ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La polisemia della “zona agricola” (nota a Consiglio di Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917)
di Marco Brocca
Sommario: 1. Il caso. 2. La posizione del Consiglio di Stato. 3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità. 3.1. La lettura della giurisprudenza. 3.2. La risposta del legislatore.
1. Il caso
Il comune di San Gennaro Vesuviano adotta una variante al P.R.G. che prevede, tra l’altro, la classificazione di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti/appellanti come zona D (“attività produttive”) e zona G (“commerciale-terziaria” e “turistico-recettiva”).
L’amministrazione provinciale, ente preposto secondo la legge urbanistica regionale alla verifica di compatibilità con gli strumenti di pianificazione territoriale sovraordinati e di conformità con la normativa statale e regionale di riferimento, approva la variante stralciando le suddette zone, perché ritenute sovradimensionate e incompatibili con le attività consentite nell’area secondo il regime urbanistico generale oltrechè rispetto agli obiettivi della stessa variante, e le riclassifica secondo la qualificazione originaria, ossia come zona E (zona agricola). Il comune, esaurito il contraddittorio con l’amministrazione provinciale nel quale aveva formulato le proprie controdeduzioni, si uniforma agli indirizzi provinciali e approva la variante con la classificazione delle aree in questione come “agricole”.
Diverse sono le censure mosse dai proprietari delle aree interessate, imperniate essenzialmente su due profili: 1) il ruolo esorbitante dell’amministrazione provinciale, per aver impresso all’area una destinazione diversa rispetto a quella prevista dalla variante adottata; in particolare, si sostiene che l’amministrazione provinciale avrebbe sovrapposto e sostituito le proprie valutazioni a quelle del comune, al quale invece deve intendersi riservata ogni decisione relativa alla pianificazione di livello locale, mentre all’ente sovraordinato spetterebbe un controllo di compatibilità/conformità, da cui esulano valutazioni di merito; 2) la destinazione agricola assegnata alle aree avrebbe un’accezione e una funzione di conservazione del territorio estranee al significato della categoria urbanistica della “zona E” e sarebbe contraria agli indirizzi di pianificazione dell’area e alla strategia di sviluppo del distretto industriale in cui i terreni rientrano, dettata anche dal piano territoriale di coordinamento provinciale.
2. La posizione del Consiglio di Stato
La pronuncia del Consiglio di Stato appare di interesse non solo per le motivazioni della decisione (di rigetto dell’appello), ma soprattutto per il percorso argomentativo seguito, che muove da un significativo excursus degli orientamenti giurisprudenziali in materia, così sintetizzabili:
- le scelte urbanistiche, comprese quelle riguardanti la classificazione dei suoli, sono riservate all’amministrazione e costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, arbitrarietà o irragionevolezza manifeste;
- la destinazione urbanistica impressa a una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano, che risultano nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori; pertanto, l’onere motivazionale degli strumenti di piano risulta attenuato, risolvendosi nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica e nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso;
-l’onere motivazionale si riespande in presenza di situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti, rispetto ad esempio ad una specifica destinazione del suolo; queste situazioni sono ravvisabili nell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In assenza di queste ipotesi, non è configurabile un’aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un’aspettativa generica, analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri alla destinazione più proficua dell’immobile, posizione che è recessiva rispetto alle scelte urbanistiche dell’amministrazione;
- non sussiste una posizione di legittimo e qualificato affidamento nel caso di una previsione, favorevole all’interessato, presente nella delibera di adozione dello strumento urbanistico (piano o sua variante), poi disattesa dalla delibera di approvazione, perché la determinazione relativa all’adozione costituisce soltanto una fase iniziale ed endoprocedimentale del procedimento, suscettibile di condurre alla definitiva formazione della disciplina urbanistica, in presenza della conclusiva approvazione ad opera della competente autorità;
- in materia urbanistica, peraltro, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale;
-nel procedimento di formazione dell’atto complesso-piano o variante, l’ente di secondo livello può, ove non ritenga di approvare o rigettare in toto lo strumento urbanistico adottato, approvare con stralcio ovvero apportare delle modifiche d’ufficio. Si tratta di operazioni ammesse a condizione che l’intervento modificativo non sia di entità tale da alterare l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico e si ritiene che la modifica della destinazione d’uso originariamente prevista non significhi di per sé alterazione dell’impostazione generale del piano. Peraltro, si tratta di soluzioni strutturalmente diverse, perché lo stralcio consiste in un’approvazione parziale del piano che lascia integro ed impregiudicato il potere del comune di riproporre una nuova disciplina urbanistica diretta a completare la pianificazione relativamente alle aree oggetto di stralcio, mentre la modifica d’ufficio comporta una sovrapposizione definitiva della volontà dell’ente di secondo livello a quella del comune, il quale vede estinto il proprio potere pianificatorio;
- in sede di pianificazione urbanistica possono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale, in ragione della primarietà e trasversalità degli interessi di cui all’art. 9 Cost.;
- la suddetta esigenza può tradursi, nel contesto della pianificazione urbanistica, nell’opzione del divieto di edificabilità e nel connesso obiettivo di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi e questa opzione non può escludersi a priori in relazione ad aree ampiamente urbanizzate, che invero si prestano a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale;
- nell’ambito dello strumentario urbanistico la finalità ambientale può essere perseguita attraverso la tecnica della zonizzazione e, in particolare, mediante la categoria della “zona agricola”, “potendo questa essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana”.
In applicazione di questi principi il Consiglio di Stato conclude nel senso di respingere l’appello e confermare la legittimità degli atti impugnati, in quanto l’ente provinciale si è limitato a stralciare le aree interessate, utilizzando dunque uno strumento intrinsecamente inidoneo a comprimere le prerogative comunali; inoltre, la declassificazione delle aree come zone agricole non altera l’impostazione della variante, bensì è coerente con i sottesi obiettivi (tra i quali, è previsto quello di “promuovere l’uso razionale e lo sviluppo ordinato del territorio mediante il minimo consumo delle risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili”), oltrechè con il significato della zona urbanistica E, ormai consolidato in giurisprudenza, di “garantire la preservazione dei valori ambientali e preservare un necessario equilibrio nel rapporto tra aree edificate e spazi liberi”.
3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità
La disciplina delle zone agricole ha conosciuto un’evoluzione del tutto peculiare, progredita secondo diverse linee direttrici che lasciano trasparire un’incertezza concettuale, genetica e mai risolta, del suo oggetto. Un’incertezza di fondo che si è tradotta in notevoli difficoltà applicative dell’istituto, ma anche nell’emersione di accezioni adoperate dalle amministrazioni locali per fronteggiare nuove problematiche legate all’assetto del territorio.
La questione delle aree agricole, affrontata dal punto di vista del diritto urbanistico, risale alla seconda metà del secolo scorso. Se la legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150) trascurava questo ambito, protesa soprattutto a definire un apparato organico di regole costruttive per i centri abitati, sarà la cd. legge-ponte (legge 6 agosto 1967, n. 765) a considerare le aree agricole su un duplice piano: subordinandole all’obbligo di licenza edilizia per le trasformazioni edilizie (art. 10), obbligo prima confinato alla parte urbanizzata del territorio comunale, e qualificandole secondo la tecnica della zonizzazione (art. 17). Da quest’ultima prospettiva rileva infatti la tipizzazione, tra le zone territoriali omogenee, di quella agricola (zona E): questa formalizzazione riflette certamente l’importanza che il settore agricolo rivestiva in quell’epoca nel sistema economico nazionale, ma denota anche il tentativo di rivitalizzare il comparto in un momento di forte industrializzazione e terziarizzazione del Paese. D’altra parte, restava ancora aperta la questione dell’attuazione del disegno costituzionale in tema di tutela della proprietà agricola e di razionale sfruttamento del suolo (art. 44 Cost.), su cui il diritto urbanistico avrebbe potuto fornire un utile contributo. In realtà, la disciplina urbanistica delle aree agricole apprestata dalla legge n. 765/1967 lascia in penombra la questione costituzionale[1], perché è impostata secondo la classica configurazione che vede nell’urbanistica la regolazione delle trasformazioni, anzitutto edilizie, del territorio, con l’effetto che l’agricoltura rileva per le sue implicazioni sul piano dell’edificabilità più che come attività economica in sé da assecondare o valorizzare. È questo il difetto genetico che connota la categoria della zona agricola: il suo nomen evoca indubbiamente il favor verso l’attività agricola, ma il regime connesso è incentrato sull’opzione dell’inedificabilità – o limitatissima edificabilità – del territorio; in altre parole, prevale il significato “negativo” della zona agricola, nel senso della non edificabilità del territorio, piuttosto che l’accezione “positiva” di effettivo svolgimento dell’attività agricola[2].
Questa lettura era considerata coerente con l’impostazione della legge-ponte che aveva sostanzialmente confermato la natura edilizia del piano regolatore comunale[3], definendo le altre zone urbanistiche essenzialmente secondo il parametro costruttivo (centro storico, completamento e espansione edilizia, zona industriale, ecc.).
La dottrina ha acutamente osservato che grazie alla legge-ponte l’interesse di natura agricola entra nel novero degli interessi da ponderare nel procedimento di pianificazione, alla stregua di un “interesse pubblico differenziato”[4] in quanto tale rilevante e condizionante per la disciplina urbanistica e, tuttavia, nell’accezione stretta di promozione delle attività agricole finisce per porsi come interesse “debole”[5], destinato a una tutela indiretta, condizionata primariamente dalle prospettive edificatorie dell’area interessata o da esigenze contingenti.
L’idea che finisce per prevalere è che, tra le diverse destinazioni urbanistiche tipizzate, quella agricola si presta al meglio per imporre limitazioni all’edificabilità, garantendo, per questa via, un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere. Marginale – ed eventuale – resta l’obiettivo di riconoscere e valorizzare la vocazione agricola dei luoghi attraverso la perimetrazione di apposite parti del territorio comunale da destinare, appunto, alle pratiche agricole, obiettivo, peraltro, ulteriormente sacrificato dalla mancata o tardiva approvazione del piano regolatore dalla gran parte dei comuni che per lungo tempo hanno preferito ad esso lo strumento più snello del programma di fabbricazione, il quale si riferisce soltanto alla parte urbanizzata del territorio comunale e, al più, alla sua espansione edilizia[6].
Il nucleo concettuale per cui la vocazione della zona agricola è di sottrarre il suolo a nuove edificazioni ne condizionerà irrevocabilmente l’applicazione e la sua “elasticità” porterà a ulteriori sviluppi. In particolare, l’accezione della zona agricola come “area-limite” all’espansione edilizia si perfezionerà – e si dilaterà – in termini di “area di risulta”[7], opzione che, a sua volta, si declinerà in (almeno) due significati: quello per cui si tratta di area da preservare provvisoriamente nella prospettiva di una futura utilizzabilità in chiave residenziale o industriale[8] ovvero quello per cui l’area è direttamente utilizzabile per interventi che non possono essere convenientemente localizzati in altre zone[9].
Più recentemente si è affermato un ulteriore significato della zona agricola, quello di area servente all’esigenza di preservare i valori naturalistici del territorio. L’accezione muove anch’essa dalla riconosciuta vocazione della zona agricola all’inedificabilità del territorio e fa leva sull’idea che mantenere inedificate certe aree impedisce il consumo del suolo e, simmetricamente, offre alla collettività condizioni di vivibilità e fruibilità delle risorse ambientali. In altre parole, la destinazione agricola di un territorio, implicandone la sua inedificabilità, vale per contenere l’espansione urbana e, per questa via, funge da presidio di tutela del territorio nella sua valenza ambientale.
3.1 La lettura della giurisprudenza
Le diverse linee applicative della categoria urbanistica della zona agricola sono state sottoposte all’attenzione della giurisprudenza, che, sia pure con posizioni non sempre univoche, le ha sostanzialmente avallate.
La giurisprudenza muove dalla consapevolezza della connotazione in senso urbanistico della zona agricola impressa dalla legge-ponte e da questa premessa ricava importanti corollari: anzitutto, che la destinazione agricola assegnata a una determinata area non è ricognitiva di un’utilizzazione o anche solo di una vocazione a fini agricoli dell’area stessa né si risolve, di per sé, in un vincolo all’esercizio dell’attività agricola; quindi, che lo scopo primario della destinazione agricola è di garantire un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere, con l’effetto che essa non è a prioriostativa di qualsivoglia intervento urbanisticamente rilevante.
Seguendo questa impostazione la giurisprudenza maggioritaria adopera un metodo di verifica della concreta compatibilità del progetto rispetto alle caratteristiche dell’area di localizzazione e, più in generale, dell’assetto del territorio: all’esito di questa operazione sono stati ritenuti compatibili con la destinazione a zona agricola progetti di opere quali impianti idroelettrici[10] o di derivazione di acque pubbliche[11], canili[12], attività di cava[13], depositi di esplosivi[14] o di fuochi di artificio[15], discariche[16] o altri impianti di trattamento di rifiuti[17], impianti di produzione di energie rinnovabili[18].
Da altra angolatura, la giurisprudenza ha riconosciuto nella “funzione decongestionante o di contenimento dell’espansione edilizia” propria della zona agricola l’ “interesse alla tutela dei valori naturalistici e paesaggistici del territorio”[19]. Per questo ha ammesso la destinazione agricola di suoli quando essa è dichiaratamente funzionale a garantire “una naturale cintura di respiro ambientale”[20] ovvero “un polmone dell’insediamento urbano”[21] o “corridoi verdi”[22] tra aree ampiamente urbanizzate ovvero aree di “compensazione”[23] o “ripristino”[24] ambientale e ha ammesso la qualificazione come zona E di terreni non aventi propriamente attitudine all’utilizzazione agricola, come sono quelli di alta montagna ovvero quelli boscati[25].
Peraltro, questione preliminare parimenti risolta dalla giurisprudenza è quella dell’utilizzabilità dello strumentario urbanistico per finalità ambientali: lo sviamento di potere, lamentato di frequente dalle parti ricorrenti, è escluso dai giudici i quali, per ammettere la strumentalità del diritto urbanistico alla cura dell’interesse ambientale, richiamano l’art. 9 Cost., dimostrando consapevolezza della portata della disposizione costituzionale, sia nella parte strutturale (per il riferimento alla Repubblica e non allo Stato) sia in quella funzionale (per il riferimento al paesaggio, che evoca anche i beni ambientali).
Per questa via, è confermato il carattere “flessibile” della categoria urbanistica della zona agricola, la sua adattabilità a multiformi esigenze, compresa quella, più recente, di tutela dell’ambiente.
Una reviviscenza dell’accezione in senso propriamente agricolo della zona E si ritrova in quella giurisprudenza che, pur ribadendone il carattere residuale, riconosce la legittimità della scelta dell’amministrazione di prescrivere in via esclusiva l’utilizzo produttivo di tipo agricolo dell’area[26] ovvero di enunciare espressamente la tipologia delle ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole, che possono insediarsi nelle aree così classificate[27], opzioni che si giustificano in virtù dell’ampiezza della discrezionalità che connota il potere pianificatorio. Il carattere ostativo della zonizzazione agricola è legittimato anche in base ad argomentazioni che si fondano sulla natura dell’area, precisamente quando si tratta di un’area agricola di “particolare pregio”, connotazione che deriva per qualificazione giuridica (secondo la disciplina dello strumento urbanistico, comunale o sovracomunale, o direttamente ex lege) ovvero fattuale, come nel caso di aree che hanno una conformazione risultante dall’uso agricolo consolidato da tempo remoto o a seguito di peculiari interventi, come opere di bonifica[28].
Come si vede, la giurisprudenza dà la rappresentazione della multidimensionalità (e ambivalenza) della zona agricola: muovendo dall’impostazione di tipo urbanistico della normativa di riferimento, l’area agricola vale come “area libera”, che si declina nell’accezione di “area di risulta” e in quella, più recente e prevalente, di “area di interesse ambientale”; la connotazione in senso propriamente agricolo ha valenza residuale, che peraltro si riespande quando vi è un’esplicita ed esclusiva determinazione in questo senso da parte strumento urbanistico ovvero deriva dalle peculiari caratteristiche dell’area, formalizzate per qualificazione giuridica ovvero consolidate de facto.
3.2 La risposta del legislatore
La legge-ponte ha avuto il merito di sollevare la questione delle aree agricole e l’esperienza mostra che, emarginata l’impostazione della massimizzazione dell’interesse agricolo, alla connotazione iniziale della zona agricola come area di risulta si è progressivamente affiancata – fino a prevalere – l’accezione di area a valenza conservativa e contenitiva dell’espansione edilizia. Questo orientamento di impronta giurisprudenziale trova riscontro soprattutto nella legislazione regionale, in particolare nelle leggi di ultima generazione sul governo del territorio, che si sono fatte carico di affrontare il tema dei rapporti tra urbanistica e agricoltura, a fronte, come si vedrà, di una persistente anomia a livello statale.
Questa attenzione si traduce in diverse soluzioni. Anzitutto, è recuperato e valorizzato il collegamento del territorio con gli usi prettamente agricoli e questa relazione è proiettata negli obiettivi e contenuti degli strumenti di pianificazione urbanistico-territoriale: così, ad esempio, la l.r. Lombardia (11 marzo 2005, n. 12, “Legge per il governo del territorio”) include tra gli obiettivi della pianificazione comunale «elevati livelli di tutela e valorizzazione delle aree agricole» (art. 7), affermazione da cui discende una rigorosa disciplina delle attività consentite nelle aree agricole. Nelle aree destinate all’agricoltura sono ammesse esclusivamente le opere funzionali alla conduzione del fondo, ivi comprese quelle a finalità residenziale, in ogni caso sono esclusivamente realizzabili dall’imprenditore agricolo (art. 59). Gli interventi edificatori relativi alla realizzazione di nuovi fabbricati sono condizionati alla dimostrazione dell’impossibilità che le medesime esigenze abitative possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente (art. 59) e, dal punto di visto edilizio, necessitano del permesso di costruire, che comporta un vincolo di mantenimento della destinazione dell’immobile al servizio dell’attività agricola (art. 60).
In altri casi la funzionalizzazione dell’attività edilizia alla conduzione agricola dei terreni è sancita in termini prevalenti e non esclusivi, nel senso che è previsto un regime diversificato a seconda della posizione dei soggetti richiedenti. È il caso della regione Toscana, la cui rinnovata legge sul governo del territorio (l.r. 10 novembre 2014, n. 65, “Norme per il governo del territorio”, come modificata dalla l.r. 20 aprile 2015, n. 49) riconosce il mantenimento dell’attività agricola come elemento della «qualità del territorio rurale» e la limitazione della «frammentazione ad opera di interventi non agricoli» vale come una delle linee direttrici per la tutela dell’ambiente e del paesaggio rurale, nonché per il contenimento del consumo di suolo (art. 68). La legge differenzia i regimi di intervento in zona agricola (art. 70 ss.) a seconda che il proponente sia un imprenditore agricolo ovvero altro soggetto, prevedendo maggiori margini di intervento nel primo caso, con l’ulteriore specificazione che alcuni interventi (quelli più pesanti, come le ristrutturazioni urbanistiche, gli ampliamenti volumetrici, le nuove edificazioni connesse alla conduzione del fondo) necessitano di un apposito programma aziendale sottoposto ad approvazione comunale; mentre, nella seconda ipotesi sono possibili soltanto trasformazioni delle aree pertinenziali degli edifici con destinazione d’uso non agricola nonché limitati interventi sui medesimi immobili ovvero la realizzazione di manufatti utili per l’attività agricola amatoriale e per il ricovero di animali domestici. È ribadita la centralità della pianificazione urbanistica comunale, alla quale è rimessa ogni valutazione sull’ammissibilità o meno di determinati interventi, come la costruzione di nuovi edifici ad uso abitativo ad opera dell’imprenditore agricolo mediante il programma aziendale ovvero gli interventi sul patrimonio edilizio esistente in assenza del programma.
Medesima opzione è seguita da altre regioni. Così la regione Veneto, la cui legge urbanistica (l.r. 23 aprile 2004, n. 11, “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”) ammette in zona agricola interventi edilizi funzionali all’attività agricola e ad opera di imprenditore agricolo (art. 44). Gli interventi possono riguardare sia scopi residenziali che agricolo-produttivi e la loro realizzabilità è subordinata all’approvazione di un apposito piano aziendale e alla conformità alle previsioni del piano urbanistico comunale relative alle aree agricole. La norma prevede, peraltro, interventi di recupero di fabbricati esistenti in zona agricola, con ammissibilità di ampliamento per finalità abitativa (comma 5), disposizione che la giurisprudenza[29] ha interpretato restrittivamente, nel senso di escludere l’edificabilità nei confronti di soggetti diversi dall’imprenditore agricolo sebbene proprietari del fondo, cui è seguita un’apposita legge regionale (legge 23 dicembre 2010, n. 30) che ha dato l’interpretazione autentica della norma, precisando che gli interventi previsti dal comma 5 sono ammissibili anche in assenza del requisito soggettivo e dell’onere del piano aziendale.
Un ampliamento a favore dei soggetti diversi dall’imprenditore agricolo, sino a equiparazione delle categorie, ha trovato il varco nell’ambito della legislazione regionale, in particolare in quella, dichiaratamente straordinaria e transitoria in realtà sempre più organica e strutturale, volta al rilancio dell’attività edilizia, sulla scia dell’iniziativa statale delle norme sul cd. piano casa (decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, conv. in legge 6 agosto 2008, n. 133). Nell’ambito di questa disciplina molte regioni hanno esteso l’applicabilità del regime di favor per gli interventi edilizi all’ambito delle zone agricole, intervenendo anche sul piano dei requisiti soggettivi. È il caso della regione Campania (l.r. 28 dicembre 2009, n. 19, “Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa”, modificata dalla l.r. 5 aprile 2016, n. 6), che prevede l’assentibilità della modifica della destinazione d’uso nonché di interventi di ampliamento o di demolizione e ricostruzione di fabbricati siti in zone agricole a prescindere dall’utilizzazione agricola del fondo, come pure dalla qualificazione soggettiva del richiedente, con l’avvertenza che per gli interventi ampliativi e ricostruttivi occorre riservare non meno del venti per cento della volumetria ad uso agricolo. Un profilo in cui si registra una differenziazione di regimi tra imprenditore agricolo e soggetti diversi riguarda la conformità dell’intervento allo strumento urbanistico comunale: si tratta di presupposto necessario e inderogabile, salva l’ipotesi riservata all’imprenditore agricolo di realizzare nuove costruzioni ad uso produttivo nella misura massima di 0,03 mc/mq di superficie aziendale in deroga al piano comunale[30].
Altra opzione riguarda la diversificazione delle aree agricole, in base alle caratteristiche pedologiche, climatiche, agronomiche, alla presenza di colture pregiate o specializzate e di infrastrutture agricole, cui corrisponde una modulazione dei regimi e, generalmente, è prevista la tipizzazione delle aree agricole “di elevato pregio” alle quali è correlato un regime di tutela rinforzata: così la l.p. Trento 4 agosto 2015, n. 15, “Legge provinciale per il governo del territorio” che enuclea dalle aree agricole quelle “di pregio”, per le quali gli interventi modificativi sono ridotti rispetto a quelli possibili nelle altre zone agricole e sono essenzialmente connessi alla produzione agricola, estrapolando, peraltro, dalle aree di pregio quelle caratterizzate dalla “presenza di singolari produzioni tipiche” o “speciale rilievo paesaggistico”, per le quali non è assolutamente ammessa la destinazione a nuovi insediamenti, mediante il meccanismo della riduzione e compensazione possibile per le altre aree agricole (art. 65). Rilevano inoltre la l.r. Umbria 21 gennaio 2015, n. 1, “Testo unico governo del territorio e materie correlate”, che evidenzia tra le aree agricole quelle di “particolare interesse agricolo”, nelle quali sono possibili solo attività agricole, zootecniche e di cava (art. 21) e la già citata legge toscana n. 65/2014, che tipizza le manifestazioni del territorio rurale (aree rurali, nuclei rurali, aree ad elevato grado di naturalità, ecc.) e ammette l’individuazione di peculiari aree, quali le “aree ad elevato valore paesaggistico” e i “paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini agricoli” (art. 64), rinviando agli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica la definizione del regime del patrimonio edilizio e delle infrastrutture esistenti, nonché delle attività e servizi presenti, compresi quelli a carattere non agricolo, in corrispondenza ai diversi obiettivi di qualità del territorio definiti dalla legge.
Generalmente, le leggi urbanistiche riconoscono nel piano comunale la “fonte” della tutela, indiretta e diretta, delle zone agricole. Non mancano ipotesi in cui questa finalità è rinviata a livelli sovraordinati di pianificazione territoriale, anzitutto il piano territoriale di coordinamento provinciale: così, ad esempio, il modello trentino, in cui il piano provinciale è preposto all’individuazione e perimetrazione delle aree agricole di pregio (l.p. Trento, n. 15/2015, art. 23, comma 2, lett. f) e quello toscano, in cui il piano provinciale deve definire il patrimonio territoriale provinciale, con particolare riferimento al territorio rurale (l.r. Toscana, n. 65/2014, art. 90, comma 5, lett. a). Similmente, il modello della regione Lombardia, che rimette al piano provinciale la definizione degli “ambiti destinati all'attività agricola di interesse strategico” e le relative norme di tutela, uso e valorizzazione (l.r. Lombardia, n. 12/2005, art. 15, comma 4).
La progressiva valorizzazione dell’interesse agricolo nel disegno urbanistico ha certamente ridimensionato la classica configurazione delle zone agricole quali aree residuali, utili per molteplici finalità e, tuttavia, questa concezione permane e riaffiora ogniqualvolta emergano peculiari e nuove esigenze localizzative.
Significativa è l’esperienza della diffusione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, fenomeno che ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un notevole sviluppo e che ha trovato nelle zone agricole l’ambito privilegiato di localizzazione. In assenza di un quadro normativo organico, alcune regioni si sono attivate per apprestare una prima regolamentazione. Così ha fatto, ad esempio, la regione Puglia che con legge 21 ottobre 2008, n. 31, “Norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale”, ha vietato la realizzazione di impianti fotovoltaici in alcune aree, tra le quali le “zone agricole di particolare pregio”, così qualificate dagli strumenti urbanistici, dal piano paesaggistico o dalla legge per la presenza di uliveti monumentali. La norma, tuttavia, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale[31], per violazione dell’art. 117 Cost. perché si tratta di materia rientrante nella potestà legislativa concorrente e, all’epoca della legislazione regionale, mancavano le linee guida nazionali per la localizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. L’attuale normativa statale, d.m. 10 settembre 2010, n. 47987, ammette la localizzazione degli impianti nelle zone classificate come agricole dai piani urbanistici, non essendo neanche necessaria la variante dello strumento urbanistico (art. 15, comma 3), al contempo rimette alle regioni la possibilità di qualificare come siti non idonei per la realizzazione di impianti le aree agricole interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico-culturale (art. 17, comma 1).
Esemplare, inoltre, è il caso degli insediamenti commerciali e produttivi, che spesso trovano localizzazione in zona agricola, pur essendo ad essi dedicata altra zona urbanistica (zona D). La normativa di riferimento (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114; d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447) appare estremamente permissiva, in quanto ammette progetti in contrasto con lo strumento urbanistico, la cui approvazione vale automaticamente come variante di esso e l’unica condizione richiesta per l’approvazione è la dimostrazione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato” (art. 5, comma 1, d.P.R. n. 447/1998)[32].
Mantenendo il punto di osservazione sulla normativa di livello statale, può riscontrarsi un rinnovato interesse al tema dell’agricoltura, che tuttavia stride rispetto alla persistente emarginazione della questione delle zone agricole in senso urbanistico.
Dal primo punto di vista, può richiamarsi il filone normativo che promuove l’affidamento dei terreni abbandonati o incolti con la previsione di un vincolo di destinazione agricola. L’idea è di coniugare finalità di cura del territorio, di recupero dell’agricoltura e di promozione di iniziative imprenditoriali, con specifica attenzione all’imprenditoria giovanile. In questo senso si pone, ad esempio, l’art. 66 legge 24 marzo 2012, n. 27, di conversione del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 “Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazioni e infrastrutture”, che sancisce la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola di proprietà statale, con procedure di alienazione o locazione a cura dell’agenzia del demanio; la normativa prevede il diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli e il divieto di mutamento di destinazione urbanistica da quella agricola per un periodo almeno ventennale[33].
Altra prospettiva di interesse è quella che profila un collegamento privilegiato tra il recupero della destinazione agricola dei suoli e l’ambiente urbano. L’idea è che le pratiche agricole, tradizionalmente confinate nella zona esterna del centro abitato, possono produrre molteplici benefici (recupero di aree dismesse e valorizzazione degli spazi pubblici, sicurezza alimentare, cittadinanza attiva, promozione di opportunità di impresa e occupazione) nell’ambito del territorio urbanizzato o nelle immediate adiacenze. È il fenomeno dell’agricoltura urbana e periurbana, di recente attenzione anche da parte del legislatore.
Sono ancora pochi i riferimenti legislativi espliciti: così, ad esempio, la legge 14 gennaio 2013, n. 10, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, che significativamente richiama gli orti tra le soluzioni funzionali all’obiettivo della “realizzazione di aree verdi permanenti intorno alle maggiori conurbazioni” (art. 3, comma 2), nonché la legge 1 dicembre 2015, n. 194, “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare” che cita la realizzazione di orti (didattici, sociali, urbani e collettivi) tra gli obiettivi delle cd. comunità del cibo. Il fenomeno è maggiormente avvertito a livello regionale, in cui risultano approvate alcune leggi ad hoc ovvero singole disposizioni che promuovono queste iniziative[34], mentre a livello locale molte esperienze si fondano su regolamenti comunali monotematici nonché sull’applicazione di modelli di partenariato pubblico-privato, come quelli di cui agli artt. 189-190 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016).
L’approccio di tipo urbanistico al tema delle zone agricole compare nel dibattito, scientifico prima che politico, sul consumo del suolo. La questione muove dalla maturata consapevolezza che il suolo sia una risorsa non inesauribile e non rinnovabile[35] e la sua indifferibilità è avvertita anzitutto a livello comunitario, come emerge da una pluralità di atti, sebbene tutti di soft law[36], essendo fallito il tentativo di approvazione di una specifica direttiva, a conferma della complessità della materia per la compresenza di interessi divergenti.
Questo dato è confermato anche dall’ordinamento statale, che è ancora privo di una legge organica in materia, nonostante i diversi disegni di legge, di iniziativa parlamentare e governativa, presentati nelle ultime legislature. Tra questi, quello che ha conosciuto un iter più avanzato è il ddl n. C.2039 intitolato “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” (che condensa una serie di progetti presentati sin dal 2013), approvato dalla Camera in data 12 maggio 2016. Significativa è la connessione che ispira l’intero provvedimento tra il contenimento del consumo di suolo, che è riconosciuto come “bene comune e risorsa non rinnovabile”, e la salvaguardia della destinazione agricola dei suoli, nonché la priorità del riuso del suolo già edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato[37].
Come detto, il percorso di riforma non si è tuttavia concluso nella precedente legislatura e il testo è stato riproposto nella legislatura attuale. Il ritardo del Parlamento ha portato diverse regioni a farsi carico della questione. Sono state approvate leggi ad hoc[38] o disposizioni integrative delle leggi urbanistiche[39], tutte connotate dallo stretto connubio tra valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo. Le opzioni scelte dalle regioni spaziano dall’ammissibilità di espansione delle aree edificabili in zone agricola subordinata alla verifica dell’assenza di soluzioni alternative, come il ricorso ad altre zone urbanistiche ovvero il riuso del patrimonio esistente (Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Toscana, Trento e Bolzano) ovvero alla dimostrazione del completamento, per una quota significativa, delle previsioni urbanistiche di tipo edificatorio (Friuli-Venezia Giulia), alla predeterminazione delle quote di suolo consumabile (Umbria, Lombardia, Emilia-Romagna), all’aumento considerevole del contributo di costruzione (Abruzzo), alla rinuncia volontaria dei diritti edificatori (Veneto). Generalmente sono previste misure incentivanti, come la priorità nella concessione di finanziamenti, semplificazioni procedimentali, agevolazioni fiscali, riduzione del contributo di costruzione per gli interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana.
Quella delle zone agricole resta una questione insoluta. La flessibilità concettuale può essere utile per assecondare nuove esigenze ed istanze del territorio e l’esperienza dimostra l’attivismo degli enti locali che se ne fanno interpreti attraverso il potere di pianificazione urbanistica e rispetto a queste esperienze la giurisprudenza mostra attenzione e sensibilità. Le applicazioni non sono peraltro sempre coerenti, per questo appare indifferibile una presa di posizione del legislatore. Un legislatore che, tuttavia, resta inerte a livello statale e ondivago[40] a livello regionale, diviso tra finalità di recupero dell’economia agricola e obiettivi di tutela dell’ambiente, ma anche indulgente verso la natura residuale e la vocazione all’edificabilità dell’area agricola, sganciata dai soggetti e dagli usi propriamente agricoli.
[1] G. Morbidelli, La legislazione urbanistica regionale per le zone agricole, in Riv. dir. agr., 1981, p. 55.
[2] F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, p. 86.
[3] P. Urbani, Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell’attività economica, in Riv. giur. edil., 2010, p. 30.
[4] P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. edil., 2006, p. 120.
[5] Ivi, p. 122.
[6] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in L. Costato – A. Germanò – E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario, II, Torino, 2011, p. 599.
[7] Ivi, p. 600.
[8] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, p. 67.
[9] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, cit., p. 601.
[10] Cons. Stato, sez. V, 16 ottobre 1989, n. 642, in Foro amm., 1989, p. 2710.
[11] Trib. sup. acque pubbl.,18 febbraio 1991, n. 7, in Cons. St., 1991, p. 420.
[12] Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cons Stato, sez. VI, 19 febbraio 1993 n. 180, in Foro amm., 1993, p. 482.
[14] Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 1993 n. 968, in Foro amm., 1993, p. 1846.
[15] Tar Lombardia, Brescia, sez. II, 13 maggio 2014, n. 494, in Riv. giur. edil., 2014, p. 831.
[16] Cons. Stato, sez. V, 1 ottobre 2010, n. 7243, in Riv. giur. amb., 2011, p. 289; Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3853, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1496; Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 1996 n. 85, in Foro it., 1996, p. 440; Tar Liguria, Genova, sez. I, 14 dicembre 2016, n. 1237, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 3 dicembre 2018, n. 2711, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4755, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5195, inwww.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 30 dicembre 2008, n. 6600, in Foro amm. CdS, 2008, p. 3354; Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5478, in Riv. giur. edil., 2009, p. 162; Cons. Stato, sez. IV, 25 luglio 2007, n. 4149, in Riv. giur. edil., 2008, p. 360; Cons. Stato, sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4828, in Riv. giur. amb., 2005, p. 95; Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 259, in Foro amm. CdS, 2005, p. 106; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 903 in. www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 23 ottobre 2014, n. 5466, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Valle d’Aosta, sez. I, 2 novembre 2011, n. 73, in Foro amm., 2011, p. 3395; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 6 aprile 2011, n. 105, in Foro amm. Tar, 2011, p. 1186; Tar Veneto, Venezia, sez. I, 31 marzo 2010, n. 1118, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 3 novembre 2009, n. 6825, in Foro amm. Tar, 2009, p. 3239; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 24 giugno 2009, n. 1318, in Riv. giur. edil., 2010, p. 253. In questo senso, anche la giurisprudenza penale: ad esempio, Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2009, n. 39078, in Dir. giur. agr., 2010, 65. Sulle ragioni teoriche a supporto della prassi amministrativa di tutela ‘urbanistica’ dell’ambiente e dell’avallo giurisprudenziale si rinvia a di P.L. Portaluri, L’ambiente e i piani urbanistici, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2015, pp. 247 ss.
[20] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 16 dicembre 2009, n. 2595.
[21] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, cit.; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, cit.; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, cit.; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, cit.
[22] Cons. Stato, sez. II, 31 ottobre 2019, n. 7459, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2459, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, 7 maggio 2020, n. 751, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 898, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cons. Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917, cit.
[24] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, cit.; Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4308, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1683.
[25] Sottolineano il punto F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 86; in giurisprudenza, ad esempio, Tar Lombardia, Milano, sez. II, 13 maggio 2019, n.1065, in Riv. giur. edil., 2019, p. 1093.
[26] Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 43, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, cit.; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, 19 giugno 2008, n. 152, in www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, in Riv. giur. edil., 2012, p. 955.
[28] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, cit.; Cons. Stato, sez. II, 1 aprile 2014, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, cit.; Cons. di Stato, sez. V, 18 settembre 2007, n. 4861, in Foro amm. CdS, 2007, p. 2487; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, cit.
[29] Tar Veneto, Venezia, sez. II, 10 settembre 2007, n. 2988, in Foro amm. Tar, 2007, p. 2739.
[30] È evidente il favor per l’imprenditore agricolo, come peraltro è esplicitato nella finalità enunciata di «adeguare, incentivare e valorizzare l’attività delle aziende agricole» (art. 6-bis, comma 5).
[31] Corte cost., 22 marzo 2010, n. 119, in Giur. cost., 2010, 1324, e 11 giugno 2014, n. 166, in Riv. giur. edil., 2014, p. 927.
[32] Evidenzia che la norma è indice del «carattere intrinsecamente debole del potere urbanistico – specie quando viene in rapporto con interessi forti (quali appunto quelli legati alle grandi reti commerciali) –», F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012, p. 82.
[33] Per una prima applicazione v. il d.m. 20 maggio 2014 (cd. decreto Terrevive). Il sostegno all’imprenditoria giovanile nel settore agricolo è perseguito dal legislatore statale con un’altra opzione, quella di favorire forme di affiancamento nell’attività di impresa agricola dei giovani agricoltori a quelli anziani, allo scopo del graduale passaggio della gestione d’impresa ai giovani: in questo senso il legislatore ha conferito delega al Governo per l’adozione di un apposito decreto legislativo con l’art. 6 d.lgs. 154/2016, delega che non è stata attuata, ma il contenuto dispositivo è stato ripreso dalla legge di bilancio 2018 con la disciplina del cd. contratto di affiancamento (legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi 119-120). Il tema è ripreso a livello regionale, in cui rileva anche quel filone normativo istitutivo delle cd. banche della terra, che implicano un censimento dei beni agricoli (terreni abbandonati, incolti o silenti e fabbricati dismessi), di proprietà pubblica e privata dichiarati disponibili per operazioni di locazione o di concessione: l.r. Toscana, 27 dicembre 2012, n. 80; l.r. Sicilia, 28 gennaio 2014, n. 5; l.r. Liguria 11 marzo 2014, n. 4; l.r. Veneto 8 agosto 2014, n. 26; l.r. Molise, 5 novembre 2014, n. 16; l.r. Lombardia, 26 novembre 2014, n. 30; l.p. Trento, 4 agosto 2015, n. 15; l.r. Abruzzo, 8 ottobre 2015, n. 26; l.r. Campania, 13 giugno 2016, n. 21; l.r. Lazio, 10 agosto 2016, n. 12; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 29 dicembre 2016, n. 25; l.r. Puglia, 29 maggio 2017, n. 15; l.r. Basilicata, 14 dicembre 2017, n. 36. In dottrina v., specialmente, G. Strambi, La questione delle terre incolte e abbandonate e le leggi sulle “banche della terra”, in Riv. dir. agr., 2017, pp. 599 ss.
[34] L.p. Trento 26 gennaio 2018, n. 2, “Istituzione, promozione e finanziamento degli orti didattici in Trentino”; l.r. Liguria, 29 novembre 2018, n. 23, “Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero del territorio agricolo”, art. 3, comma 1, n. 8; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2014, n. 11 “Nome per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, art. 8, comma 2; l.r. Lombardia, 3 luglio 2015, n. 27, “Gli orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti didattici, urbani e collettivi”; l.r. Toscana, 28 dicembre 2015, n. 82, legge finanziaria per il 2016, art. 1 «Centomila orti in Toscana». Sul fenomeno degli orti urbani, v., specialmente, M. Gola, Pianificazione urbanistica e attività economiche. Cibo e spazio urbano: urbanistica e mercati agroalimentari, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2016, pp. 210 ss.
[35] In dottrina si veda, soprattutto, G.F. Cartei – De Lucia (a cura di), Contenere il consumo del suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Napoli, 2014; E. Boscolo, Il suolo quale matrice ambientale e bene comune: il diritto di fronte alla diversificazione della funzione pianificatoria, in Scritti in onore di Paolo Stella Richter, II, Napoli, 2013, pp. 1101 ss.; Id., Beni comuni e consumo di suolo. Alla ricerca di una disciplina legislativa, in www.pausania.it, 2014; P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in www.astrid-online.it/rassegna, 2016; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2020, pp. 421 ss.
[36] Si vedano, ad esempio, Comunicazione della Commissione del 22 settembre 2006, Strategia tematica per la protezione del suolo, COM(2006) 231 def.; Comunicazione della Commissione del 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, COM(2011) 571 def.; Documento di lavoro dei servizi della Commissione del 15 maggio 2012, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, SWD(2012) 101 final/2.
[37] La vocazione agricola dei suoli costituisce interesse primario e diretto del disegno di legge e la sua tutela assume una triplice valenza: il mantenimento della superficie agricola garantisce la produzione agricola utile per soddisfare il fabbisogno alimentare nazionale, nonché la preservazione delle connotazioni paesaggistiche e ambientali del territorio e un freno ai processi di consumo del suolo. Peraltro, è data una nozione ampia di “terreno agricolo”, in quanto sono considerati tali non solo quelli così qualificati dagli strumenti urbanistici, ma anche le aree di fatto utilizzate a scopo agricolo, indipendentemente dalla loro destinazione urbanistica, nonché le aree comunque libere da edificazioni e infrastrutture. È previsto il coordinamento delle misure previste per il contenimento del consumo di suolo con le politiche e gli strumenti di pianificazione paesaggistica e urbanistico-territoriale. Questi ultimi devono recepire i limiti quantitativi, fissati a livello statale, di consumo di suolo ammissibile, limiti che, a loro volta, devono essere conformi alle previsioni dei piani paesaggistici. La determinazione dei limiti quantitativi per la progressiva riduzione del consumo di suolo deve tendere, peraltro, al graduale azzeramento del consumo in coerenza con quanto stabilito dalla Commissione europea circa il traguardo da raggiungere (consumo zero) entro il 2050. Inoltre, spetta agli strumenti pianificatori l’individuazione delle aree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o suscettibili di recupero, quale presupposto per le iniziative di rigenerazione urbana. Ulteriori misure sono il divieto di mutamento, per un periodo non inferiore a cinque anni, della destinazione d’uso agricolo delle aree che hanno usufruito di aiuti di Stato o finanziamenti europei e il connesso divieto di interventi di trasformazione urbanistica o edilizia non funzionali all’attività agricola, ad eccezione della realizzazione di opere pubbliche, nonché le misure di natura premiale (priorità nella concessione di finanziamenti, misure di semplificazione, incentivi fiscali, ecc.) a favore dei comuni virtuosi – nonché dei soggetti privati –, particolarmente orientati verso la rigenerazione urbana e il contenimento del consumo del suolo.
[38] L.r. Puglia, 30 aprile 2019, n. 18, “Norme in materia di perequazione, compensazione urbanistica e contributo straordinario per la riduzione del consumo di suolo e disposizioni diverse”; l.r. Abruzzo, 1 agosto 2017, n. 40, “Disposizioni per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Destinazioni d’uso e contenimento dell’uso del suolo, modifiche alla l.r. 96/2000 ed ulteriori disposizioni”; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 25 settembre 2015, n. 21, “Disposizioni in materia di varianti urbanistiche di livello comunale e contenimento del consumo di suolo”; l.r. Lombardia, 28 novembre 2014, n. 31, “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”; l.r. Puglia 20 maggio 2014, n. 26, “Disposizioni per favorire l’accesso dei giovani all’agricoltura e contrastare l’abbandono e il consumo dei suoli agricoli”; l.r. Abruzzo, 28 aprile 2014, n. 62, “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo” (sebbene dichiarata incostituzionale da Corte cost., 10 marzo 2015, n. 55, in Giur. cost., 2015, 486).
[39] L.r. Emilia-Romagna, 21 dicembre 2017, n. 24; l.p. Trento, n. 15/2015; l.r. Sardegna, 23 aprile 2015, n. 8; l.r. Marche, 13 aprile 2015, n. 16; l.r. Liguria, 2 aprile 2015, n. 11; l.r. Veneto, 16 marzo 2015, n. 4; l.r. Piemonte, 11 marzo 2015, n. 3; l.r. Umbria, n. 1/2015; l.r. Toscana, n. 65/2014; l.p. Bolzano, 19 luglio 2013, n. 10; l.r. Calabria, 10 agosto 2012, n. 35.
[40] Sottolineano il carattere oscillante e incoerente della legislazione regionale F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 87.
La violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica
di Antonio Barone e Mauro Di Pace
Il principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica trova la sua ratio nell’obiettivo del contrasto alle inutili tendenze formalistiche talora caratterizzanti l’attività delle stazioni appaltanti, in linea con l’orientamento giurisprudenziale prevalente volto a non avallare l’aggravio delle procedure di gara con inutili (in quanto non corrispondenti a reali interessi dell’Amministrazione procedente) oneri formali a carico degli operatori economici [1]. A presidio di questo principio, l’art. 83, comma 8, del Codice Appalti prevede la drastica limitazione del potere di esclusione dalla gara da parte delle stazioni appaltanti, che viene ricondotto a due gruppi di ipotesi chiaramente definiti. Al di fuori di tali ipotesi espressamente previste dal codice, l’art. 83, comma 8, del Codice Appalti, impone il divieto di previsione di cause esclusione, che viene rafforzato con l’espressa previsione della nullità di siffatte clausole.
La decisione della Plenaria in commento concerne proprio il corretto inquadramento giuridico della nullità delle clausole di esclusione contra legem. In particolare, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza del 16.10.2020 n. 22, dichiara nulla la clausola del bando di gara che, richiedendo a pena di esclusione all’impresa ausiliata il possesso della medesima SOA oggetto del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliaria, impedisce il ricorso all’avvalimento per la SOA.
La decisione interviene su un giudizio di impugnazione di un provvedimento di esclusione di un’impresa concorrente da una gara di lavori di importo superiore ad € 150.000,00. Il bando di gara da un lato consentiva ai partecipanti di soddisfare i requisiti economico finanziari e tecnico professionali avvalendosi della SOA di un altro soggetto; dall’altro, però, disponeva che il possesso della SOA era richiesto a pena di esclusione anche in capo all’impresa ausiliata. Ne derivavano una serie di questioni controverse, tra le quali, anzitutto, la questione della necessaria o meno impugnazione tempestiva del disciplinare di gara, con ogni conseguenza sulla tardività del ricorso contro l’esclusione dalla gara [2].
Le incertezze giurisprudenziali
Con l’ordinanza cautelare 14.6.2019 n. 2993 (Pres. Caringella, est. Barreca), la V sezione del Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar Toscana, 13.3.2019, n. 356, rinviando alla motivazione espressa nell’ordinanza 25.1.2019 n. 344 (est. Giovagnoli), di sospensione cautelare della sentenza del Tar Napoli, 19.11.2018, n. 6691.
La motivazione dell’ordinanza cautelare, per quanto sintetica, si basava, ribaltandone le conclusioni, sulla ricostruzione teorica operata dal giudice amministrativo di primo grado relativamente alla nullità come espressione di un potere carente, e non solo mal esercitato, argomentando così: “La contestata clausola del bando che limita l’avvalimento non appare affetta da nullità, in quanto, da un lato, è espressione di un potere amministrativo in astratto esistente (quello di disciplinare le modalità dell’avvalimento in corso di gara) e, dall’altro, non può essere qualificata come causa di esclusione “atipica””.
Tali conclusioni, tuttavia, sono state smentite in sede di decisione di merito con la sentenza del Consiglio di Stato, V sezione, 23.8.2019 n. 5834 (est. Perotti). In questa pronuncia il giudice amministrativo ha ritenuto la clausola non già escludente (da impugnare negli ordinari termini di legge, secondo l’insegnamento di A.P. n. 1/2003), bensì nulla, evidenziando altresì che la nullità avrebbe dovuto essere censurata nel più ampio termine di decadenza di 180 giorni previsto dall’art. 31, comma 4, c.p.a., rispettato nel caso di specie.
Con la sentenza non definitiva 17.3.2020, n. 1920 (Est. Barreca), di rimessione alla Plenaria, la stessa V sezione del Consiglio di Stato ha dato atto del contrasto di orientamenti in atto: da un lato, le ordinanze sospensive nn. 244 e 2993 del 2019, che propendono per il carattere escludente delle clausole, per la loro annullabilità e per il conseguente onere di immediata impugnazione delle stesse; dall’altro le sentenze di primo grado e la sentenza del Consiglio di Stato n. 5834/2019, che invece descrivono la vicenda come nullità, soggetta all’azione di accertamento ex art. 31 comma 4 c.p.a. e al relativo termine di decadenza di 180 giorni.
Secondo la V sezione, in particolare, non sarebbe decisivo l’argomento fondato sul dato testuale dell’art. 89 d.lgs. 50/2016, che stabilisce la nullità delle clausole difformi, perché lo stesso articolo 89 da un lato regola l’avvalimento, dall’altro lo limita ovvero lo vieta nei casi non consentiti: sicché tutti i casi di difformità della clausola dalla previsione normativa andrebbero in effetti ricondotti al paradigma dell’esercizio del potere in violazione di legge, che è un vizio tipico di annullabilità (capo 7.1).
D’altronde, secondo il giudice rimettente, la previsione della nullità testuale delle clausole escludenti atipiche, di cui all’art. 83 comma 8 del d.lgs. n. 50/2016, va coordinata, da un lato, col disposto dell’art. 120, comma 5, c.p.a., che impone l’impugnazione immediata delle clausole della lex specialis “immediatamente lesive”; e dall’altro col già citato art 31, comma 4, c.p.a., che assoggetta l’azione di accertamento della nullità al termine di decadenza di 180 giorni. Inoltre, sempre secondo il giudice rimettente, è proprio il codice dei contratti, all’art. 83, che fonda il potere della stazione appaltante di indicare le condizioni di partecipazione richieste, esprimendole eventualmente come livelli minimi di capacità, fra questi ultimi rientrando certamente il possesso della SOA.
La decisione dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza plenaria affronta la questione da una prospettiva parzialmente diversa dalle decisioni che si sono fin qui menzionate, e si pone l’ambizioso obiettivo di sciogliere il nodo delle basi teoriche della nullità provvedimentale, al fine di individuarne l’ambito applicativo generale.
La questione da affrontare “riveste carattere generale, in quanto si tratta di stabilire gli esatti termini del funzionamento dell’istituto della nullità nei rapporti amministrativi” (capo 10).
La plenaria procede ad un’analisi storica e sistematica dell’istituto della nullità nel diritto amministrativo, ricordando che, secondo l’impostazione tradizionale, lo stato naturale dell’atto amministrativo invalido è l’annullabilità, non trovando spazio nel sistema di diritto amministrativo la figura della nullità elaborata dalla disciplina civilistica: nel diritto civile, la nullità è infatti una patologia genetica dell’atto, processualmente rilevabile d’ufficio senza limiti di prescrizione, censurabile da chiunque ne abbia interesse, improduttiva di effetti.
D’altronde, la stessa nullità civilistica ha conosciuto un’evoluzione che ne ha sfumato i confini rispetto al vizio di annullabilità, che trova il suo esempio più lampante nelle cosiddette nullità di protezione, azionabili da una e non da entrambe le parti, rivolte alla tutela di una posizione intrinsecamente debole.
Il vizio di nullità è stato introdotto nel sistema del diritto amministrativo dalla l. n. 15/2005, di riforma della l. n. 241/1990, che vi ha inserito il capo IVbis e, in quest’ambito, l’art. 21septies sopra richiamato.
Successivamente, il codice del processo amministrativo ha disciplinato l’azione di accertamento della nullità dell’atto amministrativo all’art. 31.
La nullità amministrativa differisce da quella civilistica per il breve termine di decadenza previsto per la proponibilità della relativa azione, che trova la sua ratio nelle ragioni di certezza dei rapporti giuridici amministrativi; per la mancanza di una norma, omologa all’art. 1325 c.c., che definisca gli elementi essenziali del provvedimento, la cui mancanza determina, appunto, la nullità; per le figure, tipicamente amministrativistiche, della nullità per difetto assoluto di attribuzione e per violazione o elusione del giudicato.
La nullità amministrativa, a ulteriore differenza di quella civilistica, vive della medesima peculiarità comune alla figura dell’annullabilità: essa rileva in sede processuale. Infatti, la decadenza dal diritto di azione, determinando il consolidamento dell’atto invalido, elimina il vizio. Le conseguenze di questo corollario sono particolarmente evidenti nei procedimenti complessi, secondo il paradigma dell’illegittimità viziante, laddove il consolidamento del provvedimento viziato a monte determina l’impossibilità di farne valere i vizi in via derivata con l’impugnazione del provvedimento a valle.
Ciò vale a maggior ragione nelle procedure di gara.
Infatti, come si è detto, la portata immediatamente lesiva della lex specialis, sancendone il carattere provvedimentale (secondo l’insegnamento di AP 1/2003, oggi normativamente recepito all’art. 120, comma 5, c.p.a.), ne impone la tempestiva impugnazione. È il caso tipico delle clausole c.d. escludenti, cioè delle clausole che dispongono condizioni soggettive di partecipazione.
Ma se la clausola è nulla, e non annullabile, qual è il termine di decadenza per la sua impugnazione?
È qui che l’Adunanza plenaria, sposando la tesi della nullità della clausola, prende tuttavia una posizione eccentrica rispetto alla soluzione individuata dall’orientamento espresso dai TAR e dalla sentenza CdS n. 5834/19.
In primo luogo, rifiuta di ridurre la categoria della nullità amministrativa alla figura generale della carenza di potere in concreto. Quest’ultima, infatti, è solo una delle quattro categorie di nullità previste dalla disciplina generale dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990, oltre alla carenza degli elementi essenziali del provvedimento, violazione o elusione del giudicato e alla nullità testuale [3].
In secondo luogo, ritiene inapplicabili sia l’art. 21-septies della l. n. 241/1990, sia l’art. 31 c.p.a.: entrambe le norme “si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente’ improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza di questa Adunanza n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni”.
La nullità testuale, di cui all’art. 83 del codice dei contratti, esorbitando dall’ambito applicativo della nullità provvedimentale, non soggiace quindi al termine di decadenza previsto per l’azione di accertamento della nullità.
Ne deriva che non c’è alcun onere di impugnare la clausola nulla né nei 30 giorni (di cui all’art. 120, comma 5 c.p.a.) né nei 180 (di cui all’art. 31, comma 4, c.p.a.).
L’inidoneità della clausola di produrre i suoi effetti, peraltro, non impedisce che si consolidino, invece, gli effetti dell’atto a valle, che va invece impugnato tempestivamente: “Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente”.
La decisione della Plenaria offre numerosi spunti di riflessione. Nell’economia delle presenti brevi note, si ritiene di poterne evidenziare almeno tre.
Sul piano teorico, la sentenza in commento costituisce l’ennesima conferma della “vocazione” del nostro tempo per la giurisdizione, in linea peraltro con la tradizione del Consiglio di Stato nell’utilizzo (fin dall’epoca liberale) di “metodi giurisprudenziali” accanto a quelli “giurisdizionali” [4]. Non v’è dubbio, infatti, che l’individuazione di una categoria di nullità amministrativa autonoma rispetto alle previsioni dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, è frutto di una costruzione esclusivamente giurisprudenziale. Questa nullità “giurisprudenziale” è caratterizzata dalla sua efficacia “parziale” (nel senso che essa è destinata a travolgere una parte del provvedimento, e non tutto) e dalla sua sottrazione alla disciplina della decadenza, nel senso che essa può farsi valere in giudizio anche oltre i 180 giorni, purché entro il termine di impugnazione del successivo provvedimento consequenziale (tipicamente, nei 30 giorni dalla notifica del provvedimento di esclusione adottato in attuazione di una clausola nulla, anche se pubblicata più di 180 giorni prima).
Sul piano applicativo, la soluzione adottata dalla Plenaria può essere salutata con favore nella misura in cui, coerentemente col principio della massima partecipazione, consente una più effettiva giustiziabilità del divieto di introduzione di clausole escludenti contra legem.
Sempre sul piano applicativo, infine, non può sottacersi la difficoltà di tracciare con chiarezza il solco tra le ipotesi annullabilità e quelle di nullità “in senso tecnico” delle clausole escludenti. Infatti, al di fuori del caso di scuola affrontato dalla Plenaria, la linea di confine fra le clausole che limitano, regolandolo, il ricorso all’avvalimento (annullabili) e quelle che invece lo vietano in assoluto (nulle) potrebbe risultare, nell’esperienza applicativa, labile e sfumato. Ciò potrebbe comportare talune incertezze applicative nell’interpretazione volta per volta della portata delle clausole sull’avvalimento, con la conseguente esigenza di individuare con certezza il reale perimetro di operatività della nuova categoria giurisprudenziale della nullità amministrativa “in senso tecnico”.
***
[1] Sul principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica, senza pretesa di esaustività, v. M. Monteduro, Art. 46. Le novità introdotte dal D.L. 13 maggio 2011, n. 70c.d. decreto sviluppo in tema di tassatività delle clausole di esclusione, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), Codice dei contratti pubblici, Roma, Dike, 2012, p. 373 ss.; R. Giani, Le cause di esclusione dalle gare tra tipizzazione legislativa, bandi standard e de quotazione del ruolo della singola stazione appaltante, in Urb. App., 2012, n. 1, p. 96 ss.; R. De Nictolis, Le novità del D.L. 70/2011, in Urb. App., 2011, n. 9, p. 1012 ss.
[2] Il Tar della Toscana, con sentenza 13.3.2019, n. 356, aveva accolto il ricorso in primo grado, per mezzo del quale la concorrente aveva impugnato la sua esclusione, scontrandosi con l’eccezione di irricevibilità del ricorso per non aver impugnato tempestivamente il disciplinare.
Il TAR aveva accolto la tesi della ricorrente, secondo la quale la clausola controversa, nell’imporre il possesso della SOA in capo alla mandataria, poneva non già un limite relativo al ricorso all’avvalimento, quanto piuttosto un sostanziale divieto. La nullità della clausola ne imponeva, secondo il TAR, la disapplicazione, rendendo tempestivo il ricorso proposto contro l’esclusione, a prescindere dalla mancata impugnazione della lex specialis nei 30 giorni dalla pubblicazione.
Questione analoga, su un bando di gara adottato sul medesimo schema e contenente la medesima clausola, veniva affrontata dal Tar Napoli, con la sentenza 19.11.2018, n. 6691, che giungeva alle medesime conclusioni, pur senza menzionare la disapplicazione della clausola nulla, ma accertandone incidentalmente la nullità: con la conseguenza, anche in questo caso, del rigetto dell’eccezione di irricevibilità del ricorso per tardiva impugnazione del disciplinare.
Il tribunale campano si sofferma sulla questione della nullità provvedimentale, illustrandone le fondamenta teoriche sulla base della dialettica tra clausola escludente, da impugnare entro i 30 giorni dalla pubblicazione del bando; e clausola nulla, da impugnare entro 180 giorni dalla pubblicazione.
[3] Sulla nullità del provvedimento amministrativo, anche in questo caso senza pretesa di esaustività, cfr. N. Paolantonio, voce Nullità dell'atto amministrativo, in Enc.dir., Annali, l, Milano, 2008, p. 855 ss.; P. Lazzara, Nullità, Dir. Amm., in Diritto on line, Treccani.it, 2013; R. Chieppa, Art. 21 septies. La nullità del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, p. 115-1147.
[4] Su questi aspetti cfr. N. Picardi, La vocazione del nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 2004, p. 41-72; M. Nigro, Il Consiglio di Stato giudice e amministratore (aspetti di effettività dell'organo),ora in Id., Scritti giuridici, II, Milano 1996, p. 1051-1094. Più di recente, v. A. Barone, La vocazione unitaria delle giurisdizioni, in A. Barone, E. Follieri (a cura di), I principi vincolanti dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sul Codice del Processo Amministrativo (2010-2015), Padova, CEDAM, 2015, p. 1-24.
Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia*
di Tommaso Greco
Sommario: 1. Il diritto tra arte e tecnologia - 2. Il diritto non “serve” - 3. Il diritto come tecnica - 4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo.
1. Il diritto tra arte e tecnologia
Ho trovato stimolante e opportuno l’invito rivolto da Michela Passalacqua al Maestro Michelangelo Pistoletto per l’inaugurazione del corso di laurea, da lei presieduto, in “Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni”. La presenza di un Maestro che ha saputo innovare i sentieri dell’arte aiuta infatti a mettere in chiaro da subito che un corso di laurea come quello che stiamo inaugurando non ha nulla di scontato, ma anzi ha bisogno più di altri di quella immaginazione che alla vita individuale e collettiva può venire solo dall’arte.
Non è quindi azzardato il prendere spunto dall’arte per ragionare sul ruolo del diritto nella società tecnologica. Essa produce effetti straordinari sull’animo umano e quindi anche sulla sensibilità giuridica che anima e motiva le nostre riflessioni, le nostre categorie, i nostri concetti. Spesso è proprio l’arte a farci capire meglio quale sia il nostro compito e a indicarci in maniera più chiara la direzione che dobbiamo prendere.
Il discorso potrebbe farsi lungo e quindi è bene interromperlo immediatamente; non prima però di aver citato almeno una prova di quanto ho appena affermato, muovendomi sul terreno proprio della presentazione di oggi, che è quello del rapporto tra diritto e innovazione (prevalentemente tecnologica, ma non solo). Sarebbe lo stesso il nostro atteggiamento nei confronti della tecnologia applicata all’umano senza quella straordinaria opera letteraria che è il Frankenstein di Mary Shelley, che ha dato la stura a mille riflessioni di carattere etico e filosofico, orientando i nostri sentimenti e quindi i nostri giudizi?
Forse dovremmo discutere più di quanto non facciamo di questo tema: di quanto l’arte serva al diritto anche in tempi nuovi e complessi, come il nostro. E il discorso si farebbe sommamente interessante. Perché non c’è solo il Law and Literature che ormai, e finalmente, sta ottenendo un ampio riconoscimento anche presso i giuristi ‘pratici’. C’è un più ampio Law and Humanities che fa tesoro dello sguardo proveniente da tutte le Arti[1], a cominciare da quella, più di altre tecnologicamente condizionata, che è il cinema (e mi pare giusto ricordare che Cinema e diritto si intitola un intervento pubblicato qualche anno fa da un illustre civilista pisano, Umberto Breccia, presentato ad apertura di un nostro ciclo di incontri[2]).
2. Il diritto non “serve”
Devo però affrettarmi a dire qualcosa sul rapporto tra diritto e innovazione, e più specificamente del rapporto tra diritto e tecnologia. Non c’è bisogno di dire che il tema è sterminato e che lo si potrebbe affrontare da diversi punti di vista. È chiaro che noi siamo qui perché ci poniamo tutti i problemi che lo sviluppo (tecnologico, ma non solo) pone al diritto e alla scienza giuridica: ce li poniamo, al punto da aver sentito il bisogno prima di creare un centro di ricerca su Diritto e Nuove Tecnologie, e poi di creare questo corso di laurea. Proprio per questo non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiarire che quel «diritto per l’impresa e le istituzioni» non può significare che siamo qui a insegnare un diritto ‘servile’ rispetto ai bisogni delle imprese e delle istituzioni. Se non altro perché sia le imprese sia le istituzioni non sono entità naturali rispetto alle quali il diritto può semplicemente mettersi al servizio; ma sono esse stesse frutto e prodotto del diritto. Senza il diritto, senza le sue regole, senza le sue architetture non sarebbe possibile né l’impresa né una qualsiasi forma di istituzione (tornerò su questo tema tra poco). Se sul piano delle istituzioni un’affermazione come questa appare evidente, essa va confermata soprattutto con riguardo all’impresa: un soggetto che vediamo spesso come una sorta di hobbesiano individuo naturale, slegato da qualsiasi relazione e soprattutto sottratto a qualsiasi legge che non sia quella della pura sopravvivenza a danno di tutto e di tutti. Come ha ben spiegato più volte Natalino Irti, senza struttura giuridica non c’è possibilità che si sviluppino le condizioni per lo sviluppo né del mercato né dei suoi protagonisti[3].
3. Il diritto come tecnica
Occorre essere coscienti che il diritto non è solo un sapere che, tra le altre cose, si occupa del mercato o della tecnologia facendone oggetto di regolazione. È esso stesso una tecnica: certo, non solo una tecnica (come forse voleva il più grande giurista del XX secolo, Hans Kelsen), ma anche una tecnica. Una tecnica che non solo permette di fare cose ben precise, ma che a volte si spinge fino a rendere possibili ‘realtà’ che non esisterebbero senza di essa. Non mi addentro nella complicata questione delle norme costitutive, e meno che mai nella affascinante riflessione di John Searle sull’ontologia sociale e sui cosiddetti “fatti istituzionali”[4], ma è abbastanza comprensibile anche ai profani che alcune delle ‘cose’ che nominiamo o facciamo, esistono solo perché è il diritto ad averle rese possibili: si pensi al matrimonio, ad esempio, o all’adozione, o al concetto di proprietà. Oppure si pensi a tutto ciò che ha a che fare con le istituzioni di ogni livello: qui niente esiste prima del diritto e senza il diritto. Ogni istituto e ogni istituzione ha una storia che non ci sarebbe mai stata senza l’immaginazione che sapienti giuristi seppero mettere in campo al momento opportuno. Da questo punto di vista, il diritto è certamente «arte fra altre arti». Come ha scritto Francesco Galgano, infatti, è arte «anche l’inventare figure giuridiche nuove, atte a innovare le forme della convivenza umana»[5].
Il diritto quindi come tecnica preziosa, ma anche, lo sappiamo bene, potenzialmente pericolosa: perché sono sempre le sue regole a rendere possibili o a legittimare cose che non necessariamente corrispondono al nostro senso della giustizia. Come deve comportarsi il diritto rispetto a ciò che la tecnica rende possibile con i suoi potenti mezzi? Deve limitarsi a fare da “regolatore del traffico”, oppure deve spingersi più in là, magari ponendo anche qualche divieto di accesso e di transito? Se uso la parola ‘traffico’ è proprio per evocare l’idea di individui che si muovono, ciascuno alla ricerca del proprio interesse, e che si trovano a incrociare il proprio cammino con quello di altri. Vogliamo che le traiettorie di questi cammini siano lasciati ad una più o meno spontanea ricerca di un “ordine”, o più probabilmente “disordine”, oppure vogliamo che essi siano, se non indirizzati verso uno scopo (lungi da noi ogni ipotesi paternalisticamente orientata) quanto meno impossibilitati a prendere alcune direzioni che riteniamo pericolose? A saperla interrogare, la storia — non solo quella con la S maiuscola, ma anche la storia della tecnologia — ci insegna che la libertà non è mai il semplice frutto dell’assenza di regole; anzi ci dice che là dove non si disponga di regole, si ha solo il dominio del più forte sul più debole[6]. La libertà non nasce né cresce in assenza di leggi, ma è il risultato di leggi giuste che la definiscono e la stabiliscono, garantendola per tutti.
Ci troviamo dunque, ancora una volta, davanti al dilemma che accompagna il diritto fin dalle sue origini. Oggi, come ieri e come sempre, infatti, esso deve — cioè: i suoi cultori devono — scegliere se stare dalla parte di chi domina, ed essere quindi strumento del forte che domina sul debole, oppure se approntare quelle soluzioni che stabiliscono una libertà comune entro la quale anche i deboli possano essere garantiti e non asserviti. Solo un diritto che “non serve”, ma che afferma la sua funzione critica nei confronti dei grandi poteri, può fare in modo che nel mondo non ci siano “servi” ma “liberi”. Il compito più proprio del diritto, quello che non lo riduce a puro strumento, è sempre quello di riconoscere, definire e limitare ogni nuovo potere che emerga dalla dinamica economica e sociale.
4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo
Tutto ciò ci porta a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che il lavoro del giurista va sempre al di là di un compito meramente tecnico. È sempre bene ricordare che non c’è lavoro tecnico su questi temi: perché quando io mi metto al lavoro da “tecnico” su questioni generate dal progresso tecnologico, e che quasi sempre sono estremamente delicate sul piano etico (si pensi, per fare un solo esempio, alla maternità surrogata) col solo fatto di applicarmici e qualunque sia la mia idea su quel tema, sto mettendo in campo ben più che un sapere “tecnico”. Anzi, più penso di agire da tecnico, più legittimo la pratica di cui mi sto occupando.
Ecco perché bisogna avere piena contezza del compito che ci spetta e che ci aspetta: quello di formare un giurista creativo e costruttivo[7], perfettamente consapevole del suo ruolo, che non è quello di andare ad avvitare i bulloni che la tecnica, l’economia, le istituzioni ci mettono davanti. Il nostro compito è di formare un giurista critico, cosciente del ruolo che andrà a svolgere nella società del futuro, e dunque capace di esercitare pienamente e attivamente la funzione che gli compete e che la società stessa si aspetta che svolga.
Questo è tanto più vero in una realtà che assume connotati nuovissimi rispetto a quella precedente, e nella quale il diritto si trasforma profondamente proprio grazie alla tecnologia. Posso limitarmi, su questo argomento, a poco più di una battuta. Oggi si apre uno scenario nuovo nel quale il diritto è affascinato dall’algoritmo, e non per una fascinazione estrinseca o estemporanea, ma perché l’algoritmo sussurra al nostro orecchio che esso può risolvere il problema atavico del diritto stesso: quello dell’incertezza e dell’inefficacia. Un diritto che si applichi automaticamente, sulla base di uno schema binario come quello digitale, è il sogno nascosto di ogni utopia (o distopia) centrata sull’ordine giuridico. Non sto evocando lo ‘spettro’ più o meno futuristico del giudice telematico[8], sto parlando di cose che abbiamo sotto gli occhi e che fanno già ampiamente parte della nostra vita quotidiana. La telecamera posta a guardia di un varco ztl è incomparabilmente più efficace di un’intera truppa di vigili urbani. Ma se è chiaro cosa si guadagna, siamo altrettanto consapevoli di cosa si perde procedendo alla digitalizzazione del diritto? Possiamo ridurre tutte le questioni sociali che devono essere giuridicamente regolate allo schema “si/no”, “dentro/fuori”? Quanta capacità di giudizio e di discernimento — e quindi: quanta saggezza giuridica — perdiamo procedendo su questa strada?
C’è comunque un fatto di cui dobbiamo fare tesoro: sebbene non sappiamo fino a che punto il diritto possa automatizzare il suo funzionamento, sappiamo però che anche il diritto più meccanico non può fare a meno dell’uomo chiamato a dare le ‘istruzioni’ che gli servono per far funzionare i suoi meccanismi: di nuovo, cioè, a fissare limiti e a porre condizioni.
Occorre quindi avere molta immaginazione, di qui in avanti, per rendere possibili cose che oggi pensiamo impossibili e soprattutto per evitare che il diritto sia sopraffatto e travolto dalla forza dei nuovi poteri. Ma per farlo, bisogna studiare e prepararsi adeguatamente. Non è possibile rinnovare un paesaggio senza prima conoscerlo profondamente e senza avere piena consapevolezza del contributo che possiamo ricevere da quelle realtà che solo apparentemente sono estranee a quel paesaggio. Il diritto che deve confrontarsi con un mondo ipertecnologico ha bisogno di imparare anche dall’arte e dalla letteratura, così come ha bisogno di conoscere la tecnica che vuole regolare e, ovviamente, di padroneggiare la tradizione giuridica che gli fornisce gli strumenti essenziali per farlo. Se è vero, come ha detto il Maestro Pistoletto in una sua intervista, che «le cose rimangono impossibili finché non vengono pensate», occorre ribadire che il pensiero, anche quello più innovativo, non nasce dal nulla ma cresce in una tradizione che è capace di coltivarlo nella maniera migliore, e cioè con la maggiore apertura possibile anche a ciò che gli è (apparentemente) estraneo.
* Intervento alla cerimonia di inaugurazione del corso di laurea in Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni, Palazzo della Sapienza, Pisa, 27 ottobre 2020.
[1] Ottima l’introduzione di P. Heritier, Humanities. Umanesimo e svolta affettiva, in A. Andronico, T. Greco, F. Macioce (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino 2019, pp. 441-468.
[2] U. Breccia, Cinema e diritto, in «ISLL. Italian Society for Law and Literature», 2/2010. Si veda però il recentissimo volume a cura di O. Roselli, Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Giappichelli, Torino 2020.
[3] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari 1998.
[4] Il testo da cui muovere per avvicinarsi a questa riflessione, fondamentale anche e soprattutto per i giuristi, è J. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.
[5] F. Galgano, Il diritto e le altre arti. Una sfida alla divisione tra le culture, Editrice Compositori, Bologna 2009, p. 11-12.
[6] Idea tipica, questa, della tradizione repubblicana, sulla quale si veda l’ottima introduzione di M. Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.
[7] Non posso che rimandare a un lavoro che andrebbe letto e meditato da quanti sono impegnati nella formazione giuridica: G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna 2018.
[8] In una letteratura che sta diventando sempre più ampia mi limito a segnalare: A. Garapon-J.Lassègue Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropologique, Puf, Paris 2018; C.V. Giabardo, Il Giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare), in «Giustizia Insieme», 9 luglio 2020 (www.giustiziainsieme.it).
Emergenza sanitaria e organizzazione degli uffici. Il ruolo dell’autogoverno
di Chiara Gallo
Mentre nel paese la situazione emergenziale legata alla pandemia assume dimensioni che destano sempre maggiore preoccupazione, agli occhi del legislatore il mondo giudiziario sembra essere un’isola felice dove è magicamente cessato ogni pericolo di contagio.
La lettura delle norme del 137\2020 (c.d. Decreto Ristori) in materia di giustizia rende evidente come l’assetto organizzativo emergenziale previsto soprattutto nel settore penale, sia inadeguato allo scopo per cui le norme sono state adottate, ovvero il contenimento del pericolo di contagi.
E non è un caso che la maggiore inadeguatezza riguardi le previsioni relative all’attività giudicante penale, settore al quale nessuno degli ispiratori della modifica normativa appartiene, che proseguirà senza alcun tipo di sospensione e quasi tutta in presenza, senza nessun intervento organizzativo di logistica o dotazione di mezzi che possa incidere sul flusso di presenze o quantomeno renderlo maggiormente controllabile.
Soprattutto con il nuovo decreto appare definitivamente archiviata l’esperienza che ha costituito una novità assoluta nel panorama legislativo, conseguente alla scelta di affidare ai dirigenti degli uffici giudiziari la modulazione del flusso degli affari sulla base delle esigenze connesse alla situazione emergenziale, collegando tali scelte organizzative all’operatività di norme processuali come quelle sulla decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza nei procedimenti civili e sui termini di prescrizione e di durata delle misure cautelari nel settore penale.
L’art. 83 comma VI del DL 18 del 17.3.2020 aveva previsto, per la c.d. fase 2, ossia quella successiva al periodo di sospensione ex lege di attività di udienza e termini processuali, un ruolo attivo dei dirigenti nel contrasto all’emergenza epidemiologica, ponendoli al centro dell’interlocuzione tra le autorità regionali locali e l’avvocatura e attribuendo loro il potere-dovere di adottare le misure organizzative necessarie a tal fine, “anche relative alla trattazione degli affari giudiziari” .
E tra le misure specificamente elencate nel comma 7 dell’art. 83, vi erano l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, la previsione del processo da remoto o cartolare delle udienze civili, la previsione di rinvio delle udienze dopo il 30.7.2020.
In materia penale il successivo comma 9 dell’art. 83 prevedeva che il corso della prescrizione, i termini di fase delle misure cautelari e il termine previsto per la decisione del Tribunale del Riesame rimanessero sospesi per il periodo in cui il procedimento veniva rinviato ai sensi della lettera g) del comma 7, ossia sulla base delle previsioni adottate dai dirigenti degli uffici.
Tale opzione legislativa era stata fortemente criticata, soprattutto dall’avvocatura, per il potere attribuito ai dirigenti di incidere negativamente sui diritti degli imputati, prolungando i termini di prescrizione dei reati e soprattutto quelli di durata delle misure cautelari, in assenza di criteri di legge per l’adozione dei provvedimenti di rinvio diversi dalle eccezioni indicate nel comma 3.
Ma al netto delle criticità sopra evidenziate tale scelta normativa ha, in concreto, inaugurato un percorso virtuoso attraverso il quale si sono ampliati gli spazi di intervento del circuito dell’autogoverno nell’organizzazione degli uffici, in un’ottica di gestione partecipata, finalizzata al raggiungimento di obiettivi di efficienza e qualità.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera del 26.3.2020, è tempestivamente intervenuto in via preventiva, attraverso linee guida destinate a rendere il più possibile omogenea l’organizzazione dell’attività giudiziaria demandata ai dirigenti dalla legislazione emergenziale, fornendo indicazioni assai dettagliate in merito alle modalità di svolgimento delle attività nei diversi settori e predisponendo anche format di protocolli per la trattazione delle udienze da remoto o cartolare, contenenti previsioni il più possibile rispettose del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.
Le delibera su tali linee guida ha anche consentito, per la fase emergenziale, un utilizzo più flessibile degli strumenti atti a supplire alle assenze di magistrati e alle carenze di organico negli uffici, prevedendo la possibilità di ricorrere, con decreto immediatamente esecutivo del Presidente della Corte d’Appello o del Procuratore Generale, all’assegnazione di magistrati distrettuali e alle tabelle infradistrettuali, in deroga alle previsioni della circolare 108 del 2018, per la trattazione dei procedimenti indifferibili non gestibili tramite le assegnazioni interne.
Sebbene la delibera del CSM richiedesse la trasmissione alla Settima Commissione dei soli provvedimenti di carattere generale assunti ai sensi dell’art. 83, comma 7 lettere d) del D.L. 18/2020 (ovvero le linee guida vincolanti per la trattazione delle udienze) nonché di quelli di rinvio delle udienze - oltre che naturalmente delle variazioni tabellari temporanee limitate al periodo di emergenza ed i provvedimenti di applicazione, di supplenza e coassegnazione infradistrettuali - di fatto è accaduto che tutti i provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici, sia quelli strettamente tabellari, sia quelli di carattere logistico ed organizzativo degli uffici, intesi nella loro materialità, sono stati inseriti nel percorso di controllo dell’autogoverno e sono passati al vaglio dei Consigli Giudiziari e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Con ciò consentendo una ampia raccolta di dati ed informazioni, utile ad avere una visione completa dei singoli uffici giudiziari e del loro funzionamento ed effettuare una verifica delle diverse criticità.
Un ruolo attivo in questo percorso è stato svolto dai Consigli Giudiziari che, operando in composizione allargata ratione materiae e, dunque, in un confronto diretto con l’avvocatura locale hanno, in prima battuta, esaminato i provvedimenti adottati dai dirigenti dei diversi uffici dello stesso distretto, confrontandoli tra loro e potendo verificare le singole criticità o le difformità tra le diverse scelte non giustificate da differenti situazioni degli uffici.
E proprio in sede di autogoverno locale è stata delineata la possibilità di svolgere, nel periodo emergenziale, una funzione ricognitiva delle scelte organizzative, non limitata ai soli provvedimenti di natura tabellare, e riconducibile al potere di vigilanza sugli uffici attribuito ai Consigli Giudiziari dall’art. 15, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 25/2006 e richiamato dai regolamenti interni di tali organi.
In questa direzione si è mosso il Consiglio Giudiziario di Genova che, con delibera del 28.7.2020, ha formulato un quesito al CSM con cui chiedeva se rientrasse nelle funzioni proprie dell’organo locale effettuare una ricognizione delle scelte organizzative compiute dai dirigenti del distretto, durante la fase emergenziale, sia con riferimento ai provvedimenti incidenti sulla organizzazione delle udienze sia con riferimento a quelli relativi alla gestione delle aule, al fine di esaminarli e individuare eventuali criticità. E ciò sulla base del presupposto che tali provvedimenti, pur non avendo natura strettamente tabellare in quanto di competenza esclusiva del dirigente quale datore di lavoro, rientrano tra quelli che, a norma dell’art. 44 della circolare sulle tabelle (oggi art. 46) devono essere trasmessi al Consiglio Giudiziario.
Nella risposta al quesito il CSM ha fornito importanti chiarimenti sulla portata dei compiti di vigilanza attribuiti ai Consigli Giudiziari che sembrano preludere ad una nuova visione dell’attività di vigilanza. E’ stato ribadito, secondo quanto affermato nella risoluzione del primo luglio 2010 sul ruolo di vigilanza degli uffici svolto dai Consiglio Giudiziari, che l’attività di vigilanza è ritenuta funzionale “anche alla diffusione di buone prassi ed alla verifica periodica dell’andamento degli uffici giudiziari, in una prospettiva che non è più soltanto di mero controllo ma è, soprattutto, di promozione di modelli organizzativi efficienti “ e che “ai Consigli giudiziari spetta, oltre che la verifica in ordine ad eventuali disfunzioni verificatesi nei singoli uffici, anche l’attivazione di meccanismi idonei a prevenire situazioni di disservizio”.
Il CSM ha osservato che nella stessa risoluzione del 2010 si erano indicati, come possibile oggetto dell’attività di vigilanza, “sia la individuazione e la verifica di disfunzioni connesse all’attuazione del progetto e delle previsioni tabellari” sia la ricognizione “di segnalazioni relative a disfunzioni organizzative o dei servizi amministrativi”.
Sulla base di tali principi l’attività ricognitiva delineata nel quesito del Consiglio Giudiziario di Genova, è stata ritenuta attinente alla verifica dell’andamento degli uffici giudiziari, e rientrante nei compiti dell’organo locale con il limite, insito nell’art. 15 del DL.vo 25\2006, di non poter trasmodare in un controllo diretto sull’operato svolto dai singoli dirigenti degli uffici.
Il percorso così delineato partito dalla scelta del legislatore di coinvolgere i dirigenti degli uffici nella gestione dell’emergenza sanitaria ha, dunque, consentito di riprendere, anche attraverso casi ed esperienze concrete, una riflessione sulla gestione partecipata dell’attività degli uffici che, soprattutto in momenti di criticità, si rivela l’unica modalità per perseguire obiettivi strettamente connessi tra loro: quello di offrire un servizio di qualità, nel rispetto delle norme a tutela dei diritti, anche in una situazione di riduzione quantitativa del flusso degli affari e di difficoltà logistiche e quello di assicurare condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro a tutela degli stessi lavoratori e dell’utenza anche in un’ottica di salvaguardia del benessere psicofisico dei magistrati.
Le nuove diposizioni hanno, forse troppo ingenerosamente, interrotto questo percorso escludendo la magistratura dalle scelte organizzative nella rinnovata fase emergenziale.
Infatti gli artt. 23 e 24 del DL 137\2020, che ricalcano il contenuto di una proposta a doppia firma dell’organo rappresentativo delle Camere Penali e di un gruppo di Procuratori della Repubblica e che non prevedono alcuna ipotesi di sospensione dell’attività giudiziaria, pongono, soprattutto nel settore penale, limitazioni al “processo telematico” di tale portata da rendere tale modalità del tutto residuale e inidonea a ridurre l’afflusso di persone negli uffici giudiziari.
La tecnica legislativa prescelta è stata quella di formulare, al comma 5 dell’art. 23 una regola generale sull’utilizzo del processo da remoto per la trattazione delle udienze penali, disciplinandone minuziosamente le modalità esecutive, cui seguono una serie di eccezioni che di fatto svuotano la portata applicativa della regola. Sono, infatti, escluse dalle modalità da remoto le tipologie di udienze che costituiscono il fulcro dell’attività penale e che portano maggior afflusso di persone nei Tribunali, ossia le udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti e le udienze in cui si procede alla discussione sia in fase dibattimentale sia in fase di giudizio abbreviato. L’esclusione si estende anche alle udienze preliminari e più in generale a quelle dibattimentali, salvo il consenso delle parti. Non fanno eccezione neppure le udienze con un numero di imputati tale da non rendere possibile il rispetto del distanziamento nelle aule.
L’attuale normativa lascia, dunque, uno spazio ristrettissimo per il processo da remoto nel settore penale limitandolo ad udienze (come quelle a seguito di opposizione all’archiviazione o di incidente di esecuzione) che, stante il numero e la tipologia, non pongono particolari problemi di afflusso di persone negli uffici giudiziari. A ciò si deve aggiungere che, in assenza di qualsivoglia indicazione sulle modalità di acquisizione del consenso sarà sostanzialmente impossibile, soprattutto per i processi già fissati, utilizzare il processo da remoto per le udienze preliminari o le udienze dibattimentali diverse da quelle istruttoria e di discussione.
Nessuno spazio è poi lasciato a forme di trattazione cartolare delle udienze nel settore penale, come invece era avvenuto nella vigenza della precedente normativa attraverso l’adozione di protocolli tra dirigenti degli uffici e rappresentanti dell’avvocatura per alcune tipologie di udienze camerali.
L’assenza di qualsivoglia spazio decisionale lasciato alla magistratura nell’organizzazione dell’attività giudiziaria nella fase attuale e la rinuncia al contributo, che solo chi lavora sul campo è in grado di apportare, soprattutto nella valutazione delle ricadute concrete di scelte normative così decisive per il prossimo futuro, appare una scelta poco comprensibile e distonica rispetto all’impostazione iniziale, che aveva visto innescarsi una positiva attivazione di tutte le forze in campo verso soluzioni razionali e condivise.
Ma questo non significa che l’esperienza vissuta non possa costituire la base per un rinnovato impegno, finalizzato, anche nell’auspicato ritorno a condizioni di normalità, a ricercare strumenti concreti per la realizzazione di benessere organizzativo coniugato ad un servizio di qualità che solo una forte partecipazione di tutti alle scelte organizzative può garantire.
La colpa medica: un work in progress[1]
di Francesco Palazzo
Sommario: 1. Premessa – 2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario – 3. Ambiguità ed incertezze legislative – 4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo” – 5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali – 6. Un buon risultato paralegislativo.
1. Premessa
Queste note hanno ad oggetto la recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di responsabilità penale del medico per gli eventi avversi – morte o lesioni – verificatisi nell’esercizio della sua professione. Intendiamo assumere quella complessa problematica ad esempio paradigmatico per mettere in luce come talvolta, per non dire spesso, la disciplina legislativa e il testo legale costituiscano solo il primo mattone dell’edificio normativo alla cui costruzione contribuisce in misura determinante l’opera della giurisprudenza. E quest’ultima sovente procede per tentativi ed aggiustamenti successivi, nel corso dei quali l’intervento del massimo organo di nomofilachia, la Corte di cassazione a Sezioni riunite, reca un contributo decisivo ma non sempre immediatamente risolutivo.
Il ruolo svolto dall’opera della giurisprudenza, che ormai pacificamente produce un vero e proprio “diritto giudiziario” parallelo quando non antagonistico a quello legislativo, implica una forte esigenza di prevedibilità della decisione giudiziaria che, però, si pone al centro di una contraddizione non facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, l’esigenza di prevedibilità costituisce il prodotto di una sorta di surrogazione per la quale alla tradizionale legalità della legge si surroga, appunto, la prevedibilità della decisione giudiziaria al fine di appagare, seppure per altra via, la stessa fondamentale istanza di garanzia consistente nella possibilità e libertà di autodeterminazione del cittadino dinanzi ai precetti comportamentali del diritto penale. Dall’altro lato, però, non è affatto facile assicurare realmente la prevedibilità della decisione giudiziaria proprio in ragione delle stesse caratteristiche del diritto giudiziario, che – come mostrerà limpidamente il nostro esempio – spesso rivela una grande mobilità e instabilità, suscitata anche dalle imperfezioni dei testi legislativi e comunque orientata all’individuazione della soluzione più confacente alle esigenze sostanziali della materia: insomma, è difficile che il diritto giudiziario non si formi attraverso una serie più o meno lunga e talvolta tortuosa di tentativi e aggiustamenti. E, sotto questo profilo, le soluzioni patrocinate di recente, ad esempio con la riforma dell’art. 618 c.p.p. sul giudizio di cassazione, pur apprezzabili per lo scopo di accentuare la prevedibilità del diritto giudiziario, possono per contro preoccupare proprio per il rischio di un eccessivo irrigidimento di quest’ultimo.
2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario
Il contenimento della responsabilità penale del medico per gli eventi avversi prodottisi nell’esercizio della sua attività è un’esigenza politico-giuridica che nasce dall’eccessivo ricorso da parte dei sanitari alla c.d. medicina difensiva. Com’è ben noto, la medicina difensiva è una pratica messa in atto, a sua volta, per contrastare gli eccessi con cui, in un recentissimo passato, la giustizia penale si muoveva a colpire presunti errori colpevoli dei sanitari e più in generale episodi di c.d. malasanità. Dinanzi all’innalzamento del c.d. “rischio penale” i medici si “cautelano” con due atteggiamenti difensivi. In senso attivo (medicina difensiva positiva), i medici tendono ad eccedere nel ricorso a mezzi diagnostici e interventi terapeutici, di cui non vi sia effettiva necessità o utilità curativa ma la cui prescrizione serve a cautelarsi contro un eventuale rimprovero di trascuratezza. Con la conseguenza però, non solo di gravare sui bilanci delle strutture sanitarie pubbliche, ma anche di intasarle producendo così ritardi e liste d’attesa pregiudizievoli per la salute dei cittadini. In senso passivo (medicina difensiva negativa), i medici tendono a “scaricare” su altri sanitari il paziente che possa essere a rischio, in modo da evitare l’attribuzione del possibile evento avverso: e anche ciò evidentemente, rallentando e complicando l’intervento terapeutico, può essere nocivo per la salute dei cittadini.
L’esigenza di contrastare la pratica della medicina difensiva è, dunque, reale; così come è reale l’esigenza di un più oculato e controllato esercizio dello strumento penale per contrastare i casi di effettiva malpractice medica. Per far fronte a queste indiscutibili esigenze si è preferito imboccare la via legislativa di prevedere espresse clausole di esclusione della punibilità del medico, invece di privilegiare la via giudiziaria di un uso più sorvegliato e accorto degli istituti e dei principi in materia di responsabilità colposa. Probabilmente, l’opzione a favore della via legislativa è stata motivata anche dello scopo di assicurare alla materia una maggiore certezza applicativa. Come vedremo, invece, è stato raggiunto l’effetto esattamente contrario, poiché l’incertezza ha contrassegnato non solo l’applicazione giurisprudenziale delle nuove norme, ma addirittura l’azione dello stesso legislatore che è intervenuto ben due volte in materia e a distanza di pochi anni, suscitando così anche aggiuntive incertezze di diritto intertemporale.
Può essere utile riprodurre i due testi legislativi con cui si è inteso circoscrivere la punibilità del medico. Il primo è costituito dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito in l. 8 novembre 2012, n. 189) (c.d. decreto Balduzzi) e dispone quanto segue: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Il secondo testo è costituito da un nuovo articolo del codice penale, l’art. 590 sexies, introdotto dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), che recita: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. ǀǀ Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi della legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».
Senza poter scendere qui nell’analisi dettagliata delle due disposizioni, appare abbastanza chiara l’idea di fondo loro comune, e cioè l’esclusione della responsabilità nel presupposto dell’osservanza delle leges artis sufficientemente consolidate, provvedendo peraltro la legge Gelli-Bianco a costruire un complesso meccanismo pubblicistico di accreditamento e pubblicazione delle linee guida. In sostanza, il messaggio generico sotteso al duplice intervento legislativo è che il medico non può soggiacere all’incertezza (se non all’alea) della responsabilità penale una volta che egli abbia osservato le leges artis “codificate”.
3. Ambiguità ed incertezze legislative
Poste così le necessarie premesse del discorso, possiamo passare ora a delineare sinteticamente l’evoluzione della vicenda che c’interessa, non senza aver sottolineato che si tratta di questione grandemente rilevante. E ciò non solo perché attiene alla disciplina giuridica di un settore, quello medico appunto, che riguarda in sostanza l’intera popolazione e al quale – com’è naturale – siamo tutti molto sensibili. Ma anche perché la questione tocca uno dei sancta sanctorum del diritto penale contemporaneo qual è appunto quello della responsabilità colposa e dei suoi limiti.
La recente vicenda della disciplina penale della responsabilità medica è una vicenda anomala, quanto meno perché si presenta assai poco lineare. Come già si può notare dalla semplice lettura dei due testi legislativi, il legislatore è stato, da un lato, ben determinato nella sua decisione di intervenire per via legislativa contro indubbi eccessi giurisprudenziali, ma dall’altro lato si è rivelato incerto e quasi timoroso, tornando ben presto sui suoi passi per ridurre la portata dell’esclusione di punibilità. Per parte sua, la giurisprudenza, dopo un’iniziale accoglienza sostanzialmente ostile all’innovazione legislativa, e anche dopo molte oscillazioni in gran parte dovute all’imperfezione dei testi, sembra oggi convincersi sempre più della necessità di una delimitazione della responsabilità, consolidando – come vedremo – un orientamento che non esita a forzare il dato legislativo pur di dare coerenza alla disciplina.
Probabilmente l’anomalia di questa vicenda non è casuale. Al contrario, essa nasce forse da una certa qual contraddizione interna alla questione. Da un lato, in linea di principio, siamo quasi istintivamente portati a nutrire sospetto verso le cause speciali di esclusione della punibilità: esse, infatti, non solo creano necessariamente un vuoto di tutela nei confronti dei beni protetti, ma rischiano talvolta di rivelarsi dei privilegi. Insomma, per superare queste diffidenze occorre che le cause di non punibilità superino un vaglio di ragionevolezza (e costituzionalità) sia dal lato passivo dei beni tutelati sia da quello attivo dei soggetti esonerati. Dall’altro lato, però è anche vero, e qui sta l’apparente contraddizione, che nella peculiare materia dell’attività medica, la causa di non punibilità non si pone in antitesi con la tutela dei beni finali della vita e salute dei pazienti. Anzi, rispetto a tale tutela è perfettamente consentanea, visto e considerato che la pratica della medicina difensiva costituisce un ostacolo alla migliore tutela dei cittadini. E la causa di non punibilità nasce proprio per contrastare la pratica della medicina difensiva.
Anche per quanto riguarda il lato attivo dei soggetti esonerati, è improprio parlare di “privilegio” della classe medica, visto e considerato – come non ha mancato di sottolineare la giurisprudenza – che la delimitazione della loro responsabilità penale per colpa risponde ad un principio generale dell’ordinamento espresso dall’art. 2236 c.c. con riguardo a tutti i professionisti che si trovano ad operare su casi specialmente complessi, come sono sicuramente quelli oggetto di trattamento medico («Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»).
4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo”
In linea generalissima, la recente evoluzione sia dottrinale che giurisprudenziale della colpa penale ha messo in luce il carattere che si potrebbe dire “sincretistico” della colpa penale: alieno, cioè, da eccessive distinzioni e suddistinzioni concettuali. Questo processo storico-culturale è avvenuto mediante la forte valorizzazione della violazione delle regole cautelari quale nucleo essenziale della colpa, finendo così per mettere in ombra la dimesione psichica di questa davvero complessa forma di imputazione soggettiva del reato. A riprova di quanto andiamo dicendo basta rammentare come, in sede teorica, è diventata quasi recessiva la distinzione un tempo fondamentale tra colpa generica e colpa specifica; così come è addirittura quasi scomparsa dai manuali l’altra distinzione che tripartisce la colpa generica nelle tre specie della negligenza, dell’imprudenza e dell’imperizia. Al più, queste distinzioni sono utilizzate solo per differenziare, ove necessario, le diverse tipologie di regole cautelari violate. Ma ciò che resta essenziale è appunto l’individuazione di una regola che abbia natura realmente cautelare, della sfera del pericolo cui la regola intende far fronte, della corrispondenza tra evento avverso prodotto e sfera del pericolo considerato dalla regola, nonché infine della efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito.
Anche in sede applicativa il dominante sincretismo della colpa è ben visibile nella formulazione di molti capi d’imputazione che spesso affastellano nella contestazione colposa tutte le possibili forme di colpa delineate dall’art. 43 c.p. e che raramente è dato scindere ed individuare separatamente almeno in sede preliminare di formulazione dell’accusa. Può darsi che dietro questo diffusissimo modus procedendi vi sia anche una componente di sciatteria, ma non è affatto improbabile che ciò riveli anche una certa impraticabilità di quelle pur apparentemente lineari e tramandate distinzioni codicistiche.
Ebbene, le riforme del decreto Balduzzi e della legge Gelli-Bianco vanno in direzione esattamente opposta alla tendenza sincretistica che oggi caratterizza la colpa: esse distinguono implicitamente tra colpa generica e colpa specifica, isolano l’imperizia tra le varie forme di colpa generica, rilanciano la distinzione tra colpa grave e colpa lieve che per lungo tempo era stata abbandonata dalla giurisprudenza penale che la utilizzava solo in sede di commisurazione della pena a norma dell’art. 133 c.p. Orbene, questa frammentazione della colpa in varie distinzioni e suddistinzioni, divenuta rilevante a seguito delle riforme non più solo per graduare la responsabilità colposa ma ancor prima per affermarne l’esistenza, ha logicamente prodotto la conseguenza di aggravare notevolmente l’onere motivazionale del giudice, costringendolo a calare nell’accertamento probatorio del fatto una griglia di distinzioni ardue già da un punto di vista concettuale, come abbiamo visto. Esemplare in questo senso è, ad esempio, tra le più recenti, la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4892/2020, Scuderi: «una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, di valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ma anche una motivazione in cui non sia appurato se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge».
Per cercare di orientarsi meglio sulle ragioni profonde di questo modo di procedere del legislatore che va in cerca di una delimitazione – per così dire verso il basso – della colpa penale in campo medico, può essere utile considerare quali opzioni si presentavano astrattamente possibili al riformatore. In linea di principio le vie percorribili erano due. La prima potrebbe esser detta quantitativa, facendo riferimento alla tradizionale distinzione tra colpa grave e colpa lieve per giungere ad espungere la seconda dall’area della rilevanza penale. La seconda potrebbe dirsi qualitativa, in quanto basata sulla distinzione – appunto qualitativa – tra le varie specie di colpa e le diverse tipologie di regole cautelari violate. E’ chiaro, poi, che i due criteri – quantitativo e qualitativo – possono essere anche fra loro commisti, ancorché l’ispirazione di fondo della soluzione rimanga riconducibile all’una o all’altra prospettiva.
Il criterio quantitativo, in virtù del quale la colpa lieve viene espunta dall’area di rilevanza penale, presenta pregi e difetti. Il suo maggior difetto è l’indeterminatezza derivante proprio dalla sua natura quantitativa. Ma è pur vero che questa indeterminatezza significa nello stesso tempo duttilità del criterio e sua capacità di adeguarsi al caso concreto, alle sue proteiformi manifestazioni nella realtà effettuale com’è appunto avviene specialmente in campo medico. I suoi pregi sono numerosi. Intanto si tratta di un criterio largamente conosciuto nella nostra tradizione giuridico-penale e consacrato dall’art. 2236 c.c. per quanto riguarda la responsabilità civile. Ma soprattutto corrisponde a quel carattere "sincretistico" della colpa che abbiamo già evidenziato e in ragione del quale la colpa risulta essere un giudizio complesso effettuato alla stregua di numerosi parametri. E qui arriviamo, in effetti, al pregio fondamentale del criterio quantitativo della colpa lieve, e cioè la possibilità – appunto “sincretistica” – che esso offre al giudice di avvalersi di più e diversi parametri congiuntamente: il giudizio di colpa lieve/grave deve infatti tener conto certamente delle “speciali difficoltà” del caso ma anche delle caratteristiche di contesto in cui è chiamato ad operare il medico (l’urgenza, le scarse risorse tecniche, ecc.) nonché delle condizioni personali dell’operatore (la stanchezza accumulata, il grado di esperienza maturata, ecc.), fino ad arrivare alla c.d. misura soggettiva della colpa intesa in termini di soggettiva e contingente esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari.
Ebbene, delle due riforme il decreto Balduzzi era chiaramente ispirato in modo prevalente al criterio quantitativo, visto che faceva riferimento espresso alla colpa lieve senza peraltro distinguere tra le varie specie di colpa. E, invero la giurisprudenza aveva conseguentemente ritenuto di poter configurare la colpa lieve anche al di là del perimetro segnato dall’imperizia, includendo anche la negligenza e l’imprudenza.
5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali
La legge Gelli-Bianco va invece in direzione decisamente opposta, optando per il criterio qualitativo e abbandonando la distinzione tra colpa grave/colpa lieve. La riforma s’impegna invero in una implicita ma evidente differenziazione delle tipologie di regole cautelari e leges artis rilevanti.
L’art. 590 sexies, comma 2, c.p. individua innanzitutto due tipologie di regole cautelari, o leges artis, la cui osservanza è condizione essenziale perché possa operare la causa di non punibilità. Recita infatti quella disposizione che «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalla linee guida [come definite e pubblicate ai sensi della legge] ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Si può dunque dire che, affinché possa scattare la causa di non punibilità, debbono essere rispettate, in primo luogo, le regole generali relative all’inquadramento diagnostico-terapeutico del caso in questione (ad es. l’inquadramento della patologia oncologica in una certa specie di tumore per il quale i protocolli prevedono in generale un determinato trattamento): a questo tipo di regole fa riferimento la legge quando parla di “linee guida” (definite e pubblicate conformemente alle procedure previste dalla legge) ovvero di “buone pratiche clinico-assistenziali”. In secondo luogo, e a differenza di quanto invece disponeva – o meglio non disponeva – il decreto Balduzzi, la non punibilità è subordinata all’osservanza delle “regole di adeguamento” al caso concreto, che ben possono, e solitamente sono, anche in deroga a quelle generali d’inquadramento diagnostico-terapeutico (ad es. correttamente inquadrata la patologia oncologica, le particolari condizioni del paziente suggeriscono di allontanarsi dalle linee guida [o buone pratiche] del trattamento terapeutico previsto da queste ultime).
In presenza di un siffatto quadro normativo si pone subito un arduo problema interpretativo, anzi quello che fu ritenuto un vero e proprio rebus interpretativo ai limiti della insolubilità. Posto, infatti, che la causa di non punibilità presuppone l’osservanza delle leges artis d’inquadramento del caso nonché quelle di adeguamento alle sue specificità concrete, quale spazio residua per l’operatività della causa di non punibilità? Quest’ultima implica pur sempre che il comportamento del medico sia colposo, ma se al contempo la condizione per la sua applicazione è l’osservanza di ben due categorie fondamentali di regole cautelari, quali potranno essere le leges artis la cui inosservanza caratterizzerà il comportamento colposo rientrante nella fattispecie di non punibilità? Insomma, la formulazione dell’art. 590 sexies c.p. è tale per cui, almeno ad una prima lettura, l’ambito della non punibilità sembra coincidere con ipotesi originariamente non colpose: se così fosse realmente, la norma sarebbe del tutto inutile.
E’ stata la giurisprudenza ad impegnarsi nell’ardua opera d’individuazione della tipologia di quelle regole cautelari la cui inosservanza è suscettibile di dare corpo ad una colpa non punibile ai sensi dell’art. 590 sexies c.p. Questa tipologia di regole fu individuata nelle c.d. regole esecutive o di attuazione: esecutive o attuative delle regole d’inquadramento generale o di adeguamento al caso. Così, ad esempio, inquadrato esattamente il caso e programmato l’intervento terapeutico tenendo conto delle specifiche caratteristiche del paziente, il chirurgo erra nell’esecuzione dell’operazione (Cass. Sez. IV, n. 50078/2017, Cavazza: la causa di non punibilità è «operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse»).
La ricostruzione giurisprudenziale dell’art. 590 sexies c.p. è senz’altro meritoria poiché conferisce un senso alla disposizione, ma certamente ne delinea – ed è già molto dato il suo tenore letterale – un campo applicativo ad un tempo eccessivamente limitato e potenzialmente troppo largo. Eccessivamente limitato perché la categoria delle norme esecutive o attuative è davvero particolarissima e molto residuale, e sembra inoltre essere stata individuata pensando prevalentemente al settore della chirurgia; troppo largo perché anche nell’esecuzione materiale del trattamento possono manifestarsi comportamenti colposi di estrema gravità (come, ad es., quello del chirurgo che commetta un grossolano errore esecutivo).
In secondo luogo, la legge Gelli-Bianco introduce un ulteriore forte limite alla non punibilità, assente nel decreto Balduzzi. A tenore del nuovo art. 590 sexies c.p. la causa di non punibilità è limitata alla sola colpa per imperizia. E con ciò le difficoltà interpretative si accentuano ulteriormente. E’ probabile che la ragione sostanziale di questa limitazione stia nella convinzione del legislatore che, mentre la negligenza e imprudenza esprimono due atteggiamenti soggettivi di indifferenza se non di ostilità nei confronti dei beni giuridici, l’imperizia è invece un difetto cognitivo o esecutivo, un errore, come tale meritevole di essere trattato con maggiore benevolenza nel campo medico caratterizzato da incertezza.
Pur essendoci del vero in questa convinzione, ciò nondimeno non per questo la disposizione cessa di essere di difficoltosa interpretazione e di produrre l’effetto di una sorta di sterilizzazione delle sue potenzialità applicative. La dottrina già da tempo aveva messo in luce la scarsa autonomia concettuale dell’imperizia in generale: come semplice difetto delle conoscenze e delle abilità necessarie, l’imperizia non è in grado di dare compiuta consistenza alla colpa e al rimprovero che essa implica. Oggi, poi, è intervenuta nella specifica materia della responsabilità medica un’importantissima sentenza della Cassazione che ha fatto chiarezza sulla natura dell’imperizia. Si tratta della sentenza della Quarta sezione n. 15258/2020, nella quale sono stati chiariti due aspetti fondamentali. Innanzitutto, si è messo bene in luce come l’imperizia s’identifichi in sostanza con l’errore professionale come tale non necessariamente colpevole («si deve rimarcare che dopo aver accertato la violazione della regola cautelare, occorre accertare che quella violazione sia stata colposa; in questo secondo step deve darsi massimo spazio alla realtà dell’autore fisico e alle condizioni concrete nelle quali si è materializzato il fatto»). L’imperizia sta in sostanza ad indicare l’oggettivo scostamento del comportamento dalle regole cautelari caratteristiche delle attività tecnico-professionali, nelle quali le regole cautelari implicano l’osservanza delle leges artis, la cui violazione dà luogo appunto ad imperizia. In secondo luogo, si è affermato esattamente che l’errore professionale, cioè il comportamento imperito, trasmoda in colpa solo quando l’incapacità di adeguarsi alle leges artis tecnico-professionale sia accompagnata da un atteggiamento colpevole di negligenza o imprudenza. Questo significa che anche nella colpa per imperizia refluiscono componenti negligenti o imprudenti («in linea di massima, l’agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad esser valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l’uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l’evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza»). Con la conseguenza, dunque, che, mentre il richiamo effettuato dall’art. 590 sexies c.p. all’imperizia deriva dal fatto che esso concerne un’attività tecnico-professionale come quella medica, la presenza di negligenza o imprudenza nel comportamento non può per ciò solo escluderlo dall’ambito applicativo della fattispecie di non punibilità.
A questo punto, dopo aver visto come la giurisprudenza ha chiarito i requisiti della fattispecie di non punibilità costituiti dall’osservanza delle regole d’inquadramento e di adeguamento e dalla imperizia, nell’itinerario interpretativo dell’art. 590 sexies c.p. s’inserisce l’ultimo passaggio logico compiuto dalle Sezioni Unite con la notissima sentenza n. 8770/2018, Mariotti. Diciamo subito che con questa pronuncia viene recuperato il limite della colpa grave, in modo da escluderla dall’ambito applicativo della fattispecie, nonostante che l’art. 590 sexies c.p. nulla dica espressamente al riguardo. Sembra qui riaffiorare quella certa qual diffidenza verso la non punibilità, di cui abbiamo detto all’inizio, dovuta al timore di un eccessivo indebolimento della tutela. E in effetti è ben possibile che un errore terapeutico sia dovuto a negligenza o imprudenza anche molto gravi e dunque intollerabili, ancorché esso si radichi nell’inosservanza di regole “semplicemente” esecutive o attuative. Addirittura, l’indebolimento della tutela potrebbe far sorgere dubbi di costituzionalità, qualora si riveli così macroscopico da apparire ingiustificato e pertanto irragionevole.
Dunque le Sezioni Unite avvertono il bisogno, per “salvare” la causa di non punibilità, di ricorrere ad una sua interpretazione conforme a Costituzione, consistente nel reinserimento del limite della colpa grave nella fattispecie. Un’operazione ermeneutica, questa, tanto apprezzabile negli intenti e nelle conseguenze quanto opinabile per il percorso argomentativo prescelto (ma, forse, obbligato?).
Lasciamo stare qui le riserve che sono state espresse autorevolmente e in via generale nei confronti dell’interpretazione conforme in quanto tale, tacciata di favorire forzature del testo legislativo proprio in quanto orientata a ottenere un determinato risultato ermeneutico prefigurato in partenza, piuttosto che fungere da metodo euristico dell’esito interpretativo. Seppure ci sia del vero in questi rilievi critici, rimane indubitabile che, se ben praticata, l’interpretazione conforme a Costituzione è un veicolo prezioso per far circolare direttamente nel tessuto normativo dell’ordinamento i valori costituzionali.
Come è ben noto, l’invalicabile confine che trova l’interpretazione conforme è il significato linguistico del testo legale. Nel senso che, pur nell’intento di armonizzare la disposizione legale con la Costituzione, non è possibile per l’interprete attribuire ad essa un significato che sia incompatibile con quello linguistico del testo. Orbene, la sentenza Mariotti, inserendo il limite della colpa grave nel testo dell’art. 590 sexies c.p., ritiene di stare entro i confini dell’interpretazione conforme in quanto avrebbe operato non già contra legem bensì praeter legem. E, da un certo punto di vista, ciò non è inesatto, in quanto l’operazione interpretativa si risolve non già nel sostituire un elemento di fattispecie con altro ma nell’aggiungere – oltre il disposto normativo – un elemento non previsto, sul quale il testo è dunque silente. Vero ciò, è altrettanto indubitabile però che l’operazione si rivela fortemente manipolativa del testo e davvero ai confini dell’interpretazione conforme consentita. In effetti, quando si parla di quest’ultima, normalmente ci si riferisce al carattere polisemico di una disposizione legislativa e alla conseguente scelta dell’interprete che, tra i plurimi significati dell’espressione linguistica, sceglie quello conforme (o maggiormente conforme) a Costituzione: in questo senso il significato della disposizione non viene tradito poiché il giudice, con la sua scelta, rimane pur sempre all’interno del campo semantico sotteso alla disposizione.
Nel nostro caso, invece, è avvenuto qualcosa di diverso. La Corte di cassazione, infatti, non ha scelto tra i possibili significati dell’espressione linguistica, ma ha inserito ex novo nella struttura linguistica della fattispecie un elemento non previsto espressamente, e cioè quello della colpa lieve. Così operando, fra l’altro, una scelta destinata a ridondare a svantaggio del reo, perché limitante l’ambito applicativo della causa di non punibilità.
6. Un buon risultato paralegislativo
Nonostante la forzatura presente nel percorso argomentativo della sentenza Mariotti, tuttavia è difficile disconoscere il pregio dei risultati così conseguiti, tali da delineare un assetto normativo di grande interesse per la colpa medica. Non si tratta solo di aver delimitato la sfera della non punibilità in modo più coerente con la tradizione del nostro ordinamento e con le sostanziali esigenze di tutela. Con questo pronunciamento, soprattutto se letto insieme alla successiva e già ricordata sentenza n. 15258/2020, la Cassazione ha compiuto un’importante operazione di rivitalizzazione della colpa grave, cioè del criterio quantitativo, quale discrimine della responsabilità colposa del medico.
In effetti, la clausola della colpa grave, facendo pernio sull’intensità del rimprovero colposo nel suo insieme, è innanzitutto capace di “mangiarsi” per così dire quel limite dell’imperizia, la cui ragion d’essere – come abbiamo visto – è molto opinabile. In secondo luogo, e soprattutto, la clausola della colpa grave è potenzialmente idonea a travolgere anche il limite costituito dalla tipologia di regole cautelari di cui è richiesta l’osservanza dall’art. 590 sexies c.p.: le regole d’inquadramento diagnostico-terapeutico e quelle di adeguamento al caso concreto. Infatti, una volta che faccia ingresso il criterio selettivo dell’intensità del rimprovero colposo nel suo complesso, non ha più senso limitare la non punibilità alla sola inosservanza delle regole esecutive ed attuative. Un rimprovero trascurabile è ben concepibile senza dubbio anche nell’inosservanza delle regole d’inquadramento o di adeguamento: tutto dipende, come al solito, dalle caratteristiche del caso. Ma c’è di più. Nell’ipotesi in cui il caso sia talmente nuovo o speciale per cui non esistano linee guida o buone pratiche, a stretto rigore la causa di non punibilità non potrebbe essere mai applicabile per mancanza di un suo requisito. Orbene, si tratta di un risultato incongruo, essendo evidente che un’esigenza di eventuale non punibilità è molto più probabile in una siffatta, davvero difficilissima, situazione, anziché in quella in cui l’errore terapeutico abbia riguardato la solitamente più semplice fase dell’esecuzione o attuazione dell’intervento.
In definitiva, la soluzione “quantitativa” della colpa grave si rivela suscettibile di una più ampia e ragionevole sfera di applicazione rispetto allo schema di non punibilità un po’ arzigogolato delineato dalla legge Gelli-Bianco. Rimane aperto il problema se questa dilatazione del campo di applicazione attraverso la colpa grave come rievocata dalla sentenza Mariotti, possa operare già de lege lata oppure se abbia bisogno di una nuova e più adeguata – ma anche più semplice – formulazione legislativa. In effetti, estendere la causa di non punibilità oltre i requisiti espressamente indicati dall’art. 590 sexies c.p. (alle ipotesi di inesistenza di leges artis consolidate) ovvero contro di essi (alle ipotesi di colpa lieve nell’inosservanza delle leges artis), apparirebbe una nuova forzatura del testo, anche se ispirata a conferire ad esso una sostanza valoriale e una ragionevolezza ben maggiori di quelle esibite dal testo vigente. Indubbiamente, potrebbe essere forte la tentazione per la giurisprudenza che ha fatto trenta (con la sentenza Mariotti) di fare anche trentuno ampliando alle ipotesi non previste: e questa volta per di più in senso favorevole al reo.
E’ chiaro, inoltre, che la delimitazione della punibilità alla colpa grave potrebbe egregiamente prestarsi a risolvere la stragrande maggioranza dei casi originati dall’emergenza pandemica del coronavirus, senza avventurarsi nella difficile forgiatura legislativa di un apposito “scudo” ritagliato sulla contingenza sanitaria. Indubbiamente, però, se una più o meno confessata sfiducia nella magistratura (soprattutto del pubblico ministero) unita alla lunghezza dei processi dovessero far optare per una disposizione di “sbarramento” capace di bloccare sul nascere l’azione penale, allora bisognerebbe pensare ad una vera e propria causa di non punibilità di problematico confezionamento. Essa, infatti, dovrebbe essere congegnata prescindendo da quell’accertamento di fatto pur sempre indispensabile per graduare la colpa, e puntando su un dato obiettivo per così dire “esterno” alla tipicità del fatto colposo (la sua ‘concomitanza’ con l’epidemia?) ictu oculi riconoscibile dal pubblico ministero al momento dell’acquisizione della notitia criminis. Ma il rischio sarebbe allora quello di fare d’ogni erba un fascio, coprendo con la causa di non punibilità anche eventuali fatti gravemente colpevoli sol perché commessi nella contingenza epidemica.
Infine, a parte ciò, sembra proprio che la clausola della colpa grave possa aprire interessanti prospettive di politica penale per il futuro. Intanto, potrebbe proseguire quel processo che pare essere già in atto nella giurisprudenza, di affrancamento della colpa grave dall’art. 2236 c.c., o per meglio dire di suo progressivo superamento: i parametri di accertamento della colpa grave/lieve potrebbero del tutto ragionevolmente ed opportunamente andare oltre quello della “speciale complessità” del caso per comprendere anche quelli relativi al contesto obiettivo, alle condizioni personali del soggetto, alla misura soggettiva della rimproverabilità.
Inoltre, è lecito pensare che un futuro sviluppo dei confini tra responsabilità civile e penale possa andare nel senso di fare della colpa grave il confine generale tra illecito civile e illecito penale, al di là dunque del campo della responsabilità del medico e forse anche al di là del campo della responsabilità del professionista. Così facendo sarebbe data reale attuazione al principio fondamentale che vuole l’intervento penale quale ultima ratio della tutela dei beni.
La conclusione finale che si può trarre da questo nostro excursus sulla colpa medica è che si tratta probabilmente di un campo ancora in divenire. Ma soprattutto un campo in cui la disciplina giuridica, sebbene sospinta da interventi legislativi espressivi di esigenze reali ma formulati in modo spesso infelice, è stata forgiata dalle mani della giurisprudenza non raramente in direzione diversa da quella presa dal legislatore. Un processo, questo che vede sinergicamente operanti diritto legale e diritto giudiziario, che si è svolto senza scandalo e forse con soddisfazione diffusa.
[1] Il lavoro è destinato agli Scritti in onore del prof. Antonio Fiorella
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