospettive, i contrasti, le eventuali non risposte o le risposte ritenute non adeguate, ma non sembra possa e debba deflettere da alcuni capisaldi.
In conclusione, il fatto che con la proposta qui esaminata non si modifichi se non in parte il contenuto del rinvio pregiudiziale ma il (o, recte, la competenza del) giudice chiamato a deciderlo e le forme con le quali esso si andrà a manifestare, sottoponendo il Tribunale ad un sistema di controlli tutto ancora da decifrare, non sembra rispondere all’esigenza di perseguire un’idea di giustizia coerente con le fondamenta dei rapporti fra Paesi membri e UE né pare andare verso una giustizia più automaticamente giusta.
Il rinvio pregiudiziale è e deve rimanere la chiave di volta del sistema giurisdizionale come afferma solennemente il p.176 del parere n.2/2013 della Corte di giustizia del 18 dicembre 2014[36]; esso ha alle sue spalle un delicato bilanciamento creato fra i dialoganti sulla base di un sistema rodato e di successo che pone sempre e comunque al centro la persona ed i diritti che ad essa fanno capo. Ed è quella storia a non potere essere dimenticata, facendone costantemente memoria, soprattutto in nome di un efficientismo che snaturerebbe il controllo affidato al Tribunale, disegnandone una cornice di subalternità di fatto e sostanziale che non sembra in alcun modo favorire il dialogo né pare in linea con la funzione stessa del rinvio pregiudiziale quasi che esso si risolvesse in una mera operazione di interpretazione del diritto UE.
In conclusione, le criticità qui evidenziate sulla proposta della Corte di giustizia UE intendono solo propiziare, per quel nulla che possano valere, nuove riflessioni capaci di rafforzare la fiducia fra i dialoganti e, in definitiva, la fiducia e deferenza che, reciprocamente, devono costituire la colla capace di tenere uniti i giudici-dialoganti che hanno fin qui dato un senso profondo allo strumento del rinvio pregiudiziale.
*Il presente scritto trae spunto dall’intervento svolto nel corso del seminario di studio su “La proposta di riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea”, organizzato dal Dipartimento di diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università di Milano il giorno 12 giugno 2023.
[1] Domanda presentata dalla Corte di giustizia UE ai sensi dell’articolo 281, secondo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di modificare il Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, in https://curia.europa.eu.
[2] da ultimo, R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (giudicedonna.it). In precedenza, id., I dubbi del Consiglio di Stato sul rinvio pregiudiziale alla Corte UE del giudice di ultima istanza. Ma è davvero tutto così poco “chiaro”? (Note a prima lettura su Cons. Stato 5 marzo 2012 n.4584), in Diritticomparati, 1 aprile 2012; id., Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: dalla pratica alla teoria, in Questionegiustizia, 7 maggio 2013, D. Domenicucci, Circa il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in Foro it., 2011, IV, 461.[3] V., volendo, R. G. Conti, Le sentenze interpretative della corte di giustizia dell'unione europea in materia tributaria e i loro effetti negli ordinamenti nazionali, in Diritto tributario europeo e internazionale. Fonti, principi, singole imposte, tutele stragiudiziali, a cura di A. Giordano, Milano, 2020, 123 ss.
[4] R. G. Conti, Le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’unione europea in materia tributaria e i loro effetti negli ordinamenti nazionali, in Diritto Tributario Europeo e Internazionale, a cura di A. Giordano, Milano 2021, 123 ss.
[5] V., infatti, B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, Giustiziainsieme, 29 gennaio 2021
[6] V., volendo, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte Europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consultaonline; R. Conti, La Corte di cassazione italiana e il ruolo svolto da Guido Raimondi nel dialogo con la Corte edu, Liber amicorum Guido Raimondi, Intersecting Views on National and International Human Rights Protection, Tilburg, 173.
[7] B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo 16, cit., coglie puntualmente il nodo problematico dei tempi del processo che per effetto dei plurimi rinvii possono incidere negativamente sull’esigenza di giustizia, ma offre una lettura ragionata del problema quando afferma che “Vi è tuttavia da chiedersi quanto graverebbe, in ordine di tempo, un doppio rinvio e se tale dilatazione della durata rispetto alla tutela dei diritti in gioco, non sia comunque giustificata, ragionevole e proporzionata. Non lo sarebbe qualora i meccanismi di diritto interno, considerata la sospensione del processo nazionale, fossero complessi e non tempestivi, pregiudicando, alla fine, la tutela effettiva della persona. Ma non sarebbe questo un buon argomento per non ratificare il Protocollo cui non sono imputabili lacune o deficienze del diritto interno.”
[8] R. G. Conti, ll Protocollo di dialogo fra Alte corti italiane, Csm e Corte Edu a confronto con il Protocollo n. 16 annesso alla Cedu. Due prospettive forse inscindibili, in Questionegiustizia, 30 gennaio 2019.
[9] R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, relazione al convegno “Le questioni ancora aperte nei rapporti tra le Corti Supreme Nazionali e le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo” - 23 e 29 ottobre 2014-, organizzato presso la Corte di Cassazione dalle Strutture territoriali di formazione decentrata della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Roma, in http://www.cortedicassazione.it; id., Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2021 e, nella versione aggiornata, in Quaderno n.20, Il giudizio civile di Cassazione, in I quaderni della Scuola superiore della magistratura, a cura della Scuola superiore della magistratura Roma, 2023, 177.
[10] Il fattore tempo ha condizionato ormai da tempo le modalità decisorie della Corte di cassazione per effetto della "pluralità di riti decisori". Ed infatti, la Corte di Cassazione decide utilizzando forme decisorie diverse in relazione alle tipologie diverse del ricorso. Questa pluralità di riti è "figlia" di alcune riforme processuali che si sono susseguite nel nostro Paese- provo ad indicarle succintamente qui (l.n.69/2009, l.n.134/2012, l.197/2016, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 recante attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206) e che hanno introdotto importanti modifiche al modo di "fare Cassazione" nel nostro Paese. Senza qui soffermarsi sulle specifiche riforme, è sufficiente ricordare che il discrimen fra le modalità decisorie è dato dalla "rilevanza della questione di diritto deve pronunziare la Corte (art.375 c.2 c.p.c.) in modo da rendere opportuna la decisione con sentenza che avrà funzione di "precedente". In sostanza, mentre le cause decise con ordinanza non presentano una funzione nomofilattica, quelle decise in pubblica udienza, meritano una sentenza perché costituiscono precedente e rendono manifesta la funzione per la quale è stata istituita la Corte di cassazione unica, quella appunto di garantire l'unità del diritto oggettivo nell'ordinamento interno. Questo sistema, nel 2021, si è ulteriormente modificato inserendo un rito accelerato (art.380 bis c.p.c., cd. PDA) che tenda ad una definizione della lite traghettata dalla proposta adottata da un singolo componente della Corte per i casi di improcedibilità o manifesta inammissibilità del ricorso. Strumento che rende palese l’introduzione di un meccanismo capace di modificare notevolmente la struttura decisoria dei provvedimenti resi dal giudice di legittimità in una prospettiva che tende a superare la centralità della decisione a favore di meccanismi affidati alle scelte processuali delle parti e che sono, comunque, condizionati da un nuovo modo di ius dicere della Corte. Quelle qui sommariamente sintetizzate rappresentano dunque un fascio di riforme destinate ad incidere sia sulle modalità organizzative della Corte di cassazione- posto che le ordinanze seguono il rito della cameralizzazione senza udienza pubblica- che sulla “sostanza” dell’attività giurisdizionale del giudice della nomofilachia.
[11] V., volendo, R. Conti, Chi ha paura del Protocollo 16, in Sistema penale, nel quale osservammo che “…La richiesta di parere preventivo delle Alte giurisdizioni interne alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo voluto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU si pone dunque sul cammino della sempre più efficace ed effettiva tutela dei diritti fondamentali. Non si capisce, se si segue questa prospettiva, come la maggior durata del processo in relazione all’attivazione del meccanismo possa costituire remora all’attuazione del Protocollo in Italia, la stessa rappresentando tutto al contrario un’occasione imperdibile per offrire alla giurisdizione interna delle opinioni non vincolanti sull’interpretazione delle questioni di principio da parte della Corte edu, in tal modo consentendo al giudice nazionale un’attività destinata a ridurre le occasioni di conflitto fra giurisdizione nazionale e CEDU e soprattutto i costi che i privati devono sostenere per prospettare un ricorso a Strasburgo all’esito dell’esaurimento delle vie di ricorso interno. Il tempo di durata del processo sarà dunque “tempo di giustizia” – parafrasando l’art.1 c.8 della l.n.219/2017 – e non, come pure prospettato nel corso di alcune delle audizioni, tempo perso incidente sulla ragionevole durata del processo.” Sulla mancata ratifica del protocollo n.16 v., tra i tanti contributi, L’estremo saluto al Protocollo n.16 annesso alla CEDU(editoriale), in Giustiziainsieme,12 ottobre 2020 ed i contributi successivamente pubblicati di di Antonio Ruggeri - Protocollo 16: funere mersit acerbo? - Cesare Pinelli - Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale - Elisabetta Lamarque - La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa - Carlo Vittorio Giabardo - Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts - Enzo Cannizzaro - La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 - Paolo Biavati - Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, Sergio Bartole - Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare – B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto cit.,e A. Esposito, La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu; e, da ultimo, v. Il Parlamento riapra il cantiere sulla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU - Gruppo Area Cassazione, in Giustiziainsieme, 9 febbraio 2022.
[12] E. Scoditti, Brevi note sul rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questionegiustizia,30 settembre 2021 e R. D’ANGIOLELLA, Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale, in questa Rivista, 15 dicembre 2022.
[13] Corte giust. Tributaria di primo grado di Agrigento, 31 marzo 2023, in www.cortedicassazione.it.
[14] Cfr., Primo rinvio pregiudiziale alla Cassazione nel processo tributario, in Dirittoegiustizia, 11 aprile 2023. Di recente, F. Pistolesi, Il primo caso di rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione in materia tributaria, in Giustiziainsieme, 13 giugno 2023.
[15] C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale nell’architettura giurisdizionale dell’Unione europea, in DUE, n.3/2022, 32 e ss.
[16] V. decreto Primo Presidente Corte di cassazione n.16 dell’8 febbraio 2023.
[17] Decreto Primo Presidente Corte di cassazione, 18 aprile 2023, in www.cortedicassazione.it, - Comunicati Stampa
[18] Commission Opinion on the draft amendment to Protocol No 3 on the Statute of the Court of Justice of the
European Union, presented by the Court of Justice on 30 November 2022, 10 marzo 2023, COM (2023) 135 final.
[19] R. Conti, Corte costituzionale, riparto delle giurisdizioni e art. 34 D.Lgs. n. 80/98: fu vera rivoluzione?, in Urb.app., 2004, 1035.
[20] Cfr. Cass.S.U. n.4873/2022, su cui N. Vettori, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione. Nota a Cass., SU, 15.02.2022, n. 4873 sul diritto alla salute dei richiedenti asilo ospitati nei CAS, in Dir. imm.cittad., n.3,2022, 269.
[21] G. Montedoro, E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questionegiustizia,11 dicembre 2020.
[22] Sulla nuova ripartizione di competenze fra i giudici comunitari v., in generale, S. Boni, Verso una nuova ripartizione di competenze fra i giudici di Lussemburgo? in DUE, 2002, 153; R. Mastroianni, Il Trattato di Nizza ed il riparto di competenze tra le istituzioni giudiziarie comunitarie, in Nascimbene B., Il processo comunitario dopo Nizza, 2002, 21; A.Tizzano, La Cour de justice apres Nice:le transfert de competence au tribunal de premiere instance, in DUE, 2002, 597; J. Azizi, Opportunities and limits for the transfer of preliminary reference proceedings to the Court of first instance in Kokott, Pernice, Saunders, The future of the European judicial system in a comparative perspective, Baden Baden, 2006, 241. In generale v., M. Condinanzi,- R. Mastroianni, Il contenzioso dell’Unione europea, Torino, 2009, 186 ss.
[23] La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?, Intervista di R.G.Conti a P. Mori, B. Nascimbene, R. Mastroianni, in Giustiziainsieme, 27 aprile 2019; ib., La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage?, Intervista di R. Conti a L.Trucco, G. Martinico e V. Sciarabba, 9 maggio 2019.
[24] Corte giust., 1° dicembre 2022, C-512/21, Aquila Part Prod Com SA, p.31:” Poiché il diritto dell’Unione non prevede norme relative alle modalità dell’assunzione delle prove in materia di evasione dell’IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall’autorità tributaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione”. Sul ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nell’ordinamento tributario comunitario v. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2010,115 e G. Melis, Libertà di circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e principio di non discriminazione nell’imposizione diretta: note sistematiche sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in Rassegna Tributaria n. 4/2000.
[25] V. M.Golisano, Riflessioni in ordine all'impatto del nuovo comma 5bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. Tel. Dir. Trib., 2023, 1 e ss.
[26] L. S. Rossi, Il 'triangolo giurisdizionale' e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della Corte costituzionale italiana, in Federalismi.it, 1 agosto 2018. Aveva già usato tale espressione R. Caponi, parlando dei rapporti fra Corti nazionali, Corte di giustizia e Corte edu, in R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, in www.europeanrights.eu, 29.09.2009.
[27] V., per tutti, A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Diritticomparati,n.3/2017, 234. V. volendo, R. Conti, La Cassazione dopo Corte cost. n. 269/2017. Qualche riflessione, a seconda lettura, in Forum Quaderni costituzionali, 28 dicembre 2017, id, An, quomodo e quando del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia quando è 'in gioco' la Carta dei diritti fondamentali UE. Riflessioni preoccupate dopo Corte cost. n. 269/2017 e a margine di Cass. n. 3831/2018, in Giudicedonna, n.4/2017.
[28] Sulla sentenza della Corte costituzionale indicata nel testo, v. volendo, R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2019.
[29] Su tale ultima pronunzia v. L.R. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”. Rinvio pregiudiziale e ruolo dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia in Aiusde, n.4, 23 maggio 2022,76.
[30] S. Sciarra, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 5 settembre 2022, 8.: “Le corti costituzionali – come quella italiana – attive all’interno di ordinamenti democratici rispettosi dello stato di diritto, devono contribuire all’avanzamento dell’integrazione europea fornendo esempi di razionalità ed equilibrio nell’argomentazione, senza cedere a una deferenza acritica nei confronti della CGUE e tuttavia avendo ben chiaro che l’obiettivo comune prioritario consiste nella permanente adesione ai valori fondanti dell’Unione.” S. Sciarra, Lenti bifocali e parole comuni: antidoti all’accentramento nel giudizio di costituzionalità, in Federalismi, 27 gennaio 2021:” Per le corti costituzionali la collaborazione non può essere disgiunta dalla deferenza, da intendersi come rispetto per il legislatore e per le sue prerogative, ma anche come impegno attivo nella difesa dei diritti. Deferente, proprio perché rivolto a massimizzare l’affermazione dei diritti fondamentali, può essere anche l’atteggiamento delle corti costituzionali verso la CGUE. Anche in questo caso deferenza è sinonimo di conoscenza delle reciproche aree di intervento. Per guardare a questi scenari servono lenti bifocali: uno sguardo da vicino e uno da lontano, quest’ultimo proiettato nel tempo, oltre che nello spazio visivo.”
[31] M. Luciani, L’attivismo, la deferenza e la giustizia del caso singolo, in Questionegiustizia, 29 dicembre 2020.
[32] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, 2023, 114.
[33] Sul tema, nella sconfinata messe di contributi e solo per un indicazione generale del problema v. La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i "seguiti" a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia?, Interviste di R. Conti a Fabio Francario, Giancarlo Montedoro, Paolo Biavati, Renato Rordorf ed Enzo Cannizzaro, in Giustiziainsieme, Editoriale, 10 gennaio 2022.
[34] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2022.
[35] A. Pajno, Ricostituzione della fiducia e dialogo fra le giurisdizioni, in Questionegiustizia, n.2/2021: “Fiducia” è una parola antica, ma capace di evocare radici profonde. Fiducia indica, innanzi tutto, una relazione, un affidamento nei confronti di qualcuno (in Dio, nel prossimo), in un sistema di valori, nelle istituzioni. Lingue come il francese e lo spagnolo evocano il connotato sociale della fiducia attraverso il prefisso “con” (confiance, confianza) e la lingua inglese pone in luce un’altra importante relazione, quella con la verità, grazie alla parola trust, che deriva da true, vero. Non può esserci fiducia senza verità. La fiducia investe anche il rapporto con il tempo: essa suppone una relazione con un passato su cui si fa affidamento, e nello stesso tempo un rapporto con il futuro. In esso, la fiducia si proietta e diviene speranza. La fiducia riguarda pertanto le relazioni personali e sociali, l’economia (non c’è mercato senza fiducia), le istituzioni, che hanno il compito di promuoverla (non a caso la fiducia è divenuta un istituto della democrazia parlamentare e ha un ruolo fondamentale nelle scienze giuridiche).”
T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2022.
[36] Espressione che L. S. Rossi ricorda nel suo incipit in L.R. Rossi, “Un dialogo da giudice a giudice”. Rinvio pregiudiziale e ruolo dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia cit., 50.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.