ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza.
di Esper Tedeschi
Sommario: 1. L’individuazione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 113 c.p.a.; 2. Orientamenti della giurisprudenza; 3. Osservazioni su contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
1. L’individuazione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 113 c.p.a.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. individua il giudice dell’ottemperanza, attribuendo la competenza funzionale all’autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, con la precisazione, tuttavia, nel secondo periodo, che “la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. non introduce novità nel panorama processuale amministrativo.
Già l’art. 37 della legge T.A.R. – che per la prima volta ha normato l’assoggettabilità a giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice amministrativo[1] – aveva individuato, quale giudice dell’ottemperanza, l’organo della giustizia amministrativa che ha emesso la decisione di cui si chiedeva l’adempimento e, del pari, aveva introdotto una disposizione apparentemente derogatoria (rispetto alla appellabilità delle sentenze T.A.R., emesse nei giudizi di ottemperanza ex art. 37, co. 1) sostanzialmente coincidente con la disposizione ora contenuta nel co. 1, secondo periodo, dell’art. 113, c.p.a.[2].
Tuttavia – mentre l’art. 37 della legge T.A.R. si limitava a dire, al co. 4, che “la competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello” – l’art. 113, co. 1, secondo periodo, c.p.a., si esprime precisando che, affinché la competenza resti radicata nel primo giudice, occorre anche che la pronuncia confermativa del giudice di appello “abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Quella che potrebbe apparire soltanto una precisazione grammaticale, costituisce, invero, il “valore aggiunto” della disposizione codicistica (corrispondente alle indicazioni interpretative nel frattempo formatesi in materia[3]), in quanto chiarisce la volontà del legislatore, di modellare la ripartizione della competenza funzionale, fra Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato (nella rispettiva veste di giudici di primo e di secondo grado), sulla “paternità” del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale della cui ottemperanza si tratta, incardinandola nel Consiglio di Stato ogni qual volta, ancorché confermato il contenuto dispositivo della sentenza di accoglimento di primo grado, ne diverga il contenuto conformativo[4].
Quest’ultimo, si concreta in quel vincolo comportamentale che, sulla base delle argomentazioni che sorreggono il contenuto dispositivo, incombe sull’Amministrazione soccombente, la quale – come chiarito in giurisprudenza[5]– finisce con l’esserne astretta anche oltre i limiti temporali e processuali di esecutibilità della pronuncia giurisdizionale, nel senso che “il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto”. Il che è quanto dire che il provvedimento che l’Amministrazione adotta in contrasto con la pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata resta operante alla stregua di “misura ideale” del corretto e legittimo uso del potere discrezionale tipico, così che la sua violazione è idonea ad emergere sub specie di “eccesso di potere”, quale vizio del successivo provvedimento, in qualunque ragionevole tempo.
La correlazione della competenza funzionale alla paternità del contenuto “dispositivo” e “conformativo” delle pronunce giurisdizionali affonda le proprie radici nel coessenziale “pregiudizio” legislativo che, nelle materie appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo, nessuno meglio del giudice al quale deve farsi risalire lo iussus conformativo è in condizione di individuarne il significato e la portata, nell’esercizio di quella particolare cognizione estesa al merito che è propria del giudizio di ottemperanza e alla quale si correla anche il potere sostitutivo, esercitabile, se occorre, mediante la nomina di un commissario ad acta (art. 114, co. 4. lett. d)) quale ausiliario del giudice (art. 21) che tenga le veci dell’amministrazione reiteratamente inottemperante[6].
Riflettendo su tale aspetto, ci si avvede che il criterio adoperato dal codice del processo si muove nell’ottica della valorizzazione la nozione di “giudice naturale”[7] e le esigenze di tutela che vi sono sottese, e che hanno fatto dire, ai costituenti, che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”[8].
Peraltro, è stata rinvenuta, in tale opzione, una deroga alla regola del doppio grado[9], ora espressamente fissata, per il giudizio di ottemperanza, in linea generale, dall’art. 114, co. 8 e 9, c.p.a., idonea a ingenerare, per tale profilo, disparità di trattamento fra quanti possono avvalersi del doppio grado e quanti, invece, sono costretti a subire l’inappellabilità delle pronunce del Consiglio di Stato, operante, nel caso, in qualità di giudice di unico grado[10].
La questione non è di poco momento.
Se pure è vero, infatti, che la garanzia del doppio grado della giurisdizione fissata nell’art. 125 Cost. opera soltanto nel senso della appellabilità delle sentenze T.A.R.[11] – senza che dall’anzidetta disposizione, o dagli artt. 100 e 111, o da altra disposizione della Carta fondamentale possa desumersi che (nell’ambito della funzione giurisdizionale propria) il Consiglio di Stato non possa mai essere investito di competenza di unico grado – altri principi, altrettanto vincolanti, operano nel senso che, anche in tale ipotesi, l’ordinamento debba individuare misure idonee a garantire l’effettività della tutela della parte soccombente, attuativa di diritti costituzionali (artt.24, 111 e 113 Cost.) e di principi sovranazionali[12].
Tuttavia, l’osservanza di tali principi, ora scolpiti positivamente nell’art. 1 c.p.a., non vincola il legislatore nazionale nella individuazione dello strumento processuale con il quale perseguirli, purché esso sussista e si riveli efficace[13].
2. Orientamenti della giurisprudenza.
Accade di frequente che il Consiglio di Stato faccia applicazione della regola processuale in esame declinando la propria competenza a decidere, per avere individuato nel T.A.R. che aveva pronunciato la sentenza di primo grado il giudice competente, in quanto la sentenza di appello non ne aveva modificato il contenuto dispositivo e conformativo, sebbene avesse motivato in modo parzialmente diverso su un aspetto della controversia.
Esemplare sotto il profilo è la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5485 del 2020.
Il T.A.R. per il Molise, con sentenza n. 448 del 2016, aveva accolto il ricorso per risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, instaurato dall’ex presidente del comitato dei revisori dei conti di un I.A.C.P. molisano, con ricorso notificato alla Regione Molise e all’I.A.C.P. entro il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del medesimo T.A.R.
Nell’accogliere la domanda risarcitoria (con condanna in solido delle amministrazione intimate sulla base di puntuali criteri di liquidazione anche relativi alle spettanze accessorie), il T.A.R. molisano aveva, previamente, dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione dell’azione, proposta dall’I.A.C.P., in quanto tardiva, e ha respinto la coincidente eccezione della Regione Molise, basando il proprio convincimento sull’assunto che il termine quinquennale opposto dalla Regione a fondamento della propria deduzione, dovesse farsi decorrere dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, al quale il suddetto giudice ha fatto risalire la giuridica azionabilità, in sede giurisdizionale, dell’autonoma pretesa risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
La Sez. V del Consiglio di Stato – investita dell’appello principale dello I.A.C.P. e di quello incidentale autonomo della Regione Molise, entrambi volti a sindacare le conclusioni alle quali era pervenuto il T.A.R. in ordine alla decorrenza del termine per la proposizione l’azione risarcitoria (mentre il solo appello principale dello lo I.A.C.P. era anche volto caducare la condanna in solido a suo carico, sull’assunto della esclusiva responsabilità della Regione per il danno provocato all’interessato dai provvedimenti illegittimi del Commissario straordinario dell’Istituto) – ha respinto entrambi gli appelli con sentenza n. 1496 del 2018, nel cui contesto era, peraltro, precisato che “la sentenza di primo grado deve […] essere confermata, sia pure sulla base di una motivazione in parte diversa da quella contenuta nella sentenza appellata”.
Per la precisone, il giudice di appello, esaminando la riproposta eccezione di prescrizione (ed espressamente prescindendo dalla tardività riguardante la sola deduzione dell’I.A.C.P.), ha ritenuto erroneo il procedimento logico-giuridico attraverso cui il T.A.R. era pervenuto al convincimento della tempestività della proposizione dell’azione, sulla considerazione che “l’azione risarcitoria autonoma era già esperibile [prima dell’entrata in vigore del c.p.a.] e ad essa si applicava il termine di prescrizione quinquennale (come definitivamente chiarito anche da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3/2011)”. Ciò malgrado, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sostanziale irrilevanza dell’errore del primo giudice, nella individuazione della norma applicabile nella specie, stante, di fatto, la tempestività dell’azione risarcitoria alla stregua del principio in forza del quale “la domanda, proposta al giudice amministrativo, di annullamento del provvedimento lesivo è idonea, per la durata del processo amministrativo, ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, con la conseguenza che la prescrizione già interrotta può iniziare a decorrere nel giudizio risarcitorio dal passaggio in giudicato della statuizione del giudice amministrativo (cfr., ex multis, Cass. 10395/2012; Cass. 4874/2011”.
Nelle specie, e sulla base dell’intervallo temporale fra passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dei provvedimenti lesivi e la proposizione della domanda risarcitoria (con riferimento alla notificazione del ricorso, poi successivamente ritualmente e tempestivamente depositato), doveva comunque escludersi il compimento del temine prescrizionale.
Successivamente al deposito della sentenza in parola e alla sua notificazione a cura dell’interessato, persistendo l’inerzia dei coobbligati in solido, quest’ultimo ha proposto ricorso per l’ottemperanza dell’anzidetta sentenza del medesimo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1496 del 2018, nel convincimento che il giudice di appello – pur avendo lasciato invariato il contenuto dispositivo del provvedimento decisorio del primo giudice – ne avesse modificato, ampliandolo, il decisum sostanziale, dichiarandosi confortato, in tale convincimento, dalla statuizione con la quale, in appello, il Consiglio di Stato aveva compensato le spese del giudizio.
Con sentenza n. 5485 del 2020, la Sez. V del Consiglio di Stato (fra l’altro espressamente accogliendo, sul punto, l’eccezione della Regione Molise, costituitasi in giudizio) ha declinato la propria competenza in favore del T.A.R. per il Molise, con concisa, ma lodevole esposizione delle conclusioni esegetiche in tema di individuazione del giudice funzionalmente competente alla stregua del disposto dell’art. 113, co. 1, del codice del processo amministrativo.
Osserva sostanzialmente il Consiglio – nell’indicare le tappe del percorso interpretativo da compiere per l’individuare il giudice competente in materia – che la giurisprudenza ha ormai sviscerato (da tempo, in più di un decennio dalla entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, e della operatività del suo art. 113, co. 1) le linee guida da seguire, ovvero:
b) ciò fatto, l’approccio successivo sarebbe nel senso che “la competenza funzionale è del Tribunale amministrativo regionale” ove vi si ravvisi “identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado”, il che si verifica nell’ipotesi di “dispositivo di mero rigetto dell’appello principale o incidentale (così Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489)”;
c.1) la competenza del Consiglio di Stato se la motivazione della sentenza d’appello rechi una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, in senso (variamente) ampliativo o restrittivo della condotta richiesta per dar attuazione alla pretesa, così da incidere sull’obbligo conformativo dell’Amministrazione soccombente (Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871) o, anche, quando si ravvisi “un quid novisul piano del giudicato” (Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2051);
c.2) (oppure, al contrario) la competenza resta radicata nel primo giudice (il T.A.R. di provenienza), nel caso in cui la differente motivazione si concreti nel “mero arricchimento della motivazione a supporto di un medesimo decisum”.
L’avvertimento che la sentenza in esame sente, a questo punto, di dover dare all’interprete (nel caso, la parte vittoriosa dell’esecutando provvedimento giurisdizionale) è nel senso di una particolare cautela nella individuazione del “contenuto conformativo”, nelle maglie della motivazione della sentenza d’appello e nel confrontarlo con il dictum di prime cure, in quanto una sentenza di appello non può mai riproporre un percorso motivazionale identico (ovvero addirittura ripetitivo) a quello della sentenza impugnata, “non foss’altro per la necessità di confrontarsi con censure differenti da quelle proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (in tal senso già Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2183)”.
La controprova è nella constatazione che un differente modo di procedere finirebbe a riconoscere sempre competenza funzionale del giudice di appello, perché si finirebbe per attribuire al differente percorso argomentativo “(sempre) un contenuto conformativo diverso”.
Il vero, per i fini che interessano il corretto confronto dei “contenuti conformativi” dei due provvedimenti appartenenti a giudici di differente grado è nel modus operandi che si richiede all’Amministrazione per dare effettiva e concreta attuazione al comando giuridico, cosicché, in conclusione, al cospetto di un identico contenuto dispositivo, l’indagine sul contenuto conformativo consiste nel chiedersi se le due pronunce (di primo e di secondo grado) abbiano posto all’Amministrazione vincoli operativi identici o differenti.
Per venire al caso concreto appena descritto, la sostanza della vicenda sulla quale è intervenuta la differente motivazione della sentenza di appello (inoperatività della prescrizione opposta) era del tutto “pre-giudiziale” rispetto alla questione di merito, da cui doveva farsi dipendere (con l’effetto dispositivo), l’effetto conformativo della pronuncia giurisdizionale. Sicché, una volta accertato che il termine prescrizionale non era decorso al tempo della proposizione della domanda risarcitoria e che, dunque, il giudice era legittimato a “entrare nel merito” della pretesa risarcitoria, era da ritenere del tutto irrilevante il differente percorso normativo attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alle medesime conclusioni del primo giudice, in ordine alla inoperatività della prescrizione.
Infatti, la correzione, sul punto, della motivazione della sentenza di primo grado non ha minimamente intaccato il decisum sul merito della domanda risarcitoria, né in ordine alla sussistenza del danno, alla taxatio o alla aestimazio dell’obbligazione relativa, né per ciò che riguarda le indicazioni operative espressamente rivolte alle Amministrazioni soccombenti, né, infine, circa gli impliciti e residui doveri conformativi (quali, in ipotesi, quello di correttamente attenersi ai criteri di liquidazione indicati dal primo giudice, di adoperarsi per rendere disponibili i fondi necessari per l’erogazione degli importi dovuti e, infine, di emettere, il mandato di pagamento necessario alla riscossione del dovuto). Ciò in quanto, fra l’altro, è stato respinto l’appello proposto dall’I.A.C.P. avverso la condanna in solido, con totale conferma, sul punto, della sentenza T.A.R.
La sentenza si segnala per aver messo a fuoco orientamenti consolidati con costruzione logica chiarificatrice (ancorché sintetica), così da fornire anche un input di tipo didattico per la comprensione della materia.
Probabilmente, uno sforzo ulteriore poteva essere compiuto, per chiarire, anche brevemente, l’ininfluenza della statuizione sulle spese del giudizio, posto che, per espressa ammissione dell’interessato, l’equivoco del ricorrente era stato alimentato proprio dalla suddetta compensazione[14].
3. Osservazioni su contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
Ciò detto, un qualche chiarimento richiedono ancora la nozione di “contenuto dispositivo” e “contenuto conformativo” (la legge propriamente parla di “effetti”, dispositivo e conformativo) il più delle volte non espressamente enunciato, che dalla sentenza del giudice amministrativo deriva (o può derivare) in capo all’Amministrazione soccombente.
L’idea di un “contenuto conformativo”, ulteriore rispetto a quello dispositivo, afferisce alla sentenza amministrativa di accoglimento di un ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e lesivo della sfera giuridica del ricorrente[15].
È, d’altronde, manualistico l’insegnamento secondo cui l’effetto (o contenuto) conformativo costituirebbe un elemento “tipico” di tali decisioni (ancorché eventuale), in quanto presuppone che, dopo l’annullamento giurisdizionale residuerebbe, in capo all’Amministrazione soccombente “il potere” (o, a seconda dei casi e sulla base di quanto dispone il diritto sostanziale, “il dovere”) di provvedere in ordine alla fattispecie che ha costituito oggetto del giudizio, con un nuovo atto[16].
L’effetto conformativo si concreterebbe nell’obbligo, per l’Amministrazione soccombente, di tenere conto, nella sua azione, delle indicazioni e dei limiti desumibili dall’accertamento giurisdizionale, come esplicitati nella motivazione del provvedimento giurisdizionale del quale di stratta[17].
In tale ottica, l’effetto conformativo rinverrebbe la sua tipicità nel meccanismo impugnatorio, che definisce anche i limiti del contenuto conformativo della pronuncia giurisdizionale, in quanto esige la specificazione dei motivi di impugnazione da parte del ricorrente e non consente al giudice di spingere il suo potere di controllo giurisdizionale oltre i limiti delle censure dedotte[18].
Se ne potrebbe dedurre che di contenuto conformativo possa, ancora oggi, parlarsi soltanto con riguardo alle sentenze di merito emesse nel tipico giudizio di legittimità e che, solo con riferimento alle anzidette sentenze di accoglimento, esso debba ricercarsi nelle maglie della motivazione, della pronuncia favorevole.
Sennonché, rispetto al suo atto di nascita, potrebbe dirsi, oggi, che il giudizio di ottemperanza ha cambiato pelle.
Già l’art. 33, della l. n. 1034 del 1071, con il comma 4 (aggiunto dall’art. 10, l. 21 luglio 2000 n. 205), ne ha ammesso l’esperibilità per le sentenze T.A.R. non ancora passate in cosa giudicata e non sospese dal Consiglio di Stato; sulla base del combinato disposto degli artt. 112, co. 5 e 114, co.7, il giudizio di ottemperanza può essere proposto per fornire chiarimenti sulle modalità di esecuzione, anche da parte dello stesso commissario ad acta; l’art. 112. co. 1 e 2, c.p.a, ha notevolmente ampliato l’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza, in correlazione anche alla pluralità di azioni che possono essere proposte davanti al giudice amministrativo e il successivo co. 3 dello stesso articolo, modificato dal primo correttivo di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, ha reso possibile la proposizione “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza” dell’azione “di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza”, oltre che di quella “di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”[19].
Inoltre, il “nuovo” codice del processo amministrativo (con le modificazioni apportate, all’originario d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, dai correttivi di cui ai d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e 14 settembre 2012, n. 160, ma anche per effetto di successivi aggiustamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni) sembra propendere, non soltanto verso una più puntuale ed esplicita enunciazione del contenuto conformativo dei provvedimenti giurisdizionali, anche con riferimento a pronunce con oggetto differente dal tipico sindacato di legittimità[20].
In tale contesto, la formula dell’art. 113, comma 1, c.p.a., in tema di giudizio di ottemperanza, induce a interrogarsi sulla possibilità che il legislatore abbia anche intenzionalmente ritenuto di dover accedere a una nozione di “contenuto conformativo” non rigorosamente ancorata ai soli effetti ulteriori della pronuncia definitiva di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, nella parte in cui, nel recepire interamente il riparto di competenza funzionale fra T.A.R. e Consiglio di Stato (nella funzione giurisdizionale di giudice di appello) già fissata nell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971 (istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), ha valorizzato la rilevanza processuale del “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”, senza tenere in alcun conto la pluralità di azioni previste dal codice e dell’altrettanto variegata tipologia di “provvedimenti” giurisdizionali finali, suscettibili di ottemperanza.
Tale convincimento è avvalorato dal comma 1 dell’art. 112 c.p.a.
Il contenuto conformativo delle pronunce amministrative, che aveva fatto dire “il sindacato di legittimità diventa una misura di giustizia in senso distributivo nei rapporti intersoggettivi”[21], nel nuovo assetto del processo amministrativo, sembra dunque emergere, a tutto tondo, nella generalità delle statuizioni di merito del giudice amministrativo, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, co. 1, Cost.[22].
Esso è da considerarsi di tale rilevanza che, secondo l’orientamento messo a fuoco dal Consiglio di Stato[23], l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Verrebbero così a scindersi, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’Amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
Detto questo, deve darsi atto che, ai fini e per gli effetti del giudizio di cui all’art. 113 c.p.a. - al cospetto di una decisione di appello che confermi il contenuto dispositivo della sentenza di primo grado con motivazione non del tutto conforme alla pronuncia di prime cure - l’individuazione del giudice al quale fare risalire la paternità del contenuto conformativo può essere complicato dallo sviluppo argomentativo della pronuncia, la cui complessità affonda le proprie radici nelle connotazioni stessa del giudizio di appello, nel contempo impugnatorio e devolutivo (nei limiti di quanto dedotto nel giudizio di primo grado ed oggetto di gravame in appello).
Il caso deciso dalla citata sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3485/2020 costituisce un esempio tipico di “equivoco”, nel quale non sarebbe dato incorrere, se soltanto si tenesse conto che il differente percorso argomentativo - che si sostanzi in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado - non modifica, di per sé, né il contenuto dispositivo né quello conformativo della sentenza di primo grado[24], per di più nel caso in cui investa un profilo pregiudiziale (di rito o di merito) rivelatosi poi ininfluente sulla cognizione di merito richiesta al giudice dell’ottemperanza, in ordine alla pronuncia favorevole.
Altra cosa è che il giudice di appello ampli il contenuto conformativo della pronuncia di primo grado o vi imprima una differente portata: è solo in tal caso che può parlarsi di un contenuto conformativo proprio della sentenza di appello, idoneo a incardinare nel Consiglio di Stato la competenza funzionale ai fini del giudizio di ottemperanza, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, c.p.a., che individua nel giudice che ha posto l’obbligo conformativo, quello naturalmente idoneo a garantire il corretto collegamento tra cognizione ed esecuzione, attraverso l’interpretazione della portata effettiva del proprio dictum[25].
La conclusione parrebbe semplice, se non fosse che su tale argomento sono scorsi fiumi di inchiostro[26].
[1] Quasi sottovoce – con la l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali – il legislatore nazionale ha implicitamente conferito dignità normativa all’applicazione pretoria dell’istituto processuale di cui all’art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa. Ciò ha fatto con disposizioni (contenute nell’art. 37, co. 3 e 4, della legge citata) aventi a oggetto la distribuzione della competenza funzionale fra giudice di primo e di secondo grado (rispettivamente i T.A.R. di nuova istituzione e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale) che, implicitamente, danno per acquisito all’ordinamento l’istituto processuale, con l’anzidetta funzione espansiva (rispetto alla formula contenuta nel T.U.). E invece – sebbene al tempo della emanazione del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, fosse superata (anche a livello legislativo) la vexata questio della natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dagli interessati per l’annullamento dei provvedimenti definitivi viziati da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere – nell’art. 27 del T.U. fu trasfuso l’originario art. 4, co. 4 della c.d. legge Crispi, senza ampliarne la portata applicativa. O. Quarta, Discorso del procuratore generale della Corte di cassazione di Roma, del 4 gennaio 1910, nel quale si rinviene (pp. 46 e ss.) un’ampia ed argomentata prolusione a sostegno della natura giurisdizionale delle decisioni della Sez. IV del Consiglio di Stato, dà conto di quanto fosse sentito, al tempo, il problema. Alla fine fu la storica sentenza del Consiglio di Stato, n. 181 del 2 marzo 1928, che per la prima volta estese il rimedio di cui all’art. 27 del T.U., anche alle sentenze amministrative, dando avvio a quella che – a distanza di anni – fu tacciata di essere una “bruta normazione giurisprudenziale” (M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Milano 1983, p. 65).
[2] Art. 37, co. 4. l. n. 1034 del 1971.
[3] Fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6767; sez. VI, 20 luglio 2009, n. 4554, nelle quali si rinviene il principio (poi confermato da Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2011, n. 3316) secondo cui la competenza del T.A.R., in sede di ottemperanza al giudicato, resta sempre preclusa quando la pronuncia del Giudice di appello ha diversamente definito una questione di natura cognitoria, ovvero ha diversamente connotato l’esatto significato e la portata della sentenza da eseguire, modificando quindi l’assetto degli interessi definiti in primo grado.
[4] Il che si verifica, come sarà meglio precisato oltre, quando il percorso decisionale attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alla conferma del contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale di primo grado, sulla base di un di percorso argomentativo che si discosta significativamente da quello seguito dal giudice di primo grado. Si veda sul punto Cons. di Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489, citata nella sentenza in commento.
[5] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[6] Per un approfondimento in ordine alla figura del commissario ad acta, V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Milano, 2002, Agg. VI, pp. 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001, pp. 1 e ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, Roma, 2001, Fasc. 1, II, pp. 1 e ss.
[7] V. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2017, n. 5058, punto 2.5 del “diritto”, in cui si afferma che il giudice amministrativo in sede di ottemperanza è il “giudicenaturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 6 novembre 2017, n. 26259, ma, ancor prima, Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, punto 2 del “diritto”. Sul punto si veda l’approfondimento di F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, in particolare pp. 208 e ss.
[8] Art. 25, co. 1, Cost.
[9] Il problema era emerso già in vigenza della l. n. 1034 del 1971 in assenza, ivi, di regole procedurali sul giudizio di ottemperanza. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 23 del 14 luglio 1978 (su ordinanza di remissione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana), aveva affermato il principio della inappellabilità dei “provvedimenti” emessi dal T.A.R. nell’ipotesi di cui all’art. 37, co. 1, l. n. 1034, desunto, oltre che dalla coordinata lettura delle regole procedimentali di cui all’art. 90 del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907 n. 642, dalle finalità proprie della misura e dal criterio di ripartizione funzionale della giurisdizione fra T.A.R. e Consiglio di Stato, che vedeva, appunto quest’ultimo giudice operare come giudice unico nei giudizi attribuiti alla sua competenza in base ai commi 3 e 4 del medesimo art. 37. Tale rigida impostazione incontrò critiche della dottrina (per tutti, F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, pp. 4 e ss. e, più recentemente, C. E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1264) e ripensamenti giurisprudenziali. Il medesimo Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 2 del 1980, ebbe a precisare che le sentenze dei T.A.R. emesse ai sensi dell’art. 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 non sono appellabili là dove contengono mere misure attuative del preesistente giudicato, sempre che queste ultime non si sostanzino in statuizioni aberranti o comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza; mentre l’appello contro le dette sentenze è consentito là dove il T.A.R. abbia pronunciato – ovvero abbia illegittimamente omesso di pronunciarsi – sulla regolarità del giudizio di ottemperanza, sulla ammissibilità dell’azione esperita, nonché sulla fondatezza della pretesa azionata: dunque, l’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del T.A.R. era ammissibile, ma solo quando questa non si limitava a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell’azione e sulla fondatezza della pretesa azionata. A sua volta le S.U. della Suprema Corte di Cassazione, con sent. 24 novembre 1986, n. 6895 – ribadito l’orientamento espresso nelle sent. nn. 175 del 1984 e 648 del 1982 – ha alfine sciolto ogni dubbio, con articolata motivazione che ha valorizzato, innanzitutto, la natura pienamente giurisdizionale delle sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza e l’applicazione alle medesime della ordinaria appellabilità contemplata per le sentenze T.A.R., indipendentemente dalla circostanza che l’art. 37 della l. T.A.R. demandasse il giudizio di ottemperanza ai T.A.R. solo per talune specifiche ipotesi, affidando le altre ipotesi direttamente al Consiglio di Stato, in unico grado.
[10] È il caso di ricordare, al riguardo, che la Corte Costituzionale, con sentenza 31 dicembre 1986 n. 301, ha affermato che “le garanzie del doppio grado di giurisdizione assurgono ad oggetto di norma costituzionale soltanto nell'area dell'art. 125 Cost. riflettente l’appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze dei tribunali amministrativi di primo grado”.
[11] V. nota che precede.
[12] Ci si riferisce ai principi euro-unitari e a quelli CEDU e alla loro vincolatività nell’ordinamento interno. Sul tema, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 17 novembre 2015, n. 35532, sulle quali pone anche l’accento C. Deodato, I possibili rimedi avverso la sentenza di ottemperanza contrastante con il giudicato, in giustizia-amministrativa.it, 2017, note 8 e 9. Ma è di chiovendiana provenienza il principio della effettività della tutela giurisdizionale, dovuto proprio ai lungimiranti insegnamenti di cui siamo debitori all’illustre Maestro della processualistica italiana, che l’elaborò, ben prima che divenisse “valore” di portata costituzionale. Sul punto, G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1930, Vol. I, pp.101 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, ora Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 81, dove si legge che “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire”.
[13] Il pensiero sembra condiviso da C. Deodato, (op. cit. nella nota che precede, pp. 7 e ss.), nell’individuare “i possibili rimedi” avverso le sentenze pronunciate dal Consiglio di Stato, in unico grado, implicante anche il convincimento della sostanziale equivalenza di tali rimedi. Per la precisone, pur non nascondendo l’esistenza di criticità, l’Autore individua come utilizzabili nella fattispecie considerata il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione per contrasto con un precedente giudicato, fornendone poi illustrazione sufficientemente convincente.
[14] Soltanto incidentalmente, si ricordano in questa sede gli interessanti contributi, in tema di spese del giudizio, di M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574; nonché, Corte Cost. sent. n. 77 del 2018.
[15] G. Barbagallo, Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, p. 233 fa un dettagliato excursus su stile e funzioni delle decisioni del Consiglio di Stato italiano, indicando (come connotazione tipica delle argomentazioni contenute nella “sentenza amministrativa” la funzione “di conformare il futuro comportamento della Pubblica Amministrazione”, con evidente riferimento alle decisioni di accoglimento dei ricorsi giurisdizionali volti all’annullamento del provvedimento lesivo.
[16] C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), VII, Torino, 2017, p. 611.
[17] Vd. nota che precede.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738. La sentenza precisa che “il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce,normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione”.
[19] Per una visione panoramica dei processi evolutivi, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, in particolare pp. 287 e ss.; F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, pp. 171 e ss.; Id., Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, pp. 52 e ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 976 e ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, pp. 226 e ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, pp. 369 e ss.
[20] Vd., al riguardo, art. 34, c.p.a.
[21] A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. Amm., 2003, p. 757, con particolare riferimento alla nota n. 63.
[22] Al riguardo, su tutti, si veda M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, pp. 280 e ss.
Una singolare corrente di pensiero, sostenuta dalla Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana (pareristica a cura dell'Avvocatura generale dello Stato), ha propugnato la necessità di codificare una sorta di c.d. “schema conformativo” delle pronunce giurisdizionali di merito, corrispondente a quello inaugurato dal T.A.R. Piemonte, nel periodo 2010/2011 (si vedano le sentt. T.A.R. Piemonte, Sez. I, nn. 1488/2010, 385/2011,785/2011). Eloquente, al riguardo, E. Michetti, Una nuova prospettiva per la giustizia amministrativa – Lo schema conformativo, Montecompatri, 2012, nel cui ambito in particolare si segnalano, F. Bianchi, Prefazione, pp. 2 e ss.; del medesimo Autore, E. Michetti, Prefazione, pp. 6 e sss, nonché, nel volume, Conclusioni – Sperimentazione schema conformativo: obiettivi e finalità per una giustizia “misura”, pp. 151 e ss.
[23] Cons. Stato, Sez. V, 11marzo 2020, n. 1738, cit.
[24] In questo senso, si vedano Cons. di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2017 e Sez. IV, 1° febbraio 2017, n. 409 e 2 luglio 2014, n. 3331.
[25] Oltre le sentenze citate nella nota che precede, e la stessa sentenza Cons. di Stato, Sez. VI, n. 5485 del 2020 che ha ispirato il presente contributo, v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612 e A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
[26] Vanno infatti ad intersecarsi, con la questione in esame, problematiche di più ampio respiro, quali derivanti dalla natura mista del giudizio di ottemperanza, di cognizione ed esecuzione, che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva. Il giudizio di ottemperanza si caratterizza in modo diverso a seconda della tipologia di provvedimento di cui si chiede l’attuazione e del peculiare contenuto dello stesso. Ad esempio, ove il contenuto conformativo investa il comportamento che l’amministrazione dovrà tenere in seguito ad una sentenza emessa sul silenzio serbato dall’amministrazione in relazione a un’istanza sulla quale il giudice amministrativo ha riconosciuta la sussistenza dell’obbligo di provvedere, lo iussus conformativo deve essere relazionato al tipo di azione e di tutela che l’ordinamento ha consentito di apprestare con tale azione con necessario adattamento degli insegnamenti dottrinali in ordine alla funzione tipica del giudizio di ottemperanza, come. d es., fra gli altri, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, pp. 1025 e ss.
Il presente contributo offre una prima riflessione sistematica sulla Legge 135/2025 in materia di intelligenza artificiale, con particolare riguardo all’art. 15 e all’uso dei sistemi di IA nell’attività giudiziaria. Muovendo dall’analisi del bilanciamento tra autonomia del magistrato e potere autorizzatorio ministeriale, il lavoro indaga la coerenza costituzionale e il rapporto con il quadro eurounitario delineato dal Regolamento (UE) 2024/1689 (AI Act). La trattazione si estende alle prospettive di armonizzazione internazionale, considerando la Raccomandazione UNESCO 2021 e le più recenti indagini empiriche sul ruolo dell’IA nella giustizia. Emergono riflessioni sul valore probatorio dei documenti redatti con strumenti di IA, sull’onere argomentativo del giudice e sulla progressiva trasformazione del potere ministeriale da autorizzatorio a gestionale, in un contesto di crescente autonomia e responsabilità giurisdizionale.
Sommario: 1.Premessa metodologica: la sfida costituzionale dell'intelligenza artificiale nella giustizia - 2. Il quadro normativo stratificato: dal Regolamento Europeo (cd AI ACT) alla disciplina nazionale - 3 La Legge 132/2025: luci, ombre e questioni irrisolte - 4. L'ambito applicativo: riserva giurisdizionale e attività compatibili nelle raccomandazioni del CSM 5. Rischi, cautele e protocolli operativi per un uso responsabile - 6. Validità probatoria e conseguenze dell'uso improprio -- Il sistema di certificazione europeo e la governance partecipata - 7. Conclusioni: la machina sapiens giurisdizionale nei binari del CSM come imperativo costituzionale.
1. Premessa metodologica: la sfida costituzionale dell'intelligenza artificiale nella giustizia
L'introduzione dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia segna un passaggio storico che trascende le dimensioni meramente tecniche o organizzative per investire i principi fondamentali dello Stato di diritto: l'indipendenza e l'autonomia della magistratura, il principio di legalità, il diritto di difesa, il giusto processo, la tutela dei dati personali. L'espressione metaforica contenuta nel titolo – "l'algoritmo giurisdizionale nei binari del CSM" – evoca l'immagine di una tecnologia potente e pervasiva che deve essere incanalata entro argini costituzionalmente definiti, sotto la vigilanza dell'organo che la Costituzione ha preposto alla tutela dell'autonomia della magistratura. I "binari" rappresentano il tracciato costituzionale entro cui l'innovazione tecnologica deve necessariamente scorrere, mentre il Consiglio Superiore della Magistratura si configura come garante che tale percorso non devii verso approdi incompatibili con i principi fondamentali di autonomia, indipendenza e umanità del giudizio. In sintesi, l'algoritmo, per quanto sofisticato, non può essere lasciato libero di autodeterminarsi secondo logiche proprie, ma deve essere governato, indirizzato, controllato dall'intelligenza umana e dalla sapienza giuridica che si è sedimentata nel corso dei secoli nella tradizione del processo come esperienza relazionale e non già come mero automatismo decisionale. La Legge 25 settembre 2025, n. 132, recante "Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale", costituisce il primo intervento legislativo nazionale in materia, segnando una tappa fondamentale nel processo di regolamentazione dell'impiego dei sistemi algoritmici in ambito giudiziario. L'articolo 15, dedicato specificamente all'attività giudiziaria, introduce un regime caratterizzato da duplice valenza: da un lato, stabilisce un principio di riserva decisionale in capo al magistrato di ogni decisione sull'interpretazione e applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti; dall'altro, istituisce un meccanismo di autorizzazione preventiva rimesso alla competenza del Ministero della Giustizia per i sistemi impiegati negli uffici giudiziari. Tale previsione normativa dischiude una pluralità di interrogativi dirimenti che investono profili di legittimità costituzionale, compatibilità con il diritto euro-unitario e operatività concreta. Si pone, in particolare, il problema della compatibilità di un potere autorizzatorio dell'esecutivo con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura consacrati negli artt. 101, comma 2, 104 e ss. della Costituzione, specialmente laddove il magistrato faccia ricorso a strumenti tecnologici non previamente inclusi nel novero di quelli autorizzati. La delibera del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025, contenente raccomandazioni sull'uso dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia, fornisce orientamenti operativi immediati che colmano il vuoto normativo della fase transitoria, rivendicando con fermezza il ruolo dell'organo di autogoverno quale garante imprescindibile dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura anche – e forse soprattutto – nell'era dell'automazione decisionale. L'approccio metodologico che informa il presente contributo mira a evidenziare come la disciplina dell'intelligenza artificiale in ambito giudiziario richieda una sintesi equilibrata tra rigore costituzionale e pragmatismo operativo, tra fedeltà ai principi fondamentali e capacità di cogliere le opportunità offerte dall'innovazione tecnologica, tra tutela delle garanzie e perseguimento dell'efficienza.
2. Il quadro normativo stratificato: dal Regolamento Europeo (cd AI ACT ) alla disciplina nazionale
Il sistema normativo che regola l'impiego dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia si presenta come edificio complesso, caratterizzato da stratificazione di fonti eterogenee per rango, efficacia e ambito applicativo. Al vertice si colloca il Regolamento (UE) 2024/1689 del 13 giugno 2024, comunemente denominato AI Act, il quale in virtù del suo carattere direttamente applicabile ex art. 288 TFUE costituisce il parametro normativo primario cui l'ordinamento interno deve conformarsi. Il Regolamento adotta un approccio basato sulla stratificazione del rischio (risk-based approach) che classifica i sistemi destinati all'uso in ambito giudiziario tra quelli ad alto rischio, sottoponendoli conseguentemente a un regime particolarmente stringente. L'allegato III contempla tra i sistemi ad alto rischio quelli "destinati a essere usati da un'autorità giudiziaria o per suo conto per assistere un'autorità giudiziaria nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti". Il considerando 61 del medesimo Regolamento precisa, tuttavia, che l'utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale può fornire sostegno al potere decisionale dei giudici o all'indipendenza del potere giudiziario, ma non dovrebbe sostituirlo, giacché il processo decisionale finale deve rimanere un'attività a guida umana. La delibera consiliare illumina un aspetto cruciale spesso trascurato nell'analisi dottrinale: l'applicazione temporale scaglionata del Regolamento. Mentre i divieti assoluti e gli obblighi di alfabetizzazione trovano immediata operatività dal 2 febbraio 2025, le disposizioni concernenti i sistemi ad alto rischio – cuore pulsante della disciplina giudiziaria – dispiegheranno effetti soltanto dal 2 agosto 2026. Tale differimento non rappresenta un accidente legislativo, bensì la consapevole scelta di consentire la predisposizione di infrastrutture tecniche, competenze specialistiche e procedure di certificazione di straordinaria complessità. Emerge così una prima, fondamentale acquisizione: esiste una fase transitoria – quella che stiamo attualmente attraversando – nella quale la disciplina si presenta frammentaria, caratterizzata da una coesistenza non sempre armonica tra norme nazionali ancora incomplete e prescrizioni europee non ancora pienamente operative. È precisamente in questo interstizio normativo che le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura assumono una valenza determinante, colmando il vuoto regolamentare e fornendo quella necessaria prevedibilità che costituisce presupposto ineludibile per un utilizzo consapevole delle tecnologie emergenti.
3.La Legge 132/2025: luci, ombre e questioni irrisolte
La Legge 132/2025 si inserisce in questo contesto quale primo tentativo dell'ordinamento nazionale di dare attuazione alle prescrizioni euro-unitarie. L'articolo 15 delinea una apparentemente lineare bipartizione funzionale: il comma 1 sancisce inequivocabilmente la riserva al giudice di ogni decisione sull'interpretazione e applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti, indipendentemente dal locus in cui l'attività si svolge; il comma 2 prevede che il Ministero della giustizia disciplini gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie; il comma 3 attribuisce al Ministero il potere di autorizzare la sperimentazione e l'impiego dei sistemi negli uffici giudiziari ordinari, previa consultazione delle autorità nazionali di cui all'articolo 20 (AGID e ACN).
Tale architettura normativa lascia emergere tre nodi problematici di primaria rilevanza costituzionale. Il primo concerne la compatibilità di un potere autorizzatorio rimesso all'Esecutivo con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, specialmente ove si consideri l'assenza di coinvolgimento sostanziale del Consiglio Superiore della Magistratura e la designazione di AGID e ACN – agenzie governative non indipendenti, sottoposte a un marcato controllo e indirizzo politico – quali interlocutori unici del Ministero nella regolamentazione e governance delle applicazioni dell'intelligenza artificiale negli uffici giudiziari. Il secondo nodo attiene all'incertezza interpretativa circa la perimetrazione concreta delle categorie funzionali individuate dal comma 2. La distinzione tra "organizzazione dei servizi relativi alla giustizia", "semplificazione del lavoro giudiziario" e "attività amministrative accessorie" si rivela, all'atto pratico, assai più sfumata di quanto la formulazione letterale lasci intendere. Il Regolamento europeo, al considerando 61, esclude dalla classificazione dei sistemi ad alto rischio soltanto quelli "destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi". L'avverbio "puramente" e la negazione "non incidono" assumono valenza ermeneutica dirimente, imponendo una valutazione rigorosa dell'effettiva incidenza dell'attività automatizzata sull'amministrazione della giustizia. Attività quali la distribuzione automatizzata degli affari tra i magistrati dell'ufficio o la definizione algoritmica delle priorità nella trattazione dei procedimenti si collocano evidentemente in una zona grigia: formalmente riferibili all'organizzazione del lavoro, esse presuppongono necessariamente operazioni di qualificazione giuridica che difficilmente possono considerarsi "puramente" accessorie. Il terzo nodo concerne l'indeterminatezza della fonte normativa chiamata a disciplinare gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale, giacché il comma 2 si limita a stabilire che "il Ministero della giustizia disciplina" senza specificare lo strumento normativo da adottare. In questo contesto di incompletezza normativa e incertezza applicativa si collocano le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025, che si configurano come soft law dotato di efficacia ordinante in ragione dell'autorevolezza dell'organo emanante e della persuasività intrinseca dei principi enunciati. Le raccomandazioni operano su tre piani complementari: sul piano prescrittivo, individuano con precisione i sistemi utilizzabili nella fase transitoria, le attività compatibili con l'ordinamento vigente, le cautele obbligatorie da osservare e i rischi da governare; sul piano formativo, assegnano alla Struttura Tecnica per l'Organizzazione e alla rete dei Referenti Informatici Distrettuali il compito di predisporre e diffondere buone prassi, protocolli operativi e percorsi di alfabetizzazione tecnologica; sul piano strategico-istituzionale, rivendicano con forza il ruolo comprimario del Consiglio nella governance dell'intelligenza artificiale applicata alla giustizia, proponendo tavoli tecnici congiunti, sandbox regolatorie, sistemi di audit periodico e interlocuzioni con l'avvocatura.
4. L'ambito applicativo: riserva giurisdizionale e attività compatibili nelle raccomandazioni del CSM
La tripartizione funzionale delineata dall'art. 15, comma 2, della Legge 132/2025 si rivela assai più problematica di quanto la formulazione letterale lasci intendere quando si tratti di verificarne l'operatività in relazione a fattispecie concrete. Il Regolamento europeo, al considerando 61, esclude dalla classificazione dei sistemi ad alto rischio soltanto quelli "destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi", menzionando a titolo esemplificativo l'anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, la comunicazione tra il personale e i compiti amministrativi. L'avverbio "puramente" e l'inciso "che non incidono" assumono valenza ermeneutica tutt'altro che trascurabile, imponendo una valutazione qualitativa rigorosa circa l'effettiva incidenza sull'amministrazione della giustizia.
Le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura risolvono pragmaticamente tale incertezza interpretativa mediante un elenco operativo, dichiaratamente non esaustivo, di impieghi dell'intelligenza artificiale che, allo stato attuale della normativa e in attesa della piena operatività del Regolamento europeo, possono considerarsi compatibili con i principi costituzionali e con le prescrizioni eurounitarie, a condizione che vengano implementati in modalità tracciata, sicura, con costante revisione umana e nell'ambito degli applicativi forniti all'interno del dominio giustizia.
Tale elenco riflette una logica di fondo ben definita: l'intelligenza artificiale può legittimamente assistere il magistrato in tutte quelle attività che, pur essendo strumentali o accessorie rispetto alla funzione giurisdizionale in senso stretto, comportano un impegno significativo di tempo e di risorse cognitive, a condizione che il contributo algoritmico non si sostituisca mai alla valutazione umana ma si limiti a facilitarla.
Gli ambiti compatibili individuati includono: ricerche dottrinali intese come assistenza nella consultazione di banche dati e nella costruzione di stringhe di ricerca; sintesi di provvedimenti ostensibili e contributi dottrinali per la creazione di abstract destinati alla classificazione tematica; attività organizzativo-gestionali quali report statistici, analisi di conformità tra programmi di gestione e dati di registro, comparazione automatizzata di documenti, redazione di bozze di relazioni su incarichi direttivi, gestione dei calendari d'udienza; supporto agli uffici per i cosiddetti "affari semplici" mediante redazione di bozze standardizzate da adattare al caso specifico; supporto ad attività giurisdizionali gestionali attraverso il controllo della documentazione prodotta in atti ove opportunamente anonimizzata; attività di natura tecnico-amministrativa quali generazione automatica di presentazioni, produzione di tabelle e grafici, revisione linguistica e stilistica, catalogazione e archiviazione per materia dei quesiti ai consulenti tecnici, predisposizione di calendari d'udienza, traduzione assistita. Tra le molteplici attività suscettibili di essere assistite da strumenti di intelligenza artificiale, quella concernente le ricerche su banche dati giurisprudenziali merita una riflessione autonoma e approfondita, collocandosi su un crinale sottile tra l'ammissibilità e la problematicità.
L'utilizzo dell'intelligenza artificiale per tale finalità presenta una natura bifronte: da un lato, può validamente assistere il magistrato nella consultazione delle banche dati, nella costruzione di stringhe di ricerca complesse e nella classificazione tematica del materiale reperito, configurandosi come supporto tecnico-organizzativo riconducibile ai "compiti procedurali limitati" di cui all'art. 6, par. 3, lett. a) del Regolamento (UE) 2024/1689; dall'altro lato, laddove i sistemi siano progettati per selezionare automaticamente la giurisprudenza "più rilevante", per suggerire orientamenti interpretativi prevalenti o per generare schemi motivazionali basati su pattern ricorrenti, si configura un impiego che incide potenzialmente sull'attività valutativa e sull'indirizzo giuridico.
Si impone conseguentemente vigilanza stringente su tre piani: la natura e l'architettura dei sistemi utilizzati; la trasparenza degli algoritmi di selezione e classificazione; il ruolo attivo e critico del magistrato nel vaglio dei risultati.
L'output prodotto deve essere oggetto di valutazione e verifica autonoma da parte del magistrato: l'automazione della ricerca non può sostituire quella sensibilità giuridica che è necessaria alla contestualizzazione del precedente. È necessario che le banche dati giurisprudenziali messe a disposizione del magistrato garantiscano una base dati completa, non discriminatoria e aggiornata, e prevedano forme di controllo e supervisione da parte della magistratura nella fase della selezione, classificazione e aggiornamento delle sentenze.
Durante la fase transitoria possono essere utilizzati: tutti i sistemi autorizzati dal Ministero della Giustizia ai sensi dell'art. 15, comma 3; gli strumenti forniti all'interno del dominio giustizia, quale ad esempio la funzionalità Copilot messa a disposizione dal pacchetto Office ministeriale; progetti sperimentali condotti in ambiente protetto e sotto la supervisione congiunta del Ministero e del Consiglio, purché con preventiva anonimizzazione e tracciabilità dei dati.
Rimane categoricamente escluso l'utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale generalisti, non autorizzati, per l'attività giudiziaria in senso stretto, giacché tali sistemi non garantiscono i requisiti previsti dal Regolamento europeo per i sistemi ad alto rischio.
5. Rischi, cautele e protocolli operativi per un uso responsabile
L'impiego di sistemi di intelligenza artificiale è connesso a rischi significativi, distinguibili in rischi tecnici attinenti al funzionamento intrinseco dei sistemi e rischi sistemici concernenti le ricadute più ampie dell'automazione decisionale sulla tenuta dei principi costituzionali e processuali.
I rischi tecnici includono: la trasmissione automatica e predefinita di dati a fornitori terzi e la loro registrazione su server di aziende estere anche extra-UE, con conseguente esposizione al rischio di violazione della riservatezza e di profilazione non autorizzata; il riutilizzo dei dati per finalità non previste, con particolare riguardo alla possibilità che essi concorrano all'addestramento di modelli successivi, finendo per incorporarsi stabilmente nel patrimonio informativo dell'operatore commerciale e determinando erosione progressiva della sovranità pubblica sui dati giudiziari; la fallibilità degli output generati, che possono contenere errori e distorsioni quali le cosiddette "allucinazioni" consistenti nella generazione di contenuti non basati sulla realtà oggettiva, e le "compiacenze" consistenti nella generazione di contenuti orientati ad assecondare le aspettative percepite dell'utente; errori derivanti da dati di addestramento insufficienti o viziati, dalle modalità di funzionamento degli algoritmi che essendo basati sulla statistica tendono talvolta anche a "inventare" risposte solo probabili, da correlazioni spurie. I rischi sistemici concernono: i bias algoritmici, vale a dire distorsioni sistematiche che i sistemi ereditano dai dati di addestramento e dalle scelte progettuali, giacché l'intelligenza artificiale non è mai neutrale ma incorpora tutte le imprecisioni contenute nel database e gli eventuali pregiudizi di chi ha progettato il sistema; le discriminazioni strutturali, giacché qualora i dati di addestramento riflettano squilibri o stereotipi presenti nella realtà sociale il sistema finirà per replicare e amplificare tali distorsioni, producendo output affetti da discriminazione in contrasto con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall'art. 3 della Costituzione; l'opacità dei processi decisionali, giacché molti sistemi operano come "scatole nere" rendendo estremamente arduo individuare l'origine di eventuali distorsioni; l'automation bias, vale a dire quella pericolosa tendenza cognitiva a fare eccessivo affidamento sull'output automatizzato attribuendogli un'autorevolezza superiore a quella realmente posseduta.
La traduzione della consapevolezza dei rischi in cautele operative concrete si articola in cinque pilastri fondamentali. Il primo pilastro è costituito dal principio della sovranità dei dati e delle informazioni, in forza del quale i dati e le informazioni generate non devono mai essere accessibili a terzi non autorizzati, con conseguente necessità di orientarsi verso l'utilizzo di modelli residenti su server sotto il controllo del Ministero della Giustizia ovvero di modelli open source eseguibili localmente su hardware in dotazione ai magistrati. Il secondo pilastro è costituito dal divieto assoluto, non ammettente deroghe né temperamenti, di immettere nei sistemi dati sensibili, riservati o soggetti a segreto investigativo, anche in forma indiretta, stante l'impossibilità di garantire con certezza che tali informazioni non vengano utilizzate per finalità diverse o che non si verifichino fughe informative, con particolare attenzione al rischio di re-identificazione giacché anche dati anonimizzati possono essere re-identificati mediante l'incrocio di dataset apparentemente innocui. Il terzo pilastro è costituito dall'attenzione alla qualità dei dati immessi nei sistemi, al fine di evitare output affetti da bias o da discriminazioni nei confronti di persone in ragione di razza, religione, sesso, origine nazionale, età, disabilità, stato civile, affiliazione politica o orientamento sessuale. Il quarto pilastro, di assoluta centralità, è costituito dall'obbligo di supervisione umana su ogni utilizzo dell'intelligenza artificiale, supervisione che deve esplicarsi sulla pluralità di piani costituiti dalla verifica del rispetto delle normative, dal controllo dell'accuratezza, completezza e pertinenza dell'output, e soprattutto dalla necessità di verificare costantemente la possibilità di replicare autonomamente le conclusioni fornite dall'intelligenza artificiale. Il quinto pilastro è costituito dal principio della responsabilità individuale del magistrato, il quale è tenuto all'utilizzo consapevole e conforme degli strumenti di intelligenza artificiale, all'acquisizione di una formazione adeguata e al suo costante aggiornamento.
Gli utenti devono essere consapevoli che l'output prodotto dai sistemi di IA generativa non è costante poiché il loro funzionamento non segue logiche deterministiche ma probabilistiche; che le risposte fornite possono variare in funzione della formulazione del quesito; che non è garantito un livello uniforme di qualità, coerenza o affidabilità; che è sempre necessaria una verifica umana sull'accuratezza, la completezza e la pertinenza delle risposte con riferimento a fonti attendibili e normative aggiornate, al fine di evitare che contenuti generati automaticamente assumano valore probatorio o decisionale senza adeguato controllo.
6.Validità probatoria e conseguenze dell'uso improprio
Anche a voler configurare l'uso di un sistema non autorizzato come un'irregolarità procedimentale, ciò non determinerebbe di per sé l'invalidità dell'atto. Il Regolamento (UE) n. 910/2014 (eIDAS[1]), all'articolo 46, stabilisce infatti che a un documento elettronico non possono essere negati effetti giuridici o ammissibilità probatoria per il solo fatto della sua forma[2]. Una sentenza redatta con l'ausilio di un sistema di IA, sebbene non previamente autorizzato, non può dunque essere respinta ab origine. Essa rientra a pieno titolo nella categoria del documento elettronico e deve essere valutata secondo i criteri ordinari. Nell'ordinamento interno, il Codice dell'Amministrazione Digitale (D.Lgs. 82/2005), all'articolo 20, comma 1-bis, prevede che l'idoneità del documento informatico e il suo valore probatorio siano oggetto di libera valutazione da parte del giudice, alla luce delle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità. È stato peraltro osservato, nel dibattito di categoria, che sul giudice gravi un preciso onere argomentativo, volto a dimostrare se e come l'impiego di uno specifico strumento abbia effettivamente compromesso tali caratteristiche[3]. Tale onere può apparire gravoso, ma costituisce il necessario presidio a tutela della trasparenza e del contraddittorio.
In questa prospettiva, la mancata autorizzazione ministeriale non produce automaticamente invalidità, ma alimenta semmai una presunzione relativa di inaffidabilità. È stato rilevato che tale presunzione non è assoluta: essa può essere superata dal giudice attraverso un apprezzamento autonomo, anche con il supporto di ausiliari tecnici, che consenta di verificare il grado di trust attribuibile allo strumento utilizzato. È stato altresì notato come, in taluni casi, anche sistemi non formalmente autorizzati possano offrire de facto garanzie tecniche e contrattuali sufficienti a soddisfare i requisiti di legge, sicché nulla impedisce al giudice di attribuire pieno valore probatorio all'atto, ove tale verifica risulti positiva.
Una questione di peculiare rilevanza sistematica concerne le conseguenze giuridiche derivanti dall'impiego di sistemi di IA non autorizzati ai sensi del comma 3. Il disegno di legge non prevede esplicitamente sanzioni a carico del magistrato che utilizzi impropriamente un sistema di intelligenza artificiale nell'adozione di un provvedimento, rimettendo evidentemente alle ordinarie misure disciplinari previste dal d.lgs. n. 109/2006.
Sul piano disciplinare, potrebbe configurarsi l'inosservanza dell'art. 2, comma 1, lett. n), d.lgs. n. 109/2006, che sanziona «la reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari, delle direttive o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti». Potrebbero altresì prospettarsi le violazioni di cui alle lett. a) (comportamenti che, violando i doveri di cui all'art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti), g) (grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile) e o) («indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti», ove nella categoria degli "altri" possa ricomprendersi l'algoritmo o, comunque, colui che lo ha ideato o addestrato).
Sul piano processuale, la questione si presenta più complessa e articolata. Nel dibattito professionale è emersa l'opinione secondo cui l'atto, pur sottoscritto dal magistrato, ma adottato in violazione del comma 1 dell'art. 15 -- con conseguente abnormità dell'atto stesso per essere stato lo stesso adottato senza alcun contributo umano, ad eccezione della sottoscrizione -- potrebbe, in ambito civile, non essere considerato esistente, per difetto genetico di un requisito essenziale.
Come rilevato dalla Sesta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, «ove il fatto fosse ritenuto di rilevante gravità per lesione dei più rilevanti principi in materia processuale, potrebbe ravvisarsi l'utilità di un intervento del legislatore delegato sul punto, mediante la esplicita previsione che, in presenza di tale specifica violazione, l'atto sia da considerare inesistente». Analogamente, in ambito penalistico, potrebbe rendersi assoluta, ex art. 179, comma 2, c.p.p., la nullità di un provvedimento adottato in seguito all'impiego di un sistema di IA in violazione dell'art. 15, comma 1, con conseguente regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo (art. 185, comma 3, c.p.p.).
Deve tuttavia rilevarsi che, in difetto di un criterio orientatore in tal senso contenuto nel disegno di legge, potrebbe essere precluso, in sede di esercizio della delega di cui all'art. 24, intervenire sanzionando la violazione sul piano processuale. Sul punto, come rilevato nel parere CSM, potrebbe sostenersi che nell'ambito dell'ipotesi di "impiego illecito" contemplata dall'art. 24, comma 3, lett. a) e f), non potrebbe essere ricompresa l'attività, in senso lato, decisoria del magistrato in violazione dell'art. 15, comma 1, da considerare, invece, illegittima piuttosto che illecita.
Peraltro, anche tale assunto è controvertibile, poiché tra i principi e criteri direttivi della delega di cui all'art. 24, comma 3, vi è quello concernente la «regolazione dell'utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nelle indagini preliminari, nel rispetto delle garanzie inerenti al diritto di difesa e ai dati personali dei terzi, nonché dei principi di proporzionalità, non discriminazione e trasparenza» (lett. f). Dal che potrebbe desumersi che l'utilizzo del sistema di IA nelle indagini preliminari in violazione, ad esempio, delle garanzie inerenti al diritto di difesa, possa integrare proprio un impiego "illecito" del sistema. Sicché, quanto meno in ambito penalistico, potrebbe esservi spazio -- anche ritenendo che vi sia necessità di apposita delega -- per interventi sul fronte processuale.
7. Il sistema di certificazione europeo e la governance partecipata
Il Regolamento (UE) 2024/1689 affida un ruolo centrale alle norme tecniche armonizzate, intese come specifiche tecniche elaborate dagli organismi europei di normazione – il Comitato Europeo di Normazione (CEN) e il Comitato Europeo di Normazione Elettrotecnica (CENELEC) – su mandato della Commissione europea conferito nel maggio 2023, con termine fissato alla fine di aprile 2025 per l'elaborazione e la pubblicazione delle norme che saranno successivamente valutate e, ove approvate, pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea conferendo ai sistemi sviluppati in conformità ad esse una presunzione iuris tantum di conformità ai requisiti del Regolamento. Si delinea un modello di regolazione ibrido nel quale la fonte normativa primaria definisce i requisiti sostanziali in termini generali e principiali, mentre la normazione tecnica traduce tali requisiti in specifiche tecniche puntuali e verificabili. I requisiti obbligatori per i sistemi ad alto rischio, disciplinati dagli articoli da 8 a 15 del Regolamento, assumono particolare rilevanza per l'amministrazione della giustizia: sistema di gestione dei rischi inteso come processo iterativo continuo pianificato ed eseguito nel corso dell'intero ciclo di vita; qualità dei dati di addestramento, convalida e prova, che devono essere pertinenti, sufficientemente rappresentativi e nella misura del possibile esenti da errori e completi; documentazione tecnica che dimostri la conformità e fornisca alle autorità le informazioni necessarie; tracciabilità intesa a garantire che sia possibile ricostruire le modalità operative; trasparenza e fornitura di informazioni, stabilendo che i sistemi devono essere progettati in modo tale da garantire che il loro funzionamento sia sufficientemente trasparente da consentire agli utilizzatori di interpretare l'output; sorveglianza umana, stabilendo che i sistemi devono essere progettati in modo tale che possano essere efficacemente supervisionati da persone fisiche durante il periodo in cui sono in uso; accuratezza, robustezza e cybersicurezza. Per dimostrare la conformità ai requisiti prescritti, il fornitore di un sistema ad alto rischio deve sottoporlo a una procedura di valutazione della conformità, potendo scegliere tra il controllo interno ovvero la valutazione da parte di terzi con il coinvolgimento di un organismo notificato. Gli organismi notificati rappresentano un elemento cardine del sistema di governance europeo: si tratta di organismi di valutazione della conformità notificati dalla competente Autorità nazionale – in Italia, l'Agenzia per l'Italia Digitale – a condizione che soddisfino una serie stringente di requisiti in materia di indipendenza, competenza, assenza di conflitti di interesse e adeguati standard di cybersicurezza.
Il sistema si completa con l'istituzione di una banca dati europea presso cui è fatto obbligo di registrarsi a tutti i fornitori di sistemi ad alto rischio, banca dati che svolge funzioni di monitoraggio dell'evoluzione del mercato, trasparenza verso il pubblico e garanzia che nei settori ad alto rischio possano essere utilizzati esclusivamente sistemi certificati secondo le procedure europee, muniti di marcatura CE e iscritti nella banca dati.
A decorrere dall'agosto 2026, i magistrati potranno legittimamente utilizzare nell'esercizio dell'attività giudiziaria in senso stretto soltanto sistemi che siano stati certificati secondo le procedure europee, rechino la marcatura CE e risultino iscritti nella banca dati dell'Unione europea.
Tale sistema comporta un significativo trasferimento del controllo di conformità a un livello centralizzato, esentando i singoli magistrati da verifiche tecniche di fatto impraticabili e garantendo uno standard uniforme di tutela su tutto il territorio dell'Unione.
Il mancato coinvolgimento del Consiglio Superiore della Magistratura nella disciplina ministeriale di cui all'art. 15, comma 2, e nella procedura di autorizzazione dei sistemi di cui al comma 3 appare in potenziale contrasto con l'esigenza di garantire l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Le raccomandazioni del CSM contenute nella delibera dell’8.10.2025 rivendicano con forza un ruolo di attore comprimario, unitamente al Ministero della Giustizia, nella sperimentazione, nell'implementazione e nell'impiego dell'intelligenza artificiale nella giurisdizione, proponendo una serie di azioni istituzionali concrete: costituzione di tavoli tecnici congiunti destinati a costituire sedi di confronto permanente sulle scelte strategiche secondo un modello di collaborazione paritetica; istituzione di un gruppo tecnico multidisciplinare permanente incaricato di svolgere attività di valutazione indipendente dei sistemi e di elaborare criteri metodologici condivisi; definizione di una sandbox regolatoria congiunta per la sperimentazione controllata di sistemi destinati all'uso giudiziario o organizzativo, intesa come strumento di cooperazione istituzionale con finalità di test ex ante, valutazione condivisa e monitoraggio trasparente;
La raccomandazione relativa allo sviluppo di un sistema di intelligenza artificiale interno al sistema giustizia rappresenta sotto questo profilo scelta di particolare saggezza e lungimiranza: anziché subire passivamente soluzioni tecnologiche elaborate da soggetti privati per finalità commerciali e secondo logiche di mercato che potrebbero non coincidere con le esigenze della giustizia, si propone di costruire strumento specificamente calibrato sulle peculiarità dell'amministrazione della giustizia italiana, rispettoso delle specificità del nostro ordinamento giuridico, pienamente controllabile sul piano pubblico e sostenibile economicamente nel lungo periodo, rappresentando l'unica via per garantire quella piena sovranità sui dati che costituisce presupposto ineludibile per l'effettiva indipendenza della magistratura nell'era digitale.
Si impone la necessità di dialogo istituzionale costante tra tutti gli attori coinvolti: il Ministero della Giustizia quale responsabile dell'organizzazione dei servizi, il Consiglio Superiore della Magistratura quale garante dell'autonomia e dell'indipendenza, AGID e ACN nelle loro funzioni di notifica e vigilanza, il Garante per la protezione dei dati personali, l'avvocatura, la comunità scientifica, giacché solo attraverso governance partecipata che consenta confronto tra prospettive diverse, integrazione di competenze complementari, bilanciamento di interessi legittimi sarà possibile pervenire a soluzioni equilibrate, costituzionalmente compatibili, tecnicamente sostenibili e socialmente accettabili. Non si deve sottovalutare la dimensione europea e internazionale della questione giacché l'intelligenza artificiale non conosce confini nazionali e la risposta normativa deve articolarsi su scala europea e globale: il Regolamento UE 2024/1689 rappresenta modello di riferimento di portata storica costituendo la prima volta che una comunità di Stati elabora corpus organico e vincolante governante l'intero spettro dell'intelligenza artificiale bilanciando innovazione e tutela dei diritti, e l'Italia deve cogliere tale opportunità contribuendo attivamente alla sua implementazione e partecipando costruttivamente all'evoluzione della disciplina europea.
Occorre la necessità di monitoraggio continuo dell'evoluzione tecnologica giacché l'intelligenza artificiale è tecnologia in rapidissima evoluzione e il sistema normativo deve essere sufficientemente flessibile da adattarsi ai mutamenti senza richiedere continue riforme legislative ma sufficientemente solido da garantire tenuta dei principi fondamentali: il sistema di audit periodico proposto costituisce strumento prezioso per verificare se le scelte compiute continuino a essere appropriate o richiedano correzioni, se i benefici attesi si stiano effettivamente realizzando o se si manifestino effetti inattesi che richiedano interventi correttivi, se le tutele predisposte risultino adeguate o necessitino di rafforzamento. Non si deve perdere mai di vista la finalità ultima dell'amministrazione della giustizia che rimane oggi come ieri quella di garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, assicurare il rispetto dei diritti fondamentali, realizzare l'eguaglianza sostanziale, contribuire alla pacificazione sociale: l'intelligenza artificiale è strumento non fine, utile se e nella misura in cui contribuisce al perseguimento di tali obiettivi, dannosa se finisce per oscurarli o comprometterli. L'efficienza, la rapidità, la standardizzazione non sono valori assoluti ma strumentali rispetto a valore superiore che è la giustizia nel caso concreto, la decisione tenente conto delle peculiarità della fattispecie, la sentenza non limitantesi ad applicare meccanicamente la norma ma interpretandola alla luce dei principi costituzionali e delle esigenze di equità sostanziale.
L'integrazione tra il rigore dell'analisi giuridica sistematica e la concretezza degli orientamenti operativi non rappresenta mero esercizio accademico ma risponde a esigenza pratica primaria di fornire a magistrati, operatori del diritto, studiosi, tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell'amministrazione della giustizia, strumento di orientamento completo, rigoroso, immediatamente utilizzabile nella fase di transizione carica di incertezze che stiamo attraversando. Da un lato emerge la prospettiva del giurista sistematico attento alle implicazioni costituzionali, eurounitarie, processuali, dall'altro la prospettiva dell'organo di autogoverno calato nella realtà operativa degli uffici, consapevole dei problemi concreti dei magistrati, capace di tradurre principi astratti in protocolli immediatamente applicabili: la sintesi tra tali prospettive consente visione integrata coniugante rigore teorico e utilità pratica, fedeltà ai principi e pragmatismo, capacità critica e propositività costruttiva. L'auspicio è che tale sintesi si realizzi non solo sul piano intellettuale mediante elaborazione di visione unitaria valorizzante i contributi di entrambe le fonti ma anche e soprattutto sul piano istituzionale mediante realizzazione del modello di governance bilanciata delineato con lucidità: tavoli tecnici congiunti ove Ministero e CSM collaborino in leale cooperazione, sandbox regolatorie sperimentanti in modo controllato le innovazioni prima dell'implementazione su larga scala, sistemi di audit periodico verificanti l'effettivo impatto dell'intelligenza artificiale e apportanti i correttivi necessari, percorsi formativi preparanti i magistrati ad affrontare con consapevolezza critica le sfide dell'era digitale.
Solo attraverso tale approccio integrato, collaborativo, costantemente vigilante sarà possibile governare la transizione senza compromettere i valori fondamentali quali indipendenza, autonomia, imparzialità, umanità del giudizio che costituiscono patrimonio irrinunciabile della tradizione giurisdizionale europea e rappresentano oggi più che mai presidio essenziale contro i rischi della tecnocrazia, dell'automazione acritica, dell'erosione della dimensione umana del diritto. L'intelligenza artificiale può essere formidabile alleato del magistrato giacché può liberare tempo per la decisione, facilitare l'accesso all'informazione, contribuire a ridurre i tempi processuali e alleggerire i carichi pendenti, ma tutto ciò potrà realizzarsi soltanto se sapremo costruire sistema di governance ponente l'essere umano al centro anziché alla periferia, concepente la tecnologia come strumento al servizio della giustizia e non già come fine autosufficiente, preservante quella dimensione di responsabilità personale, di giudizio critico, di sensibilità alle peculiarità del caso concreto che nessun algoritmo per quanto sofisticato e potente potrà mai replicare integralmente senza tradire l'essenza stessa della funzione giurisdizionale come attività intellettuale guidata da valori e principi e non da mere correlazioni statistiche.
Il cammino che ci attende è lungo e irto di difficoltà ma l'integrazione tra riflessione teorica rigorosa e orientamento operativo concreto, tra analisi critica delle norme e formulazione di raccomandazioni immediatamente applicabili, tra rivendicazione ferma dei principi costituzionali e pragmatismo realizzatore costituisce la premessa indispensabile per percorrerlo con successo. La Legge 132/2025 e la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025 rappresentano i due pilastri di una costruzione ancora da completare: spetta ora alla comunità giuridica nel suo complesso – magistrati, avvocati, studiosi, legislatori – raccogliere la sfida e tradurre in realtà operativa quella visione di intelligenza artificiale costituzionalmente orientata, umanamente governata, tecnicamente sostenibile che entrambi i provvedimenti, ciascuno con proprio linguaggio e prospettiva, hanno saputo delineare con chiarezza e forza persuasiva. L'algoritmo giurisdizionale può e deve scorrere sui binari tracciati dal Consiglio Superiore della Magistratura: questa è la scommessa, questa è la sfida, questo è l'imperativo categorico per una magistratura che voglia essere all'altezza del proprio tempo senza tradire la propria storia e i propri valori fondanti.
L'intelligenza artificiale, machina sapiens giurisdizionale, è già presente nell'amministrazione della giustizia e destinata a diventare sempre più pervasiva. La scelta è tra subirla passivamente o governarla attivamente secondo criteri che pongano al centro la persona umana e le garanzie processuali. Il Consiglio Superiore della Magistratura indica la via: non fuga dal progresso né abbraccio acritico, ma ricerca di equilibrio tra efficienza e garanzie, tra innovazione e tradizione. L'IA può liberare il magistrato dalle incombenze ripetitive, consentendogli di concentrarsi sulla parte più nobile del giudizio, quella che richiede intelligenza umana, sensibilità ai valori e capacità di comprensione. In questo contesto di collaborazione uomo-macchina, la governance partecipata proposta dal CSM rappresenta lo strumento più adeguato per assicurare che l'apporto algoritmico resti governabile, tracciabile e sempre funzionale al giudizio umano, senza mai sostituirlo.
[1] Regolamento (UE) n. 910/2014, eIDAS, art. 46, in G.U. UE L 257 del 28 agosto 2014
[2] Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza 27 febbraio 2025, causa C-203/22, C.K. / Dun & Bradstreet Austria GmbH.
[3] Osservazioni emerse nel dibattito di categoria 2024-2025 (forum professionali e contributi LinkedIn).
Procedimento: aprire il Regio Decreto n. 267/1942 e sfogliarlo fino ad arrivare al comma secondo, numero 1) dell’art. 219 [oggi art. 326, comma 2, lett. a) del Decreto Legislativo n. 14/2019], travisare le Sezioni Unite della Cassazione, aggiungere un pizzico di circostanze attenuanti generiche e bilanciarle in equivalenza con più fatti di bancarotta… ed ecco servito il perfetto pasticcio giuridico.
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L’articolo 219 del Regio Decreto n. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare), rubricato «circostanze aggravanti e circostanza attenuante», prevede, al comma 2, n. 1), che le pene stabilite nei precedenti articoli 216, 217 e 218 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») «sono aumentate… se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati» (tale disposizione è oggi pedissequamente confluita nell’art. 326, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 14/2019, meglio noto come “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, introdotto nel nostro ordinamento in attuazione della Legge n. 155/2017 ed entrato in vigore in data 15.7.2022, giusto D.L. n. 36/2022[1]): si tratta della c.d. continuazione fallimentare, che – secondo un’ormai consolidata dottrina e giurisprudenza – comporta una deroga ex lege, in un’ottica di maggior favore per l’imputato, rispetto alla generale disciplina del reato continuato, di cui al capoverso dell’art. 81 c.p.[2], per l’ipotesi in cui il reo commetta, per l’appunto, più reati fallimentari (ad es., una bancarotta semplice e una fraudolenta oppure una bancarotta fraudolenta documentale e una per distrazione) ovvero più condotte illecite tali da integrare il medesimo reato fallimentare (ad es., più condotte distrattive).
Tale deroga opera senz’altro sul piano sanzionatorio, in quanto – come sopra accennato – determina un aumento di pena per la «violazione più grave» fino a un terzo, in luogo dell’aumento «sino al triplo» previsto dall’art. 81 cpv c.p.: in altri termini, anche l’art. 219 L.F., così come l’art. 81 cpv c.p., sostituisce al criterio del cumulo materiale, comportante la mera somma algebrica delle pene irrogate per i vari reati commessi, quello del c.d. cumulo giuridico, ma l’entità della pena da irrogare è sensibilmente ridotta.
Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la continuazione fallimentare deroghi alla disciplina “ordinaria” dettata dalla disposizione normativa da ultimo citata anche sotto un altro profilo (che pure ha dei risvolti sul piano del trattamento sanzionatorio, come si dirà meglio infra): l’assoggettamento al giudizio di bilanciamento – ex art. 69 c.p. – con le circostanze attenuanti, ivi comprese quelle di cui all’art. 62 bis c.p.
E invero, alla stregua di questo indirizzo ermeneutico, avallato anche dalla giurisprudenza di legittimità, l’art. 219 L.F. configura – quantomeno sul piano formale – una circostanza aggravante, il che, come anzidetto, «ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le eventuali attenuanti (Fattispecie in cui vi era stata in altra sentenza irrevocabile un giudizio di equivalenza tra l'aggravante di cui all'art. 219 legge fall. e le circostanze attenuanti generiche, e la Corte ha ritenuto illegale l'aumento della pena in continuazione per un'ulteriore autonoma condotta di bancarotta)» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018 e da ultimo, in senso analogo, Cass. Pen., Sez. V, n. 34216/2024).
Tuttavia, questo approdo esegetico già prima facie non convince, perché genera un “monstrum” (nel senso etimologico del termine), nella misura in cui trasforma degli accidentalia delicti come le circostanze attenuanti (ivi comprese le generiche) in un “fatto giuridico” che impedisce in concreto, per una o più ipotesi di bancarotta, l’applicazione della relativa pena.
Ipotizziamo infatti che, dopo aver commesso nello stesso contesto spazio-temporale due bancarotte fraudolente per distrazione, l’una dell’importo di euro 10.000,00 e l’altra del valore di euro 5.000,00, Tizio venga ritenuto meritevole delle circostanze attenuanti generiche: ebbene, avallando questo orientamento interpretativo, le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. andrebbero in bilanciamento con la continuazione fallimentare (in quanto ritenuta, per l’appunto, una circostanza aggravante) e, in caso di equivalenza tra le ritenute circostanze ovvero di prevalenza delle generiche, il predetto risponderebbe della sola violazione più grave, ossia la distrazione di 10.000,00 euro, senza subire alcun aumento di pena per effetto dell’ulteriore condotta delittuosa (la distrazione meno grave), sostanzialmente eliminata con un colpo di spugna all’esito del giudizio di bilanciamento.
Detto altrimenti, lungi dall’assolvere una funzione mitigatrice del trattamento sanzionatorio, le circostanze attenuanti generiche finirebbero col caducare, sul piano del trattamento sanzionatorio, intere fattispecie di reato: il che costituirebbe all’evidenza di un unicum nel nostro panorama giuridico.
Ciò, inoltre, potrebbe dispiegare un effetto potenzialmente criminogeno, in considerazione della maggiore “convenienza” a commettere più fatti di bancarotta.
Torniamo al nostro esempio e immaginiamo che Tizio abbia commesso la bancarotta fraudolenta distrattiva dell’importo di 10.000,00 in concorso con Caio; immaginiamo altresì che, alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.p., il Decidente decida di irrogare ad entrambi gli imputati il minimo della pena e di concedere loro le circostanze attenuanti generiche.
In questo caso:
§ ipotizzando una riduzione ex art. 62 bis c.p. nella massima estensione possibile, per la bancarotta distrattiva commessa in concorso con Tizio Caio verrebbe condannato alla pena finale di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
§ a fronte di due condotte distrattive, del valore complessivo di 15.000,00 euro (di cui una – quella di 10.000,00 euro – commessa in concorso con Caio), Tizio verrebbe condannato:
- in caso di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla continuazione fallimentare, alla medesima pena di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
- in caso di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare, alla pena – di poco superiore – di anni tre di reclusione (pari al minimo edittale).
E lo stesso varrebbe se, invece di commettere due distrazioni del valore complessivo di 15.000,00 euro, il nostro Tizio decidessero di commetterne tre, quattro, dieci, per migliaia e migliaia di euro: per assurdo, dunque, sarebbe più vantaggioso per il reo commettere più condotte distrattive e sperare nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Certo, si potrebbe obiettare che tali considerazioni (più di tipo “pratico” che “dogmatico”) a nulla rileverebbero, fatti salvi eventuali profili di illegittimità costituzionalità, di fronte all’insindacabile volontà del Legislatore – com’è noto, “libero nei fini” – di configurare la continuazione fallimentare come una circostanza aggravante.
E, in tal senso, l’orientamento ermeneutico in commento sembrerebbe godere dell’autorevole avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: basta infatti consultare una qualunque banca dati per appurare che tra i “precedenti conformi” figura Cass. Pen., Sez. Un., n. 21039/2011.
E giù il sipario sulla questione in esame!
Ma ecco il coup de théâtre che non ti aspetti: per il Giudice della nomofilachia la continuazione fallimentare non costituisce una circostanza aggravante, se non sul piano squisitamente formale.
È sufficiente, invero, leggere la “massima” della pronuncia da ultimo citata per comprendere che, secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte, «In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 cod. pen.».
In termini maggiormente esplicativi, l’Organo nomofilattico – come meglio chiarito nella parte motiva della sentenza, alle pp. 10 e ss. – ha sposato l’indirizzo interpretativo alla stregua del quale l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. prevede esclusivamente una fittizia unificazione quod poenam di plurimi e autonomi fatti di bancarotta commessi dal reo in un contesto spazio-temporale unitario, nella prospettiva di contenere – in modo ancor più pregante rispetto alla disciplina di cui al capoverso dell’art. 81 c.p. – la risposta punitiva dello Stato («Tale scelta appare chiaramente ispirata dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica»: cfr. p. 16). Tanto più che – come rammentato dalla stessa Suprema Corte – al momento dell’entrata in vigore dell’art. 219 L.F., l’ambito operativo dell’art. 81 cpv c.p. era circoscritto alle sole ipotesi di «più violazioni della stessa disposizione di legge», sicché la disciplina derogatoria in commento si caratterizzava, oltre che per un più mite trattamento sanzionatorio, anche per una più ampia portata applicativa (trovando applicazione, come anzidetto, pure nelle ipotesi di commissione di più reati fallimentari).
Ma procediamo con ordine.
La pronuncia delle Sezioni Unite prende l’abbrivio da una vicenda processuale che dà plasticamente contezza delle “storture” derivanti dall’indirizzo esegetico dell’“unitarietà della bancarotta”, in quanto – come evidenziato nell’ordinanza di remissione della Quinta Sezione Penale del 7.19.2010 – «riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne preclud[e] il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi in definitiva in contrasto con la logica del sistema penale e con gli articoli 3 e 112 della Costituzione» (cfr. p. 2 della sentenza delle Sezioni Unite): all’imputato, infatti, era stato contestato il delitto di cui all’art. 216, co. 1, n. 1) L.F., per avere dissipato, distratto, occultato e dissimulato attività della società di cui lo stesso era legale rappresentante, prelevando in più occasioni somme di danaro dai conti correnti sociali, sennonché, avendo patteggiato la pena – ex art. 444 c.p.p. – per i reati, relativi al medesimo fallimento, di bancarotta semplice e bancarotta preferenziale, il Giudice della cognizione aveva pronunciato nei suoi confronti sentenza di non doversi procedere per bis in idem, ritenendo nello specifico che, per quanto non sovrapponibili naturalisticamente, i delitti oggetto del secondo giudizio dovessero cionondimeno ritenersi assorbiti nel disvalore dell’unitario delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale già giudicato con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Quindi, dopo avere esaminato – anche in una prospettiva storica e comparatistica (avuto riguardo al codice di commercio del 1882 e al codice di commercio francese del 1807) – il «principio della c.d. unitarietà della bancarotta, secondo il quale il reato resta unico anche se realizzato attraverso una molteplicità di fatti» (cfr. p. 11), le Sezioni Unite hanno chiarito che gli articoli 216 e 217 L.F. sono inquadrabili nella categoria dogmatica delle “disposizioni a più nome” (o nome miste cumulative), in quanto prevedono diverse ed autonome ipotesi incriminatrici (ad es., con riferimento all’art. 216 L.F., bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e preferenziale), per poi concludere nel senso che «con l’abbandono della concezione del fallimento come evento e in considerazione del fatto che i comportamenti dell’imprenditore insolvente possono essere estremamente eterogenei per tipologia o offensività, deve ritenersi che i plurimi fatti di bancarotta nell’ambito del medesimo dissesto fallimentare, pure unificati normativamente nella previsione dell’art. 219, comma 2, n. 1, legge fall., rimangono naturalisticamente apprezzabili, se riconducibili a distinte azioni criminose, e sono da considerare e da trattare come fatti autonomi, ciascuno dei quali costituisce un autonomo illecito penale» (cfr. p. 15).
Prima di addivenire a tale conclusione, il Giudice della nomofilachia ha passato in rassegna i diversi argomenti a sostegno delle due diverse opzioni ermeneutiche, come di seguito compendiati.
Militano a sostegno della “tesi della circostanza aggravante” due (validi) argomenti:
§ quello letterale (come dianzi detto, nella rubrica dell’art. 219 L.F. il Legislatore ha adoperato il nomen iuris «circostanze»);
§ quello della “tecnica normativa” impiegata nella disposizione di legge in commento, che prevede genericamente un aumento di pena per l’ipotesi in cui il reo commetta più fatti di bancarotta, con un rinvio implicito, quindi, alla disciplina di cui all’art. 64 c.p.
Tuttavia, «il riferimento formale e anche quello funzionale a tale categoria giuridica non sono coerenti – prosegue la Cassazione a Sezioni Unite – con la connotazione strutturale della stessa», difettando nella specie «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16): e invero, la «circostanza» (dal latino “circum stans”, “che sta attorno”) “accede” sempre ad un fatto di reato, del quale costituisce un elemento (non essenziale, bensì) accidentale, in quanto può esserci o non esserci senza che il reato stesso venga meno.
Inoltre, considerato che ciascuno dei fatti previsti dall’art. 219 L.F. costituisce un’autonoma ipotesi delittuosa, avente la medesima “dignità giuridica”, non coglie nel segno – prosegue la sentenza in esame – l’assunto secondo cui «il legislatore avrebbe considerato proprio la pluralità dei fatti di bancarotta come una circostanza aggravante», non ravvisandosi «alcuna ragione logica per assegnare ad uno o più di essi la funzione di circostanza, declassando così condotte tipiche di determine fattispecie incriminatrici ad accadimento eventuale di altra fattispecie incriminatrice» (cfr. p. 16).
Aderendo alla “tesi della circostanza aggravante”, invero, si finirebbe col sostenere che il Legislatore ha inteso punire, in caso di commissione di plurimi fatti di bancarotta, la sola violazione più grave, prevedendo poi un aumento di pena per il fatto in sé – quale elemento circostanziante della fattispecie – dell’avere il reo commesso più reati di tale tipologia (indipendentemente dal loro numero).
E ancora, dopo avere esplicitato le ragioni per cui la disposizione normativa in commento non delinea né un «un reato unico nella forma del reato complesso» né un «reato abituale» (cfr. pp. 16 e 17), la Cassazione a Sezioni Unite ha statuito nel senso che «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. disciplina, nella sostanza un’ipotesi di concorso di reati autonomi e indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» (cfr. p. 16).
In altri termini, l’art. 219, co. 2, n. 1 L.F. veste l’abito giuridico della «circostanza aggravante», ma, nella sostanza, integra un’ipotesi speciale di “continuazione”.
Del resto, come rammentato dallo stesso Consesso nomofilattico, non si tratterebbe di una novità assoluta nel nostro ordinamento, atteso che anche l’ultimo comma dell’art. 589 c.p. («omicidio colposo»), «pur atteggiandosi apparentemente come circostanza aggravante, non è tale e non costituisce neppure un’autonoma figura di reato complesso, ma configura, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, un’ipotesi di concorso formale di reati, nella quale l’unificazione rileva solo quoad poenam, con la conseguenza che, ad ogni altro effetto, anche processuale, ciascun reato rimane distinto e autonomo» (cfr. p. 17): analoghe considerazioni, poi, valgono oggi – come si dirà meglio nel prosieguo della trattazione – per l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. («omicidio stradale»), introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge n. 41/2016.
Infine, prima di esplicitare le ragioni per cui «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. opera sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti indifferentemente dai precedenti artt. 216 e 217» e 218 L.F. (cfr. p. 18), nonché nelle ipotesi di «bancarotta impropria» (cfr. p. 19), la Cassazione a Sezioni Unite non ha omesso di evidenziare le «conseguenze paradossali» potenzialmente derivanti dall’applicazione dell’indirizzo ermeneutico dell’“unitarietà della bancarotta”: «esemplificativamente, una condanna per bancarotta preferenziale di scarso rilievo condurrebbe all’impunità di altri e più gravi fatti di bancarotta fraudolenta commessi dallo stesso soggetto nell’ambito dello stesso fallimento ed emersi solo successivamente al fatto giudicato» (cfr. p. 18).
Sennonché, prendendo le mosse dalla medesima premessa epistemologica del Giudice della nomofilachia («È indubbio che, sul piano formale, si è di fronte a una circostanza aggravante»: cfr. p. 16 della pronuncia in commento), la giurisprudenza di legittimità successiva è pervenuta alla conclusione che «la configurazione, sotto il profilo formale, della c.d. continuazione fallimentare, di cui all'art. 219, co.2 n.1, legge fall., quale circostanza aggravante, ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (Sez. 5, n. 21036 del 17/04/2013 Rv. 255146; Sez. 5, n. 51194 del 12/11/2013 Rv. 258675)» (cfr., ex multis, la summenzionata Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018, a pag. 2 della parte motiva), talvolta avendo anche cura di precisare che «tale conclusione è perfettamente in linea con la sentenza Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011 Rv. 249665 che ha affrontato il complesso tema della pluralità di fatti di bancarotta e del metodo di determinazione della pena» (cfr. ibidem).
A parere di chi scrive, invece, affermare che l’art. 219, comma 2, n. 1) L.F. costituisce una circostanza aggravante, in quanto tale soggetta al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, significa travisare il dictum e le motivazioni delle Sezioni Unite, secondo cui – lo si ribadisce – il Legislatore ha soltanto fatto «ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» per unificare fittiziamente nel cumulo giuridico plurimi e autonomi fatti di reato, difettando nella specie proprio il “substrato giuridico” della «circostanza», vale a dire «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16 della pronuncia delle SS.UU.).
Innanzitutto, non si comprende come una “circostanza attenuante” possa concretamente determinare, per effetto del giudizio di bilanciamento con una o più aggravanti, l’obliterazione sul piano sanzionatorio di uno o più fatti di bancarotta: e qui torniamo – in una sorta di Ringkomposition – alle “considerazioni pratiche” rassegnate all’inizio della trattazione.
Per definizione, infatti, le «circostanze attenuanti» hanno l’effetto di “circostanziare” il fatto di reato cui accedono, mitigandone – in ragione della minore gravità – il relativo trattamento sanzionatorio, non già quello di impedire in radice, per quella specifica ipotesi di reato, l’applicazione della pena.
Del resto, il “favor rei” non può e non deve trasmodare in “privilegium rei”, perché – come ci ricordano le stesse Sezioni Unite, sia pure sotto un diverso angolo prospettico – caducare intere fattispecie di reato «si pone in contrasto con la logica del sistema penale e con gli artt. 3 e 112 Cost.» (cfr. p. 18).
E ciò non può che valere a fortiori per una “circostanza” che tale è nella forma, ma non nella sostanza.
Tali considerazioni giuridiche, poi, trovano un rassicurante riscontro nella giurisprudenza di legittimità in materia di «omicidio stradale» colposo, secondo cui «il disposto di cui all'art. 589-bis, comma ottavo, cod. pen., relativo al caso di morte di più persone ovvero a quello di morte di una o più persone e di lesioni in danno di una o più persone, non configura né un'autonoma ipotesi di reato complesso, né una specifica aggravante, ma disciplina un caso di concorso formale di reati, unificati solo "quoad poenam", sicché ciascuno di essi conserva la propria autonomia» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. IV, n. 12328/2024, nonché Cass. Pen., IV Sez., n. 14069/2024; in senso analogo, ma con riferimento al delitto di «omicidio colposo» di cui all’art. 589 c.p., cfr. Tribunale di Sondrio - Sezioni Ufficio Indagini Preliminari del 10.3.2005, secondo cui «La fattispecie di cui all'art. 589 comma 3 c.p. non dà luogo ad una circostanza aggravante, bensì ad un concorso formale omogeneo di reati, per il che esso non può essere posto in bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche»).
In particolare, in alcune di tali pronunce – perfettamente sovrapponibili a quella delle Sezioni Unite del 2011 in materia di continuazione fallimentare [come anzidetto, infatti, è stato lo stesso Giudice della nomofilachia ad equiparare, sul piano dogmatico, l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. e l’ultimo comma dell’art. 589 c.p.] – la Suprema Corte ha altresì avuto modo di precisare che l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. non va posto in bilanciamento con eventuali circostanze, sicché, in presenza di esse, il Giudice dovrà dapprima individuare la pena da irrogare, già tenuto conto dell’aumento di cui all’ottavo comma, e solo successivamente effettuare le riduzioni o gli aumenti di pena in relazione alle sussistenti circostanze attenuanti o aggravanti.
Ebbene, applicato tale criterio di calcolo – mutatis mutandis – all’ipotesi di cui all’art. 219, co. 2, n. 1) L.F., al nostro Tizio dovrebbe applicarsi la seguente pena:
§ “pena base” per la bancarotta fraudolenta per distrazione dell’importo di 10.000,00 euro, anni tre di reclusione (pari al minimo edittale);
§ aumentata di 1/3 per la c.d. continuazione fallimentare con la meno grave bancarotta distrattiva (ipotizzando un aumento nella misura massima consentita) alla pena di anni quattro di reclusione;
§ infine, ridotta di 1/3 per le circostanze attenuanti generiche (ipotizzando una riduzione nella massima estensione) alla pena di anni due e mesi otto di reclusione.
E dal momento che “la matematica non è un’opinione”, è interessante osservare come l’opzione ermeneutica della “circostanza aggravante” comporterebbe, nel caso di cui all’esempio, l’irrogazione di una pena più aspra (anni tre di reclusione, previo bilanciamento con giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare) rispetto a quella che si infliggerebbe a Tizio qualificando correttamente l’art. 219 co. 2, n. 1) L.F. – in ossequio al dettato delle Sezioni Unite – come un’ipotesi di concorso formale di reati unificati quod poenam nel cumulo giuridico (come appena detto, anni due e mesi otto di reclusione).
In definitiva, l’assoggettamento della continuazione fallimentare al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche costituirebbe, nel caso di specie, un “error in procedendo” in senso più sfavorevole per l’imputato: e allora sì che questo “pasticcio giuridico” sarebbe davvero completo.
[1] Si osservi, per completezza espositiva, che gli articoli 216, 217 e 218 del R.D. n. 267/1942 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») sono stati trasposti, con alcune modifiche marginali, negli artt. 322, 323 e 325 del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
[2] A tenore del quale «È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo … chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge».
Immagine: Sandro Taurisani, Il caos n. 3.
Il diritto di accesso di fronte all’esercizio di poteri speciali: limiti e prospettive (nota a Cons. Stato, n. 171 del 13 gennaio 2025)
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La disciplina dell’accesso agli atti dei consiglieri regionali. – 3. Esercizio del golden power e impenetrabilità di tale potere. – 4. Proporzionalità, pertinenza, riservatezza, tutela del terzo e altre disquisizioni giuridiche a giustificazione dei limiti alla conoscibilità di tali atti… solo uno specchio per le allodole. – 5. Uno sguardo oltre confine per qualche ulteriore riflessione critica.
1. La vicenda.
In una recente sentenza, la n. 171 del 13 gennaio 2025, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul diritto di accesso, da parte di un consigliere regionale, agli atti relativi alla decisione del Consiglio dei Ministri di non esercitare il golden power in una operazione di cessione di quote societarie di una azienda sanitaria del Molise, escludendolo.
Più in particolare, il Consiglio di Stato, confermando la sentenza di prime cure del T.A.R. per il Lazio, sez. I, 12 luglio 2024, n. 14158, ha ritenuto legittima la nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri con cui si era negata l’ostensione della decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power nella cessione delle quote di Gemelli Molise s.p.a. (poi acquisite da Responsible s.p.a.), trattandosi di documentazione sottratta al diritto di accesso, ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 13 del d.P.C.M. 1° agosto 2022, n.133, se non per l’ipotesi di accesso difensivo, ex articolo 24, comma 7, della l. n. 241/1990, non ricorrente però nella fattispecie oggetto di controversia.
Pertanto, il consigliere regionale della regione Molise ha visto soccombere il proprio diritto di conoscere tali atti, sul presupposto per cui «la dialettica tra il diritto/dovere di un consigliere regionale di conoscere atti in possesso dell’amministrazione, nell’ambito dell’esercizio del suo fondamentale ruolo di controllo politico dell’attività della pubblica amministrazione, in un contesto di democrazia partecipata e partecipativa, e la riservatezza che la legge impone di osservare rispetto a documentazione in relazione alla quale entrano in gioco interessi contrapposti, si risolve in favore della seconda nelle ipotesi in cui il sindacato (cui rimanda la richiesta di accesso) non sia relativo ad atti dell’ente di appartenenza dell’istante e laddove, in ogni caso, le disposizioni primarie e secondarie consentono di negare l’accesso per la tutela di contrapposti (e superiori) interessi dell’amministrazione e di soggetti terzi. Deve infatti assicurarsi una ragionevole proporzione e un equilibrio tra gli opposti e meritevoli interessi, coinvolti dall’accesso a documenti amministrativi, nelle ipotesi in cui non ricorrano esigenze di accesso difensivo ai sensi dell'art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241»[i].
2. La disciplina dell’accesso agli atti dei consiglieri regionali.
La pronuncia che si commenta pone l’attenzione sulla delicata questione dei limiti all’accessibilità di alcuni documenti amministrativi, per via della necessità di assicurare un equilibrato e bilanciato contemperamento fra gli interessi contrapposti che specificatamente vengono in gioco.
Una tematica, questa, che assume particolare rilievo nell’attuale contesto storico posto che, da più di una decina di anni, l’ordinamento pubblicistico ha visto notevolmente rafforzare i principi di pubblicità e trasparenza[ii] degli atti amministrativi, al fine di assicurare la piena accessibilità dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, così come stabilisce il d.lgs. n. 33 del 2013.
Già prima dell’affermazione e del riconoscimento del principio di trasparenza come piena accessibilità dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni da parte del cittadino, nella prospettiva di garantire un controllo generale e diffuso sull’operato di queste ultime, ossia sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, nonchè per promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, il nostro ordinamento conosceva forme di accesso ai documenti amministrativi speciali rispetto alla disciplina generale di cui alla l. n. 241/1990.
Fra le discipline di settore, derogatorie rispetto a quella generale di cui alla l. n. 241/1990, certamente vi è l’istituto del diritto di accesso previsto nell’ordinamento locale, che ancora oggi disciplina due differenti ipotesi.
Un primo riferimento normativo si rinviene nell’art. 10 d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico degli enti locali o T.U.E.L.) che titola: «diritto di accesso e di informazione». Tale norma, come noto, sancisce la pubblicità di tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale, ad eccezione di quelli riservati per espressa previsione di legge o per motivata e temporanea decisione del sindaco o del presidente della provincia, in ragione della necessità di tutela della riservatezza di persone, gruppi o imprese.
Tale disposizione normativa, oggi da coordinarsi con la disciplina di cui al d.lgs. n. 33/2013[iii], già in passato assicurava a tutti i cittadini residenti nel comune o nella provincia di riferimento, singoli o associati, il diritto di accedere a tali atti amministrativi, nonché di avere informazione sullo stato degli atti o delle procedure pendenti dinanzi all’amministrazione stessa.
Seconda ipotesi di accesso prevista nella normativa degli enti locali è quella di cui all’art. 43 T.U.E.L., che più direttamente ci interessa. Tale norma disciplina l’accesso dei consiglieri comunali e provinciali a tutte le notizie e informazioni utili all’espletamento del proprio mandato. Un accesso, dunque, funzionale all’efficace ed efficiente svolgimento dell’incarico consiliare.
È noto, che tale norma sia espressione del principio di democrazia partecipativa e di rappresentanza esponenziale tanto che tale istanza di accesso non si collega solo all’interesse precipuo del singolo consigliere a conoscere questa o quella informazione, piuttosto alla cura del più generale interesse pubblico connesso all’espletamento del mandato[iv].
Tale istanza di accesso, infatti, mira a consentire al singolo consigliere di avere piena cognizione dell’operato consiliare, così da poter esprimere in maniera consapevole il proprio voto su tutte le questioni di competenza del consiglio comunale ed eventualmente di promuovere ulteriori iniziative o proposte. Pertanto, il bisogno di conoscenza del titolare di una carica elettiva si pone in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui è investito, nell’ordinamento dell’ente locale, il consiglio comunale.
La stessa ratio sottesa alla fattispecie normativa appena richiamata, ossia di garantire il principio democratico dell’autonomia territoriale e della rappresentanza esponenziale, regge la disciplina posta dalle specifiche leggi regionali, volta a regolamentare l’accesso agli atti da parte dei consiglieri regionali.
Così come per i consiglieri comunali e provinciali, il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri regionali non richiede una motivazione dettagliata, né una puntuale dimostrazione delle attività consiliari che si andranno a svolgere e neppure la dimostrazione di un eventuale pregiudizio che dalla mancata ostensione dei documenti richiesti potrebbe derivare.
Il diritto di accesso del consigliere regionale è infatti funzionale non tanto all’interesse del Consigliere regionale, ma alla cura dell’interesse pubblico connesso al mandato conferito, essendo strumentale a garantire un controllo “qualificato” sul comportamento degli organi decisionali dell’ente di riferimento[v].
Pertanto, l’esercizio di tale diritto di accesso non richiede particolari vincoli motivazionali, ciò al fine di garantire che il consigliere possa svolgere il proprio mandato scevro da condizionamenti.
Tuttavia, questo non significa che lo stesso possa esercitarsi incondizionatamente.
È pacifico che l’esercizio del diritto di accesso – che sia quello documentale di cui alla l. n. 241/1990, o quello civico generalizzato ai sensi dell’art. 5-bis del d.lgs n. 33/2013, o quello di cui alla particolare fattispecie in esame – incontri sempre dei limiti o comunque un contemperamento, più o meno incisivo a seconda della disciplina di riferimento, nel bisogno di assicurare la tutela di interessi contrapposti rispetto a quelli sottesi alla istanza di accesso. Ne sono esempi: il rispetto del segreto d’ufficio, della riservatezza altrui, dei dati commerciali o industriali di terzi coperti da segreto o comunque riservati.
La tutela di interessi antagonisti, pertanto, salvo che non si traduca, per legge, in un limite assoluto alla conoscibilità degli atti o documenti amministrativi – come ad esempio accade in materia di segreto di Stato[vi] – necessitano di un bilanciamento in concreto, in ossequio e nel rispetto del principio di proporzionalità[vii] che costituisce, insieme al principio di trasparenza, uno dei valori fondanti il nostro ordinamento democratico[viii].
3. Esercizio del golden power e l’impenetrabilità di tale potere.
Nella vicenda in esame, il documento fatto oggetto di istanza da parte di un consigliere regionale del Molise, atteneva alla decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power nella operazione di cessione di quote societarie di una azienda sanitaria, il Gemelli Molise s.p.a. Tali quote sarebbero poi state acquisite da altra società, la Responsible s.p.a. società benefit.
Prima di soffermarci sulle ragioni del diniego, così come dispiegate in sentenza, la peculiarità del provvedimento fatto oggetto di istanza, richiede di ripercorrere – seppur succintamente – la disciplina del golden power[ix].
Siamo di fronte, infatti, a una normativa che regolamenta l’esercizio di un potere speciale del Governo, con cui si è inteso assicurare la tutela di interessi strategici nazionali nei confronti di operazioni di investimento estere, extra-europee ma anche intra-europee.
Un potere particolarmente ampio e penetrante, capace di incidere su operazioni societarie ed economiche per salvaguardare asset ritenuti strategici per la cura di interessi nazionali, dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente qualificato come atto di alta amministrazione[x] – non già come atto politico – per consentirne, sebbene con tutti i limiti che tale tipologia di provvedimento pone, un sindacato per lo meno in termini di manifesta illogicità o irragionevolezza, ma anche di proporzionalità[xi].
Conferme sulla natura amministrativa di tale provvedimento si traggono dalla stessa disciplina normativa sul golden power che consente di sostenere che, per quanto si tratti di poteri speciali che si muovono su un terreno ibrido[xii], non siano poteri liberi nel fine (essendo circoscritti e disciplinati dagli artt. 1 e 2 del d.l. n. 21/2012) e che l’esercizio dei medesimi si snodi nel rispetto di un iter procedimentale precipuo, in cui è possibile individuare – alla stregua della legge generale sul procedimento amministrativo – una pluralità di fasi (iniziativa, istruttoria e decisoria) che dovrebbero assicurare quelle garanzie minime di partecipazione al destinatario del provvedimento, sebbene sul punto la dottrina non abbia mancato di evidenziare alcune zone grigie.
Si tratta di un potere, dunque, connotato da amplissima discrezionalità, tanto da far ritenere – e su questo la dottrina è molto critica[xiii] – che non sia nemmeno necessario che tale decisione venga supportata da una approfondita e congrua motivazione, essendo sufficiente una motivazione limitata, trattandosi di atti governativi adottati per la cura di interessi pubblici di carattere assolutamente generale.
Tale potere si sostanzia essenzialmente nella facoltà di porre il veto rispetto all’adozione di determinate delibere, atti e operazioni delle imprese che gestiscono attività strategiche in specifici settori, di dettare impegni e condizioni in caso di acquisito di partecipazioni in tali imprese, ovvero di opporsi all’acquisto delle medesime partecipazioni.
Le emergenze che hanno attraversato l’ordinamento negli ultimi anni, dalla pandemia da Covid-19 alla recente guerra fra Russia e Ucraina, hanno portato il legislatore ad ampliare notevolmente l’ambito oggettivo di applicazione di tali poteri speciali, estendendo la disciplina a settori diversi da quelli per i quali era stato originariamente previsto, come la difesa e la sicurezza nazionale, e a riscrivere più volte la disciplina di cui al d.l. del 15 maggio 2012, n. 21[xiv].
Fra i nuovi settori strategici, oltre quello dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, anche nel settore della comunicazione elettronica a banda larga basata sulla tecnologia di quinta generazione (5G) e cloud, è stato fatto rientrare il settore sanitario e farmaceutico, dapprima solo in via provvisoria – a ridosso del periodo pandemico, con il d.l. n. 23/2020 – e poi, in maniera stabile. Con il decreto legge n. 21/2022, infatti, si è modificato l’art. 2, comma 5, del d.l. n. 21/2012, stabilizzando quello che era il regime temporaneo e allineando la disciplina nazionale a quella europea di cui all’art. 4, comma 1, del Regolamento (UE) 2019/452 che, a sua volta, individua fra i fattori che possono essere presi in considerazione dagli Stati membri perché in grado di incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, quelli inerenti infrastrutture critiche, tra cui è menzionata la sanità.
Il caso oggetto di esame rientra proprio in questo ambito, sebbene il governo nazionale abbia poi deciso di non esercitare tale potere. E proprio tale decisione è stata fatta oggetto di istanza da parte del consigliere regionale.
Sia il T.A.R. per il Lazio che il Consiglio di Stato, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, hanno ritenuto legittimo il diniego all’istanza di accesso per diversi ordini di ragioni.
La prima ragione, quella per vero assorbente, come meglio si dirà, è che la decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power fosse inaccessibile ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 25 marzo 2014, n. 86, rientrando, tale atto, nella documentazione sottratta al diritto di accesso, ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 13 del d.P.C.M. 1° agosto 2022, n.133, se non per la sola ipotesi di accesso difensivo, ex articolo 24, comma 7, della l. n. 241/1990, non sussistente nel caso di specie.
Seconda ragione, che pur volendo valorizzare il fatto che il consigliere avesse presentato tale istanza in forza delle prerogative sottese al proprio mandato istituzionale, il medesimo avrebbe dovuto chiedere l’accesso limitatamente agli atti in possesso della regione Molise o di enti pubblici ad essa riferibili, sempre nel rispetto dei limiti generali fissati dalla normativa primaria.
Terza e ultima ragione, valutata in via gradata, che anche qualora l’istanza del consigliere regionale fosse stata formulata non già nell’esercizio delle sue prerogative politiche, bensì come comune cittadino – pertanto, ai sensi della disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33/2013 – l’esito sarebbe stato il medesimo posto che l’art. 5-bis, comma 2, del suddetto decreto richiede un contemperamento in concreto fra contrapposti interessi, escludendo l’ostensione degli atti e documenti amministrativi ogniqualvolta sia necessario assicurare la libertà e segretezza della corrispondenza, nonché interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, compresa l’ipotesi di segreto commerciale, industriale o la tutela della proprietà intellettuale d’autore.
4. Proporzionalità, pertinenza, riservatezza, tutela del terzo e altre disquisizioni giuridiche a giustificazione dei limiti alla conoscibilità di tali atti… solo uno specchio per le allodole.
Le ragioni espresse in sentenza e poste alla base del diniego sono tenute fra loro ben salde. Il consiglio di Stato, però, si sofferma un po’ più dettagliatamente proprio sull’ultimo aspetto, ovvero sul sindacato, in termini di proporzionalità, fra interessi fra loro confliggenti, quello alla trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013, da un lato, e quello della riservatezza o segretezza individuale dall’altro.
È noto, infatti, che nel corso degli ultimi anni il principio di trasparenza[xv] sia stato notevolmente rafforzato, così contribuendo a consacrare il passaggio da una amministrazione burocratica verso un’amministrazione sempre più al servizio dei cittadini, sempre più aperta e trasparente.
Il principio di trasparenza, declinato in forma di accessibilità totale agli atti e documenti dell’amministrazione, ha contribuito da un lato, a portare a compimento il processo di democratizzazione dell’amministrazione pubblica, dall’altro, a implementare forme di democrazia partecipata da parte dei singoli cittadini. Una trasparenza amministrativa, dunque, che non si declina più semplicemente in termini di diritto di accesso, bensì anche come vero e proprio diritto all’informazione.
Nonostante l’affermazione del principio di trasparenza come condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, bensì anche dell’imparzialità, della qualità, dell’efficienza dell’azione amministrativa nella prospettiva del riconoscimento di un vero e proprio diritto ad una buona amministrazione[xvi], il medesimo principio necessita pur sempre di una corretta e consapevole applicazione, non potendo travalicarsi surrettiziamente i limiti dell’altrui riservatezza o del segreto, individuale o pubblico che sia[xvii].
E infatti, richiamando consolidata giurisprudenza, il Consiglio di Stato evidenzia la necessità di garantire una «ragionevole proporzione e un equilibrio fra gli opposti e meritevoli interessi coinvolti dall’accesso ai documenti amministrativi»[xviii].
A dire del Consiglio di Stato, la dialettica tra il diritto/dovere di un consigliere regionale di conoscere atti in possesso dell’amministrazione, pur nell’ambito dell’esercizio del suo fondamentale ruolo di controllo politico dell’attività della pubblica amministrazione, in un contesto di democrazia partecipata e partecipativa, e la riservatezza che la legge impone di osservare rispetto a una documentazione in relazione alla quale entrano in gioco interessi contrapposti, si risolve in favore della seconda nelle ipotesi in cui il sindacato (cui rimanda la richiesta di accesso) non sia relativo ad atti dell’ente di appartenenza dell’istante e laddove, in ogni caso, le disposizioni primarie e secondarie consentono di negare l’accesso per la tutela di contrapposti (e superiori) interessi dell’amministrazione e di soggetti terzi.
L’esito non sarebbe stato diverso se l’istanza d’accesso fosse stata formulata ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013.
Orbene, stando alla motivazione del giudice amministrativo, nel caso di specie, il diritto di conoscere, sia che fosse stato giustificato in ragione di un precipuo ruolo istituzionale – quello di consigliere regionale – che ha nella democrazia partecipata il proprio fondamento, sia che fosse stato manifestato quale espressione più generale del principio di trasparenza, intesa come accessibilità totale agli atti e ai documenti dell’amministrazione, legittimamente deve farsi retrocedere dinanzi a preminenti interessi di terzi e dell’amministrazione, a maggior ragione perché trattasi di atti di amministrazione diversa rispetto a quella cui il cittadino e/o il cittadino qualificato, qual è il consigliere regionale, appartiene.
Ebbene, nella motivazione a sostegno della legittimità del diniego, il giudice amministrativo fa leva sull’esigenza di veder tutelati i diritti dei terzi e dell’amministrazione, senza distinguere (o meglio uniformemente considerando) l’ipotesi di accesso dispiegata in qualità di consigliere, per l’assolvimento del proprio ruolo istituzionale, nonché l’ipotesi gradata di esercizio d’accesso nella forma – meno vincolata nei presupposti – dell’accesso civico generalizzato.
È pacifico[xix], oramai, che le diverse forme di accesso possano anche fra loro cumularsi e che le relative istanze possano proporsi in via gradata, così come è pacifico che l’accesso qualificato dalla presenza di specifici presupposti (che sia l’accesso documentale cui alla legge generale sul procedimento amministrativo o le forme speciali di accesso che si rinvengono nelle discipline di settore, come quella oggetto di esame) e l’accesso civico generalizzato divergano non solo per finalità e requisiti (si pensi alle differenze relative all’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione) bensì anche – e soprattutto – per il diverso grado di profondità di conoscenza consentito.
Nel caso di specie, l’assimilazione nell’esito sembra essere giustificata dalla similare finalità che contraddistingue l’accesso civico generalizzato e l’accesso di un consigliere, ossia l’esercizio di un controllo democratico sul corretto esplicarsi dell’attività amministrativa.
Ciò non toglie però che quello del consigliere regionale sia un controllo qualificato, un controllo politico sull’esercizio dell’attività amministrativa da parte dell’organo di appartenenza, certamente – ove consentito – di portata ben più ampia dell’altro, giustificandosi nella necessità di un efficace espletamento del proprio mandato.
Per cui, a parità di condizioni, sussistendo tutti i presupposti di legittimazione, sarebbe questa l’istanza capace di fornire maggiori garanzie di accesso.
Restando, però, per il momento, al dato della sussistenza di interessi confliggenti, appartenenti a terzi e all’amministrazione, non può non evidenziarsi la fragilità e l’apoditticità della motivazione del giudice amministrativo – evidentemente posta più a corredo che a fondamento motivazionale.
Non può non ricordarsi che nell’era della trasparenza amministrativa, la definizione dei limiti e delle eccezioni al diritto di accesso ai documenti e alle informazioni della amministrazione non si invera sempre in preclusioni assolute, implicando un concreto bilanciamento fra accessibilità, da un lato, e riservatezza e/o segreto[xx], dall’altro, cosa che non sempre porta a un diniego, potendosi valutare strumenti diversi qual è il differimento oppure, l’oscuramento di dati sensibili ma anche semplicemente la pubblicazione per estratto delle decisioni finali di specifici procedimenti di pubblico interesse, oppure ancora il rilascio di informazioni di pubblico interesse per la sola parte del documento o delle informazioni non oggetto di “censura”.
Ciò varrebbe tanto per l’ipotesi di istanza di accesso qualificata (ossia esperita facendo valere il ruolo di consigliere regionale, dovendo questi poter avere accesso anche solo a notizie o informazioni utili per l’espletamento del proprio mandato) sia per l’istanza formulata in termini di accesso civico generalizzato, altrimenti depotenziandosi e vanificandosi le esigenze di controllo democratico sottese al principio di trasparenza.
Il diritto di accesso, infatti, costituisce un principio generale del nostro ordinamento democratico, ragion per cui i limiti e le eccezioni al medesimo debbono interpretarsi rigorosamente e restrittivamente, dovendo valutarsi anche ipotesi alternative al mero diniego.
Ma vi è un secondo dato che porta il giudice amministrativo ad appaiare, nell’esito, le due paventate forme d’istanza d’accesso: il fatto che il documento che si chiede di conoscere non sia riconducibile all’amministrazione di appartenenza del consigliere regionale. Quest’ultimo – si legge in sentenza – avrebbe dovuto chiedere l’accesso limitatamente agli atti in possesso della regione Molise o di enti pubblici ad essa riferibili, sempre nel rispetto dei limiti generali fissati dalla normativa primaria.
Orbene, il requisito della pertinenza – come limite intrinseco per l’esercizio di questa speciale istanza di accesso – si spiega in ragione del fatto che il bisogno di conoscenza del titolare di una carica elettiva si ponga in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui è investito, nell’ordinamento dell’ente locale, l’organo di appartenenza.
Questo limite oggettivo – ossia della accessibilità ai soli documenti dell’amministrazione di riferimento – risponde alla finalità di garantire il rispetto del principio della separazione dei poteri. Pertanto, si esclude in una interpretazione estensiva della normativa di riferimento volta a ricomprendere fra gli atti dell’amministrazione di appartenenza tutti quegli atti, anche posti da organi differenti, aventi però ricadute sul territorio.
Ciò vale a maggior ragione nel caso di specie, in cui il documento di cui si chiede l’ostensione è un atto di alta amministrazione, una decisione presa dal Consiglio dei Ministri.
È evidente, dunque, che la ragione sottesa è di evitare un controllo democratico multilivello (o decentrato, se si preferisce) su tali atti amministrativi. Se si ammettesse, il fondato timore è che si creerebbe probabilmente un cortocircuito democratico inaccettabile, non potendo consentirsi un sindacato politico da parte di organi espressione della democrazia territoriale, locale, su un potere del governo centrale a sua volta frutto di scelte ampiamente discrezionali giustificate dall’esigenza di veder tutelati interessi nazionali strategici, pur avendo ricadute territoriali, producendo cioè i loro effetti su scelte e decisioni che impattano poi sul territorio regionale.
Purtuttavia, tale rischio, sebbene fondato, non giustifica di per sé l’esclusione del diritto di accesso. Resta, ad esempio, ancor oggi emblematico il caso di avvenuto riconoscimento – in sede giurisdizionale a seguito d’impugnazione del diniego – della legittimità del diritto di accesso agli atti e documenti del procedimento di approvazione di un progetto definitivo del DIPE (Dipartimento programmazione e Coordinamento della Politica Economica), relativo al collegamento viario Ragusa – Catania, da parte degli enti locali interessati alla realizzazione dell’opera[xxi].
La verità è che, fondamentalmente, la ragione dell’esclusione dell’accesso la si fa risalire alla voluntas legis, ossia nel richiamo ai limiti di cui all’art. 24, comma 2, l. n. 241/1990.
Purtuttavia, anche su questo limite è necessario qualche chiarimento.
Come noto, il limite di cui all’art. 24, comma 2, l. n. 241/1990 trova applicazione sia per le ipotesi di accesso documentale, sia disciplinato dalla legge generale sul procedimento amministrativo, sia che si tratti di fattispecie c.d. speciali (come quella in esame dell’accesso del consigliere), sia nell’ipotesi di accesso civico generalizzato, sebbene per quest’ultimo il rinvio al comma 2 dell’art. 24, l. n. 241/1990 abbiano sollevato non pochi dubbi nella definizione delle modalità di attuazione [xxii].
L’art. art. 24, comma 2, della l. n. 241 del 1990 consente alle amministrazioni di precisare le fattispecie di esclusione dell’accesso già individuate dal legislatore nell’art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990, esplicitando i casi di segreto o di divieto di divulgazione per gli atti rientranti nella propria disponibilità. Diversamente, l’art 24, comma 2, non dovrebbe consentire alle amministrazioni di disciplinare autonomamente ipotesi di esclusione rientranti nella disciplina regolamentare di cui al comma 6 del medesimo articolo, diversamente ampliandosi oltremodo il loro potere discrezionale, perché così facendo si assegnerebbe loro una discrezionalità regolatoria incompatibile con il principio generale di accessibilità e trasparenza.
Nel caso di specie, la legittimazione a disciplinare, o meglio, a esplicitare le ipotesi di esclusione del diritto di accesso è data dal fatto che, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 24 richiamato, la fattispecie in esame rientri in quelle ipotesi in cui il divieto di divulgazione è espressamente previsto dalla legge, in particolare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 2, comma 5, del d.l. n. 21/2012, dell’art. 9, d.p.r. n. 86/2014 e art. 13, d.p.c.m. n. 133/2022. Queste disposizioni normative trovano, fra l’altro, un conforto nei vincoli di riservatezza comunque imposti dalla disciplina europea (si vedano in particolare gli artt. 10 e 3, comma 4 del Reg. UE 2019/452).
Queste norme interne cui si è fatto riferimento, sebbene non classifichino espressamente come segreto o riservato il documento di cui si chiede l’ostensione, escludono genericamente che le informazioni, i dati e le notizie contenute nei documenti originati dalle pubbliche amministrazioni per le finalità di cui è questione siano accessibili, se non per il caso di accesso difensivo.
Orbene, ci si rende conto che vi è innanzitutto una volontà politica di mantenere sostanzialmente oscurate determinate decisioni.
D’altra parte, si evince anche che, pur a fronte di pregevoli disquisizioni sui limiti di proporzionalità e adeguatezza ai fini della tutela della riservatezza dei terzi o dell’amministrazione, la stessa giurisprudenza si rifugia dietro la preclusione ope legis, che come detto lascia margini di apertura limitatamente alle sole ipotesi di accesso difensivo.
Va altresì ricordato, però, che in via generale, il limite di cui all’art. 24, comma 2, è stato interpretato nel senso di non implicare, per le ipotesi di istanze di accesso civico generalizzato, una preclusione assoluta all’accesso, dovendosi compiere un bilanciamento nel caso concreto.
Purtuttavia, come dimostrato, nel caso di specie, trattandosi di decisioni giustificate per la cura e la tutela di interessi strategici nazionali, ogni disquisizione in termini di proporzionalità e ragionevolezza[xxiii], fuori dall’ipotesi di accesso difensivo, diviene velleitaria.
In definitiva ciò che emerge è che il golden power, anche con l’avvallo di una deferente giurisprudenza nazionale, si manifesti come un potere tendenzialmente segreto, che consente margini di accessibilità nella limitata ipotesi di accesso difensivo, anche in questo caso, inverati tutti i presupposti di legge, come noto stringenti (ex art. 24, comma 7, l. n. 241/1990).
Le ragioni, evidentemente politiche, sono da ricercarsi nella volontà di tutelare interessi pubblici ritenuti strategici.
Possiamo ritenere, dunque, che ancora oggi, nell’era della trasparenza, in alcune ipotesi, come quella in esame, il segreto resti lo strumento per preservare l’esercizio di funzioni sovrane, dispiegate in nome di superiori interessi pubblici che, evidentemente, necessitano di essere tutelati anche a garanzia dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico.
Ciò non toglie però che dovrebbe essere necessario circoscrivere o individuare più specificatamente, già a livello normativo, le ipotesi in cui sia legittimo ricorrere all’esercizio di tali poteri, altrimenti gli stessi non potrebbero dirsi “speciali”, e poi, che la logica del segreto dovrebbe sempre considerarsi come extrema ratio.
Meritano, in particolare, di essere segnalate quelle voci in dottrina[xxiv] che, al fine di rendere un po' meno opachi i vetri dell’amministrazione centrale, specie nel caso di esercizio di questi poteri speciali, auspicano, in linea con la maggiore democraticità che il principio di trasparenza vorrebbe assicurare, per lo meno una conoscibilità postuma di tali decisioni, ossia a procedimento concluso, da assicurarsi anche solo con la pubblicazione per estratto del provvedimento o, eventualmente, fornendo una nota riepilogativa, che offra maggiori dettagli, all’intero della relazione annuale che viene presentata al Parlamento ex art 3-bis del decreto n. 21/2012.
5. Uno sguardo oltre confine per qualche ulteriore riflessione critica.
A sostegno dell’analisi sin qui svolta, pare opportuno richiamare recente giurisprudenza europea che ci consente di guardare oltre la specifica questione, però per trarre utili spunti per qualche altra considerazione critica.
E invero, in una prospettiva meno garantista per l’esercizio di questi poteri sovrani speciali sembra porsi la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che pare, in qualche modo, intenzionata proprio a ridimensionare l’ampiezza dell’esercizio dei poteri di golden power da parte degli Stati membri.
Emblematico il caso Xella Magyarorzág, con cui la Corte di Giustizia EU, seconda sessione, 13 luglio 2023, Causa 106/22, ha fornito una interpretazione formalistica e restrittiva del regolamento (Ue) 2019/452, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione, ridimensionandone il perimetro di applicazione della disciplina, con evidenti ricadute in materia di esercizio del golden power da parte degli Stati membri[xxv].
In particolare, in questa pronuncia la Corte di Giustizia ha evidenziato che l’esercizio di un potere di veto da parte del Governo di uno Stato membro all’acquisizione di partecipazioni societarie (nel caso di specie trattavasi poteri esercitati dal Governo ungherese in merito all’acquisizione di una società da parte di un’altra, con particolare riferimento al settore edile) può incidere sull’esercizio di una libertà fondamentale: la libertà di stabilimento.
Di conseguenza, a dire della Corte, una restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato può essere ammessa unicamente a condizione che la misura nazionale sia giustificata da un motivo imperativo di interesse generale (quali motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, difesa e di sanità pubblica) e che la stessa sia idonea a garantire il raggiungimento dell’obiettivo da essa perseguito senza andar al di là di quanto necessario per ottenerlo, non potendo tali misure essere giustificate da motivi di natura puramente economica, connessi alla promozione dell’economia nazionale o al buon funzionamento di quest’ultima[xxvi].
Pertanto, è evidente che prima ancora delle ragioni (recte: delle motivazioni) a sostegno della misura adottata, al fine di valutarne la legittimità in termini di proporzionalità, rilevano i motivi sottesi all’esercizio di tali poteri, dovendo questi essere interpretati restrittivamente, non potendo la loro portata essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione.
E infatti, precisa ancora la Corte, ferma la libertà politica riconosciuta a ciascuno Stato membro di determinare, conformemente alle necessità nazionali, le esigenze dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza a fondamento dell’esercizio del golden power, tali motivi possono essere invocati solamente in caso di minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività, non potendo gli stessi essere piegati per il perseguimento di fini puramente economici[xxvii].
La pronuncia, pertanto, si rivela particolarmente importante perché dilata le maglie del sindacato del giudice sull’esercizio del golden power, al contempo, circoscrivendo i limiti soggettivi e oggettivi che legittimano l’esercizio del medesimo da parte degli Stati membri.
E infatti, l’esercizio del sindacato del giudice non solo potrebbe dirigersi verso il provvedimento frutto dell’esercizio del potere speciale, bensì anche sull’atto regolamentare che ne regola i presupposti, il quale o potrebbe essere disapplicato oppure essere oggetto, assieme al provvedimento, di doppia impugnativa da parte del ricorrente. Ancora, se si volessero valorizzare le esigenze sociali sottese all’esercizio di tali poteri, potrebbe non escludersi un ampliamento della legittimazione e dell’interesse a ricorrere a nuovi attori, come associazioni di categoria, sindacati, imprese concorrenti[xxviii].
Ad ogni modo, al di là del tipo di tutela esperibile, ciò che realmente rileva è assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale e del sindacato del giudice su tali poteri, pur nei limiti dell’ampia discrezionalità che li connota.
Infatti, il rischio che si corre a lasciar incondizionato e incontestato (recte: privo di sindacato) tale potere, nascondendosi dietro il velo dell’amplissima discrezionalità, è che il golden power si trasformi in un facile strumento di politica dirigista[xxix].
Ragion per cui, se la decisione resta nella sostanza inaccessibile e impenetrabile – se non scalfita in alcuni limitatissimi casi, attraverso un impervio sindacato di proporzionalità (come si è detto per il caso dell’istanza di accesso difensivo), pare opportuno assicurare un crisma di legalità all’esercizio di tale potere anche attraverso un rafforzamento degli addentellati normativi legittimanti il medesimo.
Il che porterebbe a valorizzare, fra le possibili patologie del provvedimento, sintomatiche di vizi di legittimità sostanziale, anche quella tradizionale figura nota come sviamento di potere. Cosa che probabilmente consentirebbe di allargare le maglie del sindacato giurisdizionale valorizzando più efficacemente la correlazione esistente fra fatto – fattispecie – potere – atto (ossia: fatto – norma – potere – effetto), cogliendo più da vicino quella relazione intercorrente fra presupposti normativi, fatti accertati in sede istruttoria, motivazione del provvedimento e interessi pubblici effettivamente perseguiti.
Questa prospettiva sembra emergere dalle posizioni difensive del ricorrente, in una recente questione oggetto di pronuncia del T.A.R. del Lazio[xxx], espressasi sul delicato caso Unicredit/Banco BPM, successiva alla sentenza che si commenta. In particolare, la questione oggetto del giudizio richiamato verte su un ricorsopromosso da UniCredit S.p.A. per l’annullamento – per difetto di presupposti richiesti dalla disciplina di legge – del DPCM del 18 aprile 2025, con il quale, in relazione all’offerta di scambio volontaria di UniCredit, avente ad oggetto la totalità delle azioni di Banco BPM S.p.A., sono stati esercitati, da parte del Governo, i poteri speciali di cui al decreto legge 15 marzo 2012, n. 21. Sulla questione certamente non è possibile indugiare nella presente sede.
Ciò che preme rilevare in questa sede è che, a fronte di un tentativo demolitorio del provvedimento in questione, operato dalla Unicredit s.p.a. proprio attraverso la valorizzazione del difetto dei presupposti normativi legittimanti l’esercizio del potere sovrano di golden power, la giurisprudenza amministrativa finisce per limitarsi a un tiepido sindacato sull’esercizio del medesimo.
Anche quest’ultima decisione cela un atteggiamento se non protezionistico per lo meno deferente dei giudici nei confronti del governo, tanto che in questa pronuncia il T.A.R. Lazio, attraverso un abile esercizio di erudizione normativa, si pone in posizione sostanzialmente antitetica rispetto all’indirizzo della giurisprudenza europea, arrivando a declinare la nozione di «sicurezza economica» come species del più ampio genus della «sicurezza nazionale», in virtù tanto della normativa nazionale, quanto di quella europea.
Non si può non sottolineare però che una strumentalizzazione dell’uso di tali poteri da parte del governo potrebbe anche esporre il nostro paese a una procedura di infrazione.
Orbene, è evidente che la complessità della materia ci porta molto lontano nei ragionamenti giuridici.
Tornando alle questioni che più da vicino ci hanno interessato, pare opportuno evidenziare che le diverse esigenze, così emerse, di valorizzazione di istituti partecipativi o di implementazione delle garanzie procedimentali o ancora, di demarcazione, in via interpretativa, degli indeterminati confini di suddetta materia, sono tutte manifestazioni della necessità di assicurare il rispetto di un livello minimo di democrazia partecipativa.
La valorizzazione delle istanze di accesso civico generalizzato o di istanze di accesso da parte dei rappresentanti degli enti locali a tali documenti, ad esempio, risponde al bisogno di assicurare un controllo democratico su decisioni che sono certamente il frutto di una visione politica nazionale strategica ma che, in alcuni specifici casi, potrebbero avere ricadute dirette o mediate anche in ambito locale e, eventualmente, avere come effetto latente quello di implementare divari territoriali di cittadinanza[xxxi].
Favorire forme di democraticità partecipativa a supporto di scelte di rilevanza strategica nazionale, potrebbe tornare utile proprio in materie, come quella della sanità, oppure delle infrastrutture[xxxii], che si presentano complesse, non avendo una disciplina uniforme, ma che hanno grande e rilevante impatto sui territori.
Circoscrivere l’esercizio di tali poteri speciali, attraverso una interpretazione restrittiva dei presupposti normativi e, al contempo, valorizzare l’esistenza di garanzie procedimentali, nonché di strumenti espressione di istanze partecipative, come le forme di accesso di cui si è detto, risponde a esigenze di democraticità che uno Stato di diritto è tenuto ad assicurare nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini.
Purtuttavia, non si può non evidenziare che queste esigenze non possono essere lasciate al buon senso o alla sensibilità giuridica o all’interpretatio di questo o di quell’altro giudice, ponendo il creazionismo giurisprudenziale[xxxiii] un grave vulnus alla certezza del diritto e di conseguenza al diritto di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Pertanto, concludendo, per evitare che un potere camaleontico[xxxiv] come il golden power, possa di fatto tradursi in uno oscuro strumento di politica dirigista capace, da un lato, di creare Stati competitor[xxxv], dall’altro, di comprimere indebitamente diritti o libertà fondamentali dei cittadini, bensì anche di recare pesanti disallineamenti fra politiche centrali e realtà territoriali, così finanche esacerbando i già gravi e radicati divari territoriali di cittadinanza, sarebbe forse opportuno un ripensamento della normativa in questione a garanzia della legalità e della certezza del diritto, espressione primaria della democraticità di uno Stato di diritto.
[i] Così in motivazione lo stesso il Consiglio di Stato, 13 gennaio 2025, n. 171.
[ii] R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. Amm., 1987, 529 ss.; G. Arena, Trasparenza amministrativa e democrazia, in G. Berti, G.C. de Martin, Gli istituti di democrazia amministrativa, Milano, 1996, 22 ss.; A. Sandulli, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 5/2005; 494; M.A. Sandulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, (voce) Enc. Dir., appendice di aggiornamento IV, Milano, 2000, 1 ss.; M. Ciammolo, La legittimazione ad accedere ai documenti amministrativi (prima e dopo la l. 11 febbraio 2005 n. 15, Foro amm. T.a.r., 2007, 1198 ss.; C. Marzuoli, La trasparenza come diritto civico alla pubblicità, in F. Merloni, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, Milano, 2008, 45 ss.; F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d. lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, 18 ss.; M. Cocconi, L’acquisizione di documenti da parte di soggetti pubblici: diritto d’accesso o principio di leale cooperazione istituzionale?, in Giorn. dir. amm., 2012, 1, 58; M.C. Cavallaro, Garanzie della trasparenza amministrativa e tutela dei privati, in Dir. Amm. 2015, 121, ss.; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza, in Studi in memoria di Roberto Marrama, Napoli, 2012, 639; Id., Trasparenza e obblighi di pubblicazione, in Nuove autonomie, 2014, 553 ss.; Id., Trasparenza e digitalizzazione, in Dir. e proc. amm., 1/2019, 25 ss; I.M. Marino, Sulla funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, ora in A. Barone (a cura di), Scritti Giuridici, tomo II, Napoli, 2015, pag. 1294-1316; D.U. Galetta, Trasparenza e contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione, fra realtà e falsi miti, Relazione al congresso annuale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto amministrativo, Antidoti alla cattiva amministrazione: una sfida per le riforme, Roma, 7-8 ottobre 2016; A.G. Orofino, La trasparenza oltre la crisi. Accesso, informatizzazione, controllo civico, Bari, 2020; M.R. Spasiano, I principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011, 83; M.A. Sandulli - L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio di conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in federalismi, 2019, 401 ss.; M. Savino, The Right to Open Public Administrations in Europe: Emerging Legal Standards, Parigi, OECD-OCSE, Sigma Paper n. 46, 2010, 1-41; Id., Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. amm., 3/2019, 453 ss.; F. Fracchia, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 55; A. Barone, La trasparenza amministrativa, in Aa.Vv., Diritto pubblico per l’economia e gli studi sociali, A. Barone - C. Colapietro - G. Seges, Torino, 2024; A. Corrado, Il principio di trasparenza e i suoi strumenti di attuazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2024, 187 – 220.
[iii] Si veda come esempio recente: ANAC, delibera n. 797 del 6 dicembre 2021 sull’istanza di accesso al piano di riequilibrio finanziario pluriennale e relativi limiti.
[iv] Cfr. fra le sentenze recenti: Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 2022, n. 8667; Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2021, n. 4792.
[v] Cons. di Stato, sez. IV, n. 846/2013; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, sent. n. 656/2017.
[vi] P. Barile, Democrazia e segreto, in Quad. cost., 1, 1987, 32; T. F. Giupponi, Segreto di Stato (diritto costituzionale), in Enc. Dir., Annali X, Milano, 2017, 856 ss.; S. Perongini, Introduzione a Il segreto di Stato. Un’indagine multidisciplinare sull’equo bilanciamento di ragioni politiche e giuridiche, Torino, 2022, XIV; R. Bifulco, Segreto e potere politico, in Enc. Dir., I Tematici, V, Milano, 2023, 1096 ss.; S. Tranquilli, Il segreto in giudizio. Contributo allo studio del rapporto tra diritto di difesa e tutela della segretezza nel processo amministrativo, Napoli, 2023.
[vii] In generale, sul principio di proporzionalità: A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Cedam, Padova, 1998; V. Fanti, Dimensioni della proporzionalità. Profili ricostruttivi tra attività e processo amministrativo, Torino, 2012; D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità fra diritto nazionale e diritto europeo (e con uno sguardo anche al di là dei confini dell'unione europea), in Riv. it. dir. pubbl. com., 6/2019, 907 ss.
[viii] V. Fanti, Segreto di Stato e attività di intelligence: tutela dei diritti dei cittadini tra proporzionalità e trasparenza, manoscritto, di prossima pubblicazione su Dir. e proc. amm. 3/2025.
[ix] L. Belviso, Golden power. Profili di diritto amministrativo, Torino, 2023; G. Della Cananea-L. Fiorentino (a cura di), I “poteri speciali” del Governo nei settori strategici, Napoli, 2020; G. Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, in Giorn. dir. amm., 2019, 549 ss.; A. Sandulli, La febbre del golden power, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 743 ss.; R. Chieppa, La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, in Federalismi, 2022, 1-28; M. Clarich, La disciplina del golden power tra Stato, mercato ed equilibri geopolitici, in Giur. Comm., 2024, 702 ss.; S. De Nitto, I golden power nei settori rilevanti della difesa e della sicurezza nazionale, in Dir. amm., 2022, 553-58; L. Masotto, Il golden power alla prova del procedimento e del processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2022, 663 ss.; R. Angelini, Stato dell’arte e profili evolutivi dei poteri speciali: al crocevia del golden power, in Rivista di dir. soc, 3, 2018, 706 ss. Per un rapido inquadramento generale della disciplina si veda anche il sito: https://temi.camera.it/leg19/post/19_la-salvaguardia-degli-assetti-strategici-inquadramento-generale.html.
[x] Sia sufficiente richiamare: L. Belviso, Golden power. Profili di diritto amministrativo, op. cit.; A. Sandulli, La febbre del golden power, op. cit; R. Chieppa, La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, op. cit. In generale, poi, sull’atto politico e sugli atti di alta amministrazione si veda: A. Contieri - F. Francario - M. Immordino - A. Zito, L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010.
[xi] Sui temi, anche criticamente: F. Cintioli, La natura amministrativa della decisione sull’esercizio dei poteri speciali e la sua sottoposizione al sindacato del giudice amministrativo, in Aa.Vv., Golden power, R. Chieppa - C.D. Piro - R. Tuccillo (a cura di), Il Foro Italiano, La tribuna, 2023; E.M. Tepedino, Golden powers: i poteri speciali del governo al vaglio del giudice amministrativo, in Amministrazione in cammino, giugno 2022, 11 ss.; D. Ielo, Riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo sui cosiddetti “Golden powers”, in Riv. interdisciplinare sul diritto delle amministrazioni pubbliche, 4/2021, 62 ss.
[xii] Così: A Sandulli, La febbre del golden power, op.cit., 753.
[xiii] M. Trimarchi, Potere dorato, potere segreto, relazione tenuta a Convegno su “Segreto, sicurezza dello Stato e discovery delle informazioni di intelligence, svoltosi presso l’Università degli studi di Foggia, Dipartimento di Giurisprudenza, in data 26 settembre 2024 e di prossima pubblicazione su Dir. e proc. amm. 3/2025.
[xiv] Per ripercorrere rapidamente l’evoluzione normativa che ha interessato la disciplina in esame sia sufficiente consultare il sito: https://temi.camera.it/leg19/post/19_la-salvaguardia-degli-assetti-strategici-inquadramento-generale.html.
[xv] Per la bibliografia sul principio di trasparenza si rinvia alla nota 2.
[xvi] R. Resta, L’onere di buona amministrazione, in Annali Macerata, 1938, poi in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. II, Padova, Cedam,1940, 104 ss. U. Allegretti, Corte Costituzionale e Pubblica Amministrazione, in Le Regioni, 1982, 1186; A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979; P. Barile, Il dovere di imparzialità della P.A., in Scritti in onore di P. Calamandrei, Padova, 1958, IV, 136; G. Berti, Il principio organizzativo nel diritto pubblico, Padova, 1986, 160; P. Calandra, Il buon andamento dell’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di V. Bachelet, Milano, 1987; G. Falzone, Il dovere di buona amministrazione, Milano, 1953; N. Speranza, Il principio di buon andamento – imparzialità nell’art. 97 Cost., FA, 1972, II, 86; R. Ferrara, L’interesse pubblico al buon andamento delle pubbliche amministrazioni: tra forma e sostanza, in Dir. e proc. amm, 2010, 31 ss.; A. Massera, I criteri di economicità, efficacia ed efficienza, in Codice dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2011, 22 ss.; M.R. Spasiano, L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995; Id., Profili di organizzazione della pubblica amministrazione in cinquanta anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Diritto Amministrativo e Corte Costituzionale,G. Della Cananea - M. Dugato (a cura di), Napoli, 2006, 163 ss.; Id, Trasparenza e qualità dell’amministrazione, in Studi in onore di Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, III, 1435; Id, Il principio di buon andamento, in Principi e regole dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2023.
[xvii] G.P. Cirillo, Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile, 2004, in www.giustizia-amministrativa.it; M. Clarich, Trasparenza e diritti della personalità nell’attività amministrativa, convegno su “Trasparenza e protezione dei dati personali nell’azione amministrativa”, Roma, 11 febbraio 2004, consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it; C. Colapietro, Il complesso bilanciamento fra principio di trasparenza e il diritto alla privacy: la disciplina delle diverse forme di accesso e degli obblighi di pubblicazione, in www.federalismi.it, 2020, 64 ss.; V. Fanti, La trasparenza amministrativa tra principi costituzionali e valori dell’ordinamento europeo: a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 20/2019), in www.federalismi.it, 4 marzo 2020; O. Pollicino – F. Resta, Visibilità del potere, riservatezza individuale e tecnologia digitale. Il bilanciamento delineato dalla Corte, in Il diritto dell'informazione e dell'informatica, 2019, 110 ss.
[xviii] Consiglio di Stato, sez. V, 26 maggio 2020, n. 3345; Consiglio di Stato, sez. II, 28 marzo 2023, n. 3160; T.A.R. Lazio, sez. I, sentenza 11 maggio 2024, n. 9314.
[xix] Cfr. Cons. stato, Ad. Pl., n. 10/2020.
[xx] Sia sufficiente rinviare ai chiarimenti dell’ANAC (delibera 29 dicembre 2016, n. 1309) alla disciplina dei limiti all’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5-bis d.lgs. n. 33/2013 e alle circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2/2017 e 1/2019. Sui temi: C. Deodato, La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?, www.giustizia-amministrativa.it, 20 dicembre 2017; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettiva, www.federalismi.it, 2019.
[xxi] Cons. Stato, 20 dicembre 2019, n. 1468.
[xxii] C. Deodato, La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?, op. cit.; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettiva, www.federalismi.it, 2019; A. Berti, Il dedalo delle limitazioni assolute dell’accesso civico generalizzato, al sito www.giustizia-amministrativa.it, 2021
[xxiii] M.P. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Cedam, 1993.
[xxiv] G. Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, op. cit.; S. De Nitto, I golden power nei settori rilevanti della difesa e della sicurezza nazionale, op. cit.
[xxv] Sul tema, approfonditamente: A. Sandulli, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, libertà di stabilimento, limiti al Golden power, in Riv. regolazione dei mercati, 2/2023. Si v. altresì: D. Gallo, La questione della compatibilità dei golden powers in Italia, oggi, con il diritto dell’Unione europea: il caso delle banche, in Riv. regolazione dei mercati, 1/2021; nonché: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, in Dir. amm., 1/2025, 177 - 205.
[xxvi] Cfr. sentenza del 27 febbraio 2019, Associação Peço a Palavra e a., C-563/17, EU:C:2019:144, punto 70 e giurisprudenza ivi citata; sentenze del 22 ottobre 2013, Essent e a., da C-105/12 a C-107/12, EU:C:2013:677.
[xxvii] V. anche, sentenza del 14 marzo 2000, Église de scientologie, C-54/99, EU:C:2000:124, punto 17 e giurisprudenza citata
[xxviii] Così: H. Simonetti, Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio dei golden powers, reperibile al sito www.giustizia-amministrativa.it.
[xxix] Così M. Clarich, Il golden power rischia di trasformarsi in uno strumento di politica dirigista, in Milano Finanza, 2022.
[xxx] T.A.R. Lazio, sez. I, 12 luglio 2025, n. 13748
[xxxi] Sul tema, complesso, dei divari di cittadinanza: Aa.Vv., Le diseguaglianze sostenibili nei sistemi autonomistici multilivello, Atti del Convegno di Copanello 2005, F. Astone, M. Caldarera, F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta (a cura di), Torino, 2006; A. Police, L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni tra Stato nazionale e attribuzioni regionali: la parabola dell’eguaglianza, in Aa.Vv.,L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni tra Stato nazionale e integrazione europea, R. Cavallo Perin - A. Police - F. Saitta (a cura di), vol. I, Firenze, 2016, 67 ss.; A. Barone, Il tempo della perequazione: il Mezzogiorno nel PNRR, in P.A. Persona e Amministrazione, 2/2021, 7-11; A. Barone - F. Manganaro, PNRR e Mezzogiorno, in Quaderni costituzionali, 1/2022, 148-152; F. Manganaro, Osservazioni sulla questione meridionale alla luce del PNRR e del regionalismo differenziato, in Nuove Autonomie, 2/2022, 387- 404; Id., Dalla cittadinanza alle cittadinanze. Questioni su un concetto polimorfico, in ambientediritto.it, 4/2022, 323-334; Id, Politiche di coesione (voce), in Enc. Dir., Funzioni Amministrative, III, Milano 2022, 839 ss. Infine, sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Sistema delle autonomie e divari territoriali di cittadinanza, in Dir e soc., 3/2023, 455-483.
[xxxii] Sul tema delle infrastrutture si v.: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, op.cit.
[xxxiii] Sul tema, in generale, anche in riferimento ad altri rami dell’ordinamento giuridico: L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario, Modena, 2018; Id., Contro il creazionismo giurisprudenziale. Una proposta di revisione dell'approccio ermeneutico alla legalità penale, in Ars Interpretandi, 2/2016, 23-43; D. Dalfino, Creatività e creazionismo, prevedibilità e predittività, in Il Foro italiano, 12/2018, 5, 385-393. Con particolare riferimento alla dottrina amministrativistica: P. Portaruli, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021; A. Cassatella, Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice. Osservazioni a margine di “Ogni cosa al suo posto. Restaurare l'ordine costituzionale dei poteri” di Massimo Luciani, F. Saitta, Regole processuali, indeterminatezza e creazionismo giudiziario, in Dir. proc. amm., 2/2024, 263 - 343. Sia consentito altresì il rinvio a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, Bari, 2020.
[xxxiv] L’espressione è di H. Simonetti, Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio dei golden powers, op. cit.
[xxxv] Così, specificatamente: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, op.cit.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il lavoro tramite piattaforma: genesi, modelli e criticità. – 3. La Direttiva (UE) 2024/2831. – 3.1. Ambito di applicazione e presunzione di subordinazione. – 3.2. La gestione algoritmica e la tutela dei dati personali. – 4. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Parafrasando Sergio Ortino si può dire che la pervasività della digitalizzazione nelle società contemporanee ci pone innanzi a un’“appropriazione microcosmica delle nostre vite”[1]: la sfera privata degli individui viene trasferita e frammentata all’interno di piattaforme che raccolgono dati, condizionano le decisioni e, in ultima analisi, influenzano la formazione della volontà politica.
Dal punto di vista del diritto, questa transizione pone il problema della discrasia tra l’utilizzo quotidiano delle piattaforme digitali e una loro ancora scarna regolazione, che induce a riflettere sulla tenuta dei modelli di tutela dei diritti fondamentali. Nell’ambito di questo fenomeno, il presente studio intende concentrare l’attenzione sulla tutela del lavoratore digitale nel contesto del cosiddetto lavoro tramite piattaforma[2].
In particolare, obiettivo di questo contributo è analizzare la Direttiva (UE) 2024/2831 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, valutandone la portata innovativa e il suo potenziale armonizzatore rispetto ai diversi ordinamenti degli Stati membri. In questa prospettiva, si è scelto di non affrontare le più ampie e complesse questioni relative alle politiche sociali dell’Unione, che da sempre incontrano la resistenza degli Stati membri, in ragione della natura di competenza concorrente della materia ai sensi dell’articolo 4 TFUE[3]. Tale delimitazione metodologica risponde all’esigenza di focalizzare l’attenzione sulla costruzione giuridica e sistematica della direttiva[4], considerata come tappa significativa nel percorso di affermazione di un diritto europeo del lavoro digitale.
2. Il lavoro tramite piattaforma: genesi, modelli e criticità
Nel contesto dell’attuale rivoluzione digitale, il progressivo cambiamento del lavoro umano nell’interazione con la macchina esprime una domanda di tutela rinnovata, in un contesto storicamente assimilabile al passaggio alla società industriale nella seconda metà dell’Ottocento. Quella trasmigrazione dalle botteghe artigianali e dalle campagne al lavoro in fabbrica, che, offrendo una risposta più ampia alla domanda di occupazione, aveva visto costituirsi una classe operaia esposta a condizioni e rischi diversi da quelli conosciuti prima, è concettualmente assimilabile al peso che il lavoro digitale viene assumendo nel tempo presente[5], creando forme di impiego diverse rispetto a quelle tradizionali e conseguente incertezza sulla protezione sociale e i diritti dei lavoratori interessati.
Il punto di scansione storica fondamentale può considerarsi la crisi economico-finanziaria del 2008. È in risposta ad essa che invero è venuto consolidandosi il modello della c.d. gig economy, un sistema di libero mercato nato dall’intuizione di sfruttare le piattaforme digitali per mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro, così creando una nuova modalità di scambio di beni e servizi: il lavoro tramite piattaforma, mediante la quale un utente che richiede un bene o un servizio viene connesso in tempo reale con un altro in grado di fornirlo[6].
Il modello si declina principalmente in due forme: il crowdwork e il lavoro on-demand tramite app. Nel primo caso, reclutamento, gestione e prestazione lavorativa avvengono interamente online, attraverso piattaforme che connettono un numero indeterminato di committenti e prestatori. Nel secondo, invece, solo la fase di reclutamento e gestione si svolge digitalmente, mentre la prestazione è fisica e personale, come accade per i ciclofattorini del settore del food delivery[7].
Tale sistema presenta innegabili vantaggi. La tecnologia riduce drasticamente i costi di intermediazione tra datore e lavoratore, facilita la selezione e l’incontro tra domanda e offerta e consente ai consumatori di soddisfare più rapidamente i propri bisogni. La sua diffusione capillare è inoltre favorita da una marcata flessibilità, che permette di integrare tali attività con altri impieghi, offrendo nuove opportunità di guadagno, contribuendo, almeno in parte, alla riduzione della disoccupazione e incidendo altresì positivamente sul lavoro scoraggiato[8].
Queste nuove forme di lavoro, tuttavia, presentano il problema di impiegare i lavoratori solo su base saltuaria, come del resto indica la stessa locuzione gig economy, tradotta in italiano con “economia dei lavoretti”. Il termine “gig”, infatti, contrazione di “engagement”, richiama uno slang utilizzato nel mondo della musica, coniato dai jazzisti statunitensi nei primi decenni del secolo scorso, e traducibile in italiano col significato di “serata”, “esibizione”, “ingaggio”. Il riferimento è alle prestazioni occasionali che vedono i musicisti scritturati per eventi che non richiedono particolari competenze, essendo piuttosto basati sulla capacità di improvvisazione nell’eseguire i brani. Il musicista, quindi, ingaggiato senza molte formalità e con compensi esigui, potrebbe essere reimpiegato o meno senza poterlo predeterminare, proprio come avviene per i gig workers, impiegati e retribuiti per ogni singolo incarico, che viene loro assegnato senza bisogno di specifiche competenze per eseguirlo, trattandosi invero di mansioni mediamente comuni, come l’attività di consegna.
L’altro lato della medaglia del lavoro tramite piattaforma, quindi, è la sostanziale mancanza di protezione sociale[9], oltre all’aumento della precarizzazione che esso produce in ragione dell’instabilità dei contratti di lavoro[10].
A ciò si aggiunge il problema della gestione algoritmica del rapporto di impiego[11]. Sebbene le piattaforme facciano capo a grandi realtà industriali del calibro di Foodora, Uber, Glovo, Deliveroo, tutte le scelte inerenti alle carriere dei gig workers sono assunte dagli algoritmi alla base del funzionamento della piattaforma, che decidono processando dati.
Dati che, da un lato, vengono inseriti nei software in sede di programmazione a opera degli addetti incaricati dalle imprese. E questo pone elementi di criticità, poiché senza adeguati sistemi di controllo che verifichino l’obiettività e la non discriminatorietà di quanto inserito, le scelte dell’algoritmo rischiano di rivelarsi a loro volta discriminatorie e non obiettive[12].
Dall’altro, si tratta di dati ricavati da informazioni come la presenza del lavoratore sulla piattaforma, misurata dal tempo trascorso on-line collegato ad essa, o le recensioni espresse dai fruitori (il c.d. rating reputazionale). Senza una supervisione umana, tuttavia, l’algoritmo è chiaramente inabile a distinguere tra le diverse sfumature di queste informazioni[13]. Peraltro, siccome la decisione algoritmica gestisce il rapporto a cominciare dall’assegnazione degli impieghi fino alle sanzioni, incluso il licenziamento che avviene cancellando il profilo del lavoratore dalla piattaforma[14], il rischio di non individualizzare i dati a seconda delle singole situazioni è altresì quello di vanificare gli effetti positivi sull’occupazione, poiché la rigidità degli standard richiesti può tradursi in un’ulteriore barriera all’entrata[15].
Tale scenario pone in evidenza la necessità di un rinnovato sforzo regolativo volto a ricomprendere il lavoro tramite piattaforma entro una cornice giuridica capace di coniugare innovazione tecnologica e garanzie fondamentali, evitando che la flessibilità economica si traduca in deregolazione sociale.
3. La Direttiva (UE) 2024/2831
Con l’adozione della Direttiva (UE) 2024/2831, approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 23 ottobre 2024 ed entrata in vigore il primo dicembre dello stesso anno, l’Unione europea compie un passo di importante rilevanza sistemica nel tentativo, per la prima volta, di disciplinare il lavoro digitale[16]. L’atto, che sarà applicabile a partire dal 2 dicembre 2026 anche ai rapporti contrattuali già in corso, rappresenta il frutto di un lungo e complesso negoziato, durato oltre due anni e mezzo, che testimonia la difficoltà di coniugare le esigenze di tutela sociale con la flessibilità economica che costituisce la cifra del capitalismo digitale.
Il compromesso raggiunto, pur distanziandosi in più punti dalla proposta originaria della Commissione[17], segna un progresso normativo significativo. La direttiva, articolata in sei capi, affronta in modo sistematico i profili relativi alla qualificazione del rapporto di lavoro, alla gestione algoritmica e all’effettività delle tutele.
Gli obiettivi principali sono due: migliorare le condizioni di lavoro delle persone impiegate mediante piattaforme e garantire la protezione dei loro dati personali, nel rispetto dei principi di trasparenza, proporzionalità e non discriminazione, ponendo la questione della dignità del lavoratore non più solo in termini di garanzia sociale, ma come questione di potere informativo e di controllo dei processi decisionali automatizzati.
Tale articolazione teleologica trova espressione in due basi giuridiche distinte: da un lato, l’art. 153, par. 1, lett. b) e par. 2, lett. b) TFUE, che fondano la competenza dell’Unione in materia di politica sociale e condizioni di lavoro; dall’altro, l’art. 16, par. 2 TFUE, relativo alla protezione dei dati personali, segnalando così la propria natura ibrida, a cavallo tra diritto del lavoro e diritto della persona nella dimensione digitale.
3.1. Ambito di applicazione e presunzione di subordinazione
L’ambito di applicazione della direttiva è deliberatamente ampio. Essa include “tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali che hanno, o che sulla base di una valutazione dei fatti si ritiene abbiano, un contratto o un rapporto di lavoro” (art. 1), richiamando esplicitamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea[18]. L’art. 2, in particolare, supera la distinzione formale tra lavoratore subordinato e autonomo, facendo prevalere la sostanza del rapporto sul nomen iuris attribuito dalle parti o dalle prassi nazionali[19]. È un punto di svolta concettuale: la direttiva abbandona il paradigma dell’autonomia contrattuale come criterio esclusivo di qualificazione, riconoscendo che nel contesto digitale l’asimmetria di potere economico e informativo tra piattaforma e lavoratore può produrre situazioni di dipendenza di fatto, a prescindere dal titolo formale del rapporto.
In tale prospettiva, l’art. 5 introduce la presunzione iuris tantum di subordinazione: qualora emergano elementi fattuali indicativi di direzione o controllo – secondo il diritto nazionale, i contratti collettivi o le prassi in vigore – si presume che il rapporto sia di lavoro subordinato, salvo prova contraria da parte della piattaforma. Si determina così un’inversione dell’onere della prova che costituisce una delle innovazioni più significative dell’intero impianto normativo. Essa sposta il baricentro dell’accertamento giuridico dal dato formale al dato sostanziale, attuando il principio del “primato della realtà” già affermato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) nella Raccomandazione n. 198 del 2006 sul rapporto di lavoro.
In chiave comparatistica, tale soluzione appare coerente con una tendenza che, pur con intensità diverse, attraversa gli ordinamenti nazionali: quella di valorizzare l’effettività delle condizioni lavorative rispetto alla forma giuridica del contratto. Tuttavia, la direttiva si spinge oltre, trasformando un orientamento giurisprudenziale in una regola generale di diritto positivo, comune a tutti gli Stati membri. È questo uno dei passaggi in cui la normativa europea mostra la sua vocazione di armonizzazione ascendente, orientata a garantire un livello minimo uniforme di tutela anche nei sistemi tradizionalmente più liberali o meno inclini all’intervento regolativo.
3.2. La gestione algoritmica e la tutela dei dati personali
Il secondo asse portante della direttiva è rappresentato dal Capo III, dedicato alla “gestione algoritmica”. Qui l’Unione affronta la questione del rapporto tra automazione decisionale e diritti fondamentali della persona. L’algoritmo, che governa il reclutamento, la valutazione delle performance e la cessazione dei rapporti di lavoro, assume le vesti di un nuovo soggetto regolatore, un potere che, pur non umano, incide sulla libertà e sull’eguaglianza dei lavoratori.
La direttiva interviene per ricondurre tale potere entro i confini della trasparenza e della responsabilità giuridica, imponendo ai datori di lavoro – e dunque alle piattaforme – obblighi specifici di informazione, valutazione e supervisione umana[20]. Viene anzitutto previsto l’obbligo di informare in modo chiaro e comprensibile i lavoratori circa l’utilizzo di sistemi automatizzati di monitoraggio e di decisione (art. 9). Inoltre, il datore deve condurre regolarmente, e in ogni caso ogni due anni, una valutazione d’impatto sul trattamento dei dati personali e sugli effetti che tali sistemi producono sulle condizioni di lavoro (art. 10). Tale valutazione, ispirata al modello della data protection impact assessment del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), assume però qui una funzione più ampia: non solo prevenire abusi, ma garantire la parità di trattamento e impedire che l’algoritmo divenga strumento di discriminazione indiretta.
Particolarmente significativa è l’introduzione del principio della supervisione umana sulle decisioni algoritmiche, che segna il tentativo di riaffermare la centralità della persona in un contesto produttivo dominato dall’automazione (art. 11)[21]. L’idea che la decisione – in particolare quella che incide sulla posizione lavorativa di un individuo – non possa essere interamente delegata a un sistema automatizzato, costituisce una riaffermazione del principio personalistico e del nucleo etico del diritto del lavoro europeo.
In tal senso, la direttiva 2024/2831 dialoga con il GDPR ma ne supera i limiti, ponendo la tutela dei dati personali non come fine in sé, ma come strumento di garanzia di diritti sociali e di dignità professionale. Il dato personale, qui, non è più solo elemento di privacy, ma componente costitutiva della soggettività lavorativa: la gestione del dato diventa parte integrante della gestione del lavoro[22].
4. Considerazioni conclusive
La Direttiva (UE) 2024/2831 rappresenta, nel quadro del diritto dell’Unione, un passo significativo verso la costruzione di un ordinamento del lavoro capace di misurarsi con le trasformazioni strutturali introdotte dalla digitalizzazione dei processi produttivi. Essa traduce in termini giuridici l’esigenza, ormai matura, di ricondurre entro il perimetro del diritto del lavoro fenomeni che, per anni, si sono collocati in una zona grigia tra autonomia e subordinazione, tra libertà contrattuale e dipendenza economica.
L’innovazione principale della direttiva consiste nel riconoscimento del ruolo ordinante del diritto anche nei confronti di forme di organizzazione del lavoro fondate sull’intermediazione tecnologica. In tal senso, la presunzione iuris tantum di subordinazione segna un punto di svolta concettuale: essa ricolloca l’attenzione sul dato sostanziale del rapporto, riaffermando che il criterio di qualificazione giuridica deve fondarsi non sull’etichetta formale, ma sulla concreta modalità di svolgimento della prestazione.
Non meno rilevante è la parte della direttiva dedicata alla gestione algoritmica. L’introduzione di obblighi specifici in materia di trasparenza, valutazione d’impatto e supervisione umana mira a ricomporre il nesso tra efficienza tecnologica e garanzia dei diritti fondamentali. L’approccio seguito dal legislatore europeo riflette una concezione del potere datoriale che si evolve, ma non si dissolve: il potere si sposta dal comando diretto alla mediazione algoritmica, ma resta giuridicamente imputabile e, dunque, suscettibile di controllo.
In questa prospettiva, la direttiva non istituisce un sistema normativo autonomo, bensì integra il diritto del lavoro tradizionale, adattandone categorie e strumenti all’ambiente digitale. La disciplina delle piattaforme non è, in tal senso, un corpo estraneo, ma un banco di prova per la capacità del diritto del lavoro europeo di conservare la propria funzione di tutela anche in contesti radicalmente mutati.
Un segnale concreto di tale progresso è offerto dal Capo V della direttiva, dedicato all’effettività delle tutele. Esso impone agli Stati membri di garantire ai lavoratori, anche dopo la cessazione del rapporto, l’accesso a procedure di risoluzione delle controversie tempestive, efficaci e imparziali, nonché il diritto di ricorso con risarcimento adeguato in caso di violazione dei diritti derivanti dalla direttiva, mostrando la consapevolezza che la costruzione di un diritto europeo del lavoro non si realizza solo attraverso l’affermazione di principi, ma anche attraverso la creazione di meccanismi effettivi di enforcement, capaci di tradurre la tutela formale in protezione sostanziale.
Resta aperta, tuttavia, la questione dell’armonizzazione reale tra gli ordinamenti nazionali. È invero la qualità del recepimento nazionale che determinerà in larga misura l’effettività delle tutele introdotte. Sotto il profilo comparato, alcuni ordinamenti hanno già avviato percorsi di recepimento che confermano la funzione armonizzatrice dell’intervento europeo. In Italia, ad esempio, la Legge di delegazione europea 2024[23], entrata in vigore il 10 luglio 2025, recepisce la direttiva 2024/2831 e persegue due obiettivi principali: da un lato, migliorare le condizioni di lavoro introducendo la presunzione di subordinazione quale criterio di qualificazione del rapporto; dall’altro, rafforzare la protezione dei dati personali dei lavoratori, estendendo le garanzie previste dal GDPR al contesto dell’occupazione digitale.
In questo senso, la direttiva 2024/2831 segna una tappa fondamentale nella costruzione del diritto europeo del lavoro digitale, delineando un equilibrio possibile tra innovazione e tutela, mercato e persona. Essa non chiude il dibattito, ma lo inaugura, collocandosi in una posizione intermedia tra uniformazione e coordinamento, tra hard e soft law: la sua forza non risiede soltanto nella normazione, ma nella funzione di orientamento, imponendo agli Stati di confrontarsi con un nuovo paradigma del lavoro e di ripensare i confini tra impresa e persona, tra decisione tecnica e responsabilità umana.
[1] S. Ortino, Il nomos della Terra, il Mulino, 2000, p. 25.
[2] Sul legame tra storia e diritto al lavoro si v. M. D’Antona, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario [1999], in Id., Opere, vol. I, Scritti sul metodo e sulla evoluzione del diritto del lavoro. Scritti sul diritto del lavoro comparato e comunitario, a cura di B. Caruso, S. Sciarra, Milano, 2000, p. 265; S. Sciarra, Lavoro, ad vocem, in Enciclopedia italiana. X Appendice – Parole del XXI secolo, vol. II, Treccani, 2021. Più in generale, sulla storicità dei diritti sociali “connessi allo sviluppo storico dei singoli Paesi” si v. S. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo nell’Europa, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1996, p. 872.
[3] Su cui si v., almeno, G. Amato, La Convenzione sul futuro dell’Europa e la Carta di Nizza, in Quaderni costituzionali, n. 3/2020, pp. 629 e ss.; P. Bilancia, La dimensione europea dei diritti sociali, in Federalismi.it, n. 4/2018; S. Giubboni, Modelli sociali nazionali, mercato unico europeo e governo delle differenze. Appunti sulle trasformazioni della costituzione economica comunitaria, in https://www.astrid-online.it/static/upload/protected/Giub/Giubboni-S_Governare-le-differenze_28_08_09.pdf; C. Pinelli, Diritti e politiche sociali nel progetto di trattato costituzionale europeo, in Id., Lavoro e Costituzione, Editoriale Scientifica, 2021, p. 166.
[4] Dal punto di vista del metodo, cfr. A. Pegoraro, A. Rinella, Introduzione al diritto pubblico comparato. Metodologie di ricerca, Padova, Cedam, 2002, p. 3, che sottolineano l’importanza, per un’analisi giuridica, di fissare in primo luogo la domanda cui la ricerca intende dare risposta, o il problema che si intende studiare.
[5] Per i dati, si v. Inps, XXIV Rapporto annuale, 16 luglio 2025, consultabile on line al seguente indirizzo https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiv-rapporto-annuale.html; T. Boeri, G. Giupponi, A. B. Krueger, S. J. Machin, Social protection for independent workers in the digital age, XX Conferenza europea della fondazione Rodolfo Debenedetti, 2018.
Come peraltro evidenziato nel rapporto INPS, è bene tuttavia sottolineare l’approssimazione di questi dati, che mostrano una tendenza crescente, ma che incontrano importanti difficoltà nel “realizzare una mappatura attendibile (…) in ragione della discontinuità di molti profili, ma anche e soprattutto per via della scarsa rendicontazione e della totale assenza di trasparenza”, cfr. A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, 2020, p. 100.
[6] Sul punto si v. S. Kessler, Gigged: the gig economy, the end of the job and the future of the work, Random House, 2018.
[7] Per approfondire si v., ex aliis, V. De Stefano, The rise of the “just-in-time workforce”: On-demand work, crowdwork and labour protection, in ILO C.W.E.S., 2016; Id., Lavoro “su piattaforma” e lavoro non-standard in prospettiva internazionale e comparata, reperibile al seguente indirizzo web https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---europe/---ro-geneva/---ilo-rome/documents/publication/wcms_552802.pdf; M. Faioli (a cura di), Il lavoro nella gig-economy, Quaderni del Cnel, 2018, 3. Sul crowdwork, cfr. in part. A. Consiglio, L’assorbimento dei rapporti di lavoro della gig economy nel diritto privato, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018; R. Krause, “Always-on” – The collapse of the work-life separation, in www.fmb.unimore.it, 2017. Sul lavoro on-demand tramite app, M. Biasi, L’inquadramento giuridico dei riders alla prova della giurisprudenza, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018, pp. 5 e ss.; C. Lazzari, Gig economy, tutela della salute e sicurezza sul lavoro, in Riv. dir. sic. Soc., n. 3/2018, p. 456.
Per completezza, anche se non tutti concordano circa la sua inerenza al lavoro tramite piattaforma, è opportuno menzionare il cd. asset rental, che consiste nell’affitto o noleggio di beni e proprietà, secondo i principi della sharing economy. In questi casi la prestazione lavorativa, se c’è, è accessoria, si pensi ad esempio al proprietario di un appartamento in affitto su AirBnb che cura anche l’accoglienza e le pulizie finali.
[8] B. Fabo, J. Karanovic, K. Dukova, In search of an adequate European policy response to the platform economy, in Transfer: European Review of Labour and Research, 2017.
[9] Cfr. M. Faioli, Jobs “app”, gig economy e sindacato, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, n. 2/2017, pp. 291 e ss.; nonché lo studio del Parlamento europeo “The platform economy and precarious work”, reperibile online in https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2020/652734/IPOL_STU(2020)652734_EN.pdf.
[10] Su tali condizioni lavorative si v. EU-OSHA, Digital platform work and occupational safety and health: overview of regulation, policies, practices and research, report disponibile online al seguente indirizzo https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/49a265d4-b0a3-11ec-83e1-01aa75ed71a1/language-en.
[11] Sul punto si v. J. Prassl, Humans as a service. The promise and perils of work in the gig economy, Oxford, 2018.
[12] Sul punto si v. C. O’Neil, Weapons of math destruction: how big data increases inequality and threatens democracy, Crown, 2016; B. Saetta, Il potere degli algoritmi sulle nostre vite, in Valigia Blu, 9 marzo 2019.
[13] Cfr. A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo, cit., p. 52.
[14] Per approfondire si v. A. Aloisi, V. De Stefano, Testa bassa e pedalare? No, i lavoratori di Foodora meritano rispetto, in Linkiesta, 11 ottobre 2016; G. Pacella, Il lavoro nella gig economy e le recensioni on line: come si ripercuote sui e sulle dipendenti il gradimento dell’utenza?, in Labour & Law Issues, vol. 3, n. 1/2017, pp. 3 e ss.
[15] J. Healy, D. Nicholson, A. Pekarek, Should we take the gig economy seriously?, in Labour & Industry: a journal of the social and economic relations of work, vol. 27, n. 3/2017.
[16] Cfr. F. Zorzi Giustiniani, La direttiva (UE) 2024/2831 relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro mediante piattaforme digitali e la dichiarazione dell’unione europea relativa a un’intesa comune sull’applicazione del diritto internazionale nel cyberspazio, in Nomos. Le attualità nel diritto, n. 3/2024, p. 1.
[17] Cfr. la proposta della Commissione del 9 dicembre 2021, COM(2021) 762 final 2021/0414(COD), su cui si v. T. Orrù, Brevi osservazioni sulla proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, in Giustizia Insieme, 8 febbraio 2022.
[18] Sul punto, I. Cendret, Progetto di Direttiva Ue per la tutela dei lavoratori tramite piattaforma digitale: la necessaria revisione per raggiungere un compromesso tra gli Stati membri, in ius.giuffrefl.it, 2 maggio 2024. Amplius, sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, si v. da ultimo C. Hießl, Case Law on Algorithmic Management at the Workplace: Cross-European Comparative Analysis and Tentative Conclusions, in SSRN, 16 aprile 2025, disponibile online al seguente indirizzo https://ssrn.com/abstract=3982735 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3982735.
[19] Si v. G. Bergamaschi, H. Bisonni, Rider: primo sguardo alla Direttiva europea di prossima pubblicazione e stato dell’arte, in Lavoro Diritti Europa, n.4/2024, p. 5.
[20] Cfr. F. Zorzi Giustiniani, La direttiva…, cit., p. 3.
[21] Si v. D.T. Kahale Carrillo, La mejora de las condiciones de trabajo sobre las plataformas en la Uniòn Europea: consideraciones a la gestion algoritmica (salud y prevencion), in Revista de Investigacion de la Catedra Internacional Conjunta Inocencio III, n. 17/2023, p. 38.
[22] Cfr. EU-OSHA, The EU Directive on platform work: improvements and remaining challenges related to occupational safety and health, 24 ottobre 2024, disponibile online al seguente indirizzo https://healthy-workplaces.osha.europa.eu/en/publications/eu-directive-platform-work-improvements-and-remaining-challenges-related-occupational-safety-and-health.
[23] Legge 13 giugno 2025, n. 91 “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti normativi dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2024”, che ha delineato i principi e i criteri per il recepimento della direttiva (UE) 2024/2831.
Foto di Javier Perez Montes via Wikimedia Commons.
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