ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista alle correnti. Giuliano Caputo, Unicost
di Riccardo Ionta
Deriva e scarroccio. L’imbarcazione subisce uno scostamento e la rotta effettiva non coincide più con quella necessaria. Deriva è l’effetto della corrente, massa in movimento verso una direzione sotto il filo dell’acqua, difficile da percepire in assenza di punti di riferimento. Scarroccio è l’effetto del vento, viene da una direzione battendo sulla superfice emersa, ed è sufficiente sentirne la forza. Correnti e venti possono perturbare la navigazione, sfavorirla. Possono anche, tuttavia, favorirla sospingendo l’imbarcazione nel giusto senso. Dipende dalla direzione delle forze, dal loro combinarsi, dalla consapevolezza di chi naviga.
Giustizia Insieme è un’endiadi, uno spazio di libertà per la giustizia e il pluralismo, e nel momento in cui la magistratura è trascinata dalle correnti e battuta da plurimi venti, ha posto delle domande a quattro magistrati, (al momento dell’intervista) componenti di vertice dell’A.N.M., eletti per Area (Luca Poniz), Unicost (Giuliano Caputo), Autonomia e Indipendenza (Cesare Bonamartini), Magistratura Indipendente (Paola D’Ovidio).
Venti e correnti, prima o dopo, passano. E in una lunga traversata, prima o dopo, altri e altre ne ritornano. In ogni caso, l’importante è aver ben chiara la destinazione, conoscere sia i venti, sia le correnti, ed avere comunque un buon governo del timone.
La quarta e ultima intervista è a Giuliano Caputo (Unicost).
La terza intervista a Paola D’Ovidio (Magistratura Indipendente): https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1192-intervista-alle-correnti-paola-d-ovidio-magistratura-indipendente
La seconda intervista a Cesare Bonamartini (Autonomia e Indipendenza): https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1188-intervista-alle-correnti-cesare-bonamartini-autonomia-indipendenza
La prima intervista a Luca Poniz (Area): https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1182-intervista-alle-correnti-luca-poniz-area
Sommario: 1. Perugia - 2. Populismi - 3. Le correnti - 4. C.S.M. - 5. A.N.M. e C.S.M. - 6. Pesi e contrappesi - 7. Pubblici ministeri e A.N.M. - 8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale - 9. Le elezioni dei Consigli Giudiziari - 10. Futuro Prossimo.
1. Perugia
L’indagine di Perugia è un’indagine su ipotesi di reato di un ex consigliere del C.S.M. sfociata in un’inchiesta sul “dietro le quinte” del C.S.M.? Perché L’A.N.M. ha chiesto la trasmissione integrale degli atti dell’indagine di Perugia?
Lo scorso anno l'indagine di Perugia ha rivelato l’esistenza di accordi, presi al di fuori della sede istituzionale del CSM, aventi ad oggetto alcune nomine in uffici giudiziari (prevalentemente Procure della Repubblica) intervenuti tra un consigliere superiore uscente, a sua volta aspirante alla nomina di Procuratore Aggiunto a Roma, due parlamentari e cinque consiglieri in carica. Si trattava di un gravissimo episodio di interferenza nella fisiologica operatività del CSM ed è stato all’origine della recente espulsione di Palamara dall’ANM.
Oltre alla reazione immediata e ferma contro il gravissimo tentativo di condizionamento, l’ANM ha da subito individuato nelle degenerazioni del correntismo e nello sfrenato carrierismo il retroterra che ha consentito il verificarsi di quella assoluta distorsione, indicando alcune possibili aree di intervento già nel deliberato del 5 giugno 2020.
Dalla lettura dei primi atti di indagine, pubblicati sui giornali, è emersa poi la sussistenza di ulteriori condotte, sicuramente meno gravi, ma preoccupanti per la loro diffusione, relative ad interessamenti e impropri contatti tra lo stesso Palamara (che, peraltro, non era più consigliere superiore) e numerosi aspiranti a posti o incarichi. Il successivo deposito dell’Hard disk del suo telefonino e la pubblicazione delle chat da parte della stampa ha consentito di verificare l’esistenza di numerosissimi altri contatti di quella natura, avvenuti tra il 2017 e il maggio 2019. La trasmissione integrale degli atti, comprensiva delle chat whatsapp, pubblicate solo in parte dai giornali, e già oggetto di accertamenti da parte del CSM e dei titolari dell’azione disciplinare, consentirà di valutare la sussistenza di violazioni del codice etico dell’ANM.
Ma evidentemente non si tratta di questione limitata ad eventuali responsabilità dei singoli, è necessario proseguire nell’analisi complessiva delle distorsioni che sono emerse e predisporre con urgenza dei presidi, non solo normativi, per evitare che continuino a verificarsi.
2. Populismi
L’appello a un’immagine ideale del popolo, incitato a riprendere il ruolo che qualcuno gli ha indebitamente sottratto, è considerata una delle principali caratteristiche dei populismi. Esiste davvero un populismo giudiziario oppure esiste davvero una magistratura onesta e una magistratura disonesta?
Dal punto di vista associativo si è assistito ad una progressiva crescita delle forme di contestazione della rappresentanza che sono una sostanziale proiezione della più generale insofferenza verso i corpi intermedi. Tale fenomeno è stato indubbiamente alimentato dalla degenerazione del correntismo e dalla (spesso motivata e meritata) sfiducia nei confronti dei gruppi associativi che si sono incrociati con un sempre più spinto individualismo e con la pretesa di affermare forme di democrazia diretta in cui ciascuno esprime – magari a distanza, seduto davanti ad un computer – il proprio voto su ogni singola questione rifuggendo ogni possibile spazio di confronto e mediazione. Nella versione più estrema questa deriva si manifesta con pulsioni esclusivamente distruttive, arrivando ad invocare lo scioglimento non solo delle correnti ma della stessa ANM. Credo, invece, che sia necessario far seguire alla critica, anche feroce, ed alle proteste il momento della costruzione e delle proposte. Avremo sempre bisogno di luoghi di confronto e scambio di idee ed esperienze nei quali, pur scontentando qualcuno, si arriva a soluzioni e proposte condivise e frutto della sintesi tra le prospettive, le esperienze e i valori dei singoli. Questa è la vera forza e ricchezza dell’ANM, la capacità di raccogliere e veicolare, attraverso il sistema della rappresentanza, le diverse sensibilità (e anche le diverse esigenze) coesistenti in magistratura, senza ANM ci troveremo di fronte alla rappresentanza dei capi degli Uffici (che hanno inevitabilmente una loro visione strettamente settoriale), dei giudici del lavoro, di quelli tutelari, dei MOT e così via.
3. Le correnti
Le correnti. Sono gruppi di pensiero organizzato, gruppi organizzati di potere o cosa sono?
Le correnti sono state tradizionalmente dei gruppi di elaborazione del pensiero ma - nel nostro sistema di rappresentanza istituzionale, nel quale i gruppi esprimono dei consiglieri superiori di riferimento - hanno gestito anche un potere che probabilmente è aumentato a dismisura con la riforma dell’Ordinamento Giudiziario del 2006. L’aumento dei posti dirigenziali e la possibilità che gli spazi di discrezionalità fossero occupati secondo logiche di appartenenza, hanno probabilmente prodotto uno squilibrio e la netta prevalenza, anche nella percezione dei magistrati, del secondo profilo rispetto al primo. Sono entrato in magistratura proprio in quegli anni e, da quando ho iniziato a partecipare alla vita associativa, ho notato il fenomeno di colleghi, tutti appartenenti alla stessa fascia di età, che partecipavano per alcuni mesi ai momenti assembleari e alle iniziative culturali. Poi, o non avevano ottenuto ciò cui aspiravano e se ne andavano via in modo anche polemico, o lo avevano ottenuto e, in ogni caso, sparivano.
La vera sfida che ci aspetta è ora quella di spezzare il legame tra quei due aspetti che devono rimanere diversi e separati. Uno degli effetti paradossali di questo sistema è che anche i tanti direttivi e semidirettivi che sono stati nominati esclusivamente per merito (e noi tutti ne conosciamo tanti), anche quelli che non hanno alcuna storia di partecipazione alla vita delle correnti, sono indicati e suddivisi secondo criteri di appartenenza e spesso ho sentito chiedere, senza ricevere ovviamente risposta, a quale corrente appartenevano o quale corrente li aveva sostenuti.
4. C.S.M.
Il C.S.M. è titolare di molteplici poteri discrezionali - non solo riguardo alle nomine - nelle cui sfuggenti dinamiche si insinuano le derive correntizie, anche perché i magistrati interessati non godono di forme di partecipazione. E’ necessario ridurre i poteri, la discrezionalità? E’ sufficiente implementare la trasparenza del potere e le forme di partecipazione?
La trasparenza delle procedure e delle decisioni è un aspetto fondamentale dei sistemi democratici e realmente partecipati ma evidentemente non basta. Il vero tema è quello delle modalità di esercizio del potere discrezionale che avrebbe dovuto garantire la valorizzazione del merito e, invece, è stato un patrimonio inestimabile sostanzialmente dilapidato per effetto delle degenerazioni del correntismo.
Il presupposto di partenza è che è davvero complicato, se non impossibile “misurare” i magistrati e compararli tra loro secondo parametri oggettivi (tanto che fa sorridere la proposta di introdurre algoritmi). Questa irrinunciabile ricchezza della magistratura italiana, comporta però che spesso ci si ritrovi a decidere tra profili equivalenti - magari tutti eccellenti, pur nella loro diversità - e la scelta venga guidata da criteri di pura appartenenza.
Ma la vera crisi del sistema si verifica nei casi, purtroppo non infrequenti, in cui prevale un aspirante molto più giovane proveniente da una chiara e riconoscibile militanza associativa o direttamente dal fuori ruolo. Sono gli episodi che hanno generato la vera crisi del sistema e prodotto l’effetto paradossale di rendere discutibili e contestabili da parte dei pretermessi tutte le nomine, anche quelle sulle quali c’era oggettivamente poco da obiettare.
Allora è necessario limitare gli spazi di discrezionalità valorizzando l’esperienza concretamente maturata negli uffici giudiziari, reintroducendo le fasce di anzianità e ponendo un limite temporale alla possibilità di presentare domande dopo il rientro dal fuori ruolo.
Un confronto aperto deve essere fatto anche sulla proposta, che ritengo condivisibile, di prevedere uno stop dopo aver svolto un incarico direttivo o semidirettivo, per cui, per tre o quattro anni, si torna a fare il giudice o il pubblico ministero. Una soluzione di questo tipo, oltre a frenare la continua rincorsa alle nomine, tornerebbe a far sembrare esclusivamente un servizio l’assunzione di incarichi di carattere organizzativo.
Anche di fronte alla profondissima crisi in corso, continuo ad essere contrario all’ipotesi di sorteggiare i consiglieri superiori perché lo ritengo un modo per sottrarsi alla responsabilità della scelta dei propri rappresentanti e perché credo che il sorteggio non sia neppure in grado di prevenire le distorsioni alle quali abbiamo assistito (anzi potrebbe addirittura produrne di peggiori). Si potrebbe, invece, ragionare sulla possibilità, proprio in considerazione del fatto che spesso arrivano in comparazione candidati dal profilo difficilmente distinguibile, di sorteggiare direttivi e semidirettivi in una terna individuata dal CSM.
5. A.N.M. e C.S.M.
A.N.M. e C.S.M. rappresentano la stessa sostanza sotto forme diverse?
ANM e CSM sono, o almeno dovrebbero essere, evidentemente, molto diversi tra loro. La degenerazione del sistema correntizio ha indubbiamente prodotto un’impropria sovrapposizione e una deleteria osmosi tra associazione e istituzione con frequenti candidature al CSM di componenti del CDC (rispetto alle quali è stata approvata una modifica statutaria che introduce l’incompatibilità) e con la conseguenza che le elezioni per l’ANM sono state spesso vissute come un modo per acquisire e consolidare un consenso ritenuto funzionale per le successive elezioni del CSM.
La coesistenza dei due profili all’interno dei gruppi associativi ha spesso portato ad assumere, anche in ANM, posizioni che tenevano conto delle dinamiche e degli equilibri consiliari.
È necessario trovare un modo per evitare che tale sovrapposizione, che produce spesso solo effettivi negativi, continui.
6. Pubblici ministeri e A.N.M
Perché i vertici dell’A.N.M. sono quasi sempre ricoperti da pubblici ministeri?
In realtà credo che sia una tendenza degli ultimi anni legata alle due Giunte succedutesi dal 2008 al 2016. Negli ultimi 4 anni anche diversi giudici hanno ricoperto la carica di Presidente e Segretario Generale. Il fenomeno in parte è casuale ed in parte è legato alla maggiore flessibilità dell’organizzazione del lavoro dei Pubblici Ministeri. Le cariche rappresentative comportano la necessità di fronteggiare numerosi impegni, spesso anche non programmabili con anticipo, nella sostanziale assenza di esoneri dal lavoro (assenza di esoneri che ritengo pienamente condivisibile, perché l’esperienza associativa, deve essere un sacrificio aggiuntivo senza mai sembrare un modo per sottrarsi al lavoro giudiziario).
In ogni caso la Giunta Esecutiva Centrale – e ancor prima il CDC – hanno una composizione che garantisce un’ampia rappresentanza non solo delle diverse funzioni ma anche delle provenienze territoriali, delle dimensioni dei distretti e dei singoli uffici, delle stesse generazioni della magistratura.
Trovo, però, davvero una strumentale forzatura quella di parte dell’avvocatura associata che ritiene che questa prevalenza nei ruoli rappresentativi dei Pubblici Ministeri sia una valida ragione per supportare la riforma della separazione delle carriere. Probabilmente è il segno della debolezza delle altre ragioni addotte a sostegno di una riforma alla quale, prescindendo dalle posizioni ufficiali delle rappresentanze dell’avvocatura, neppure molti avvocati credono.
7. Pesi e contrappesi
La realizzazione degli scopi statutari sembra richiedere all’A.N.M. di attivarsi anche, e forse soprattutto, nel controllo dell’organo di autogoverno. E’ mancato questo controllo?
Nel corso di questo CDC abbiamo discusso anche di questo profilo. Io ho espresso sempre ferma contrarietà all’idea di istituire in ANM un “Tribunale delle nomine” che potesse, di volta in volta, sindacare le singole decisioni del CSM. Si sarebbe risolto in una sorta di giudice amministrativo anticipato che avrebbe espresso – non si capisce bene sulla base di quali parametri e sempre con il rischio di ricadere in logiche e contrapposizioni di appartenenza – apprezzamento o disapprovazione. È, invece, fondamentale che l’ANM abbia un ruolo di impulso, proposta e anche critica rispetto a temi di carattere generale e questioni di più ampia portata e che lo faccia senza ripetere gli schemi e gli schieramenti che si verificano al Consiglio.
8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale
La mancanza di condizioni per l’azione politica - diversamente argomentata da ogni corrente - ha portato al ritiro “politico” dalla G.E.C di praticamente tutti i componenti. Perché, viste anche le annunciate riforme, ciò non ha condotto allo svolgimento immediato delle elezioni del Comitato Direttivo Centrale?
Mi sento responsabile dell’andamento del CDC del 23 maggio 2020 e del suo esito che ha prodotto anche un disastroso cortocircuito comunicativo, restituendo l’immagine di una ANM in crisi e di una Giunta “dimessa”. Alcune fisiologiche diversità non hanno trovato composizione – anche per effetto della estrema difficoltà di comunicare e comprendersi a distanza attraverso gli strumenti telematici – e sono prevalse, temo, delle distruttive pulsioni alla base delle quali c’erano anche egoistiche visioni di parte.
Il 20 giugno 2020, però, il CDC ha conferito un mandato alla Giunta in relazione alla necessità di portare avanti il confronto sulle preannunciate riforme ordinamentali e per l’organizzazione delle elezioni con il sistema telematico.
Sin da marzo provo il disagio di operare in prorogatio rispetto alla fisiologica scadenza del CDC. Si tratta di una situazione derogatoria delle regole delle cadenze del rinnovo della rappresentatività che è indubbiamente aggravata dalla decisione dell’intero gruppo di MI di dimettersi dal CDC.
A maggio è stato necessario prevedere un ulteriore rinvio al mese di ottobre in considerazione dell’emergenza sanitaria ancora in atto e della difficilmente prevedibile evoluzione della stessa e, nel successivo CDC, è stato deciso di ricorrere, per la prima volta, al voto con il sistema telematico che garantirà, in ogni caso, lo svolgimento delle elezioni anche nel malaugurato caso di una nuova emergenza epidemiologica. Per apprestare il voto telematico è però necessario curare una serie di passaggi preliminari – a partire dal completamento e dall’aggiornamento della banca dati dei soci aventi diritto al voto – che richiedono dei tempi minimi per essere effettuati in modo che il sistema sia poi a prova di errori e disguidi e l’organizzazione – che è già partita e rispetto alla quale abbiamo cercato di contenere al massimo i tempi – richiede almeno nove o dieci settimane collocando, inevitabilmente, il primo momento utile di svolgimento delle elezioni dopo la pausa estiva.
Al di là delle elezioni credo anche che la presentazione dei candidati e dei loro programmi rappresenti un momento fondamentale ed irrinunciabile e, sebbene ci sia una forte crisi e disaffezione nei confronti dell’ANM, mi auguro cha da settembre possano essere organizzati degli incontri finalizzati a farli conoscere e confrontare.
9. Le elezioni dei Consigli giudiziari
In occasione delle elezioni suppletive per il C.S.M., l’A.N.M. ha cercato di favorire un metodo di candidatura svincolato dalle correnti. E per le elezioni dei Consigli giudiziari?
Il pessimo sistema elettorale vigente per il CSM, con il collegio unico nazionale, ha impedito la conoscenza diretta dei candidati da parte degli elettori, attribuendo un peso enorme alle correnti nella selezione e nel sostegno elettorale dei primi e ha favorito anche calcoli che hanno limitato notevolmente il numero di candidati, fino ad arrivare alla vergognosa presentazione di sole quattro candidature (due delle quali in seguito a “cambio funzioni”) per i quattro seggi riservati ai magistrati requirenti. Per ovviare a queste distorsioni, consentite il maggior numero possibile di candidature (che per i due posti requirenti sono state ben 16) e garantire occasioni di presentazione e confronto tra i candidati, abbiamo pensato ad un percorso per le elezioni suppletive. Ora speriamo che quelle distorsioni siano superate dalla nuova legge elettorale del CSM.
Le elezioni dei Consigli Giudiziari, che si svolgono su base distrettuale, non presentano i medesimi inconvenienti in quanto i candidati sono conosciuti nell’ambito del distretto per storia professionale, idee e comportamenti. In queste settimane si discute molto del fatto che le candidature, presentate oltre sei mesi fa, siano riconducibili alle correnti e alcuni ritengono che sia una valida ragione per non votare. Devo dire che, in un’elezione come quella del Consiglio Giudiziario, trovo che questa posizione sia una ingiusta generalizzazione nei confronti dei candidati, indicati tutti come indegni, e sia anche sterilmente distruttiva in quanto si traduce nella rinuncia ad esprimere una propria scelta e ad avere una propria rappresentanza nell’organo locale di Governo Autonomo.
10. Futuro prossimo
Quale futuro si prospetta per le correnti e l’A.N.M.?
Le correnti vivono un prolungato momento di profonda crisi dovuta al prevalere del profilo dell’aggregazione fondata su interessi piuttosto che su idee e valori. Non credo che scioglierle o abolirle sia una soluzione, l’aggregazione è un’esigenza insopprimibile per gli esseri umani e, se dovesse avvenire al di fuori di spazi riconoscibili (con le conseguenti responsabilità), potrebbe dar luogo a qualcosa di simile a centri di potere o lobby. Paradossalmente i fatti del maggio scorso rivelano una debolezza delle correnti che ha consentito accordi “trasversali” raggiunti al di fuori della sede istituzionale e anche con il coinvolgimento di politici.
Nonostante l’ombra rappresentata dalla sempre più ingombrante presenza dell’aspetto della gestione del potere e della formazione del consenso attraverso clientele e scambi di favori, non hanno perso il loro ruolo di elaborazione culturale e di luogo di confronto e scambio di idee tra i magistrati. Molti di noi hanno partecipato ad iniziative culturali o anche agli stessi momenti assembleari.
È necessario che quell’aspetto torni al centro dell’attività dei gruppi associativi perché la sua perdita sarebbe un impoverimento per tutti i magistrati. Per farlo bisogna ripensare il rapporto tra correnti e consiglieri superiori e anche far sì, anche attraverso la modifica di una serie di norme, che questi ultimi nell’organo di Governo Autonomo portino esclusivamente la loro diversa sensibilità culturale e non si trasformino negli sponsor o nei sostenitori a tutti i costi degli appartenenti alla corrente.
La crisi delle correnti ha avuto indubbiamente anche un riflesso negativo sull’ANM che spesso viene percepita come una somma delle prime e non come il luogo in cui ci si confronta, come nella mia esperienza di questi quattro anni è stato, sostenendo la propria diversa visione, prescindendo da logiche di esclusiva appartenenza, ed alla ricerca di una sintesi efficace.
L’ANM continua ad essere la “casa comune” di tutti i magistrati ed è un patrimonio irrinunciabile. È sicuramente necessario rilanciare le occasioni di confronto ma è altrettanto necessario che i magistrati partecipino come lo stesso Presidente della Repubblica ha ricordato - sebbene riferendosi agli organi di Governo Autonomo - parlando di un dovere di partecipazione per i singoli magistrati.
La partecipazione è la migliore forma di controllo diffuso ma, mentre alle assemblee dello scorso giugno, nel momento dello sconcerto, dello sdegno e anche della rabbia, centinaia di magistrati hanno partecipato alle assemblee indette in tutta Italia, a quelle per l’individuazione dei candidati alle suppletive erano decine, alle successive assemblee (anche a quelle per le modifiche del codice etico) erano ancora meno.
Tra i magistrati, soprattutto tra quelli più giovani, c’è ancora, però, una forte istanza di partecipazione e l’auspicio è quello che torni forte soprattutto nel momento in cui si tratta di discutere di proposte e prospettive.
Falcone e quella notte al Consiglio Superiore della Magistratura (secondo capitolo)
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Stefano Racheli
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG,12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l'opinione pubblica, la politica ed il CSM.
Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario. Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1988 consumata all'interno del plenum del CSM.
Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni. Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti. La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana. I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.
La spaccatura che si profilò all'interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall'appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo "culturale" con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.
Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo quell'episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.
In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.
La seconda intervista è del Cons. Stefano Racheli, già Sostituto Procuratore presso la Corte d'Appello di Roma, membro togato del CSM nel quadriennio 1986-1990 e componente della Commissione Nazionale Bioetica.
[In calce, la lettera scritta da Giovanni Falcone in data 30 luglio 1988, indirizzata al Consiglio Superiore della Magistratura e al Presidente del Tribunale di Palermo]
1) Il contesto ed il clima nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricordi?
Racheli: Ho ben presente il senso di vivo disagio che – almeno per quanto mi riguarda – veniva in essere ogni qualvolta, direttamente o indirettamente, si affrontava un “caso Palermo”. C’era la sensazione che nulla fosse come sembrava; che le motivazioni addotte dai vari “schieramenti” coprissero – o potessero coprire – motivazioni reali assai diverse; che le divisioni interne a taluni schieramenti potessero essere apparenti e meramente strategiche. Insomma tutto mi si muoveva intorno, al punto che la decisione da prendere somigliava alla soluzione di un’equazione con cento incognite. Per risolverla non c’era altro da fare che semplificarla, decidendo in base al noto e mettendo da parte tutte le voci che – vere o false – appartenevano al mondo dell’indimostrato o addirittura dell’indimostrabile. Il noto era che Falcone era un magistrato eccezionalmente capace in materia di mafia; che già in passato (Procura Marsala) avevamo premiato la specifica professionalità; che Meli non aveva svolto, neppure per un giorno, le funzioni di giudice istruttore.
2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?
Racheli: Non ho idea del ruolo svolto dal presidente della Repubblica. Per quanto concerne l’opinione pubblica, non mi sembra che essa ebbe un ruolo di rilievo: dal mio punto di vista mi sembrò sostanzialmente assente, fatte le dovute eccezioni. Diverso è il discorso per ciò che concerne le correnti e i partiti (le varie posizioni possono essere desunte dal verbale della seduta del CSM in data 19 gennaio 1988, agevolmente ritracciabile su internet). Difficile decifrare taluni comportamenti. Taluni (PCI, PSI) erano chiaramente schierati a favore di Falcone, ma altri (DC) erano divisi, anzi “divisissimi”: Mirabelli e Pennacchini si astennero (Mirabelli, vicepresidente, per prassi si asteneva in ogni votazione), Ziccone votò pro Falcone, Lapenta votò a favore di Meli. Anche Magistratura democratica si divise: solo Caselli votò a favore di Falcone, mentre Paciotti e Borrè votarono per Meli. Si distinse particolarmente, nell’operare pro Meli, Vincenzo Geraci di Magistratura Indipendente (si veda sul punto quanto riferisce Luca Tescaroli nel suo “Obiettivo Falcone”, pag.35 ss.), fatto questo di non facile interpretazione, atteso che Geraci aveva lavorato con Falcone ed aveva avuto con lui rapporti di amicizia. Come interpretare siffatti comportamenti? Credo che la risposta debba essere articolata: alcune volte si trattò probabilmente di spinte dell’elettorato locale, altre di pregressi rapporti personali (di lavoro) con Falcone, altre ancora – forse – rispondevano ad input delle forze di referenza (palesi o occulte) ovvero a mere esigenze di tatticismi correntizi. Naturalmente è impossibile dare una risposta definitiva: le motivazioni reali dei singoli voti rimangono in gran parte relegate al regno delle ipotesi se non addirittura delle illazioni. Quel che sicuramente può dirsi e che si intravedeva e si percepiva un mondo oscuro che si muoveva nell’ombra; un mondo tanto più minaccioso quanto più indefinibile e impenetrabile.
3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?
Racheli: Il CSM di cui feci parte fu eletto con collegio unico nazionale. Le vicende conseguenti ai mutamenti legislativi in materia di elezioni del CSM mi sono dunque meno note nel loro concreto attuarsi. Posso solo dire che sicuramente la tornata elettorale (cui partecipò – obtorto collo, se ben ricordo - anche Giovanni Falcone) fu sfavorevole ai magistrati noti a livello nazionale e purtuttavia relegati e legati alle logiche localistiche che non sempre coincidevano con il consenso di cui detti magistrati godevano a livello nazionale.
4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricordi qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?
Racheli: Rinvio al verbale della seduta del CSM cui ho già accennato. Posso riferire con precisione quanto mi riguarda. Come ho sopra evidenziato fu di somma difficoltà decodificare le varie voci che giravano, poco importa se messe in giro ad arte o invece fondate. Si trattava di “chiacchiere” del più svariato tenore: basti pensare che, tra le voci correnti, c’era anche chi riconduceva gli accadimenti e la valenza della decisione da prendere ad una crescente rivalità tra Falcone e Sica (poi nominato Alto commissario per il coordinamento alla lotta alla criminalità mafiosa) che sarebbero stati, rispettivamente, referenti del SISDE e del SISMI (questa voce è stata ripresa da Maurizio Torrealta nel suo libro “Quarto livello” edito nel 2011, e da Luca Tescaroli, nel citato “Obiettivo Falcone, pag. 32 ss.) . Tutte “chiacchiere” che non facilitavano certo il compito di chi era chiamato a decidere. Ritenni dunque, come già detto, di “semplificare l’equazione” attenendomi a quanto da me pubblicamente dichiarato in campagna elettorale (che non avrei riconosciuto la c.d. disciplina di corrente in materia di valutazione dei magistrati) e ai fatti noti e indiscutibili. Il fatto noto e indiscutibile, nel caso di specie, era che il divario professionale specifico tra Meli e Falcone era sommo e tale da giustificare (come già aveva giustificato la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala) la non applicazione del criterio dell’anzianità. Ciò soprattutto da parte di chi (il CSM) ogni giorno si riempiva la bocca di questione nazionale (la mafia), di lotta senza quartiere alla criminalità mafiosa, etc. etc.
5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e) quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?
Racheli: Valeva all’epoca il criterio dell’anzianità senza demerito. Credetti (e credo tuttora) che fosse implicito nella regola che la “storia professionale” del candidato non dovesse essere tale da rendere evidente la sua inidoneità - rispetto ad altro concorrente - a ricoprire il posto in questione. Se, in ipotesi, aspirano al posto di Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Vattelappesca due candidati dei quali uno (il più anziano) ha svolto sempre (senza demerito) funzioni civili e l’altro sempre (e con massimo merito) funzioni requirenti penali, non vedo quale problema ci sia a preferire quest’ultimo. Nel caso di Falcone, gli fu preferito Meli che non aveva mai svolto funzioni di giudice istruttore.
6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato ti senti di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio dell’autogoverno della magistratura?
Racheli: A questa domanda ho, in parte, già risposto. Aggiungo alcune considerazioni. Con riferimento alla vicenda-Falcone credo occorra evitare alcune posizioni che, semplificando l’accaduto, risultano in definitiva forvianti.
Innanzitutto bisogna comprendere che è molto diverso leggere l’accaduto con gli occhi di allora e con gli occhi di oggi. Oggi sono accaduti fatti (in primis, la strage di Capaci e l’uccisione – strettamente legata all’attentato di Capaci – di Paolo Borsellino) che consentono ipotesi e valutazioni in allora impossibili. Tanto premesso, c’è da dire che occorre evitare una posizione (che oggi ben può considerarsi minimalista) secondo cui la tragica fine di Falcone non fu che l’atto finale dell’azione vindice di una banda di malfattori mafiosi. Che non si trattò solo di una vicenda mafiosa non lo dico io o i tanti che – cognita re – commentarono l’accaduto. Lo dice la Direzione Investigativa Antimafia nella relazione del 10.8.1993 (la si può leggere in G. Capaldo, Roma mafiosa, Fazi editore, 2013). Si afferma in detta relazione: “(…) Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza operativa di ‘cosa nostra’. Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa”.
Dunque, secondo la D.I.A., c’è un livello delinquenziale ulteriore e diverso da quello mafioso: “un gruppo che” prosegue la relazione “in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari (come, ad esempio, hanno avuto le brigate rosse) si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata”. Tanto per essere chiari considero fatto grave e significativo (e, per alcuni versi allarmante) che nessuno sia stato chiamato a rendere conto, a chi di dovere, di affermazioni che non avvengono nel contesto di una chiacchierata al bar, ma in sede altamente istituzionale (la relazione è diretta, per il tramite del Ministro dell’Interno, al presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari). Quali sono i fatti e i nomi che consentono di ipotizzare – anche (soprattutto?) con riferimento alle stragi di Capaci e di via D’Amelio – un ruolo svolto da “finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti “(è sempre la relazione che parla)? Comunque sia dobbiamo dare per acquisita la certezza che vi furono forze occulte antagoniste all’opera di Giovanni Falcone che costituiva una “gravissima minaccia sia per la mafia sia per quanti, a vario titolo, fossero ad essa collegati” (così la relazione sopra citata). Un “collegamento” che operò anche nel caso dell’eccidio di via D’Amelio, riconducibile, afferma la D.I.A., ad un salto di qualità posto in essere “da ‘cosa nostra’ e dagli altri poteri ad essa collegati”. Se dunque l’azione di Falcone fu contrastata (anche) da uno schieramento-fantasma (le “menti raffinatissime” di cui parlò Falcone), sempre intravedibile tra le pieghe degli accadimenti (significativo il titolo del libro “I misteri dell’Addaura…ma fu solo Cosa Nostra?” di Luca Tescaroli) è difficile ipotizzare che questo schieramento sia rimasto inerte in un momento-clou come quello che si consumò nel CSM il 19 gennaio 1988.
Se la posizione “minimalista” non è condivisibile, neppure però è accettabile quella “massimalista”, secondo cui tutti coloro che votarono (o si adoperarono perché si votasse) contro Falcone facevano parte di un ben organizzato schieramento, animato da identici intenti: non tutti quelli che viaggiano sul medesimo autobus hanno identica destinazione. Sull’autobus del CSM salirono passeggeri eterogenei: chi – è lecito ipotizzarlo – pilotato dall’humus cui faceva riferimento la relazione della D.I.A. sopra citata; chi abbarbicato, per fini pseudo-garantistici, al criterio dell’anzianità; chi convinto in cuor suo della validità della nomina di Falcone, ma legato mani e piedi alla c.d. disciplina di corrente. Ecco: le correnti. Su di esse occorrerà spendere alcune parole. Le correnti amavano (ed amano) fregiarsi di Giovanni Falcone, ma non amavano Giovanni Falcone: era troppo intelligente, libero di mente, per nulla proclive alle liturgie e alle gerarchie di corrente, aperto al nuovo (incarnava, con tutta evidenza, il detto eracliteo “i cani, non gli uomini abbaiano alle novità”). Giovanni Falcone rappresentava il meglio della magistratura e ciò non gli ha giovato perché, come è noto, la moneta cattiva scaccia quella buona. La maggioranza dei magistrati si riteneva più garantita nelle proprie aspirazioni da criteri oggettivi che non da criteri meritocratici. La miopia delle correnti fu quella di sacrificare Falcone sull’altare dei calcoli elettoralistici: il voto, come la pecunia, non olet.
7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni. Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semidirettivi?
Racheli: Sono troppo lontano dalle dinamiche dell’ANM e del CSM per esprimere un giudizio appropriato. A me sembra – “vicende Palamara” docent – che, a conti fatti, è proseguita la trasformazione dell’iniziale idealità che determinò e giustificò ampiamente la nascita delle correnti (sarebbe opportuno spiegare oggi ai giovani magistrati, ma non solo a loro, la storia del “correntismo”) in mera prassi dell’appartenenza. Non più weltanschauung che si confrontano - e talora si scontrano - al servizio di una giustizia migliore, ma schieramenti dai quali potersi aspettare protezione in cambio della militanza. Vorrei qui osservare come – dall’angolo visuale della storia della magistratura italiana – la mancata nomina (dovrei dire: le mancate nomine: a consigliere istruttore, a procuratore aggiunto, al CSM, etc.) di Giovanni Falcone a consigliere istruttore – epifania di una profonda dissonanza tra lui e la magistratura – segna anche un’occasione perduta per un ammodernamento della “gestione” della magistratura e, ad un tempo, il rafforzamento della logica dell’appartenenza cui sopra accennavo. Di fronte ad una società dove tutto cambia e si dissolve in tempi brevissimi, la scelta compiuta dal CSM il 19 gennaio 1988, rappresentò non solo una somma ingiustizia nei confronti di Falcone e una incredibile insensibilità rispetto alle esigenze di quella che viene chiamata “lotta alla mafia”, ma anche un atto di cecità rispetto ai rinnovamenti imposti dai mutamenti epocali in corso.
Uno strumento utile: le schede tematiche del dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte edu.
di Guido Raimondi
La pubblicazione, lo scorso mese di maggio, sul sito del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, della scheda tematica (Factsheet) sulla “materia costituzionale”[1] è una buona occasione per attirare l’attenzione dei lettori di Giustizia insieme su di un aspetto particolarmente importante del sistema europeo di protezione dei diritti umani istituito con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (in seguito: la Convenzione), cioè quello, per l’appunto, dell’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo.
Se ci si accorda a ritenere questo sistema europeo di tutela come il più efficace esistente al mondo tra tutti quelli messi in piedi dopo l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel 1948, la ragione di questa convinzione, che non è seriamente contestata da alcuno, risiede principalmente nel carattere vincolante delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, stabilito dall’art. 46 della Convenzione, e nel meccanismo di sorveglianza sulla corretta esecuzione delle sentenze, competenza quest’ultima che la stessa Convenzione – sempre all’art. 46 – affida all’organo di direzione politica del Consiglio d’Europa, il Comitato dei ministri, formato dai ministri degli affari esteri dei Paesi membri del Consiglio d’Europa o dai loro delegati.
Quella della sorveglianza sulla corretta esecuzione delle sentenze è l’unica competenza che residua al Comitato dei ministri nell’ambito del funzionamento del sistema di tutela della Convenzione. Nel periodo precedente all’entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla Convenzione, nel 1998, spettavano al Comitato anche poteri decisionali dei ricorsi, quando non vi erano le condizioni per l’intervento della “vecchia” Corte europea dei diritti dell’uomo.
A prima vista, il riconoscimento di questa competenza in materia di esecuzione delle sentenze ad un organo politico potrebbe sembrare una scelta più “debole” di quella della Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo del 1969, che affida il compito di vegliare sulla corretta esecuzione delle sentenze alla stessa Corte di San José di Costarica.
In realtà, le cose non stanno così, perché il diretto coinvolgimento nella fase dell’esecuzione dell’insieme degli Stati, e quindi della loro responsabilità collettiva, garantisce meglio il puntuale assolvimento degli obblighi che derivano dalle sentenze.
In questo quadro, assume una notevole importanza il Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, cioè la struttura burocratica che assiste il Comitato dei ministri nelle sue funzioni di cui all’art. 46 della Convenzione. Si tratta di una unità dipendente dalla Direzione generale dei diritti umani e degli affari giuridici del Consiglio d’Europa le cui dimensioni sono molto cresciute negli ultimi anni, formata da giuristi di grande esperienza. L’affidamento a questa struttura dei compiti di preparazione delle decisioni del Comitato dei ministri impedisce che quest’ultimo organo si muova in base a logiche puramente politiche. Lo status dei funzionari-giuristi che preparano le decisioni, infatti, è di piena indipendenza rispetto agli Stati. Non solo essi non ricevono istruzioni da questi ultimi, ma, in quanto funzionari internazionali, hanno il dovere di non richiederle. Naturalmente sarà sempre possibile al Comitato orientarsi politicamente, ma i termini tecnici delle questioni sono fissati in modo obiettivo dal Segretariato, il che riduce drasticamente lo spazio per determinazioni di tipo politico pregiudizievoli rispetto al fine ultimo della tutela dei diritti umani.
L’esecuzione di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che spetta a ciascuno Stato interessato, appunto sotto la sorveglianza del Comitato dei ministri, comprende diversi aspetti.
Innanzitutto, vi sono le misure individuali che riguardano la vittima di una violazione dei diritti umani constatata dalla Corte. Se quest’ultima ha disposto in favore del ricorrente, ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, una soddisfazione pecuniaria, spesso assortita dal rimborso delle spese di lite, normalmente con la previsione di un interesse moratorio, il Comitato dovrà accertare il corretto pagamento da parte dello Stato interessato di tutte le somme in questione. Inoltre, il Comitato dovrà verificare che lo stesso Stato abbia preso tutte le misure consentite dal proprio ordinamento per consentire la c.d. restitutio in integrum, cioè il collocare per quanto possibile la vittima nella stessa situazione nella quale essa si trovava prima della violazione del suo diritto.
La competenza del Comitato dei Ministri si estende poi alle c.d. misure “generali”, che lo Stato è tenuto a prendere quando la sentenza della Corte riveli che la violazione constatata riflette un problema di natura, per l’appunto, generale o sistemica, problema che richiede un intervento di tipo legislativo, o anche più complesso, comprendente misure, anche materiali, di vario genere. Questa situazione si presenta tipicamente nel caso delle c.d. sentenze “pilota”, che per definizione si riferiscono a problemi “sistemici” di uno Stato. Esempio molto noto di questa fattispecie è la sentenza Torreggiani c. Italia del 2013, relativa al problema del sovraffollamento carcerario, in risposta alla quale le autorità italiane hanno adottato un “pacchetto” di provvedimenti di varia natura, incluse modifiche legislative. Un esempio di misura generale che si è risolta con la semplice adozione di un provvedimento legislativo è quella presa in seguito alla sentenza Oliari c. Italia del 2015 sulle unioni tra persone dello stesso sesso con l’approvazione da parte del nostro Parlamento della c.d. legge Cirinnà.
Non è inutile ricordare che spetta al Comitato dei ministri sorvegliare anche la corretta esecuzione dei regolamenti amichevoli conclusi sotto l’egida della Corte.
L’azione del Comitato dei ministri è basata sull’idea della “sorveglianza continua”. Dal momento in cui le sentenze definitive della Corte o le decisioni relative a regolamenti amichevoli giungono al Comitato, i casi sono iscritti all’ordine del giorno di quest’ultimo e vi rimangono finché il Comitato dei ministri non decide di chiuderne l’esame adottando una risoluzione finale. Ciò avviene quando il Comitato accerta la piena esecuzione da parte dello Stato interessato e delle misure c.d. individuali e delle c.d. misure generali.
La prassi del Comitato si è evoluta negli ultimi anni. Ora, a partire dal 2009, a meno che non si tratti di casi “semplici”, per i quali l’unica conseguenza della sentenza o del regolamento amichevole è il pagamento dell’”equa soddisfazione”, gli Stati che sono destinatari di una sentenza di “condanna” della Corte sono tenuti a presentare un piano d’azione e, se necessario, un bilancio d’azione. Il primo comprende le misure che lo Stato ha adottato e intende adottare al fine di eseguire la sentenza della Corte e deve includere un calendario indicativo delle azioni da intraprendere. Il secondo è un documento nel quale lo Stato interessato deve indicare le misure infine adottate per eseguire la sentenza o, se del caso, le ragioni per le quali a suo giudizio non sono necessarie particolari misure di esecuzione. Il piano ed il bilancio d’azione devono essere depositati dagli Stati appena possibile dal momento in cui la sentenza della Corte diviene definitiva e in ogni caso non oltre sei mesi da questo momento.
A partire dal 2011, il controllo del Comitato dei ministri si esercita con due modalità: la sorveglianza ordinaria, o standard, e la sorveglianza rafforzata.
Quest’ultima è la modalità seguita per i casi che richiedono una speciale attenzione, come quelli che implicano l’adozione di misure individuali urgenti, le sentenze “pilota”, quelli che si riferiscono a problemi strutturali o particolarmente complessi, e i casi interstatali. In questi casi il Comitato incarica il Segretariato di svolgere un ruolo attivo, fornendo allo Stato interessato assistenza nell’elaborazione dei piani d’azione e nella loro messa in pratica, pareri di esperti sulle misure da adottare, o anche programmi di cooperazione bilaterale o multilaterale per casi che riguardano questioni complesse. Non sono esclusi strumenti di pressione politica, che possono prendere la forma, in crescendo, di lettere del Segretariato, del Presidente del Comitato dei Ministri, o di risoluzioni interinali del Comitato.
Nei casi, invece, nei quali si ricorre alla sorveglianza ordinaria, si suppone che sia lo Stato in autonomia ad occuparsi delle misure da prendere, e il Comitato si limita a verificare che i piani e i bilanci d’azione siano depositati nei termini previsti.
Vi è una limitata possibilità di partecipazione alla procedura del ricorrente, cui la regola n. 9 § 1 del Regolamento del Comitato per l’esecuzione riconosce la facoltà di inviare al Comitato qualunque informazione concernente il pagamento dell’equa soddisfazione o l’adozione di misure individuali, e di ONG e istituzioni nazionali per la protezione dei diritti umani, alle quali la regola 9 § 2 dello stesso Regolamento concede di inviare comunicazioni. Di recente, a partire da gennaio 2017, questa possibilità è stata estesa alle organizzazioni internazionali intergovernative, alle loro agenzie e organi (regola 9 § 3) e alle istituzioni o organi che sono stati parte della procedura davanti alla Corte con un intervento di terzo (regola 9 § 4).
Con l’entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla Convenzione, nel giugno 2010, Protocollo che ha modificato tra l’altro l’art. 46 della Convenzione, due nuove competenze sono state attribuite al Comitato dei Ministri che può ora, in ogni caso con una maggioranza qualificata di due terzi dei suoi membri, da una parte richiedere alla Corte di interpretare una sentenza al fine di facilitarne l’esecuzione e, dall’altra, chiedere sempre alla Corte di constatare l’inadempimento di uno Stato che rifiuti di eseguire una sentenza. Quest’ultima competenza è stata esercitata dal Comitato dei Ministri nel caso Ilgar Mammadov c. Azerbaijan, sentenza del 22 maggio 2014, caso nel quale, contro il parere dello Stato interessato, la maggioranza del Comitato riteneva che la sentenza, che aveva constatato la violazione dell’art. 5 della Convenzione sulla tutela della libertà personale, implicasse il dovere per lo stesso Stato di liberare il ricorrente. La Corte ha confermato l’inadempimento dell’Azerbijan con sentenza del 29 maggio 2019. Infine, la Corte suprema di questo Stato vi ha dato esecuzione, ordinando la liberazione del ricorrente, con decisione del 23 aprile di quest’anno 2020.
Tutte le attività alle quali si è fatto cenno in questo breve scritto sono descritte nel sito del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo[2].
Tra i documenti reperibili su quest’ultimo sito si segnalano le “schede Paese” (Country Factsheets) e le “schede tematiche” (Thematic Factsheets), una nuova serie inaugurata dalla scheda sulla “materia costituzionale” la cui pubblicazione ha costituito l’occasione di questo intervento.
Le “schede Paese” sono particolarmente interessanti. Se si dà uno sguardo a quella che riguarda il nostro Paese, si può vedere, per esempio, come il caso Torreggiani sul sovraffollamento carcerario, cui si faceva cenno più sopra, sia stato chiuso nel 2016 con una Risoluzione finale[3], essendo il Comitato dei ministri soddisfatto dalle misure prese dalle autorità italiane. Lo stesso è a dirsi per il caso Oliari sulle unioni di persone dello stesso sesso[4], mentre altre delicate questioni, come per esempio i seguiti del caso Nasr e Ghali c. Italia, sentenza del 2016, meglio noto come caso Abu Omar, cioè la extraordinary rendition che ha interessato l’Imam di Milano, sono tuttora oggetto di una sorveglianza rafforzata.
Ora la scheda tematica sulla “materia costituzionale” inaugura una nuova serie informativa che si preannuncia di grande interesse per gli studiosi e per i pratici.
Le schede tematiche presentano una selezione di sviluppi legislativi e giurisprudenziali verificatisi negli Stati membri del Consiglio d’Europa in seguito a sentenze e decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo la cui esecuzione è stata completata sotto la supervisione del Comitato dei ministri. Alcuni casi di particolare interesse sono citati anche se il processo di esecuzione non si è ancora concluso.
La scheda sulla materia costituzionale riporta una serie di emendamenti costituzionali o di interpretazioni di corti costituzionali o equivalenti che sono stati indicati come forme di esecuzione di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nella presentazione della scheda si osserva che uno dei modi più rapidi ed efficienti di assicurare l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo è la loro diretta applicazione da parte delle autorità nazionali, giudiziarie o esecutive, cioè senza necessità di un intervento legislativo. In questo modo, si nota che molte corti costituzionali hanno interpretato la legge nazionale, compresa la Costituzione, in una maniera compatibile con la Convenzione nel contesto dell’esecuzione di una sentenza della Corte europea e che nella maggior parte dei casi, quando questo non è stato possibile, il legislatore è intervenuto, anche a livello costituzionale.
Il materiale è, per l’appunto, suddiviso in due sezioni: la prima dedicata alle modifiche costituzionali e la seconda alle soluzioni giurisprudenziali realizzate direttamente dalle corti nazionali.
La messe di informazioni è notevole ed è di grande aiuto per chiunque voglia approfondire le sue conoscenze sui temi interessati, che sono molteplici, dalla protezione delle persone private della libertà, alle espulsioni, alla libertà di espressione e molto altro.
Si tratta, quindi, di un nuovo strumento particolarmente utile.
Due nuove schede tematiche sono annunciate: una sul dovere di investigazione effettiva e l’altra sulla protezione dell’ambiente. L’auspicio è che la loro pubblicazione non tardi troppo.
[1] https://rm.coe.int/thematic-factsheet-constitutional-matters-eng/16809e512a
[2] https://www.coe.int/en/web/execution/home
[3] Resolution CM/ResDH(2016)28, 8 marzo 2016.
[4] Resolution CM/ResDH(2017)182, 7 giugno 2017.
Il processo civile in fase tre
(note a prima lettura alla legge 25 giugno 2020, n. 70, di conversione del d.l. n. 28 del 2020).
di Franco De Stefano
Con una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale a metà giornata, è convertito in legge, ma con altre modificazioni, il decreto-legge n. 28 del 2020.
Anche per la giustizia civile, quindi, si passa alla fase tre, quella della ripartenza.
Con dubbi, problemi ed esitazioni tutte particolari; ancora una volta col rischio di cedere a tentazioni di formalismo od altri eccessi e soprattutto ad incomprensioni tra gli operatori: che, in questo momento, avrebbero un effetto deleterio cumulativo di cui proprio non si sente il bisogno.
Sommario: 1. L’anticipazione della posticipazione … - 2. Una disciplina transitoria complicata - 3. Altre novità di ordine generale - 4. Una nuova condizione di procedibilità - 5. Il testo vigente: rinvio.
1. L’anticipazione della posticipazione …
Doverosa premessa è l’assoluta novità della situazione e quindi altrettanto doverosa è una complessiva indulgenza verso le sbavature o le incongruenze di una legislazione torrenziale che ha avuto comunque il pregio, sia pure senza porsi troppo problemi di sistema, di far fronte in qualche modo ad un’emergenza epocale. Questo non esime, però, dai rilievi critici anche severi per le ricadute sulla funzionalità della Giustizia, ora che questa – e con essa anche quella civile – si avvia alla sua fase tre, quella della ripartenza.
Il tumultuoso andamento della normazione di livello primario e secondario di questi giorni meriterà l’attenzione non solo di giuristi pazienti e ricercatori meticolosi, capaci di ricostruire la successione convulsa di disposizioni complesse e pesanti anche solo da leggere (e figuriamoci da interpretare e perfino da applicare in concreto), ma certamente di sociologi e, forse, pure di psicologi del diritto.
La giustizia è passata dall’animazione sospesa, imposta dall’esplosione dell’emergenza nelle sue prime tragiche settimane e dal panico e dallo sgomento che hanno caratterizzato le prime reazioni, alla terapia intensiva: con una scelta probabilmente non propriamente tempestiva, non solo la fase uno fu prorogata di qualche settimana, ma anche la fase due fu riprogettata per una durata maggiorata di un mese intero, dalla fine di giugno 2020 alla fine di luglio 2020, con una concreta saldatura della fase emergenziale al periodo feriale ordinario.
“Contrordine, compagni!” … la posticipazione è soppressa e il termine si anticipa rispetto al posticipo; insomma, si torna alla scadenza originaria della fase due al trenta giugno; e ancora una volta si interviene sul buon vecchio art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 (e subito modificato, il giorno dopo, dal d.l. 28, della cui conversione si sta ora parlando).
Dalla polverizzazione delle risposte all’emergenza in relazione perfino ai singoli uffici giudiziari italiani, connotato saliente dell’organizzazione della fase uno e della fase due, si è passati ad una verticistica e generalizzata valutazione di ritorno alla piena normalità per legge, con la soppressione non solo netta (che era in fondo già prevista, sia pure per una scadenza ancora non prossima e che avrebbe consentito forse una maggiore ponderazione ed elasticità), ma soprattutto improvvisa. Ma non compete a chi scrive una valutazione dell’oculatezza di tali scelte repentine, nonostante la multiforme e diversificata complessità della situazione non solo e non tanto dei singoli uffici giudiziari e quindi delle esigenze della loro operatività in sicurezza per tutti gli operatori (ad iniziare dal personale amministrativo), quanto soprattutto di quelli nel generale contesto nazionale, in cui la fase tre, sia pure con qualche cautela, sembra caratterizzata da un generalizzato “liberi tutti!”.
Dal punto di vista tecnico, il legislatore sfoggia, per la modifica della modifica, la modalità tradizionale della soppressione in sede di conversione.
Infatti, con l’allegato alla legge di conversione si dispone la soppressione della lettera i) del comma 1 dell’art. 3 del d.l. n. 28, ove si prevedeva che “All'articolo 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, sono apportate le seguenti modificazioni: … i) ovunque ricorrano nell'articolo, le parole «30 giugno 2020» sono sostituite dalle seguenti: «31 luglio 2020».”.
Di conseguenza, è ripristinato, quanto a tale aspetto, il testo originario dell’art. 83 del richiamato d.l. n. 28, come convertito dalla l. 27 del 2020.
Viene meno, spirato il termine rianticipato al 30 giugno 2020, ogni potere eccezionale e derogatorio dei capi degli uffici giudiziari di adottare le misure organizzative, “anche relative alla trattazione degli affari …, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.
Viene meno quindi, spirato tale termine (ripristinati i testi originari dei commi 6 e 7 dell’art. 83), il potere di limitare l’accesso agli uffici e l’orario e le modalità di accesso ad uffici e servizi (fino alla chiusura di quelli, tra i primi, che non erogano servizi urgenti), di impartire “linee guida” (vere e proprie discipline di rango secondario, legittimate dalla norma primaria) per fissazione o trattazione (anche a porte chiuse) delle udienze, di prevedere lo svolgimento di alcune tipologie di udienze civili con modalità di collegamento telematico da remoto o perfino con modalità scritte, di rinviare le udienze a dopo il 30 giugno 2020 per i procedimenti non esclusi dalla sospensione secca dei termini propria della fase uno, di disporre la “remotizzazione” delle attività degli ausiliari del giudice.
Le disposizioni processuali impartite dal singolo giudice in via particolare o dal capo dell’ufficio in via generale costituiscono eccezionali norme derogatorie a quelle del codice di rito, di rango secondario o sub secondario, ma autorizzate appunto dalla norma primaria oggi costituita dai commi sesto e settimo dell’art. 83 del d.l. 18; tali disposizioni sono quindi legittimamente adottate, con il solo contemperamento della salvezza dell’effettività del diritto di difesa e del contraddittorio; e la loro violazione ridonda quindi in una nullità processuale, soggetta al relativo regime di rilevabilità e sanabilità (e, comunque, al principio generale per il quale non si ha giammai diritto alla regolarità formale del processo, se non per effettiva lesione del diritto di difesa: Cass. Sez. U. 09/08/2018, n. 20685).
Tali disposizioni, come è reso evidente dall’inconsueta esplicitazione dello scopo della norma fin nel suo testo, sono mirate a “contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attività giudiziaria” ed in particolare ad “evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.
A cascata (ripristinato il testo originario del comma 8), è delimitato al 30 giugno 2020 il periodo di sospensione della “decorrenza” (o, forse più correttamente, anche il “decorso”?) dei termini di sospensione e di decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti organizzativi medesimi; ed alla stessa data (comma 10 dell’art. 83, nel suo testo anteriore al d.l. 28/2020) è rilimitato il periodo di sterilizzazione della durata del processo ai fini del computo della sua durata nei procedimenti ex lege Pinto (legge n. 89 del 2001), come pure è riancorata alla data del 30 giugno la scadenza dell’eccezionale facoltà (di fatto lasciata non operativa per le difficoltà tecniche incontrate) di deposito telematico nel giudizio di legittimità civile.
Si lascia ad apposito commento la disamina delle ricadute penalistiche, a cominciare dalla verifica dell’impatto della rianticipazione sulla sospensione della prescrizione e degli altri termini previsti dal codice di rito penale, ovvero della scadenza delle sessioni di assise.
2. Una disciplina transitoria complicata
La norma transitoria, introdotta al comma 2 dell’art. 1 della legge di conversione, prevede che “[r]estano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dell’articolo 3, comma 1, lettera i), del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28.”.
Ci si chiede quale sia l’impatto di tale disciplina transitoria sulle misure organizzative già adottate e, comunque, sul funzionamento del processo civile nel periodo dal 1° al 31 luglio, non più coperto dalla previsione normativa quanto meno dei commi 6 e 7 dell’art. 83 del d.l. 17/2020: e comunque nell’ottica della necessità di una ripartenza la più sollecita possibile, eliminata ogni connotazione emergenziale fin dal 1° luglio 2020.
Tanto premesso, è legittimo individuare la ratio della disciplina transitoria nella salvezza, per quanto sia possibile, di tutte le attività come già programmate con particolari modalità nel periodo in esame, purché tale connotazione sia stata adottata o indicata in provvedimenti dei capi degli uffici (o sulla base di questi) nel periodo in cui era vigente la lett. i) del comma 1 dell’art. 3 del d.l. 28/2020, cioè fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione, che tale lett. i) ha soppresso.
Può ipotizzarsi il potere del capo dell’ufficio, in base a principi generali dell’ordinamento, di revocare o modificare il proprio precedente provvedimento per adeguarlo alla mutata valutazione del carattere prioritario della ripresa di piena funzionalità dell’ufficio giudiziario: potere che, se orientato alla revoca, dovrebbe potere essere esercitato anche dopo il 30 giugno, mentre al contrario, se indirizzato alla modifica con mantenimento anche solo di alcune delle modalità emergenziali, dovrebbe essere attivato ed esaurirsi prima dell’entrata in vigore della normativa che anticipa la cessazione del relativo potere.
Se questa pare la soluzione auspicabile, semmai in relazione alle peculiarità del contesto in cui il singolo ufficio opera, non si dovrebbe però configurare, proprio in dipendenza della disciplina transitoria in esame, alcun obbligo generalizzato del capo del singolo ufficio giudiziario – e, sulla sua base o di sua iniziativa, del singolo ufficio – di adottare un provvedimento di riadeguamento alla nuova normativa, con nuova specifica regolamentazione delle attività già disciplinate.
In particolare, se un provvedimento del capo dell’ufficio, oppure – su sua delega o su di esso fondato – del singolo giudice civile, ha già disposto, per il periodo tra il 30 giugno ed il 31 luglio, il rinvio di ufficio di udienze o adunanze, oppure una particolare modalità di tenuta delle udienze o delle altre attività decisionali equiparate, è ragionevole pensare che la salvezza di quei provvedimenti comporti la persistente legittimità sia del rinvio che della celebrazione delle une e delle altre con le modalità già stabilite: e tanto a maggior ragione se il provvedimento è stato adottato singolarmente per ciascuna udienza o adunanza, neppure occorrendo, per la salvezza dell’effetto, che di esso sia stata operata la necessaria propalazione mediante comunicazione alle parti (che non costituisce condizione o requisito di esistenza e validità del relativo provvedimento).
D’altra parte, è verosimile pensare che molti degli uffici giudiziari, legittimamente colti di sorpresa dalla rianticipazione, possano avere del tutto opportunamente già organizzato la propria attività per il mese di luglio in applicazione delle misure derogatorie altrettanto legittimamente fino ad ora vigenti ed adottate dal singolo capo dell’ufficio o, su sua delega od autorizzazione, dal singolo giudice.
L'argomento teleologico della norma transitoria è quello di favorire per quanto possibile la funzionalità degli uffici che si sono già organizzati per applicare le misure alternative: revocarle sic et simpliciter sarebbe manifestamente contrario a questa ratio ed alla lettera della disciplina intertemporale, tutte le volte in cui la situazione in cui opera l’ufficio giudiziario in cui sono state previste non è mutata.
Ma la stessa disciplina di rianticipazione e relativa transitoria non dovrebbe consentire una modifica peggiorativa delle misure già adottate, a maggior ragione se implicasse di fatto un ulteriore rinvio o differimento o una maggiore difficoltà nella ripresa: insomma, va perseguito ogni risultato utile per l’effettività della più piena ripresa possibile.
Sarà opportuno allora rinunciare a limitazioni dell’attività che non siano irreversibili o difficilmente reversibili: si pensi alla rianticipazione mediante provvedimento formale di udienze – o assimilate – già rinviate, oltretutto resa difficoltosa dalla necessità di rispettare il diritto di difesa delle parti e l’esercizio delle eventuali facoltà in termini a ritroso.
Ma potrebbe al contrario rivelarsi opportuno conservare l’applicazione di quelle misure alternative di trattazione o di celebrazione, se ed in quanto in concreto funzionali all’espletamento dell’attività giudiziaria in modo più pieno (come, ad esempio, nel caso di uffici giudiziari caratterizzati dalla loro dimensione nazionale e dalla dispersione sul territorio nazionale di coloro che sono chiamati a prestarvi servizio).
Ed in ogni caso sarebbe preferibile una modalità alternativa, per quanto farraginosa ed in qualche caso problematica o complessa o perfino difficile da realizzare in concreto, al rinvio secco e generalizzato: fermo restando che ai singoli operatori del servizio Giustizia è chiesto oggi uno sforzo aggiuntivo, quasi un atto di fede nel recupero della piena sicurezza e funzionalità di tutti gli uffici, presupposto evidente, sia pure non del tutto verificato, della rianticipazione.
Ancora una volta è grande il senso di responsabilità richiesto ai capi dei singoli uffici giudiziari, la cui stagione di legislatori locali del processo volge al termine, col tramonto della fase più drammatica dell’emergenza e quale suo portato: e si vuole confidare che rifuggiranno, come quasi tutti hanno finora fatto, dalla tentazione di improprie ed improvvide fughe nell’inattività totale o in scelte operative sostanzialmente paralizzanti in pregiudizio del servizio della Giustizia che sono chiamati a gestire.
3. Altre novità di ordine generale
Con un’utilità pratica quanto meno dubbia, in relazione ai tempi di concreta estrinsecazione dei relativi effetti, si interviene ancora una volta sul testo del comma 3 dell’art. 83, in tema di cosiddetta fase uno, ormai terminata, ma tuttora idonea a delimitare gli effetti delle misure organizzative proprie della fase due, ormai prossima al suo rianticipato termine: si stabilisce, in particolare, che vanno normalmente trattate le cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile.
A questo punto pleonastica, per le stesse ragioni, è l’ulteriore modifica della lett. f) del comma settimo dell’art. 83, con cui si specifica che “il luogo posto nell’ufficio giudiziario da cui il magistrato si collega con gli avvocati, le parti ed il personale addetto è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti di legge”: soluzione alla quale si sarebbe comunque giunti in via interpretativa, nonostante soltanto per le giurisdizioni amministrativa e contabile il principio fosse stato codificato dai successivi artt. 84 e 85 del medesimo decreto-legge (e non potendo in contrario valere il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, non avendo altrimenti senso alcuno l’abilitazione alla trattazione con quelle modalità, se non fosse stata presupposta la piena equiparazione a quella in udienza.
Ancora meno comprensibile è la ragione di una modifica applicabile solo de futuro per una norma che però ne preveda la validità fino ad una data già decorsa, quale quella apportata al comma 7-bis dell’art. 83, che ora reca un diversamente articolato modello di regolamentazione dei rapporti tra genitori non affidatari di prole per gli incontri protetti: “Fermo quanto disposto per gli incontri fra genitori e figli in spazio neutro, ovvero alla presenza di operatori del servizio socio-assistenziale, disposti con provvedimento giudiziale fino al 31 maggio 2020, dopo tale data è ripristinata la continuità degli incontri protetti tra genitori e figli già autorizzata dal Tribunale dei Minori per tutti i servizi residenziali, non residenziali e semi residenziali per i minorenni, nonché negli spazi neutri, favorendo le condizioni che consentono le misure di distanziamento sociale. La sospensione degli incontri, nel caso in cui non sia possibile assicurare i collegamenti da remoto, può protrarsi esclusivamente nei casi in cui si è in presenza di taluno dei delitti di cui alla legge n. 69 del 2019.”.
Per un apparente difetto di coordinamento con la generalizzata rianticipazione, il nuovo comma 11.1 rimane introdotto senza modifiche (interpolato tra il comma 11 e il comma 11-bis da altra disposizione della medesima legge di conversione); vi si statuisce che fino al 31 luglio (e non al 30 giugno) 2020 “nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione innanzi al tribunale ed alla corte di appello, il deposito degli atti del magistrato ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. È comunque consentito il deposito degli atti di cui al periodo precedente con modalità non telematiche quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti”.
Ancora limitato al periodo della fase due [anche se può essere dubbio, in dipendenza della successione degli interventi normativi, che sia stato anche rianticipato al 30 giugno il termine finale del 31 luglio, introdotto da norma diversa dalla lettera i) dell’art. 3 del d.l. 28, oggi soppressa dalla legge di conversione] è il potere del mediatore di concludere da remoto le sue attività; in particolare, egli, “apposta la propria sottoscrizione digitale, trasmette tramite posta elettronica certificata agli avvocati delle parti l’accordo così formato. In tali casi l’istanza di notificazione dell’accordo di mediazione può essere trasmessa all’ufficiale giudiziario mediante l’invio di un messaggio di posta elettronica certificata. L’ufficiale giudiziario estrae dall’allegato del messaggio di posta elettronica ricevuto le copie analogiche necessarie ed esegue la notificazione ai sensi degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, mediante consegna di copia analogica dell’atto da lui dichiarata conforme all’originale ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.
Infine, è introdotto - mediante un comma 1-bis nell’art. 1 del d.l. n. 28, che (si badi) non prevede alcun termine finale di efficacia ed è quindi sganciato completamente dall’emergenza sanitaria - un nuovo comma 1-bis nell’art. 88 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, del seguente tenore: «1-bis. Quando il verbale di udienza, contenente gli accordi di cui al comma 1 ovvero un verbale di conciliazione ai sensi degli articoli 185 e 420 del codice di procedura civile, è redatto con strumenti informatici, alla sottoscrizione delle parti, del cancelliere e dei difensori tiene luogo apposita dichiarazione del giudice che tali soggetti, resi pienamente edotti del contenuto degli accordi, li hanno accettati. Il verbale di conciliazione recante tale dichiarazione ha valore di titolo esecutivo e gli stessi effetti della conciliazione sottoscritta in udienza.».
4. Una nuova condizione di procedibilità
Con una norma a sorpresa, poi, la legge di conversione introduce di bel nuovo una condizione di procedibilità di cui francamente non si sentiva affatto il bisogno, per la sua efficacia dirompente nel già fragile tessuto della ripartenza della giustizia civile.
Con una tecnica legislativa che suscita dubbi di congruenza linguistica (ma del resto in linea col tecniloquio logorroico del legislatore odierno e soprattutto di quello dell’emergenza), il legislatore della legge di conversione introduce, all’art. 3 del d.l. 28/2020 un comma 1-quater, che a sua volta modifica un’altra norma dell’emergenza, il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, nel quale, dopo il comma 6-bis, che singolarmente è restato l’unico in vigore dell’intero provvedimento (dopo il suo tormentato iter, culminato nella falcidia disposta con d.l. 25 marzo 2020, n. 19), viene aggiunto il seguente: «6-ter. Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda».
La norma dovrebbe risultare la seguente:
- soggetto della proposizione principale: “il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”;
- predicato nominale ed apposizione della proposizione principale: “costituisce condizione di procedibilità della domanda”;
- complemento di stato in luogo figurato della proposizione principale: “nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali”;
- soggetto della proposizione subordinata (relativa): “nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sulla base di disposizioni successive”;
- predicato verbale della proposizione subordinata (relativa): “può essere valutato”;
- complemento di argomento della proposizione subordinata (relativa): “ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
In altri termini: “il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”, costituisce condizione di procedibilità della domanda nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La categoria di controversie in cui è introdotta questa nuova condizione di procedibilità non è agevolmente identificabile a priori, se non per la natura contrattuale dell’obbligazione che esse abbiano ad oggetto; ma, escluse con sicurezza almeno quelle extracontrattuali, i connotati delle controversie assoggettate a quest’ulteriore autentico ostacolo sono molto più sfumati, perché si rifanno al precedente comma 6-bis della stessa norma (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, abrogato quasi per intero dal decreto-legge n. 19 del 2020), il quale, com’è noto, allo stato prevede che “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Norma, a sua volta, di complessa lettura e già oggetto di numerosi interventi e rilievi[1], già qualche prima applicazione giurisprudenziale (ovviamente, di merito e inevitabilmente in sede di provvedimento di urgenza) ne ha correttamente escluso la valenza di generalizzata esenzione del singolo debitore dall’adempimento, limitando il suo effetto alla valutazione degli effetti del mancato adempimento, poi estendendola a tutte le obbligazioni contrattuali, anche se pecuniarie, comunque nel più ampio contesto degli istituti generali della contrattualistica, tra cui l’art. 1467 cod. civ. (e con seri dubbi sull’interazione con le valutazioni di gravità predeterminate dalla legge, come nei casi degli artt. 5 e 55 della legge 392 del 1978, oppure 24, 1525, 1564, 1565, 1668, 1819, 1820, 1878, 1901, 1915, 2286, 2344 cod. civ.).
Il riferimento incongruo di una norma processuale ad una norma sostanziale di così ardua ricostruzione riverbererà in un contenzioso prevedibilmente indefinito le relative problematiche interpretative: sicché, se la norma rimarrà in vigore ed imporrà quindi una complicata fase incidentale (che dovrebbe dar luogo comunque ad una sospensione del processo ed alla fissazione dei termini per procedervi, giammai consentendo una definizione in rito della domanda, in conformità con le soluzioni adottate dalla giurisprudenza di legittimità per altre ipotesi di simili condizioni), sarà buona norma per le parti (e soprattutto per l’attore) in ogni caso sobbarcarsi l’onere della preventiva mediazione tutte le volte che la sua pretesa, se sicuramente contrattuale (ed anche se solo in via subordinata, a questo punto), possa coinvolgere problematiche connesse all’emergenza sanitaria.
In definitiva, se oggetto della controversia è un’obbligazione contrattuale inadempiuta o imperfettamente adempiuta e si può ipotizzare che il debitore invochi, per limitare o escludere la propria responsabilità o anche solo quanto all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati od omessi adempimenti, purché a causa e in dipendenza non già dell’emergenza sanitaria complessivamente considerata, ma esclusivamente del rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19.
A parte il fatto che la norma è in stridente controtendenza rispetto agli orientamenti a gran voce proclamati dal Governo e sollecitati dalla maggioranza degli operatori di Giustizia per la limitazione dei condizionamenti preventivi alla tutela giurisdizionale, si deve prendere atto dell’imposizione di una mediazione probabilmente soltanto defatigatoria a chi già ha dovuto subire le conseguenze dell’emergenza sanitaria, in luogo della rimessione al prudente apprezzamento del giudice di una valutazione ampia ed adeguata delle peculiarità della singola fattispecie.
Ecco che agli interpreti si presenta un altro, assolutamente ultroneo, capitolo del Contenzioso da emergenza sanitaria, che si può temere affliggerà per i prossimi decenni la Giustizia civile italiana.
5. Il testo vigente: rinvio.
Pare utile riportare quello che parrebbe il testo vigente dell’art. 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), risultante dopo la legge di conversione (l. 24 aprile 2020, n. 27) e coordinato con il decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (in attesa di conversione, ma con le modifiche in sede di conversione di questo, secondo quanto risulta al 24/06/2020). Una curiosità: oltre 4.700 parole e non meno di ottantatre disposizioni diverse (con alcuni commi articolati su più di cinque periodi …).
Occorrerebbe un'appendice ad hoc. È meglio allora rinviare al testo dei siti specializzati, in attesa della prossima modifica.
[1] Tra molti, v.: V. Roppo, R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall'emergenza sanitaria all'emergenza economica, in questa rivista, dal 28/04/2020; M. Zaccheo, Brevi riflessioni sulle sopravvenienze contrattuali alla luce della normativa sull'emergenza epidemiologica da Covid-19, in www.giustiziacivile.com;
Juanito Patrone. Essere magistrato, ieri e oggi. E domani?
intervista di P.Filippi e R.Conti
Giustizia Insieme prosegue il suo viaggio nel pianeta giustizia dando la parola a magistrati che hanno lasciato segni tangibili della loro esperienza professionale fino a condizionare il ruolo, la funzione e l’immagine della magistratura.
Juanito Patrone ha accettato di descrivere il mondo nel quale è approdato ed è vissuto. E lo ha fatto con quella serenità, sincerità e schiettezza che chi ha avuto la fortuna di conoscerlo un po’ più da vicino gli riconosce unanimemente.
Le risposte all'intervista sono proprio come lui vere e intelligenti. Anche quando denuncia il malaffare che ammalora il governo autonomo della magistratura riesce a sorridere e a farci sperare in un futuro migliore.
La sua esperienza di magistrato e di esponente di spicco di una delle correnti della magistratura percepita notoriamente come “di sinistra” offre elementi importanti di valutazione a chi vuole farsi un’idea dell’ordine giudiziario aliena da quel ragionare e pensare di pancia che distrugge piuttosto che costruire.
La “scoperta” del diritto sovranazionale che Patrone colloca per lui alla fine degli anni ’90 contiene, in pillole, la risposta al perché del fiorire di tante iniziative “culturali” che hanno via via messo al centro delle riflessioni e discussioni dei giuristi i diritti fondamentali.
L’interrogativo finale al quale Patrone non riesce o non si sente di dare risposta spetta dunque a chi legge riempirlo, forte delle conoscenze e delle memorie di persone come Juanito, all’esperienza delle quali i meno giovani e i giovani non dovrebbero rinunziare anche quando esse dimostrano che il sistema non ha funzionato, che gli ideali sono stati traditi e, in definitiva, che nessuno è perfetto.
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1. Ci piacerebbe che ripercorressi a ritroso il film degli avvenimenti più significativi del tuo lavoro, non tanto con la lente orientata verso la prospettiva personale, quanto in una prospettiva capace di mettere in luce, in modo obiettivo, alcuni temi che oggi ritornano nel dibattito politico e della società quando si pensa al ruolo ed alla funzione del magistrato, alla funzione di garanzia e alla tutela dei diritti fondamentali.
Ho sostenuto gli scritti del concorso nel gennaio del 1979. Un periodo terribile: proprio in quei giorni, mentre ero a Roma, venne assassinato Guido Rossa, non si contavano poi i magistrati uccisi dai terroristi in quegli anni: Tartaglione, Palma, Minervini, Alessandrini, e poi Galli e poi Bachelet ed altri ancora. E i carabinieri, i poliziotti, i giornalisti, gli avvocati. Mario Amato, sostituto procuratore a Roma, impegnato nelle indagini sui gruppi eversivi di estrema destra, venne freddato alla fermata dell'autobus il 23 giugno 1980, il giorno del mio ventottesimo compleanno: ero magistrato da pochi giorni. Non vi erano vere e proprie scorte né particolari cautele, neppure per i colleghi impegnati nelle indagini più delicate e scottanti: alcuni vennero assassinati su mezzi pubblici, altri come Alessandrini per strada, dopo aver accompagnato i figli a scuola, e Galli all'Università ove teneva dei corsi.
Quello era il clima nel Paese ed entrare in magistratura allora aveva perciò un significato ben preciso, era scegliere le istituzioni, la Costituzione, lo stato democratico contro la violenza e l'eversione. Oggi mi è difficile spiegare ai miei figli quel clima, quei giorni, quelle scelte. Genova poi, la mia città, era al centro dell'azione delle Brigate Rosse, era impossibile non imparare a convivere con posti di blocco, perquisizioni, violenze e minacce.
Eppure gli anni '70 sono stati in Italia anche quelli delle grandi riforme democratiche: lo Statuto dei lavoratori, 1970; la legge sul divorzio, 1970; la riforma del diritto di famiglia, 1975; la riforma penitenziaria, 1975; la legge sull'aborto, 1978; la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, 1978; la legge di riforma sanitaria, 1980. L'Italia in 10 anni o poco più era cambiata come mai era accaduto nei decenni precedenti. Per me entrare in magistratura significava anche essere una parte, piccola certo, di quel processo democratico, era una reazione al terrorismo, rosso e nero, era un impegno personale e diretto.
Le mie prime funzioni, per sei anni, furono di pretore mandamentale, un ufficio oggi dimenticato: tenevo udienza di lavoro il lunedì', di civile il mercoledì e di penale in venerdì: il sabato si andava in ufficio, ma non ero mica il solo a farlo: a raccontarlo oggi sembra impossibile questo eclettismo, ma in generale le norme processuali erano più semplici e i casi trattati in Pretura – tranne alcune eccezioni – di non complessa decisione: e poi c'era la nostra gioventù: entravamo in magistratura più giovani di quanto sia possibile fare oggi, ricordo che del mio concorso avevamo tutti, salvo pochi, meno di trent'anni e solo due colleghe avevano già figli.
La mia carriera successiva ? Giudice civile del Tribunale di Genova, sezione fallimentare e dell'esecuzione, poi PM minorile, PM della “Procurina”, sempre a Genova, quindi assistente di studio alla Corte costituzionale, infine alla Procura generale della cassazione e da ultimo un intermezzo di due anni a Parigi come magistrato italiano di collegamento. Per otto lunghi anni sono stato PM disciplinare alla Procura generale della cassazione, un'esperienza che ha cambiato, e non in meglio, la mia considerazione della capacità della magistratura di autogovernarsi senza spirito corporativo.
Non mi sono mai veramente specializzato in nulla, confesso che dopo un po' mi annoio a trattare lo stesso tipo di procedimenti e poi sono sempre stato curioso ed ogni volta mi piaceva ricominciare coi fondamentali di una nuova materia. Non ho neppure mai veramente deciso se sono un civilista o un penalista ed ormai per me il tempo per saperlo è scaduto. Non credo che ai colleghi più giovani sia possibile, oggi, fare tutte le scelte che ho potuto fare io: il cambio di funzioni era più semplice, il modello di giudice - e di PM - era quello di un professionista tendenzialmente adattabile a vari saperi e varie esperienze.
2.L’attenzione ai diritti fondamentali della persona e alle garanzie degli utenti del servizio giustizia in che modo hanno connotato le tue funzioni di giudice del merito e poi quelle di legittimità presso la procura generale della Cassazione?
3.Dagli anni ‘80 ad oggi come è cambiata la società civile, quale la diversa attenzione verso i diritti fondamentali? Quanto ha contributo la magistratura alla sensibilizzare in tema di diritti fondamentali? Quanto gli interventi della Cedu?
Quando sono entrato in magistratura, nel 1980, la nozione di “diritti fondamentali” non era, per quanto io possa ricordare, ancora in uso: piuttosto appariva centrale il dibattito sui diritti costituzionali, il cui pieno riconoscimento era affidato all'allora vivacissima giurisprudenza della Corte ed alle riforme, che alcuni definivano “di struttura”, che prima ho brevemente ricordato.
La società italiana aveva attraversato dagli anni '60 un lungo periodo di trasformazione, economica e non solo, e la giurisprudenza seguiva tali mutamenti sia attraverso le decisioni dei giudici che mediante le questioni che venivano sollevate davanti alla Corte costituzionale. Una caratteristica del tempo era la vivacità delle giurisdizioni di merito, specie dei pretori: alcuni giornalisti inventarono la definizione di “pretori d'assalto” per indicare quegli uffici, e quei colleghi, maggiormente impegnati nella scoperta dei beni collettivi da tutelare, l'ambiente, il territorio, la salute. Ci furono certamente invasioni del campo riservato all'amministrazione, alcuni episodi (evitabili) di protagonismo individuale, qualche forzatura interpretativa. Il dibattito però fu fecondo e fece scoprire agli italiani che la legge poteva essere davvero “uguale per tutti” o, almeno, che qualcuno ci provava a renderla tale.
Si scoprì anche un atteggiamento anticonformistico delle giurisdizioni di merito rispetto alla giurisprudenza della cassazione, che era vista, e giustamente, come il baluardo della conservazione e non solo di quella giudiziaria. Questa forma di disubbidienza diffusa, da parte dei giudici di livello meno elevato, ai vertici ordinamentali e giurisprudenziali della magistratura fu certamente resa possibile dalle leggi cd. Breganze e Breganzone che avevano sostanzialmente abolito la carriera per cooptazione dall'alto verso il basso. Negli anni '80 non avevamo quindi più alcun timore di esprimere una nostra linea giurisprudenziale alternativa (come si diceva allora).
Per far comprendere ai più giovani il clima di quegli anni farò un solo esempio, la tutela della salute nei luoghi di lavoro. L'art. 32 della Costituzione, insieme ad una nuova lettura dell'art. 2087 del codice civile, divennero i canoni interpretativi di disposizioni, peraltro già contenute in testi unici del 1955 e del 1956, che avevano avuto sino a quegli anni una ben limitata applicazione e sostanzialmente solo da parte di organi amministrativi come gli Ispettorati del lavoro. Attraverso interpretazioni sistematiche e – diremmo oggi – costituzionalmente orientate delle norme vigenti si giunse, sia pure a macchia di leopardo sul territorio nazionale, a forme di tutela e prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali sino ad allora impensabili.
Compiere ispezioni sui luoghi ove si erano verificati i più gravi infortuni divenne una prassi in molti uffici, compreso il mio: ricordo ancora lo sgomento e il panico degli addetti alla sicurezza aziendale (il mio mandamento era uno dei più industrializzati d'Italia) quando mi presentavo – senza alcun preavviso - ai cancelli, con un paio di carabinieri e i tecnici della ASL e dell'Ispettorato, dicendo loro che dovevano farmi entrare per eseguire una ispezione; nessuno aveva mai osato tanto ! Il sequestro penale di macchinari e di interi reparti divenne il mezzo per costringere il datore di lavoro ad ottemperare alle misure di protezione e di igiene.
La CEDU la scoprii dopo, quando ero assistente del giudice Fernanda Contri alla Corte costituzionale ed era entrato in vigore, nel 1998, il Protocollo addizionale che, abolendo il preventivo esame dei casi da parte della Commissione, aveva creato un rapporto diretto ed immediato tra il giudice europeo e i ricorrenti. Fu una rivoluzione non solo procedurale, ma soprattutto culturale.
Il mio interesse fu valorizzato dalla Corte e mi venne assegnata la redazione di una prima rassegna interna di giurisprudenza della CEDU. Ricordo in particolare l'incoraggiamento che mi venne da parte, oltre che del giudice Contri, del professor Onida e del professor Neppi Modona. Curai nel tempo anche qualche ricerca di diritto internazionale e di diritto comparato, favorito certamente dalla mia buona conoscenza di francese ed inglese. Ci fu, in parallelo, la battaglia (perché di battaglia si trattò) per mettere al giusto posto nel sistema delle fonti la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, approvata nel 2000 fra mille ostacoli e mille difficoltà e dalla collocazione allora incerta. Ma quante resistenze tra i magistrati ed i costituzionalisti, anche italiani, e quante difficoltà a far riconoscere valore giuridico alla Carta. Fu un periodo molto intenso, che ricordo con piacere, anche perché coincise con la nascita del Gruppo Europa di Magistratura democratica, di cui fui uno dei fondatori. Oggi vedo con grande gioia e soddisfazione che quel lavoro pionieristico ha dato frutti importanti e credo che il riconoscimento della posizione della giurisprudenza delle due Corti d'Europa anche sul piano dei rapporti interni e della tutela di quelli che sono divenuti, a tutti gli effetti, i diritti fondamentali sia un'acquisizione ormai riconosciuta da tutti.
4.Quando sei entrato in magistratura cosa rappresentavano le correnti? Il tuo ingresso in Magistratura democratica e in Medel. Come, quando e perché.
5.Nel 2005 hai assunto la carica di Segretario nazionale di Magistratura democratica, come era la magistratura associata e magistratura democratica quindici anni fa, cosa è cambiato da allora? (Come hai vissuto quell’esperienza?)
Le correnti nel 1980: bella domanda.
Sulla storia della magistratura associata in Italia c'è una biblioteca di saggi e di articoli e non intendo qui ripetere cose già dette e scritte, molto meglio, da altri.
Entrai subito in Md: venivo da esperienze politiche di sinistra e non ci avevo pensato su, avevo aderito sin dai primissimi giorni. Md voleva dire, allora, essere in minoranza, sempre e comunque, non avere prospettive di carriera, rischiare pure qualche azione disciplinare per commenti e prese di posizione non gradite ai capi degli uffici che, a loro volta, erano tutti o quasi di Magistratura indipendente. Ricordo la prima elezione di un componente di Md (era Claudio Viazzi) nel Consiglio giudiziario di Genova che fu vissuta come un grande successo, l'elezione di tre componenti del CSM (su trenta) nel 1981. In Md ho fatto molte cose, il segretario sezionale, il componente del Consiglio nazionale, poi dell'esecutivo e infine il segretario nazionale per due anni, dal 2005 al 2007. Mi dimisi dopo la sconfitta alle elezioni per il Consiglio del 2006: visto oggi, quel risultato sarebbe giudicato buono ma allora perdemmo un consigliere e la cosa non venne ben digerita. Vi fu poi, immediatamente dopo, un contrasto politico serio con la nostra rappresentanza nel Cdc della Anm, in particolare sull'atteggiamento da tenere nei confronti del Ministro Mastella e delle sue proposte di modifica della riforma Castelli-Berlusconi. Capii che il mio tempo era finito e me ne andai.
Quella Md – intendo quella degli anni 80 - non è paragonabile a quella di oggi, che poi non ho neppure capito bene se esiste, visto che ha ceduto ad Area la rappresentanza in Consiglio ed in Anm. Avrete capito che a me l'esperimento della fusione non è mai piaciuto, dietro ad esso a mio avviso stava la voglia di pesare di più numericamente, piuttosto che una vera proposta, culturale prima che politica, ma le cose vanno secondo una loro logica e credo di non aver mai fatto opposizione pubblica ad un progetto che andava avanti per volere della grande maggioranza degli aderenti ai due gruppi. La democrazia va rispettata, solo che non si può imporre una scelta a tutti: col tempo mi sono prima staccato dalla vita associativa attiva e poi, in silenzio, dimesso.
Ad essere franco, ho trovato le ultime esperienze consiliari francamente incomprensibili, visto che non ho più percepito la differenza tra i consiglieri di Area e gli altri, se non su questioni di mera bandiera o di astratto principio, che però lasciano il tempo che trovano: sulle nomine, sui fuori ruolo, sugli incarichi extragiudiziari onestamente mi sono sembrati tutti sullo stesso piano. Non ho però risentimenti né rimpianti, non ho mai fatto domanda per posti direttivi né ho chiesto favori ad alcuno, e sono contento così.
Medel. Il mio primo incontro con l'associazione europea fu casuale: era stata fissata una riunione del Consiglio a Berlino, nel 1998, e Bruti Liberati, rappresentate di Md, aveva chiesto di essere affiancato da qualcuno: sapevo l'inglese e un po' di francese e mi proposi.
Sono stato nella associazione europea sino al 2005, quando sono stato eletto segretario di Md e ancora oggi mi chiedo se non sarebbe stato meglio per me rimanere in Europa. Una volta cessata la carica nazionale, ho ripreso un'assidua attività internazionale: sono stato per sei anni componente del Gruppo di esperti della Commissione europea per le politiche penali, ho lavorato con Eurojust, ho partecipato a seminari, riunioni e congressi un po' ovunque, dalle Azzorre al Kazakistan, passando per il Medio Oriente. Tutto molto interessante e, devo dire, spesso anche divertente, partendo da quella riunione di Berlino che aveva risvegliato in me un sentimento federalista europeo che veniva dalla stessa mia cultura familiare.
6.Correnti e correntismo. Come sono cambiate le correnti della magistratura nel corso della tua esperienza lavorativa? Cosa non è andato ? Cosa si può fare?
7.Partecipare è stato per te un imperativo categorico. Quale il consiglio che riguardo alla partecipazione daresti ad un giovane che entra ora a far parte dell’ordine giudiziario? Riguardo all’esercizio delle funzione se dovessi dare tre suggerimenti cosa suggeriresti?
In questi mesi, in queste settimane, leggo spesso affermazioni del tipo: “occorre ripristinare il merito nelle nomine, basta con correnti e correntismo”, et similia.
A mio modesto avviso non c'è proprio nulla da ripristinare.
Se dovessi elencare le persone manifestamente inadatte o inidonee se non del tutto incapaci che in quaranta anni ho visto nominare a posti direttivi e semidirettivi non mi basterebbe una pagina: solo che un tempo queste nomine erano tutte espressione di un solo gruppo associativo, Magistratura indipendente, che ha avuto la maggioranza in Consiglio, anche assoluta, per molto tempo. Poi è subentrato un asse assai forte di MI con Unicost, quindi alla spartizione hanno iniziato a prendere parte, inizialmente con qualche difficoltà, poi con crescente successo, anche i due gruppi di Md e Movimento per la giustizia.
Dalle intercettazioni sinora note del caso Palamara emerge una realtà che i magistrati italiani conoscono bene, ma della quale – salvo pochissimi - preferiscono non parlare: quella della assoluta discrezionalità, ai limiti dell'arbitrio, che ha il CSM nel decidere le nomine: discrezionalità mascherata da motivazioni fondate su lunghissime ed indigeribili circolari sulle valutazioni di professionalità, sui pareri dei Consigli giudiziari, sulle relazioni dei dirigenti; tutte parole, buone solo a creare motivi per i successivi ricorsi al TAR e a stendere una cortina fumogena su accordi di ogni tipo, leciti e, come si è visto, illeciti. Le condotte che sono emerse non costituiscono una anomalia, qualcosa di estraneo alla storia del consiglio: al contrario si tratta dell'ultima degenerazione – certamente la più grave - di un sistema ampiamente compromesso da molti anni di pratica lottizzattoria e di opacità. I Palamara ed i Cosimo Ferri non vengono da Marte, non sono ultracorpi pronti ad impadronirsi di noi: essi sono il precipitato di un andazzo che dura da lungo tempo, mai seriamente contrastato da alcuno, anche se certamente c'è chi questo sistema l'ha praticato di più, chi di meno: ma nessuno è senza peccato, nessuno lo ha denunciato, almeno da quando anche MD, che era nata con una forte carica anticorporativa, ha deciso che occorreva saltare il fossato ed adeguarsi ai tempi: gli ultimi consigli, da questo punto di vista, sono stati spesso imbarazzanti.
Le circolari poi … esse un giorno valgono ed il giorno dopo vengono derogate, specie per quel che concerne gli incarichi extra-giudiziari e i collocamenti fuori ruolo, il tutto nelle forme del favore di corrente e clientelare e anche qui della più ampia discrezionalità. Discrezionalità che poi, inevitabilmente, è degenerata nel clientelismo, nella richiesta dell'omaggio vassallatico, nella continua necessità di andare a segnalare nel Palazzo di Piazza Indipendenza il proprio caso, la propria situazione meritevole di attenzione: per ottenere un trasferimento, una nomina da quattro soldi, una “gloria da stronzi” (cito da L'Avvelenata di Guccini) o un posto di vero comando. Colleghi per bene, stupiti di non essere stati neppure presi in considerazione nella valutazione in Commissione, si sono sentiti rispondere che “non avevano mica segnalato che erano davvero interessati” a quel posto. Si erano limitati a fare domanda nelle forme previste, gli ingenui.
E chi fra consiglieri ed ex-consiglieri dice “io non l'ho mai fatto, noi eravamo diversi”, mente sapendo di mentire, perché i casi sono due: o l'ha fatto mettendosi d'accordo e usando il vecchio sistema del “questo a te e questo a me”: o davvero non l'ha fatto e non l'ha saputo, ma allora ammette di essere un fesso totale, cui passano davanti agli occhi le pastette senza che se ne accorga.
Non c'è stata un'età dell'oro, della buona fede assoluta, della pulizia morale: ci sono stati periodi diversi della lottizzazione a seconda delle mutevoli maggioranze tra i componenti togati e quelli laici: tutto è distribuito secondo un Manuale Cencelli: dai posti di segretario al Consiglio a quelli alla Scuola della magistratura, dai trasferimenti agli uffici più ambiti sino ai posti di referente per l'informatica o della formazione distrettuale. Da anni, ad esempio, i concorsi al Massimario della cassazione sono oggetto di meticolose spartizioni col bilancino e vengono accompagnate da sucecssive polemiche.
Palamara non ha inventato nulla, solo ha portato un sistema già in atto da tempo alle sue estreme conseguenze. Non sono un appassionato lettore di trascrizioni in genere, ma ciò che mi ha colpito è stato proprio questa totale assenza di prudenza, questo ragionare solo in termini di “noi” e “loro”, questa sfacciata rivendicazione di potere.
Ma già da tempo la magistratura manifestava questa involuzione: in fondo Cosimo Ferri – il quale, non a caso, partecipava quale dominus di MI, ai dopo cena all'Hotel Champagne – da anni raccoglieva valanghe di consensi sulla base di programmi di mera protezione dei singoli ed aveva organizzato micidiali macchine di informazione sui lavori del Consiglio: del resto si è consentito, in difesa di una (per me inspiegabile) necessità di avere sempre e comunque l'unità associativa, di formare giunte con un gruppo, MI, diretto da un … sottosegretario alla giustizia, poi parlamentare: tutti lo sapevano e nessuno diceva nulla.
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