ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Granital reloaded o di una «precisazione» nel solco della continuità*
di Corrado Caruso
Sommario: 1. Granital: in memoriam? - 2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital - 3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti - 4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»… - 5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità.
1. Granital: in memoriam?
Vi è un’osservazione ricorrente nel dibattito sulla ormai nota «precisazione» della sent. n. 269 del 2017: la pronuncia – la prima di una serie – avrebbe ormai superato la regola enunciata nella sent. 170 del 1984 (COSENTINO 2020, TEGA 2020, per restare ai contributi più recenti), inaugurando un nuovo criterio di composizione dei contrasti tra diritto europeo e diritto nazionale.
Come noto, in base all’assetto disegnato dalla sentenza Granital, a fronte di un’antinomia tra norma sovranazionale ad effetto diretto e norma interna, il giudice comune avrebbe dovuto dare prevalenza al precetto europeo, con conseguente disapplicazione (rectius: non applicazione, come poco dopo specificherà il Giudice delle leggi nella sent. 168 del 1991) del diritto interno con esso contrastante. Tale meccanismo, che è andato affinandosi nel successivo prosieguo giurisprudenziale, ha sancito una triplice riserva di controllo alla Corte costituzionale: nei casi (a) di contrasto della legge interna con una norma europea non self-executing; (b) di controversie in via principale tra Stato e Regioni (in ragione della specifica finalità del giudizio in via di azione, che risponde a una esigenza di coerenza dell’ordinamento complessivo e di certezza nelle relazioni territoriali, CARUSO 2020, pp. 129 e ss.); (c) di attivazione dei controlimiti da opporre all’ingresso del diritto comunitario.
La sentenza n. 269 del 2017 avrebbe dunque posto le basi per un complessivo ripensamento di questo meccanismo o, quanto meno, per una rilevante eccezione (COSENTINO 2020) alla regola Granital, delineando un criterio particolare di risoluzione delle antinomie normative che coinvolgono le disposizioni della CDFUE. In virtù del noto obiter, la Corte costituzionale è chiamata a comporre il contrasto tra i diritti fondamentali previsti dalla Carta di Nizza e la legislazione nazionale, per la «impronta tipicamente costituzionale [dei] principi e i diritti enunciati nella Carta», i quali «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione (…)». Per tale ragione, «le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes (…), anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sent n. 269 del 2017).
Non vi è dubbio che il menzionato obiter presenti carattere innovativo, tanto da disegnare un criterio generale di risoluzione dei conflitti da affiancare alle tecniche che tradizionalmente hanno accompagnato i rapporti tra ordinamento interno e diritto sovranazionale. Da simile innovazione, tuttavia, non è possibile rinvenire la causa del superamento di Granital, assecondando un approccio meramente esegetico alla giurisprudenza costituzionale. È necessario invece prendere atto del diverso contesto in cui le due pronunce si collocano per evidenziarne l’identità dei presupposti teorici, consistenti nella distinzione degli ordinamenti e nella natura derivata e tendenzialmente settoriale del sistema sovranazionale. La «precisazione» rappresenta l’effetto o (il «sintomo», secondo DANI 2020) dell’evoluzione dei rapporti tra diritto interno e ordinamento sovranazionale, situandosi in continuità con la sent. n. 170 del 1984. La Corte costituzionale recupera la matrice originaria per aggiornarne i contenuti, torna nel passato per cambiare il futuro o, quanto meno, per correggere le sorti del processo di integrazione. Granital reloaded, dunque, per parafrasare il titolo di una famosa pellicola: la «precisazione» riavvia il codice originale del sistema delle relazioni ordinamentali per evitarne l’implosione e riallacciare le fila del discorso sul federalizing process europeo (per questa metafora, riferita al metodo del diritto pubblico, CARUSO, CORTESE 2020, pp. 9 e ss., CARLONI 2020, pp. 214 e ss.).
Il sistema disegnato da Granital era piuttosto semplice o, quanto meno, sufficientemente stilizzato: l’egida dell’art. 11 Cost. consentiva, secondo la Corte, la delega di alcune competenze settoriali a un ordinamento «distint[o] ancorché coordinat[o]», volto alla creazione (prima) di una zona di libero scambio e (poi) di un mercato comune transnazionale; su tali competenze lo Stato avrebbe mantenuto la propria sovranità, trasferendo l’esercizio (sempre revocabile) di alcune funzioni e, di conseguenza, ammettendo l’ingresso degli atti comunitari secondo la forza e l’efficacia che l’ordinamento di origine attribuiva loro. Il rapporto di separazione ordinamentale era consentito (o meglio governato) dall’art. 11 Cost., principio fondamentale che, per un verso, imponeva alla legge nazionale di non interferire con la sfera occupata dall’atto comunitario e, per altro verso, richiedeva al giudice interno di non dare applicazione alla norma interna. Tale disapplicazione era pensabile per la particolare struttura formale della normativa sovranazionale, coincidente con i regolamenti comunitari, unica tipologia di atto abilitata, per esplicita dizione del trattato istitutivo (art. 189 TCEE), a produrre norme self-executing.
La Corte costituzionale accoglieva così l’approccio della Corte di Giustizia in Simmenthal[1], riproponendolo in un’ottica dualista puntellata da una serie di dati positivi (art. 11 Cost. e trattati istitutivi). In tale prospettiva, l’effetto diretto era una qualità assegnata ad un determinato tipo di fonte, così come la disapplicazione un criterio formale per sciogliere una puntuale contraddizione tra regole nei settori devoluti all’ordinamento comunitario (A. BARBERA 2017).
Simile assetto viene progressivamente alterato dalla successiva evoluzione ordinamentale, scandita da molteplici passaggi che scardinano la logica degli ordinamenti «distinti ancorché coordinati». La delega di funzioni approda a lidi inesplorati, coinvolgendo persino la moneta e le sue politiche, considerate, sin dalla fondazione dello Stato moderno, riflesso della sovranità statuale. La creativa giurisprudenza della Corte di giustizia, recepita dalla stessa Corte costituzionale, allarga il novero degli atti capaci di produrre norme ad effetto diretto: trattati, direttive, decisioni quadro e, persino, le stesse sentenze dei giudici di Lussemburgo, cui le Corti riconoscono, attraverso un processo di astrazione generalizzatrice del principio di diritto ivi enunciato, effetti che superano il disposto del singolo caso, assurgendo al rango di fonte del diritto. Le istituzioni sovranazionali (e, in particolare, la Commissione, nel suo ruolo di “motore dell’integrazione”) modificano progressivamente le tecniche redazionali degli atti formalmente sprovvisti di efficacia diretta, non più volte all’indicazione di obiettivi ma dotate di prescrizioni minute e dettagliate; lo stesso effetto diretto va incontro a una metamorfosi funzionale, sino a divenire strumento di origine pretoria che, in assenza di stabili ed intellegibili test giudiziali (GALLO 2018, pp. 177 e ss., REPETTO 2019, p. 3), assicura il primato del diritto dell’Unione (BARTOLONI 2018) a prescindere dallo struttura normativa della disposizione (come emerge plasticamente dalla interpretazione dell’art. 325 TFUE offerta dalla prima decisione della Corte di Giustizia nel caso Taricco[2], DI FEDERICO 2018, pp. 3 e ss.).
Persino la Carta di Nizza conosce una paradossale eterogenesi dei fini: pensata, nell’ambito del processo di costituzionalizzazione dei trattati, quale codificazione dell’ordine valoriale europeo a garanzia degli individui nei confronti (anche e soprattutto) delle istituzioni europee (TRUCCO 2013, pp. 36 e ss.), la sua incorporazione nel TUE l’ha resa una leva archimedea nei confronti delle competenze degli Stati membri (M. BARBERA 2014, p. 387), trovando applicazione nei confronti del diritto nazionale entrato nella sfera di influenza o nel «cono d’ombra» (CARTABIA 2001, p. 389) dell’ordinamento sovranazionale. L’interpretazione estensiva dell’art. 51 CDFUE, frutto del fecondo dialogo tra Corte di giustizia e giudici comuni, ha generato una pressione sul principio di attribuzione, arrivando al limite di quanto consentito dalla lettera dei trattati (MORRONE, CARUSO 2017, p. 402). Rinvio pregiudiziale (interpretativo) e disapplicazione hanno consentito ai giudici comuni di muoversi quali agenti decentrati della Corte di giustizia (CONTI 2019 scrive di un progressivo «innamoramento» della coppia giudice comune-CGUE), organo che ha smesso i panni del custode delle competenze dell’Unione per assumere il ruolo di istituzione federatrice dell’ordinamento sovranazionale (si pensi non solo al noto caso Åkerberg Fransson[3], ma a tutte le pronunce che, tramite il richiamo alla CDFUE o ai suoi contenuti, hanno riconosciuto effetti orizzontali alle direttive come Mangold[4], pure precedente all’entrata in vigore della Carta, Kücükdeveci[5], Bauer[6], Max Planck[7], tutte analizzate da ROSSI 2019).
2. Dualismo e asimmetria ordinamentale: la conferma dei presupposti di Granital
L’evoluzione dell’integrazione ha portato quindi all’emersione di una duplice dinamica: a livello interno, si è assistito all’ampliamento del potere di disapplicazione del giudice comune, tendenza che ha indotto autorevole dottrina a proporre una innovativa classificazione del nostro sistema di giustizia costituzionale, non più misto (accentrato ad accesso diffuso) ma duale, contraddistinto cioè dalla simultanea convivenza del sistema accentrato accanto a un controllo diffuso di compatibilità sovranazionale rispetto al diritto self-executing (ROMBOLI 2014, p. 31).
A livello esterno, l’integrazione trough law, funzionale all’unificazione e alla regolazione unitaria del mercato perfettamente sovrapponibile alla logica del «distinti ancorché coordinati» di Granital, è stata progressivamente affiancata dalla «integrazione attraverso i diritti», che vede nei diritti fondamentali i vettori di una rinnovata supremazia del diritto sovranazionale sugli ordinamenti interni.
La sentenza n. 269 del 2017 interviene, dunque, su simili dinamiche: agisce sul potere di disapplicazione dei giudici, relegandolo «al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale», ove «la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità» sia, «per altri profili, (…) contraria al diritto dell’Unione»; incide, a livello esterno, sull’ordine delle pregiudizialità, arrestando, quanto meno indirettamente, il processo di attrazione dei diritti fondamentali nell’orbita interpretativa della Corte di giustizia. I giudici di Lussemburgo, pertanto, sono chiamati in causa dal giudice comune solo ove, all’esito del giudizio di costituzionalità, la norma interna non sia stata eliminata dall’ordinamento con effetti erga omnes. Peraltro, come dimostra la prassi successiva alla sent. n. 269 del 2017[8], alla resecazione del ruolo del giudice comune corrisponde una rinnovata dimestichezza del Giudice delle leggi nel servirsi del rinvio pregiudiziale (AMALFITANO 2020, p. 278). La Corte costituzionale tende a farsi interlocutore privilegiato della Corte di giustizia affermando una rinnovata centralità nelle questioni che definiscono l’«identità costituzionale» dell’ordinamento interno[9] senza cadere in quel «monismo costituzionale rovesciato», pure paventato in dottrina (REPETTO 2017, p. 2960). In effetti, la rentreé della Corte costituzionale contribuisce a rendere i diritti fondamentali «norm[e] di equilibrio», capaci «di segnare i limiti (…) dell’azione, normativa e giurisdizionale, delle istituzioni [sovranazionali] senza minare l’impianto costituzionale dell’ordinamento Ue», evitando altresì «indebit[e] attivazioni[i] dei controlimiti» (così, sulla clausola dell’identità nazionale, DI FEDERICO 2018, p. 334). In effetti, il più ampio coinvolgimento della Corte costituzionale nel dialogo con la Corte di giustizia (non solo attraverso rinvii interpretativi ma anche tramite pregiudiziali di validità[10]) comporta una proiezione della Costituzione nello spazio giuridico europeo, contaminato dalle pratiche interpretative e dall’inveramento istituzionale dei diritti a livello interno. Il processo di colonizzazione sovranazionale (CARTABIA 2007, pp. 57 e ss.) condotto dalla Corte di giustizia viene frenato attraverso una strategia promozionale altamente cooperativa, capace di disinnescare la logica difensiva dei controlimiti, evocabili solo a fronte di una situazione eccezionale di tensione per i valori fondamentali dell’ordine interno. Viene così scongiurato il pericolo legato a un ricorso disinvolto a tale categoria che, se elevato a sistema, sarebbe esiziale per il progetto europeo, traducendosi potenzialmente in una serie di riserve di origine pretoria apposte sulla legge di esecuzione dei trattati.
Si spiega così il riferimento, contenuto nella «precisazione», alle tradizioni costituzionali comuni, quale complesso dei fini e dei valori che contraddistinguono le diverse comunità politiche nazionali in una prospettiva evolutiva: «[i]l diritto come tradizione indica un corpo normativo, che come ogni organismo vivente cresce e si trasforma, mantenendo la propria identità, mentre le singole parti di cui è composto sono soggette a un incessante processo di trasformazione e di cambiamento, di decadenza e di rinnovamento» (CARTABIA 2017, p. 16). In questa prospettiva evolutiva gioca un ruolo fondamentale anche il diritto sovranazionale, che influenza i singoli ordinamenti nazionali nel nome di un comune acquis di valori e principi. In tal senso, è senz’altro condivisibile l’idea secondo cui «[n]essuna Corte costituzionale può (…) riservarsi il potere di interpretare la Carta unilateralmente, in armonia con le proprie tradizioni costituzionali, perché è solo nel dialogo con la Corte di Giustizia che i valori di una Costituzione possono assurgere a tradizioni costituzionali comuni» (ROSSI 2018, p. 6). É necessario però evitare uno slittamento monistico del diritto sovranazionale, assecondando il potere della Corte di giustizia nella selezione unilaterale di valori e principi meritevoli di entrare nel patrimonio costituzionale condiviso. L’identità nazionale, che l’Unione europea si impegna a rispettare ai sensi dell’art. 4.2 TUE, riconosce alle istituzioni interne, e, in particolare, alle corti di ultima istanza (obbligate, non a caso, al rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE), il compito di individuare ed esternare, nel confronto con i giudici di Lussemburgo, il codice genetico del proprio ordinamento, condizione necessaria (ma non sufficiente) a determinare le comuni tradizioni costituzionali.
La sentenza n. 269 del 2017 prova a interrompere l’usucapione (GUAZZAROTTI 2018, pp. 194 e ss.) dei diritti fondamentali da parte di un ordinamento derivato che, proprio tramite la valorizzazione di norme ad alta vocazione assiologica, tenta di legittimare sé stesso attribuendosi una competenza generale alternativa o, meglio, sostituiva di quella degli Stati membri.
Simile strategia non si pone al di fuori di Granital, ma anzi ne riafferma, aggiornandolo, il presupposto ordinamentale, e cioè l’assetto duale e asimmetrico di ordinamenti distinti collocati su posizioni diverse ancorché reciprocamente connesse: da un lato, l’ordinamento nazionale titolare del potere di decidere sulla estensione delle competenze attribuite di un sistema di indole settoriale, derivato e deterritorializzato (SCACCIA 2017, pp. 53 e ss.); dall’altro, il diritto sovranazionale che influenza e contamina l’ordinamento generale spazialmente situato, prescrivendo comportamenti e orientando, nei settori che intersecano l’ordinamento generale, scelte e preferenze di attori istituzionali e corpo sociale.
La prospettiva duale e asimmetrica è in fondo l’unica coerente con l’art. 11 Cost., che ammette limitazioni e non «cessioni» della sovranità posta dalla Costituzione (BIN 2019, p. 770). Tale disposizione «fissa condizioni precise perché si possa decidere di limitare la sovranità, imponendo «alle nostre istituzioni costituzionali di mantenere il controllo sul modo in cui funzionano (la parità) e operano (i fini) le istituzioni europee» (BIN, ibidem). Non è dunque assimilabile la dinamica dell’integrazione sovranazionale – il processo di integrazione – alla nascita di un ordinamento unitario, al prodotto di un’azione unificante –, quasi sia possibile isolare una «entità unitaria eterarchica» emersa dal federalizing process europeo (così invece MORRONE 2018, p. 4). Trarre dai rapporti inter-ordinamentali una sintesi della «produzione di norme derivanti dai fatti fondamentali» (MORRONE, ibidem) eleverebbe i mutamenti costituzionali – pure intervenuti a seguito dell’appartenenza all’Unione – a elementi fondativi di un nuovo ordinamento al di fuori della Costituzione repubblicana.
3. Il contesto (e la sfida) della «precisazione»: l’integrazione attraverso i conflitti
In un quadro di relazioni intrattenute da soggetti distinti ma altamente integrati, che perseguono fini diversi ma che pure inevitabilmente si intersecano, la prospettiva non è data dall’unità, e quindi dalla nascita e dal mantenimento di un soggetto politico unitario ma è, invece, quella del sistema a rete che si sviluppa attraverso conflitti di sistemi istituzionali portatori di specifiche identità. Poiché anche l’ordinamento sovranazionale si è dotato di una Carta dei diritti e, più in generale, di un lessico costituzionale, in un contesto duale e adespota che non conosce la decisione fondamentale sull’unità politica, le divergenze interpretative e i conflitti giurisdizionali diventano la regola delle relazioni tra ordinamenti (MARTINICO 2020). Simile evoluzione richiede di aggiornare gli strumenti per interpretare il processo di integrazione europea: la metafora del dialogo tra le corti o della tutela multilivello dei diritti cede il passo alla iconografia del conflitto, «categoria operativa, non materialmente neutra» (MEDICO 2020) che rimanda a una relazione mutualmente costitutiva tra ordinamenti. É in questo quadro che deve essere declinato il principio di leale collaborazione, evocato dalla «precisazione» della Corte costituzionale e dalla Corte di giustizia nelle sentenze Melki e Abdeli[11] e A contro B e altri[12]: per evitare, infatti, che il principio di lealtà si traduca in un concetto vuoto che nasconde la pretesa egemonica di una giurisdizione (e di un ordinamento) sull’altra, è necessario un atteggiamento di judicial modesty, una generale consapevolezza circa l’estensione dei propri poteri, le finalità dei rispettivi ordinamenti, l’ineluttabilità delle reciproche interferenze.
La logica dei diritti fondamentali, infatti, «non è univoca ma risente delle diverse ragioni ordinamentali in cui si colloca», subendo «una torsione in relazione al contesto in cui si inserisce» (MEDICO, ibidem). Nell’ordinamento sovranazionale, ad esempio, i diritti non sono ciò che vale in sé, non incarnano valori-fine ma valori-mezzo: la loro tutela è strumentale a garantire e ad estendere (magari surrettiziamente) le funzioni attribuite al sistema sovranazionale, in costante dialettica con gli ordinamenti nazionali. Non a caso, come insegna la giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure di austerity, di fronte alla rigida separazione tra governo della moneta e coordinamento delle politiche economiche, quando cioè le competenze sovranazionali si appannano ed emergono strumenti irriducibili agli ordinari meccanismi di produzione normativa, la Carta dei diritti si ritrae, lasciando alle Corti costituzionali (e agli ordinamenti nazionali) la tutela del contenuto essenziale delle situazioni individuali (CASOLARI 2020, CARUSO 2018, pp. 111 e ss.).
L’identità dell’oggetto di tutela della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali (VIGANÒ 2019, p. 493) non implica una automatica coincidenza dei fini delle garanzie predisposte dai rispettivi ordinamenti. Nel sistema sovranazionale, l’individuo emerge tradizionalmente come fattore di produzione (in primo luogo, con le quattro libertà fondamentali), funzionalizzato agli obiettivi mercantilistici della costruzione europea. Nonostante talune situazioni soggettive abbiano progressivamente svolto, in alcuni ambiti, una funzione promozionale (si pensi, ad esempio, ai diritti antidiscriminatori nei rapporti di lavoro o alle prerogative connesse alla cittadinanza europea, M. BARBERA 2014, p. 391) i diritti dell’individuo sono fortemente embricati con la vis espansiva del diritto UE. In un simile contesto, l’Unione europea, che agisce essenzialmente come soggetto regolatore (MAJONE 1994), riversa sugli Stati membri il compito di correggere le esternalità negative che derivano dal mercato comune, richiedendo la correzione delle politiche sociali o la parità di trattamento sul mercato del lavoro a prescindere dalle peculiarità delle singole realtà nazionali.
Nell’ordinamento interno, invece, ad essere tutelato è l’homo politicus nel senso etimologico del termine, la persona nei rapporti concreti e nelle sue diverse proiezioni sociali (il cittadino; il lavoratore; la donna lavoratrice; la madre; il figlio; lo studente, etc.). Proprio la contestualizzazione della persona nella vita comunitaria richiede l’adempimento di specifici doveri di solidarietà o la concretizzazione di interessi pubblici da positivizzare attraverso la mediazione democratica del legislatore. I diritti garantiti dalle Costituzioni nazionali non implicano, dunque, un automatico inveramento o una meccanica applicazione, perché la loro realizzazione è aperta a plurime possibilità di bilanciamento reciproco e di ponderazione con altri interessi, in coerenza con l’indeterminatezza dei fini che caratterizza la politicità dello Stato costituzionale. Per tali ragioni il sistema costituzionale interno richiede di riportare il controllo di costituzionalità al centro della garanzia dei diritti, limitando gli elementi di diffusione amplificati dal diritto europeo. È, infatti, la particolare essenza dei diritti costituzionali che contribuisce a conferire al sindacato accentrato il rango di principio organizzativo fondamentale (principio supremo, nelle parole di CARDONE 2020, pp. 34 e ss): la tutela delle situazioni soggettive non può essere ridotta al frammento di valore sprigionato dal caso concreto – magari in funzione dell’egemonia dell’ordinamento sovranazionale sul diritto interno – ma è il risultato, storicamente situato, di un processo di unificazione politica legittimato dalla Costituzione (BABRERA 2017, p. 19). In tale dinamica, un ruolo fondamentale viene svolto dalle istituzioni democraticamente legittimate, chiamate a mediare tra le plurime istanze di riconoscimento emergenti nella società. La legge rappresenta la codificazione normativa di una sistemazione di interessi (soggettivi ed oggettivi, privati ma anche pubblici), ed è sulla pretesa incostituzionalità di tale assetto – anche alla luce del diritto europeo – che è chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale.
Per tali ragioni, il concetto del massimo standard di tutela desumibile dall’artt. 53 CDFUE, a tenore del quale «[n]essuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, […] e dalle costituzioni degli Stati membri» non coincide con il concetto di «massima espansione delle garanzie» enucleato dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. n. 309 del 2011, che «richiede il più ampio livello di tutela riferito (…) non già al singolo diritto, interesse o principio costituzionale singolarmente individuato, bensì all’insieme delle garanzie, derivante da una lettura sistematica, non frammentata di tutti i beni costituzionalmente rilevanti» (CARTABIA 2017, p. 14). La «massima espansione delle garanzie» rimanda perciò al ragionevole equilibrio del sistema normativo nel suo complesso (CARUSO 2018b, p. 1999), nel cui ambito trovano adeguata composizione le pretese uti singulus del cittadino e gli altri interessi che consentono l’esistenza stessa di una comunità politica edificata attorno e in vista della realizzazione dei valori costituzionali. Nell’ordinamento costituzionale i diritti sono a «somma zero», nel senso che «ogni progresso nella tutela di un diritto trova un suo contrappeso, provoca cioè la regressione della tutela di un altro diritto o di un altro interesse» (BIN 2018, p. 172). Tale assunto viene smentito nello spazio sovranazionale, ove l’esito del conflitto è tendenzialmente predeterminato e a “somma positiva”, favorevole al diritto fondamentale tutte le volte in cui sia necessario ribadire le finalità settoriali dell’ordine giuridico europeo o le sue tendenze espansive di fronte agli ordinamenti nazionali.
4. Dopo la sentenza n. 269 del 2017: la vis espansiva della «precisazione»…
Con la «precisazione», la Corte costituzionale ha abbandonato un criterio meramente formale di risoluzione delle antinomie, fondato sulla struttura normativa del precetto europeo, per accogliere un criterio sostanziale di compatibilità assiologica (RUGGERI 2017, p. 5). Non deve sorprendere, allora, il passo ulteriore compiuto dalla sentenza n. 20 del 2019, che ha ritenuto illegittimo l’obbligo di pubblicazione, gravante sul dirigente pubblico, dei dati reddituali del coniuge e dei parenti (entro il secondo grado) per violazione del principio di eguaglianza/ragionevolezza e di proporzionalità, riletti alla luce della protezione sovranazionale accordata al diritto alla privacy. In questo caso, venivano in considerazione gli articoli della CDFUE «in singolare connessione» con la normativa derivata (la direttiva 95/46/CE e il regolamento (UE) 2016/679, entrato in vigore in un momento successivo ai fatti di causa ma pure evocato dal rimettente). Tale pronuncia approfondisce le conseguenze della «precisazione» e ne affina i presupposti: l’attrazione al giudizio costituzionale non dipende dal rango formale della fonte, o dalla struttura della disposizione sovranazionale, ma dal contenuto materiale del parametro e dal tono costituzionale della questione. La normativa europea amplifica la forza gravitazionale dei principi e dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, generando una «gerarchia di contenuti» (SCACCIA 2020 sulla scorta dell’antico adagio di CRISAFULLI 1965, pp. 204 e ss.) che guida l’interprete nella risoluzione delle antinomie normative a prescindere dal tipo di atto sovranazionale in questione (per una diversa lettura della sent. n. 20 del 2019, GUASTAFERRO 2020).
La cognizione della Corte costituzionale entra in gioco, dunque, tutte le volte in cui vi sia un diritto fondamentale «a doppia tutela» (LEONE 2020), garantito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti o da altra disposizione dell’Unione europea dall’analogo contenuto. La sentenza n. 19 del 2020 ha posto un ulteriore tassello in questo mosaico, confermando il radicamento del giudizio di costituzionalità in un caso coinvolgente la libertà di impresa ex art. 16 CDFUE e, soprattutto, la libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE, annoverata, per granitica giurisprudenza della Corte di giustizia, tra le norme ad effetto diretto. Ad avviso del Giudice delle leggi, «qualora sia lo stesso giudice comune, nell’ambito di un incidente di costituzionalità, a richiamare, come norme interposte, disposizioni dell’Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni», è necessario «fornire una risposta a tale questione con gli strumenti» propri del giudizio di costituzionalità, «tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione»[13].
Le pronunce appena citate aggiornano il breviario del giudice comune nella sua opera di risoluzione delle antinomie tra normativa europea e disciplina interna. Egli, infatti, dovrà rivolgersi alla Corte costituzionale qualora il precetto interno contrasti con una norma europea (a) non direttamente efficace o (b) self-executing ma relativa a diritti fondamentali «a doppia tutela». Infine, e in estrema ipotesi (c), la questione sarà attratta alla giurisdizione costituzionale qualora la legge di esecuzione dei trattatati consenta l’ingresso di una normativa sovranazionale lesiva dei controlimiti, e cioè dei principi fondamentali che conferiscono identità all’ordinamento costituzionale.
5. ...e i nodi da sciogliere: ordine delle pregiudiziali e disapplicazione successiva al rigetto della questione di costituzionalità
Rimangono, rispetto alla novità sub b), alcuni punti da chiarire, concernenti l’ordine delle questioni pregiudiziali (costituzionale e sovranazionale) e i margini di azione del giudice a quo nell’ipotesi di un rigetto della questione.
Quanto al primo profilo, il modello prefigurato dalla sent. n. 269 del 2017 ha assegnato la priorità al giudizio costituzionale. I contorni di simile precedenza sono stati però sfumati dapprima dal riferimento, contenuto nella sentenza n. 20 del 2019, alla «“prima parola” che [la] Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare» (corsivo aggiunto), poi dal richiamo, nelle successive decisioni, al «potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale» (sent. n. 63 del 2019, ma nello stesso senso ord. n. 117 del 2019).
Taluni indici positivi rinvenibili nell’ordinamento aiutano tuttavia a sistematizzare queste oscillazioni pretorie: l’art. 23 della legge n. 87 del 1953 imposta la rimessione della questione di costituzionalità nei termini di un obbligo giuridico gravante sul giudice comune («l’autorità giurisdizionale (…) emette ordinanza (…)»); l’art. 267 TFUE prefigura, di contro, la pregiudizialità sovranazionale quale facoltà del giudice nazionale («l’organo giurisdizionale può (…) domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione»). Il rinvio pregiudiziale ha però natura ancipite, tramutandosi in obbligo nel caso in cui provenga dall’autorità giurisdizionale «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno». Sembra prefigurarsi dunque una diversa relazione di precedenza a seconda che la pregiudizialità si presenti davanti alle corti inferiori o al giudice di ultima istanza. Le prime sono tenute a dare priorità alla pregiudiziale costituzionale: nel caso ciò non avvenga, e qualora dall’inversione dell’ordine delle pregiudiziali derivino conseguenze giuridicamente rilevanti per la controversia principale, il provvedimento che chiude il giudizio potrebbe risultare affetto da un vizio in procedendo sindacabile in sede di legittimità[14].
Il giudice di ultima istanza è invece soggetto a un duplice obbligo, derivante dal combinato disposto dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 267 TFUE. In queste ipotesi, può prospettarsi un triplice scenario: rinvio alla Corte di giustizia e, solo a seguito della sua risposta, eventuale rimessione alla Corte costituzionale; simultanea prospettazione della questione di legittimità costituzionale e della pregiudiziale sovranazionale; rimessione prioritaria della questione di costituzionalità, subordinando il rinvio ai giudici di Lussemburgo all’esito della questione di costituzionalità.
Di fronte al giudice di ultima istanza, dunque, pare prospettarsi un concorso “libero” di questioni pregiudiziali, consentendo, almeno in astratto, all’autorità giurisdizionale di scegliere la via da percorrere sulla base delle policies di volta in volta seguite dal collegio. A uno sguardo più attento, tuttavia, il concorso libero di pregiudiziali è più apparente che reale: e questo non tanto per il preteso carattere vincolante dell’obiter dictum (pur problematicamente, MASSA 2019, p. 20) – al quale non potrebbe essere riconosciuta alcuna doverosità formale, stante la diversità dei circuiti in cui Corte costituzionale e giudici comuni si trovano ad operare – quanto per un generale criterio di opportunità istituzionale desumibile dalle profonde ragioni ordinamentali che assistono la «precisazione».
In primo luogo, non è auspicabile che i giudici di ultima di istanza si affidino a una pregiudizialità “contestuale”: simile soluzione ingenererebbe incertezza negli operatori e nelle stesse Corti destinatarie del rinvio, portate a pronunciarsi senza conoscere le reciproche posizioni. Verrebbe così pregiudicata la possibilità stessa del dialogo giurisdizionale e, dunque quel «quadro di costruttiva e leale cooperazione» (sent. n. 269 del 2017) che caratterizza i due sistemi – distinti ma altamente integrati – di garanzia dei diritti fondamentali. D’altronde, la precedenza alla pregiudiziale europea sarebbe in fondo contraddittoria rispetto alle premesse monistiche che la giustificano, poiché ometterebbe di considerare la particolare forza della pronuncia di incostituzionalità: solo quest’ultima, infatti, rimuove, con effetti erga omnes, la diposizione legislativa, garantendo al massimo grado sia la tutela dei diritti fondamentali sia la primazia del diritto sovranazionale (VIGANÒ 2019, p. 488). Peraltro, come sostenuto supra, la rimessione prioritaria della questione di legittimità costituzionale eviterebbe il ricorso ai controlimiti nel caso di divergenze interpretative sul contenuto dei principi fondamentali, immettendo i contenuti della tradizione costituzionale interna nel confronto con i giudici di Lussemburgo.
La priorità della questione di costituzionalità, ancorché non possa dirsi imposta dall’ordinamento, deve dunque essere assicurata in virtù di un criterio di preferenza funzionale, che conduce l’interprete ad optare per la soluzione che, in coerenza con i presupposti ordinamentali della sent. n. 269 del 2017, consenta di massimizzare gli effetti del principio di diritto ivi enunciato.
Sono poi tutti da esplorare i margini che residuano al giudice comune nel caso in cui la Corte costituzionale rigetti la questione di costituzionalità, non rilevando alcun contrasto con l’ordinamento sovranazionale. È un’ipotesi che fino ad adesso non si è mai avuta perché, ad oggi, la Corte costituzionale ha optato ora per l’illegittimità della norma (sentt. n. 20 e 63 del 2019), ora per una resecazione interpretativa della disposizione censurata, sterilizzandone il contrasto con il diritto UE (sent. n. 19 del 2020).
Non può escludersi, tuttavia, l’eventualità di un rigetto possa concretizzarsi nel prossimo futuro. La sentenza n. 269 del 2017 ha riconosciuto il potere al giudice comune di «disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». Il riferimento agli ulteriori profili di contrasto che legittimerebbero, secondo la «precisazione», la paralisi di efficacia della norma interna è stato rinnegato dalle pronunce successive, ove la disapplicazione ha assunto i crismi della doverosità: è stato infatti ribadito il «dovere (…) di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta» (ord. n. 117 del 2019). Tale rimeditazione riallinea l’orientamento della Corte costituzionale alle note pronunce della Corte di Giustizia Melki e Abdeli e A contro B e altri, le quali, pure ammettendo la precedenza della questione di costituzionalità (salvo il necessario coinvolgimento dei Giudici di Lussemburgo, anche al termine del procedimento incidentale), hanno sempre ribadito l’esigenza di consentire la disapplicazione, al termine del giudizio di costituzionalità, della norma interna contrastante con il diritto dell’Unione.
Nonostante la riaffermazione del principio, è però difficile immaginare che il giudice comune possa, magari contando sulla sponda della Corte di giustizia, disapplicare la norma interna per gli identici profili esaminati dalla Corte costituzionale, allontanandosi dal principio di diritto ivi enunciato (e, forse, ponendosi in conflitto con il giudicato costituzionale). Il giudice comune dovrebbe concepire la disapplicazione quale extrema ratio, ricorrendovi (laddove non abbia già provveduto in questo senso il Giudice delle leggi) solo a seguito del coinvolgimento della Corte di giustizia e, tentando, per quanto possibile, di evidenziare profili di contrasto diversi o quanto meno non limitati alla presunta incompatibilità con la Carta dei diritti. In fondo, come affermato dagli stessi Giudici di Lussemburgo in Melki e A e B, se il valore da tutelare attraverso la verifica di compatibilità sovranazionale è la primazia del diritto dell’Unione, gli strumenti ermeneutici per raggiungere tale obiettivo sono molteplici, e non necessariamente risiedono nelle virtualità espansive dei diritti riconosciuti nella Carta di Nizza.
*Il presente scritto è in corso di pubblicazione in C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
BIBLIOGRAFIA:
AMALIFITANO 2020
Amalfitano C., Il rinvio pregiudiziale come strumento necessario per l’interpretazione delle norme dell’unione europea tra obblighi “comunitari” e giurisprudenza costituzionale, in Palmisano G. (a cura di), Il diritto internazionale ed europeo nei giudizi interni, Editoriale scientifica, Napoli, 2020, pp. 5263-5295.
BARBERA A. 2017
Barbera A., La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Rivista AIC, n. 4, 2017, pp. 1-27.
BARBERA M. 2014
Barbera M., Discriminazione e pari opportunità (diritto del lavoro), in Enciclopedia del diritto, Annali VII, 2014, pp. 377-395.
BARTOLONI 2018
Bartoloni M. E., Ambito d’applicazione del diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2018.
BIN 2019
Bin R., Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, n. 4, 2019, pp. 757-776.
BIN 2018
Bin R., 70 anni dopo. Attualità e mitologie della Costituente. Discutendo le relazioni di Morelli, Faraguna, D’Amico e Saitto, in Immaginare la Repubblica, in Cortese F., Caruso C., Rossi S. (a cura di), Immaginare la Repubblica. Mito e attualità dell’Assemblea costituente, FrancoAngeli, Milano 2018, pp. 165-173.
CARDONE 2020
Cardone A., Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, pp. 1-48.
CARLONI 2020
Carloni E., Rileggere Orlando: l’Università e il diritto tra tradizione e innovazione, in Cortese F., Caruso C., Rossi S., Alla ricerca del metodo nel diritto pubblico. Vittorio Emanuele Orlando reloaded, FrancoAngeli, Milano, pp. 214-227.
CARTABIA 2017
Cartabia M., Convergenze e divergenze nell’interpretazione delle clausole finali della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in Rivista AIC, n. 4, 2017, pp. 1-17.
CARTABIA 2007
Cartabia M., L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Cartabia M. (a cura di), I diritti in azione: universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 13-66.
CARTABIA 2001
Cartabia M., Commento all’art. 51, Ambito di applicazione, in, R. Bifulco, M. Cartabia, M. Olivetti (a cura di), L’Europa dei diritti – Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, Il Mulino, Bologna, 341-351.
CARUSO 2020
Caruso C., La garanzia dell’unità della Repubblica. Studio sul giudizio di legittimità in via principale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
CARUSO 2018
Caruso C., Le prospettive di riforma dell’Unione economico-monetaria e il mito dell’unità politica europea, in Rivista diritti comparati, n. 1, 2018, pp. 90-131.
CARUSO 2018b
Caruso C., Il “posto” dell’interpretazione conforme alla CEDU, in Giurisprudenza costituzionale, n. 4, 2018, pp. 1985-2000.
CARUSO, CORTESE 2020
Caruso C., Cortese F., Alla ricerca del metodo nel diritto pubblico: una introduzione, in Cortese F., Caruso C., Rossi S., Alla ricerca del metodo nel diritto pubblico. Vittorio Emanuele Orlando reloaded, FrancoAngeli, Milano, pp. 9-22.
CASOLARI 2020
Casolari F., C’è un giudice A Lussemburgo? sui limiti strutturali e sostanziali alla tutela giurisdizionale dei singoli rispetto alle politiche di austerity dell’Unione europea, in Caruso C., Morvillo M. (a cura di), Il governo dei numeri. Indicatori economico-finanziari e decisione di bilancio nello Stato costituzionale. Governing with numbers: economic indicators and the budget decision in the Constitutional State, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 227-252.
CONTI 2019
Conti R., Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, A proposito di corte cost. n. 20/2019 in Palmisano G. (a cura di), Il diritto internazionale ed europeo nei giudizi interni, Editoriale scientifica, Napoli, 2020, pp. 517-545.
COSENTINO 2020
Cosentino A., Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in Questione giustizia, 6 febbraio 2020.
CRISAFULLI, 1965
Crisafulli V., Gerarchia e competenza nel sistema delle fonti, in Studi in memoria di Guido Zanobini, III, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 173-208.
DANI 2020
Dani M., La sentenza n. 269 del 2017: una precisazione fuorviante?, in Caruso C., Medico F., Morrone A., Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
DI FEDERICO 2019
Di Federico G., Il ruolo dell'art. 4, par. 2, TUE nella soluzione dei conflitti interordinamentali, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2019, pp. 333-360.
DI FEDERICO 2018
Di Federico G., La “saga Taricco”: il funzionalismo alla prova dei controlimiti (e viceversa), in Federalismi.it, n. 1, pp. 1-21.
GALLO 2018
Gallo D., L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali: evoluzione di una dottrina controversa, Giuffrè, Milano, 2018.
GUASTAFERRO 2020
Guastaferro B., Il cammino euro-unitario della Corte costituzionale nel seguito giurisprudenziale della sentenza n. 269 del 2017, in Caruso C., Medico F., Morrone A., Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
GUAZZAROTTI 2018
Guazzarotti A., La sentenza n. 269 del 2017: un «atto interruttivo dell'usucapione» delle attribuzioni della Corte costituzionale?, in Quaderni costituzionali, n. 1., 2018, pp. 194-196.
LEONE 2020
Leone S., In che direzione va la nuova giurisprudenza costituzionale sui casi di violazione di diritto fondamentale a doppia tutela?, in Caruso C., Medico F., Morrone A., Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
MAJONE 1994
Majone, G., The Rise of the Regulatory State in Europe, in «West European Politics», volume 17, n.3 , 1994, pp. 77-101.
MARTINICO 2020
Martinico G., Corte costituzionale e diritti fra armonie e disarmonie giurisprudenziali, in Caruso C., Medico F., Morrone A., Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
MASSA 2019
Massa M., La prima parola e l’ultima. Il posto della Corte costituzionale nella tutela integrata dei diritti, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 3, 2019, pp. 737-758.
MEDICO 2020
Medico F., La sentenza n. 269 del 2017 della corte costituzionale: un’eccezione che rischia di farsi regola?, in Caruso C., Medico F., Morrone A. (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
MORRONE 2018
Morrone A., I mutamenti costituzionali derivanti dall’integrazione europea, in Federalismi.it, n. 20, 2018, pp. 1-27.
MORRONE, CARUSO 2017
Morrone A., Caruso C., Art. 20. Uguaglianza davanti alla legge, in Aa. Vv., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Milano, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 386-411.
PADULA 2020
Padula C., Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Le Regioni, n. 3., 2020, pp. 599-628.
REPETTO 2017
Repetto G., Concorso di questioni pregiudiziali (costituzionale e comunitaria), tutela dei diritti fondamentali e sindacato di costituzionalità, in Giurisprudenza costituzionale, n. 6, 2017, pp. 2955-2965.
ROMBOLI 2014
Romboli R., Corte di giustizia e giudici nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, in Rivista AIC, n. 1, 2014, pp. 1-34.
ROSSI 2020
Rossi L. S., La relazione fra Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e direttive nelle controversie orizzontali, in Federalismi.it, n. 10, 2019, pp. 1-12.
ROSSI 2018
Rossi L. S., La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in Federalismi.it, n. 3, 2018, pp. 1-9.
RUGGERI 2017
Ruggeri A., Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario sulle questioni assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Rivista di diritti comparati, n. 3, 2017, pp. 234-247.
SCACCIA 2020
Scaccia G., Corte costituzionale e doppia pregiudizialità: dalla carta dei diritti all’accentramento del controllo sul diritto dell’unione self-executing?, in Caruso C., Medico F., Morrone A. (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
SCACCIA, 2017
Scaccia G., Il territorio fra sovranità statale e globalizzazione dello spazio economico, in Rivista AIC, n. 3, 2017, pp. 1-58.
TEGA 2020
Tega D., Il superamento del “modello Granital”. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo, pp. 1-8.
TRUCCO 2017
Trucco L., Carta dei diritti fondamentali e costituzionalizzazione dell’Unione europea. Un’analisi delle strategie argomentative e delle tecniche argomentative a Lussemburgo, Giappichelli, Torino 2013.
VIGANÒ 2019
Viganò F., La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2019, pp. 481-502.
[1] Corte giust., C-106/77, Simmenthal, 9 marzo 1978.
[2] Corte giust., C-105/14, Taricco, 8 settembre 2015.
[3] Corte giust., C-144/04, Mangold, 22 novembre 2005.
[4] Corte giust., C-617/10, Hans Åkerberg Fransson, 7 maggio 2013.
[5] Corte giust., C-555/07, Kücükdeveci, 19 gennaio 2010.
[6] Corte giust., C-569/16, Bauer, 6 novembre 2018.
[7] Corte giust., C-684/16, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV, 6 novembre 2018.
[8] Così espressamente, l’ord. n. 117 del 2019. Per un recente caso di rinvio pregiudiziale interpretativo, cfr. anche ord. n. 182 del 2020.
[9] Così l’ord. n. n. 117 del 2019, ove gli artt. 47-48 CDFUE, evocati a mo’ di parametro, coincidono con il diritto al silenzio «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana».
[10] Emblematica l’ord. n. 117 del 2019, ove per la prima volta nella sua storia, la Corte costituzionale rimette alla Corte di giustizia questione di validità delle norme sovranazionali che sanzionano il diritto al silenzio nei procedimenti CONSOB che portano a sanzioni sostanzialmente punitive.
[11] Corte giust., C-188 e 189/10, Melki e Abdeli, 22 giugno 2010.
[12] Corte giust., C-112/13, A c. B e altri, 11 settembre 2014.
[13] PADULA 2020, pp. 605 e ss. ascrive a questo filone anche la sentenza n. 44 del 2020, che ha dichiarato illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una legge veneta che prevedeva, come condizione di accesso all’edilizia residenziale pubblica, la residenza ultraquinquennale sul territorio regionale. Nonostante il rimettente avesse evocato anche la violazione dell’art. 11, par. 1, lett. f) della direttiva 2003/109/CE (che riconosce il diritto del soggiornante di lungo periodo alla parità di trattamento nelle procedure di assegnazione degli alloggi), la Corte costituzionale ha ritenuto assorbita la censura relativa al parametro sovranazionale. In assenza di una esplicita presa di posizione del Giudice delle leggi sul punto, pare però difficile inserire la pronuncia nel solco tracciato dalle sent. n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019.
[14] Non sono perciò condivisibili le scelte compiute dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Napoli, che si sono rivolte prioritariamente alla Corte di giustizia in relazione alla disciplina, recata dal Jobs act, dei licenziamenti collettivi illegittimi (la Corte partenopea ha addirittura sollevato contestualmente promosso questione di legittimità costituzionale e rinvio pregiudiziale). Peraltro, la Corte di giustizia (C-32/20) si è detta manifestamente incompetente a conoscere della questione sottopostale, ritenendo che i diritti CDFUE richiamati nel caso di specie si ponessero al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non avendo alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale. In tal senso, l’evocazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, non è stata ritenuta sufficiente a fondare una competenza dell’Unione europea in materia.
I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme*
di Giuseppe Santalucia
Non possiamo far prevalere l’idea che “la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare” –come ci avverte Giuseppe Santalucia –, ma occorre che per interessi collettivi e pubblici, mai individuali, ci si riappropri degli spazi lasciati in balia del malgoverno di pochi.
E se la partecipazione in termini di appartenenza è uno scoglio insormontabile, che dalle nuove generazioni è percepito come minaccia all’indipendenza, allora ben vengano “le aggregazioni fluide” richiamate da Giuseppe Santalucia, che siano animate però dal motto del rispetto delle regole, della trasparenza delle decisioni, dell’efficienza del servizio giustizia e dell’attenzione alla questione morale. Sarà di grande aiuto ricordare che la magistratura non deve essere corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, bensì deve essere impegnata a ricercare soluzioni per il miglior servizio giustizia.
Giuseppe Santalucia ci spiega come la cura contro il correntismo sia nelle mani dalle nuove generazioni di magistrati.
Ed è ai giovani magistrati che questo scritto è rivolto.
Nelle varie riforme del sistema elettorale del Consiglio, che nel tempo si sono succedute, è possibile scorgere un disegno unitario? In quella successione v’è mai stato spazio, a livello di proposte, per il sorteggio?
L’esame dei sistemi elettorali del Consiglio superiore della magistratura può essere condotto distinguendo due grandi periodi.
Nel primo, che ebbe inizio con l’istituzione del Consiglio e cessò a ridosso degli anni novanta del secolo scorso, il sistema elettorale e i tentativi plurimi di modificarlo furono espressione di un disegno della magistratura, andato a buon fine, di liberarsi dai vincoli di una forte gerarchia interna, e quindi di porre in disparte la divisione per categorie che valeva sia per l’elettorato attivo che per quello passivo, premiando, in termini di sovra-rappresentanza, i magistrati di cassazione.
Questo periodo, a voler usare una formula di sintesi, fu dedicato alla conquista di spazi di democraticità interna alla magistratura.
Nel secondo, che iniziò negli anni ottanta del secolo scorso e che, senza soluzione di continuità, attraversa i giorni nostri, sistema elettorale ed elaborazione di nuovi meccanismi sono stati e sono, invece, lo strumento con cui si è cercato e si cerca di liberare il Consiglio dal peso e dalle pressioni delle correnti della magistratura associata.
Prima di dare conto, attraverso una carrellata riassuntiva del succedersi nel tempo dei vari modelli elettorali, credo sia necessario soffermarsi, anche in vista del prossimo futuro, sull’esistenza di limiti costituzionali al potere del legislatore ordinario di immaginare nuovi sistemi di scelta della componente cd. togata.
La Costituzione –è noto – non dice nulla sul tipo di sistema elettorale e altro non fa che imporre la rappresentanza per categorie.
È stato detto, nella precedente sessione dalla Prof.ssa Biondi, ma anche dalla Presidente Luccioli, che il meccanismo di scelta fondato sul sorteggio sarebbe incostituzionale.
Credo che su tale affermazione si possa e si debba convenire!
Non è però secondario che oggi, a differenza di quanto avvenne nel passato – mi riferisco ad un disegno di legge presentato nel 1971 dall’on. Almirante e, in tempi più recenti, ad una iniziativa legislativa di riforma costituzionale del Governo Berlusconi –, proprio il Governo si stia apprestando ad approvare un disegno di legge ordinaria sul sorteggio.
La premessa di questa iniziativa, di indubbio peso politico non trattandosi dell’azione di un singolo parlamentare, è che il sorteggio possa trovare cittadinanza nel nostro sistema a Costituzione invariata.
Per questa parte allora va fatto richiamo, irrobustendo in tal modo le critiche già fatte al sistema del sorteggio, ad una sentenza della Corte Costituzionale – n. 6/2011 – che indirettamente ha validato la tesi della impossibilità di introdurre il sorteggio senza una modifica della Costituzione.
Tanto è stato affermato nell’occasione in cui la Corte si è occupata – definendola con una pronuncia di inammissibilità – della questione della pari rappresentanza della componente togata e della componente laica all’interno del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti.
Ha così chiarito che quel che è essenziale è che ci sia una rappresentanza della magistratura togata eletta dalla magistratura togata: quindi eletta, non designata all’interno della magistratura togata, ma, appunto, scelta per mezzo di una elezione.
La rinnovata vitalità, nel dibattito pubblico, del sorteggio come sistema di elezione al Consiglio, che pone addirittura in ombra i profili di incompatibilità costituzionale, è diretta conseguenza del contesto politico e culturale che caratterizza il presente, attraversato da una profonda crisi della democrazia rappresentativa, più acuta di quella percepibile negli anni settanta del secolo scorso quando, per tornare al dato storico richiamato, al sorteggio si era sì pensato, ma imbastendo un disegno di legge costituzionale, a firma allora dell’on. Almirante.
La rinnovata proposta del sorteggio è l’indice più chiaro di questo stato di crisi della rappresentanza, di una democrazia che pretende di inverare un paradosso: quello secondo cui la scelta della classe dirigente, della élite a cui affidare l’esercizio del potere, e quindi la definizione della superiorità per competenza, rinvenga il suo fondamento nel postulato dell’assenza di qualunque superiorità.
Quando si inneggia alla democrazia diretta come soluzione della crisi, la cui portata e vastità peraltro non possono essere negate, la proposta di sorteggio rischia di aver successo già all’interno del corpo dei magistrati.
Quali erano le caratteristiche dei sistemi elettorali del primo periodo?
Fatta questa doverosa puntualizzazione, si può tornare al tema specifico della relazione: l’evoluzione storica dei sistemi elettorali, per come si sono succeduti sin dall’origine dell’organo di autogoverno.
La legge istitutiva del Consiglio si connotò per l’adozione di un sistema elettorale di tipo maggioritario, un maggioritario puro a collegi uninominali. Si costruirono collegi territoriali in cui destinati a prevalere erano i magistrati appartenenti alla Corte di cassazione.
In particolare, si definirono quattro collegi per i magistrati di appello, quattro collegi per i magistrati di tribunale e si costruì un collegio nazionale per i magistrati di cassazione, che erano numericamente di gran lunga inferiori.
In ciascun collegio territoriale si esprimeva soltanto un eletto, mentre il collegio nazionale per la legittimità consegnava ben sei componenti.
Quella legge, che fu approvata a dieci anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, rivelava un dato particolarmente significativo, ossia la scarsa accettazione del modello costituzionale di Consiglio all’interno del ceto politico del tempo e, aspetto non secondario, nell’ambito della magistratura per così dire alta, quella di cassazione.
I magistrati della Corte di cassazione, con la loro rappresentanza, si erano anni prima battuti affinché il presidente della Corte fosse di diritto il presidente del Consiglio.
L’intento era chiaro!
Non volevano perdere il controllo sull’intera magistratura, che già esercitavano attraverso il sistema dei concorsi per la progressione in carriera.
L’Associazione nazionale dei magistrati, invece, già dal Congresso di Napoli del 1957, aveva fatto del principio costituzionale – di cui all’art. 101 – della soggezione soltanto alla legge, un vessillo e insieme lo strumento per rompere quell’assetto sclerotizzato di potere all’interno dell’Ordine.
Le resistenze politiche e culturali rispetto al modello costituzionale di Consiglio erano del resto molto forti: si pensi che, qualche anno prima dell’approvazione della legge istitutiva, furono fatti dei tentativi dal Governo di allora per promuovere una revisione costituzionale e specificamente per cambiare il volto del Consiglio sì come delineato appena qualche anno prima.
Non si accettava al tempo la soluzione impressa nella Carta di renderlo del tutto indipendente dal Ministro, soggetto politicamente responsabile dell’organizzazione giudiziaria.
Grazie anche all’impegno politico-culturale dell’Associazione dei magistrati fu infine varata, nel 1958, la legge istitutiva che, appena cinque anni dopo, fu portata all’esame della Corte costituzionale.
Nel 1963 la Corte emise una sentenza storica – n. 168 –, dichiarando l’illegittimità della norma che riconduceva il Consiglio, pur titolare del potere decisorio nelle materie di sua competenza, alle dipendenze del Ministro per mezzo dell’attribuzione esclusiva a quest’ultimo dell’iniziativa procedimentale necessaria a che il Consiglio potesse deliberare.
Quella stessa sentenza, però, affermò pure che il principio della categorizzazione dei magistrati era conforme a Costituzione e che, quindi, l’elettorato passivo doveva essere delineato in modo tale da assicurare la rappresentanza per categorie; aggiunse, poi, che il legislatore era libero di organizzare sulla base delle ripartizioni per categorie anche l’elettorato attivo.
Non mancò infine di precisare che la maggiore presenza dei magistrati di cassazione all’interno del Consiglio ben si giustificava, perché il legislatore non era vincolato a porre esclusiva attenzione al dato numerico di rappresentanza, e quindi a un equilibrato dosaggio per proporzione nel definire le quote, ben potendo valorizzare, in riguardo ai magistrati di cassazione, il maggior prestigio e la maggiore competenza ed esperienza, espresse a quel tempo per mezzo del reclutamento ai gradi superiori tramite il sistema dei concorsi per esami.
Ciò nonostante, la vitalità dell’associazionismo e la sua forza di elaborazione culturale portarono di lì a qualche anno a un primo indebolimento della struttura portante di quel sistema elettorale.
La spinta politica della magistratura associata consentì – nonostante la Corte Costituzionale avesse validato la ripartizione per categorie con preminenza dei magistrati di legittimità – di incrinare la rigidità di quel principio, e nel 1967 fu approvata una legge – l. n. 1198 – che introdusse un nuovo meccanismo elettorale, abbastanza complesso, a dire il vero.
Si trattava di un sistema a doppio turno, che ebbe vita breve ma che oggi riacquista interesse, atteso che la commissione ministeriale, presieduta dal presidente Luigi Scotti e nominata, nella scorsa Legislatura, dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha riproposto, con la relazione conclusiva dei lavori, un sistema elettorale a doppio turno.
In quel sistema erano conservati i collegi territoriali, della precedente legge, per l’elezione dei magistrati di merito e il collegio nazionale per l’elezione dei componenti di legittimità. Nella prima fase si procedeva alla designazione per la candidatura: si svolgeva una prima fase deputata alla selezione dei candidati. Otto collegi territoriali, quattro per i magistrati di tribunale e quattro per i magistrati di appello, nominavano ciascuno due candidati; il collegio unico della cassazione esprimeva ben dodici candidati, di cui quattro con ufficio direttivo.
Nella fase di designazione il magistrato elettore appartenente alle categorie del merito poteva indicare non più di due candidati della propria categoria tra i magistrati in servizio in uffici compresi nel collegio territoriale di appartenenza; il magistrato di cassazione poteva invece esprimere non più di dodici preferenze, di cui quattro relative a magistrati con ufficio direttivo.
I designati andavano a comporre un’unica lista nazionale, e a quel punto, nelle vere elezioni – e quindi non nella designazione – ciascun magistrato poteva votare a prescindere dalla categoria di appartenenza, esprimendo preferenze sia per il magistrato della propria categoria che per i magistrati delle altre.
Quindi, qualunque magistrato votava nel “listone” nazionale sia per il magistrato della propria categoria, che per gli altri magistrati, con in più la possibilità di esprimere voto per magistrati non inclusi tra i designati.
Un indebolimento, così, del principio della categorizzazione, che era il frutto delle battaglie dell’associazionismo ma una riconferma del principio maggioritario. Erano infatti eletti i candidati che ottenevano il maggior numero di voti nella categoria di appartenenza, ferma la regola che dovessero essere proclamati otto eletti, quattro magistrati di cassazione, tre di appello e tre di tribunale compresi nella lista nazionale.
Con questa legge furono formati due Consigli: il primo che, nonostante la struttura maggioritaria del sistema, non vide una presenza massiccia dei rappresentati della corrente moderata allora preponderante, Magistratura indipendente. Questa però riuscì a organizzarsi molto bene per la seconda tornata elettorale e si aggiudicò tredici sui quattordici seggi da assegnare – allora erano ventuno i componenti del Consiglio, esclusi i capi di Corte e, ovviamente, il Presidente della Repubblica –.
Come e quando si giunse ad un sistema elettorale di tipo proporzionale?
Anche in ragione di questo risultato che, per quanto rispondente al principio maggioritario, apparve come una stortura, si arrivò ad una nuova riforma del sistema elettorale.
Ovviamente il contesto politico era assolutamente favorevole a una riforma che desse spazio alla rappresentanza del pluralismo interno all’Associazione nazionale dei magistrati. Il principio della rappresentanza democratica non solo era coltivato dall’associazionismo giudiziario ma trovava autorevolissimi sostenitori anche nel mondo politico.
Con la legge del 1975 – l. n. 695 – il sistema elettorale fu strutturato in senso proporzionale.
Si passò così da un sistema a forte impronta maggioritaria ad altro opposto, su collegio nazionale per liste concorrenti e con scrutinio di lista, con l’unico sbarramento del 6% di rappresentanza nazionale della lista.
Fu contestualmente aumentato, da ventuno a trenta, il numero dei componenti del Consiglio, con un aumento, ovviamente, anche della componente laica. Ciò permise al Partito comunista di allora di avere una maggiore rappresentanza in Consiglio.
Furono gli anni che qualcuno ha definito “gli anni della convenzione costituzionale”, in cui era noto che quattro seggi erano di spettanza della Democrazia cristiana, tre del Partito comunista, due del Partito socialista, uno, a turno, dei partiti di minoranza dell’arco costituzionale, con una piena corrispondenza tra la rappresentanza all’interno della magistratura e la rappresentanza politica.
Le Forze politiche, del resto, erano complessivamente favorevoli all’idea che il Consiglio superiore rappresentasse al suo interno la pluralità delle posizioni e delle sensibilità culturali presenti nella magistratura e, in generale, nel Paese: l’on. Bosso, che aveva presieduto il Consiglio del 1972 e il sottosegretario alla Giustizia, prof. Dell’Andro, negli interventi fatti alla Camera durante i lavori per il varo della nuova legge, affermarono che la fisiologica pluralità, da rappresentare in Consiglio e non conculcare, avrebbe poi dovuto trovare una unità di intenti nell’azione concreta.
In tal modo la legge del 1975 segnò il passaggio da una rappresentanza per categorie, interne all’Ordine, ad una rappresentanza più ampia, di tipo politico-ideologico.
L’assetto si mantenne senza particolari problemi fino agli anni ottanta, segnati dalla promozione, ad opera del Partito socialista e dei Radicali, dei referendum sulla giustizia e da una forte contestazione del ruolo politico del Consiglio. Furono gli anni dell’aspra denuncia della cd. politicizzazione del Consiglio – il motto era “bisogna spoliticizzare il Consiglio” –. L’accresciuta rappresentanza del Consiglio aveva creato non pochi dissensi.
È poi appena il caso di ricordare che nel 1981 – l. n. 1 – si portò un ulteriore colpo alla divisione per categorie, prevedendo che fosse possibile presentare liste non comprendenti tutte le categorie. Si stabilì poi che i componenti da eleggere dovessero essere scelti quattro fra i magistrati di cassazione, di cui due idonei alle funzioni direttive superiori; due fra i magistrati di appello, quattro fra i magistrati di tribunale con almeno tre anni di anzianità dalla nomina e dieci indipendentemente dalla categoria di appartenenza.
Con legge successiva – l. n. 655 del 1985 – fu nuovamente modificata la proporzione dei componenti appartenenti alle diverse categorie e si stabilì che due dovessero essere magistrati di cassazione, con effettivo esercizio delle funzioni di legittimità, otto magistrati con funzioni di merito e dieci scelti indipendentemente dalla categoria, e ciò per adeguare il sistema alla pronuncia di illegittimità costituzionale – sentenza n. 87 del 1982 – secondo cui l’art. 104 cost. non consentiva che non si tenesse conto delle diverse categorie, in particolare di quella dei magistrati di cassazione, espressamente menzionata nella Carta.
Oggi la professoressa Biondi ha affermato che il Consiglio non è organo di rappresentanza della magistratura, e ciò non è contestabile; va però ricordato che la Corte Costituzionale con una sentenza pronunciata nel 1973 – sent. n. 142: si trattava della questione dell’autorizzazione a procedere per un episodio di vilipendio dell’Ordine giudiziario – affermò la legittimità della previsione che l’autorizzazione spettasse al Ministro, perché il Consiglio Superiore non era (non è) organo di rappresentanza. Riconobbe però, e questo non va trascurato, una rappresentanza parziale, dunque non la rappresentanza dell’Ordine, anche perché il Consiglio è a composizione mista ed è presieduto dal Presidente della Repubblica; ma la rappresentanza della componente togata, che pertanto deve essere rappresentativa dell’elettorato.
La rappresentatività sta a significare che deve ricorrere un nesso di corrispondenza tra l’elettorato e gli eletti, che si misura anche sul piano della responsabilità, tema oggi evocato da Eugenio Albamonte.
Un sistema è rappresentativo se assicura, oltre che la corrispondenza con il corpo elettorale, la possibilità di controllo di quanti dovranno esercitare il potere, proprio sul modo con cui lo eserciteranno.
È questa la ragione per la quale, data la natura necessariamente elettorale della scelta di buona parte dei componenti del Consiglio, la mediazione delle correnti è stata essenziale.
L’associazionismo era riuscito a far smantellare la gerarchia interna, il sistema dei concorsi, ottenendo le promozioni a ruolo aperto e una disciplina ordinamentale improntata al principio della parità di tutti i magistrati, distinti soltanto per funzioni.
Il Consiglio, attraverso questa profonda revisione dell’ordinamento giudiziario, acquistò progressivamente centralità, e il forte ruolo assunto nel governo della magistratura e di ampi settori del servizio giudiziario non poteva essere correttamente dispiegato senza una relazione di responsabilità, che fu per lungo tempo rinvenuta entro lo schema della rappresentanza.
Al tempo – negli anni settanta – uno studioso di diritto costituzionale ebbe a notare che la rappresentanza della componente togata consentiva un meccanismo di responsabilizzazione attraverso le assemblee che le organizzazioni delle correnti riuscivano a mettere su per discutere e valutare l’operato delle loro rappresentanze in Consiglio. Un fenomeno simile non è mai accaduto per la rappresentanza laica, che mantiene i rapporti con il mondo politico – e ne ha dato oggi conferma il prof. Spangher – ma senza che ciòc avvenga con quella trasparenza, quella chiarezza e, se si vuole, con quella istituzionalizzazione che il sistema elettorale proporzionale con scrutinio di lista ha assicurato.
Quali sono state le ragioni del cambiamento di sistema?
Con la legge del 1990 – n. 74 – si provò a riformare fortemente il sistema. La legge intervenne ad elezioni già indette, addirittura Magistratura democratica aveva già presentato la propria lista. Il fine era di scardinare il sistema correntizio, tornando anzitutto ai collegi territoriali e disegnandoli di modeste dimensioni. Il disegno di legge proponeva ben nove collegi, seppure senza la riproposizione del riparto dell’elettorato nelle categorie di qualifica o funzionali.
La legge del 1990 si proponeva il fine di avvicinare gli elettori agli eletti e di scompaginare così la forza delle correnti, di comprimerne il ruolo di soggetti della mediazione per la rappresentanza elettorale soprattutto; ed anche quello di impedire a movimenti del mondo associativo appena formatisi – il riferimento è al Movimento per la giustizia e a Proposta ’88 – di conquistare spazi nella competizione elettorale.
Si elevò così lo sbarramento dei voti di lista dal 6 al 9%. Fu una scelta difficilmente spiegabile guardando soltanto al ruolo e alle funzioni del Consiglio, che è stato pensato come organo di garanzia e non di governo. La soglia del 6% si giustificava col fatto che, per quanto organo di garanzia, il Consiglio avrebbe dovuto giovarsi di più rapide e semplificate procedure decisionali; la soglia del 9% era con ogni probabilità troppo elevata e in stridente contrasto con la natura e le funzioni del Consiglio.
Il collegio elettorale nazionale fu abbandonato. Si previdero quattro collegi territoriali che, a regime, si dovevano formare per sorteggio dei distretti da assemblare: due con una percentuale di elettori tra il venti e il ventiquattro, che assegnavano quattro seggi ciascuno; e altri due con una percentuale di elettori del ventisei, che assegnavano ciascuno cinque seggi.
La prima tornata elettorale successiva all’entrata in vigore della legge non ebbe il risultato sperato da chi quella legge aveva voluto. I rappresentanti della corrente che avrebbe dovuto essere ostacolata e più in difficoltà col nuovo sistema riuscirono ad aggiudicarsi molti più seggi di quanti in proporzione furono assegnati alla corrente di Magistratura indipendente.
L’eterogenesi dei fini non fu per il vero conseguenza delle previsioni del sistema elettorale, quanto di un’interpretazione sul recupero dei resti che trovò la forza di affermarsi. Il recupero era stato previsto che avvenisse in sede distrettuale e non nazionale, regola che ancor più comprimeva il criterio proporzionale di ripartizione dei seggi; si decise, però, di far partecipare al riparto dei resti anche senza l’ottenimento di un quoziente intero nel distretto.
Ove fosse prevalsa la tesi opposta, ossia della necessità di un quoziente intero come legittimazione alle operazioni di riparto, probabilmente le conseguenze sarebbero state diverse, come allora fu affermato dall’on. O. Fumagalli Carulli.
Quale è il bilancio che può trarsi?
Dall’esame dell’evoluzione dei sistemi elettorali emerge come si siano confrontate e scontrate due opposte visioni del Consiglio.
Per una, il Consiglio è e dovrebbe essere, per usare una formula suggestiva per quanto imprecisa, soltanto organo di alta amministrazione, chiamato a provvedere nell’ambito ristretto delle competenze assegnate dalla Costituzione. Su questa premessa si è sempre negata l’esigenza di assicurare una capacità di rappresentanza del corpo elettorale.
Per l’altra, invece, il Consiglio è organo di rilevanza costituzionale che, seppure l’espressione possa apparire eccessiva, attua con la sua azione un indirizzo politico nel settore dell’amministrazione della giustizia, nella misura in cui opera scelte che ricadono, come ha scritto il prof. Silvestri, sulla qualità del servizio giustizia, in modo che indipendenza e autonomia non siano vissute come prerogative della corporazione ma come le pre-condizioni della democraticità dell’azione della magistratura. Di qui l’impossibilità di relegarlo nel recinto dei compiti puntualmente espressi dall’art. 105 Cost.
In questa contrapposizione si spiegano poi i tentativi, fatti negli anni con proposte di legge costituzionale – il riferimento è a un disegno di legge approvato tempo addietro dal Governo Berlusconi –, di vietare al Consiglio lo svolgimento di compiti non menzionati in Costituzionale, in particolare, l’adozione di risoluzioni a conclusione delle cd. pratiche a tutela.
Progetto questo che propugnava, in buona sostanza, una rappresentanza con forte compressione della rappresentatività e quindi della responsabilità di tipo politico degli eletti.
Dopo il 1990 proseguirono, con forza sempre maggiore, i propositi di spazzare via le correnti dalla vita del Consiglio. Con la legge del 2002, tuttora vigente, è stato riproposto il collegio nazionale, ma con candidature singole, con la previsione di un numero modesto di presentatori della candidatura all’interno di un sistema maggioritario estremo, per il quale vince colui che ottiene più voti.
Si è voluto sopprimere il modello di rappresentanza mediata attraverso le correnti.
Già durante i lavori parlamentari della legge del 2002 si denunciò che si sarebbe sostituito un sistema trasparente di rapporto tra il gruppo e l’eletto con un sistema occulto; che si sarebbe sostituito all’influenza delle correnti quella dei gruppi di potere, delle cordate.
Ciò che poi si è puntualmente avverato.
La profonda crisi della politica nella sua più ampia accezione è stato fertile terreno per le ultime riforme.
L’attuale sistema elettorale ha sfiancato le correnti per come sono state conosciute nel primo periodo, nel pieno dell’ascesa democratica, segnato dall’attuazione dei principi costituzionali; quando agirono come motore politico-culturale dell’innovazione e dell’inveramento dei principi costituzionali. Ma non è riuscito a contenere la forza elettorale dei gruppi di potere ed anzi li ha agevolati, proprio contribuendo a scemare – in un quadro più generale, non è solo la legge elettorale – l’identità delle correnti come gruppo politico, culturale, di elaborazione di programmi che concorrono poi, attraverso il Consiglio, a definire quell’indirizzo politico della giustizia, a cui ho fatto cenno, e a far prevalere l’aspetto che oggi è da tutti criticato, quello della gestione del potere.
Lungo questo percorso, ancora non concluso, il sorteggio può avere maggior fortuna già nel dibattito interno alla magistratura. I magistrati, infatti, hanno sperimentato, dal 2002 ad oggi, il depauperamento politico-culturale delle correnti e hanno assistito all’affermazione delle correnti come gruppi di gestione del potere, che esercitano avendo comunque saputo mettere a punto i meccanismi di governo del consenso elettorale pure in un sistema maggioritario a candidature singole.
Nei tempi che viviamo è vincente l’idea che la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare, e che si possa rinunciare al principio di competenza, se il principio di competenza comporta l’accettazione di clientele, di cordate, della prevalenza – come dire – degli interessi personali, come ha prima stigmatizzato il prof. Spangher.
Non va dimenticato che viviamo nel periodo in cui nel sentire politico diffuso è popolare il motto della non appartenenza in nome di aggregazioni puntuali, a rete, fluide, in cui i partiti e i gruppi strutturati vengono vissuti come uno strumento di oppressione della libertà.
E cosa è più odioso, per un magistrato, che sentirsi oppresso da una struttura, da un aggregato stabile?
Credo allora che il pericolo di proposte incentrate sul sorteggio non sia solo un dato esterno, come fu al tempo della proposta dell’on. Almirante, perché ormai è un epilogo possibile all’orizzonte a cui progressivamente anche i magistrati si stiano abituando.
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17
La proroga delle disposizioni emergenziali in materia di giustizia (d.l. 7 ottobre 2020, n. 125). Una scheda.
di Franco Caroleo
Con il d.l. n. 125/2020 viene stabilita la proroga al 31 dicembre 2020 delle disposizioni emergenziali in materia di processo civile e penale.
La formula del testo legislativo non è di certo accattivante (si contano almeno tre rimandi normativi, passando perfino per un allegato ad un decreto-legge) e il nuovo termine fissato (di base, l’aggiunta di soli due mesi al termine precedente) conferma l’andamento a singhiozzo a cui ci sta abituando la legislazione processuale in questi tempi di pandemia
Quella che segue è una breve scheda sugli aspetti essenziali del nuovo decreto-legge.
Titolo
DECRETO-LEGGE 7 ottobre 2020, n. 125 “Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020”. (20G00144) (GU Serie Generale n.248 del 07-10-2020)
Le norme riguardanti il settore giustizia
- Art. 1., co. 3, lett. a);
- Art. 1., co. 3, lett. b), n. 7.
Il contenuto
L’art. 1., co. 3, lett. a) del d.l. n. 125/2020 modifica il d.l. n. 83/2020 prevedendo che: “all’articolo 1, comma 3, le parole: «15 ottobre 2020» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2020»”.
L’art. 1., co. 3, lett. b), n. 7, d.l. n. 125/2020 inserisce all’allegato 1 del d.l. n. 83/2020 dopo il numero 33 il seguente: «33-bis Articolo 221, comma 2, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77».
Gli effetti normativi
Il novellato art. 1, co. 3, d.l. n. 83/2020 recita ora quindi: “I termini previsti dalle disposizioni legislative di cui all’allegato 1 sono prorogati al «31 dicembre 2020», ((salvo quanto previsto ai numeri 3 e 32 dell'allegato medesimo)), e le relative disposizioni vengono attuate nei limiti delle risorse disponibili autorizzate a legislazione vigente”.
Alla luce della proroga così stabilita e per effetto dell’introduzione all’allegato 1 d.l. n. 83/2020 del nuovo numero 33-bis, l’art. 221, co. 2, d.l. n. 34/2020 recita ora quindi:
“2. Tenuto conto delle esigenze sanitarie derivanti dalla diffusione del COVID-19, fino al «31 dicembre 2020» si applicano le disposizioni di cui ai commi da 3 a 10”.
Le ricadute processuali
L’operatività delle disposizioni contenute nei commi da 3 a 10 dell’art. 221 d.l. n. 34/2020 è prorogata fino al 31 dicembre 2020. Sicché, fino a tale data deve ritenersi vigente:
- l’obbligo del deposito telematico di atti e documenti nei processi civili davanti a tribunali e corti di appello (co. 3);
- il potere del giudice di disporre la celebrazione delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti nella modalità a trattazione scritta (co. 4);
- il potere del giudice di disporre la celebrazione delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice nella modalità mediante collegamenti audiovisivi a distanza (co. 7);
- la possibilità di partecipazione alle udienze civili di una o più parti o di uno o più difensori, su istanza dell’interessato, mediante collegamenti audiovisivi a distanza (co. 6);
- il potere del giudice di disporre, in luogo dell’udienza fissata per il giuramento del consulente tecnico d’ufficio ex art. 193 c.p.c., il deposito del giuramento telematico da parte dell’ausiliare (co. 8);
- il deposito telematico degli atti e dei documenti nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione (co. 5);
- la partecipazione a qualsiasi udienza penale degli imputati in stato di custodia cautelare in carcere o detenuti per altra causa e dei condannati, con il consenso delle parti e, ove possibile, mediante collegamenti audiovisivi a distanza (co. 9);
- la possibilità di svolgere a distanza i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni (co. 10).
L’estensibilità temporale delle disposizioni emergenziali
La previsione della proroga in commento sembrerebbe smentire la tesi di quanti hanno sostenuto che il termine finale (oggi il 31 dicembre 2020, prima il 31 ottobre 2020) sia solo il termine entro il quale il giudice possa fissare le udienze nelle modalità alternative previste dalla normativa emergenziale e non anche il termine entro il quale possano celebrarsi le udienze in tali modalità alternative.
Infatti, ragionando secondo questo orientamento più estensivo, non ci sarebbe dovuta essere la necessità di una proroga del termine in questione.
Al contrario, con il d.l. n. 125/2020, seppure con rinvii e passaggi intricati, il legislatore ha espressamente allargato lo spazio temporale del processo dell’emergenza, lasciando così intendere che questo spazio trova il proprio limite nel termine prorogato.
Seguendo questa linea, dovrebbe ritenersi che potrà essere previsto lo svolgimento di udienze a trattazione scritta o con collegamenti a distanza solo fino al 31 dicembre 2020. Salvo ulteriori proroghe.
Una proposta (non una proroga)
Gli operatori della giustizia, come tutti, vivono una situazione emergenziale senza precedenti ed ogni valutazione prognostica si rivela, ad oggi, estremamente difficile.
Una prima versione dell’art. 221 d.l. n. 34/2020 prevedeva il mantenimento delle innovazioni processuali utilizzate durante le prime fasi dell’emergenza in via “sperimentale” sino al dicembre 2021. Non prescriveva l’obbligo di celebrazione delle udienze a trattazione scritta o con collegamenti da remoto, ma lasciava questa possibilità al giudice, garantendo un’interlocuzione sul punto con le parti.
L’idea è stata poi sepolta nel cimitero delle proposte emendative.
Era una buona idea. Siamo ancora in tempo per riprenderla (e perfezionarla).
Non di sole proroghe vive l’uomo di legge.
![]() |
|
|
|
|
La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza Plenaria (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16) di Clara Napolitano
Sommario: 1. Premesse. – 2. Il fatto e la decisione di prime cure. – 3. L’ordinanza di rimessione: la necessaria perimetrazione degli obblighi dichiarativi. – 4. Il principio dettato dalla Plenaria. – 5. Osservazioni conclusive: il criterio di specialità e le zone d’ombra.
1. Premesse.
L’Adunanza plenaria si esprime in relazione a una controversia in materia di appalti, affrontando il tema della perimetrazione dei cc.dd. obblighi dichiarativi che gravano in capo ai concorrenti alle procedure a evidenza pubblica.
La necessità di delimitare la portata degli obblighi dichiarativi deriva, anzitutto, dalla pervasività delle conseguenze derivanti dalla loro violazione: le quali giungono alla esclusione obbligatoria dalla procedura del concorrente inadempiente. In secondo luogo, la perimetrazione è vieppiù necessaria perché il costrutto normativo di riferimento – l’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 – non individua con certezza[1] la portata di questi obblighi in relazione al loro contenuto.
Per cui, due sono i nodi principali esaminati e sciolti – in parte, si vedrà poi perché – dalla Plenaria.
Anzitutto la portata degli obblighi dichiarativi e il chiarimento circa nozioni affini quali l’informazione falsa, omessa, reticente, fuorviante.
In secondo luogo, una ricostruzione compositiva – tramite interpretazione del combinato disposto delle norme interessate – delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione di questi obblighi.
2. Il fatto e la decisione di prime cure.
La vicenda che ha interessato l’Adunanza plenaria vede l’indizione di una procedura di gara per l’affidamento e l’esecuzione di lavori strutturali su un molo portuale pugliese.
Tra i requisiti di partecipazione, il bando prevedeva che le imprese concorrenti dovessero disporre di almeno una certa cifra d’affari riferita all’ultimo triennio di attività. A tal fine, l’impresa aggiudicataria aveva fatto ricorso all’istituto dell’avvalimento ex art. 89, d.lgs. n. 50/2016, calcolando nella propria cifra d’affari quella messa a disposizione da un Consorzio suo ausiliario.
Nel corso delle rituali verifiche successive all’aggiudicazione, la Stazione appaltante rilevava l’esistenza in capo al Consorzio ausiliario dell’aggiudicataria di una causa di esclusione ex art. 80, d.lgs. n. 50/2016: procedeva, pertanto, a imporne la sostituzione[2].
L’aggiudicataria prestava ossequio all’ordine dell’Amministrazione sostituendo il primo Consorzio con un altro, avvalendosi pertanto della cifra d’affari di quest’ultimo.
Tuttavia, anche questo secondo avvalimento presentava discrasie: tali, peraltro, da indurre la Stazione appaltante all’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione, esclusione dell’impresa e nuova aggiudicazione alla seconda classificata. Provvedimento poi gravato in sede giurisdizionale, nella controversia che ha appunto generato la pronuncia che qui si annota.
In particolare, l’Amministrazione aveva provveduto alla esclusione della precedente aggiudicataria ai sensi dell’art. 89, comma 1[3], e dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50/2016[4]: ovvero estromettendo quell’impresa dalla procedura per aver presentato una dichiarazione non veritiera in relazione alla cifra d’affari dell’ultimo triennio.
È quanto mai opportuno – stante la sua centralità nelle valutazioni di diritto della Plenaria – diffondersi brevemente sulle ragioni in fatto dell’esclusione. Una minima digressione, dunque.
Il Consorzio, chiamato a sostituire quello precedente nell’avvalimento, aveva messo a disposizione la propria cifra d’affari dell’ultimo triennio. Di questo Consorzio faceva parte una società che, tuttavia, era stata destinataria di un provvedimento di sospensione – con correlativo divieto di beneficiare degli utili consortili – per intervenuta scadenza della SOA. Pertanto, secondo l’interpretazione delle norme statutarie del Consorzio, la società sospesa non avrebbe potuto contribuire alla cifra d’affari triennale con la propria. Il Consorzio, tuttavia, non aveva tenuto conto della sospensione e, pertanto, aveva dichiarato una cifra d’affari comprensiva di quella della società sospesa. Di quella cifra d’affari s’era avvalsa, appunto, l’impresa (prima) aggiudicataria della gara e (poi) esclusa dalla stessa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50/2016, per aver fornito alla Stazione appaltante una «dichiarazione non veritiera».
In sede di primo giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo territoriale[5], il ricorso dell’impresa destinataria del provvedimento di esclusione è rigettato sulla scorta di una motivazione che ritiene la sua dichiarazione «obiettivamente non veritiera»: la cifra d’affari è, per il Tar, «un dato obiettivo e privo di qualsiasi profilo di equivocità/opinabilità». Ne consegue che trova piana applicazione la disposizione del Codice dei contratti pubblici sub lett. f-bis) dell’art. 80, comma 5: la quale dispone l’esclusione sic et simpliciter dalla gara dell’impresa che fornisca dichiarazioni non veritiere (anche provenienti dai Consorzi di cui si è avvalsa). Il Giudice territoriale si premura di segnalare che la lett. f-bis) punisce il falso perché disdicevole di per sé: l’impresa che dichiari il non vero – quale che sia l’oggetto della dichiarazione – va esclusa in linea generale, senza valutazioni o apprezzamenti da parte della p.A., poiché quello scarto rispetto alla realtà intacca la sua affidabilità[6] ed è in grado di alterare la par condicio tra i concorrenti. Poco o punto importa, peraltro, che lo sia effettivamente: non trova applicazione il c.d. falso innocuo[7], non importa l’atteggiamento psicologico di chi rilascia la dichiarazione non veritiera né che questa non abbia un rilievo oggettivo nella partecipazione alla gara, com’era nel caso di specie[8], nel quale l’aggiudicataria – quand’anche si fosse avvalsa della cifra d’affari del Consorzio priva dell’apporto della società da questo sospesa – avrebbe comunque superato il minimo richiesto dal bando di gara e quindi avrebbe posseduto il requisito d’ammissione.
3. L’ordinanza di rimessione: la necessaria perimetrazione degli obblighi dichiarativi.
In sede di appello, la Sezione investita rimette la questione alla Plenaria con un’ordinanza[9] riccamente argomentata, stante l’incertezza normativa che – come detto – connota gli obblighi dichiarativi e l’incostante giurisprudenza che rincorre un legislatore che interviene (forse troppo) frequentemente sulle disposizioni in materia di contratti pubblici[10], alla costante ricerca di equilibri complessi tra la concorrenzialità, l’evidenza pubblica, la celerità, l’affidabilità dei partecipanti e la contemporanea esigenza di non aggravarne eccessivamente gli obblighi dichiarativi.
Il Collegio rimettente evidenzia subito che la questione ruota attorno alla portata, alla consistenza, alla perimetrazione e agli effetti degli obblighi dichiarativi gravanti sugli operatori economici in sede di partecipazione alle procedure evidenziali, «con particolare riguardo ai presupposti per l’imputazione della falsità dichiarativa, ai sensi delle lettere c) e f-bis) del comma 5 dell’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016»[11].
Una considerazione di fondo, anzitutto, sulla natura degli obblighi dichiarativi: la loro matrice sarebbe di diritto comune, trovando essi fondamento negli artt. 1337 e 1338 c.c., i quali individuano i principi di correttezza e buona fede[12] nelle trattative contrattuali. La giurisprudenza, invero, più volte ha collocato le procedure di gara nel solco delle trattative[13], attribuendo a esse lo stesso ruolo che il diritto civile assegna alla fase precedente la stipula di un contratto, nella quale la chiarezza e la completezza informativa tra le parti sono oggetto di un vero e proprio obbligo giuridico. Il cui corollario – che nel diritto dei contratti pubblici assume i contorni del principio di correttezza ex art. 30, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 – ha come conseguenza l’affermazione degli obblighi dichiarativi: «si tratta di un’applicazione dei principi di buona fede e correttezza che da tempo sono entrati nel tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico (cfr. Cass., 18/09/2009, n. 20106) e che fanno dell’obbligo di buona fede oggettiva un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462)»[14].
Questi obblighi sono, peraltro ormai pacificamente, reciproci. Ne consegue che, come la Stazione appaltante deve comportarsi secondo buona fede in tutte le fasi della procedura di gara, così devono fare anche i partecipanti alle gare pubbliche che devono fornire alla p.A. tutte le informazioni necessarie affinché questa possa scegliere nel modo più consapevole possibile l’impresa più affidabile.
Per il Collegio, secondo questa ricostruzione gli obblighi dichiarativi sono anzitutto strumentali, serventi rispetto alla possibilità per la p.A. appaltante di conoscere tutte le circostanze rilevanti per apprezzare i requisiti di moralità e meritevolezza soggettiva.
Tuttavia, il fatto che la violazione degli obblighi dichiarativi possa costituire un «grave illecito professionale» previsto come specifico, legittimo e autonomo motivo di esclusione testimonia – per il remittente – l’attitudine a concretare in sé – e non solo in relazione all’incidenza sulla capacità valutativa della Stazione appaltante – una forma di grave illecito professionale. L’illiceità non dovrebbe cioè valutarsi sul piano concreto bensì su quello astratto, formale, e operare de jure.
Ciò induce alla necessità imperativa di delimitare e tipizzare i motivi di esclusione, sì che siano tassative, determinate e ragionevolmente prevedibili le regole operative e i doveri informativi dei partecipanti nei confronti della p.A.: stante il fatto che, come detto in apertura, nel caso della omessa dichiarazione può crearsi il presupposto per un provvedimento sanzionatorio di esclusione.
Sicché – ammette l’ordinanza di rimessione – il quadro normativo incerto ha fatto sorgere due orientamenti parzialmente contrapposti.
Secondo una prima opinione[15], il tenore letterale dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis), d.lgs. n. 50/2016, suggerisce una generalizzazione degli obblighi dichiarativi, poiché l’illecito professionale s’instaura in capo a chi abbia «omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura». Posto che nulla è detto circa quali siano effettivamente le «informazioni dovute», e cioè assistite da un obbligo giuridico di dichiarazione e da una sanzione in caso di loro omissione, questo orientamento giurisprudenziale fonda su un inciso normativo – «tra questi rientrano», precedentemente collocato all’art. 80, comma 5, lett. c), oggi espunto, ma la cui espunzione parrebbe non mutare il tenore della disposizione – per il quale l’individuazione tipologica dei gravi illeciti professionale ha carattere meramente esemplificativo: sicché l’operatore economico è tenuto a dichiarare alla Stazione appaltante ogni vicenda pregressa, anche non tipizzata, la cui omissione potrebbe dunque rilevare quale grave illecito professionale e dunque costituire autonoma causa di esclusione dalla procedura.
Il pericolo di un onere eccessivo per gli operatori economici, tenuti a «ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa»[16] o anche inconferenti rispetto alla prestazione oggetto della gara e alle qualità professionali richieste dal bando, è evidente. È stato pertanto osservato che è necessario introdurre un limite di operatività dell’obbligo dichiarativo: fissato, anzitutto, in termini di ampiezza temporale dell’indagine, limitata a tre anni[17] dalla data del fatto rilevante ai fini della contestazione del grave illecito professionale[18].
L’esigenza di limitazione operativa ha peraltro prodotto una giurisprudenza che si è sforzata di tipizzare le omissioni dichiarative, distinguendo anzitutto tra omissione delle informazioni dovute e falsità delle dichiarazioni: la prima delle quali genera la facoltà della stazione appaltante di valutare l’attendibilità dell’operatore economico[19]; la seconda, invece, comporta l’automatica esclusione della procedura di gara, deponendo inequivocabilmente per l’inaffidabilità di questo[20].
Peraltro, fa notare la Sezione rimettente, la distinzione tra le omissioni dichiarative può specializzarsi ulteriormente, posto che l’ordito normativo fa variamente riferimento alla falsità delle informazioni, delle dichiarazioni e della documentazione, ora dando rilievo alla non veridicità in sé, ora invece focalizzandosi sulla rilevanza o sui profili soggettivi della imputabilità; a questo si accompagna il riferimento alla attitudine fuorviante delle informazioni; nonché quello alla omissione sic et simpliciter.
Il dato normativo – l’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 – insomma distingue tra:
- dichiarazioni omesse (rilevanti in relazione alla loro incidenza sul processo decisionale);
- dichiarazioni fuorvianti, aventi attitudine decettiva[21];
- dichiarazioni false (nelle quali rileva solo la falsità).
Non solo: le prime due categorie sembrano rilevare solo nella procedura in corso; la terza – che ha conseguenze espulsive automatiche – è destinata anche a operare nelle procedure evidenziali successive nei limiti del biennio. Ciò comporterebbe che solo per le prime due la p.A. deve apprezzare la rilevanza nella procedura; mentre solo l’ultima – consistendo in una manipolazione – ha attitudine espulsiva immediata.
Ancora. Questa distinzione poggia su un altro assunto, concorrente a quello appena esposto. Mentre la dichiarazione falsa implica la manipolazione del dato reale, e dunque rileva di per sé, la dichiarazione omessa può concernere sia un dato reale, sia una valutazione di un fatto o una circostanza non riducibile all’alternativa vero/falso: dunque si palesa imprescindibile il momento valutativo da parte della Stazione appaltante.
Questo diventa, poi, il presupposto della decisione della Plenaria in commento: a differenza di quanto rilevato dal Tar in prime cure, la Sezione rimettente osserva che il dato sul quale è sorto il contrasto tra l’impresa e la Stazione appaltante – la cifra d’affari del Consorzio nell’ultimo triennio – potrebbe non essere un fatto riducibile all’alternativa vero/falso, bensì un dato opinabile e dunque da valutare, poiché concernente non il quantum della cifra d’affari, bensì se in essa andasse o meno conteggiato anche l’apporto della società che era stata sospesa dal Consorzio.
Se così fosse, ciò impedirebbe ab origine il sorgere del falso, dunque l’applicabilità dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis): il fatto sarebbe sussunto nella lettera c) [oggi c-bis)] del medesimo comma, con obbligo per la p.A. di valutazione e apprezzamento dell’affidabilità e dell’integrità del concorrente prima di procedere alla sua eventuale esclusione.
La Sezione, pertanto, rimette la questione all’Adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a., perché ne sciolga i nodi in punto di diritto, sì da dettare il principio applicabile anche pro futuro.
4. Il principio dettato dalla Plenaria.
Posta la ricostruzione in fatto e in diritto delle fasi precedenti, le valutazioni dell’Adunanza plenaria assumono proprio questo punto di partenza: la dichiarazione relativa alla cifra d’affari del Consorzio «non può essere considerata falsa». Il dato contestato, invero, non è numerico, bensì implica una valutazione riferita a elementi di carattere giuridico, irriducibile all’antitesi vero/falso[22].
Se già quest’analisi in fatto condurrebbe a escludere l’applicabilità alla fattispecie dell’automatismo espulsivo e, dunque, della lett. f-bis), e ancora a dichiarare l’illegittimità del provvedimento di esclusione, l’Adunanza plenaria rafforza questo assunto vieppiù analizzando il rapporto tra la citata lettera e la lett. c) [applicabile alla fattispecie ratione temporis, oggi lett. c-bis) del medesimo comma 5 dell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016][23].
La lett. c) prevede infatti tre fattispecie di gravi illeciti professionali:
- fornire informazioni false
-fuorvianti, suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione[24];
- omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
La lett. f-bis) prevede la sola fattispecie della presentazione di «dichiarazioni non veritiere».
Ora, la Plenaria sottolinea chiaramente che le prime due fattispecie di cui alla lett. c) [oggi c-bis)] hanno un elemento specializzante rispetto all’ipotesi della falsità dichiarativa di cui alla lett. f-bis). L’elemento consiste nella idoneità di queste informazioni a «influenzare le decisioni» della Stazione appaltante. In altre parole, perché si realizzino le prime due fattispecie di cui alla lett. c), le informazioni non devono esser soltanto false o fuorvianti, ma devono anche avere una attitudine decettiva: devono essere cioè in grado di sviare l’Amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura di gara.
L’informazione falsa è da questo punto di vista equiparata a quella fuorviante; posto che quest’ultima, rispetto alla falsità, offre forse un maggior grado di aderenza al vero, la loro distinzione sul piano strutturale è estremamente difficile e gravosa: ciò in quanto i provvedimenti della Stazione appaltante non si basano soltanto sull’accertamento dei presupposti di fatto ma anche su valutazioni di tipo giuridico e dunque opinabili. Non solo. La distinzione tra le due fattispecie è inutile, poiché entrambe hanno appunto l’attitudine a sviare la p.A. nelle sue valutazioni.
Quanto, poi, alla terza fattispecie di cui alla lett. c), quella relativa alle omesse informazioni, il Collegio anche qui si allinea all’ordinanza di rimessione, qualificando questa come fattispecie di chiusura, tipizzata in modo più ampio dal legislatore, comprendente – in applicazione del principio di trasparenza – una varietà di informazioni non predeterminabili ex ante ma comunque in concreto incidenti in modo negativo sull’integrità ed affidabilità dell’operatore economico, e dunque – come tali – «dovute», ovvero assistite da una sanzione giuridica di doverosità.
Posto che l’individuazione di queste informazioni è esclusivamente esemplificativa[25], il limite di operatività dell’obbligo dichiarativo è costituito, allora, dai casi «evidentemente incidenti sulla moralità e affidabilità dell’operatore economico»: sono dovute informazioni non tipizzate ex ante ma comunque assistite da questo requisito dell’evidenza e della chiara incidenza, in modo che non vi siano esclusioni “a sorpresa” a carico dell’operatore economico.
Queste tre fattispecie – informazioni false, informazioni fuorvianti, informazioni omesse – sono peraltro accomunate tra loro da un dato: la lett. c) le fa rientrare espressamente tra i «gravi illeciti professionali» in grado di incidere sull’«integrità o affidabilità» dell’operatore economico[26]. Questo implica che comunque, in ciascuno di questi casi, la p.A. appaltante è tenuta a fare una previa valutazione discrezionale dell’effettiva incidenza della falsità o della omissione sull’affidabilità dell’operatore, essendole per contro impedito di procedere alla esclusione sic et simpliciter per il solo fatto della non aderenza al vero della dichiarazione fornitale.
La valutazione è peraltro ampiamente discrezionale e complessa[27]. La Stazione appaltante, in via meramente esemplificativa, dovrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante; se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni; se il comportamento tenuto dall’operatore economico incida in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità. Del pari dovrà stabilire allo stesso scopo se quest’ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa di gara, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità e affidabilità.
Come tale, per un verso alla sua mancanza non può ovviare il Giudice amministrativo: l’esclusione della giurisdizione di merito e il divieto di pronunciarsi con riferimento poteri amministrativi non ancora esercitati ex art. 34, comma 2, c.p.a.[28] impediscono che l’Autorità giurisdizionale si sostituisca alla Stazione appaltante nella valutazione dell’affidabilità dell’operatore economico.
Per altro verso, laddove invece quella valutazione sia stata esercitata, il sindacato giurisdizionale dovrà limitarsi a essere – ovviamente – esterno, dunque un classico sindacato di legittimità sull’attività discrezionale che vaglia la correttezza dell’esercizio del potere informato ai principi di ragionevolezza e proporzionalità e all’attendibilità della scelta effettuata dall’Amministrazione[29].
Esiste tuttavia – sottolinea la sentenza qui annotata – una parziale sovrapposizione tra la lett. c) [oggi c-bis)] e la lett. f-bis) del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016.
Perché, è vero, le tre fattispecie di cui alla lett. c) conducono all’esclusione dell’operatore economico soltanto ove l’Amministrazione effettui una valutazione circa la loro incidenza sull’affidabilità e sull’integrità di questo, e la concluda in senso affermativo. Viceversa, la fattispecie di cui all’art. f-bis) conduce a una esclusione automatica, obbligatoria e vincolata dell’operatore dalla gara.
Tuttavia, le due lettere della norma sono accomunate dal riferimento al falso.
È appena il caso di notare una cosa: la lett. c) fa riferimento a false «informazioni», mentre la lett. f-bis) si riferisce alle «dichiarazioni». La distinzione tra informazioni e dichiarazioni, per il Collegio, non riveste alcuna rilevanza pratica, poiché i documenti e le dichiarazioni sono comunque veicolo d’informazioni, per cui i due termini devono ritenersi sostanzialmente coincidenti.
Sono dunque equiparabili, parzialmente sovrapponibili, avendo un’identità di oggetto, la lett. c) [oggi c-bis)] laddove si riferisce alle «informazioni false» e la lett. f-bis) nel suo riferirsi a «dichiarazioni non veritiere».
Le due norme sono sovrapponibili, hanno il medesimo oggetto, ma conducono a conseguenze differenti: la prima conduce a una valutazione, l’altra a una esclusione automatica.
Ecco, dunque, sorgere, l’antinomia potenziale: con una conseguente necessità di coordinamento delle disposizioni in ragione della certezza del diritto, affinché l’operatore economico e la stessa Stazione appaltante sappiano come agire (o le conseguenze che deriveranno) in caso di falsità delle informazioni fornite. Posto che, appunto, le conseguenze sono duplici e incompatibili tra loro, ma il presupposto di fattispecie par essere praticamente identico.
Il Collegio fa ricorso alle disposizioni sulla legge in generale e a uno dei criteri ermeneutici di risoluzione delle antinomie tra norme: quello di specialità, secondo il quale lex specialis derogat legi generali, la cui espressa previsione normativa è contenuta, in realtà, nel codice penale, all’art. 15, in relazione alle fattispecie regolate da più disposizioni di legge concorrenti[30].
E invero, secondo la Plenaria la lett. c) del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 contiene un «elemento specializzante» rispetto alla lett. f-bis) del medesimo comma: consistente nell’attitudine delle informazioni false a sviare l’Amministrazione nell’adozione dei provvedimenti sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione della procedura evidenziale.
Il rapporto tra queste due fattispecie, dunque, è inquadrabile nella relazione tra genus e species: mentre la lett. f-bis) costituisce la disposizione che genericamente punisce il falso, la lett. c) costituisce norma speciale che punisce il falso ove questo svii l’Amministrazione.
Sicché – in applicazione del criterio di specialità – alla fattispecie della non veridicità della dichiarazione o informazione perché falsa, manipolata, si applica anzitutto l’art. 80, comma 5, lett. c). Ciò significa che, in presenza di documentazione o informazioni false, la Stazione appaltante è tenuta a effettuare le proprie valutazioni discrezionali circa l’incidenza del falso sull’affidabilità dell’operatore economico; e solo in un secondo momento, motivatamente, a escluderlo sulla base dell’esito di quella valutazione.
Viceversa, il meccanismo di esclusione automatica ex lett. f-bis) è limitato «alle ipotesi in cui le dichiarazioni rese o la documentazione presentata in sede di gara siano obiettivamente false, senza alcun margine di opinabilità, e non siano finalizzate all’adozione dei provvedimenti di competenza dell’Amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara o comunque relativi al corretto svolgimento di quest’ultima, secondo quanto previsto dalla lettera c)».
Pertanto, mentre la lett. c) si applica sia ai casi di informazioni fuorvianti, aventi attitudine decettiva, come tali anche reticenti e omesse, sia ai casi di informazioni false ove (e nei limiti in cui) queste sviino l’Amministrazione dalle proprie valutazioni circa la gara, la lett. f-bis) trova applicazione soltanto nelle ipotesi di falso sic et simpliciter, escludendo dunque dal proprio ambito di operatività le mere omissioni. Il rapporto tra queste due lettere dell’art. 80, comma 5, essendovi una parziale sovrapposizione dell’ambito applicativo (solo) in relazione all’ipotesi di falso, è regolato – per il Collegio – dal criterio di specialità.
Sicché la lett. f-bis) si applica soltanto in quei casi in cui non trova applicazione la lett. c): si tratta di norma generale e di applicazione residuale.
La Plenaria fissa, dunque, i principi di diritto che potrebbero trovare – forse – più pacifica applicazione:
5. Osservazioni conclusive: il criterio di specialità e le zone d’ombra.
L’intervento della Plenaria sulla perimetrazione degli obblighi dichiarativi ex art. 80, d.lgs. n. 50/2016 era quanto mai necessario.
Come detto, la materia della contrattualistica pubblica ha peculiarità – la sua diretta derivazione dal diritto europeo e la sua stretta connessione con i circuiti economico-finanziari del Paese – che rendono forse ancor più emergente l’esigenza di chiarezza da parte del legislatore e del decisore pubblico.
È stato osservato[31] che però, paradossalmente, proprio in quest’ambito il legislatore ha optato per un linguaggio giuridico non di rado indeterminato circa i requisiti di ammissione e di valutazione dei concorrenti; linguaggio che, assieme all’emersione di figure contrattuali flessibili e atipiche, genera più di un problema di sicurezza e richiede l’apprestamento di continue operazioni ermeneutiche.
Il condivisibile – e condiviso – intento di creare una costruzione giuridica coerente a disposizioni che sono spesso frutto di interventi legislativi di frequenza torrentizia e non ben coordinati tra loro giunge a un risultato organico che lascia, tuttavia, un cono d’ombra.
Si è detto che per il Collegio il rapporto tra le lettere c) [oggi c-bis)] ed f-bis) dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016, è antinomico e risolvibile secondo il criterio di specialità.
È opportuno soffermarsi su questo passaggio, non senza indugiare – ma solo per un brevissimo istante – sul rapporto tra norme e disposizioni: sarà essenziale per ricostruirne l’approccio ermeneutico utilizzato dal Consiglio di Stato.
È nozione di teoria generale del diritto che ciascun enunciato inserito in un testo che è fonte del diritto è una «disposizione»[32]: il significato (o i significati) della disposizione è ricostruito (o sono ricostruiti) tramite interpretazione. Il risultato dell’interpretazione della disposizione è la «norma»: una proposizione prescrittiva con la quale si valuta una condotta. La norma prevede alcune circostanze che ne condizionano l’applicabilità: queste circostanze costituiscono la fattispecie astratta. Alla fattispecie astratta, la norma connette una conseguenza (secondo lo schema: se è A, allora deve essere B). Se in un caso concreto si verificano le circostanze di cui alla fattispecie astratta, allora vi si applica la norma (fattispecie concreta). Ogni norma, dunque, si applica a quelle fattispecie concrete che rientrano nel suo ambito di operatività (le fattispecie astratte).
La norma è espressiva di un principio ed è strumento di valutazione del comportamento: la sua attuazione è generalmente assicurata da regole, le quali guidano il comportamento e assicurano che ad esso possano applicarsi presupposti e sanzioni della norma.
Nella realtà multiforme alla quale l’ordinamento e il sistema giuridico costantemente si adattano vi sono fattispecie concrete alle quali sono applicabili più regole. Qui giace un’alternativa: se l’applicazione delle regole genera un risultato intrinsecamente coerente, vi è un concorso di regole; laddove, invece, l’applicazione generi risultati contrastanti e contraddittori, si avrà un conflitto di regole: una antinomia[33].
L’antinomia, che sorge dalla impossibilità di ricondurre a sistema norme che – laddove applicate alla medesima fattispecie concreta – genereranno conseguenze diverse e incompatibili tra loro, richiede che una prevalga sulle altre. Per questa ragione, il sistema ha elaborato i tre criteri di risoluzione delle antinomie: gerarchico, cronologico e di specialità.
È a quest’ultimo che, come visto, l’Adunanza plenaria fa ricorso – richiamando l’art. 15 delle preleggi[34] – per assicurare un’applicazione il meno incerta possibile delle regole di cui all’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016: le quali, come racchiuse nelle lett. c) ed f-bis), paiono costituire un’antinomia diversamente non risolvibile.
L’applicazione di questo criterio, a parer di chi scrive, lascia tuttavia aperti interrogativi ancora irrisolti[35].
Ciò in quanto – come già detto – il criterio di specialità presuppone che fra le due norme in contrasto vi sia un rapporto da genus a species. Che una di esse sia, appunto, generale; e l’altra speciale. Per definizione, la norma speciale è dettata «per materie particolari all’interno di un tipo più generale»[36] e dunque disciplina una «ipotesi particolare – o comunque più limitata […] rispetto a quella che disciplina l’ipotesi generale o comunque più ampia»[37].
Questo significa, a rigor di logica, che i due poli della relazione devono esser delimitati nel loro ambito applicativo, sì da ben individuare quello speciale rispetto a quello generale e viceversa; non diversamente dall’insiemistica, dove l’insieme più grande contiene quello più piccolo: l’insieme più grande è definito nella sua area contenutistica sì che quello più piccolo possa esser determinato in relazione a esso.
La norma generale e quella speciale, dunque, devono avere una parziale sovrapposizione quanto all’ambito di applicazione: che non si tratta, però, di una sovrapposizione liminare o di confine, o dettata da limiti indefiniti e sfumati, bensì – al contrario – ben determinata e con una sistematica precisa. L’ambito di applicazione della norma generale dev’essere più ampio di quella speciale e deve contenerlo per intero e inglobarlo perfettamente.
Ebbene. L’interpretazione che la Plenaria fa delle lett. c) ed f-bis) ha proprio questo presupposto. Per il Giudice, le due norme avrebbero un ambito applicativo comune, seppure non esattamente identico. Posto che la lett. c) disciplina anche il caso delle omissioni, viceversa estraneo alla lett. f-bis), essa recherebbe un «elemento specializzante» circa il falso: la lett. c), in altre parole, si applicherebbe alle dichiarazioni false – esattamente coma la lett. f-bis) – purché queste siano anche «suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione».
Quindi, seguendo questa operazione ermeneutica, laddove le informazioni false non siano anche in grado di sviare l’operato della pubblica Amministrazione, si applicherebbe la regola generale – e quindi, residuale – di cui alla lett. f-bis).
Il risultato, però, non convince per più ragioni.
Una ragione teorica, anzitutto. Che sembra, peraltro, velatamente “confessata” in un passaggio della sentenza in commento. Come detto, nella relazione di specialità i due poli devono avere ambiti di applicazione specifici e determinati. Qui, però, se il polo “speciale” sembra avere un suo ambito applicativo determinato (riguardando tutte quelle informazioni false che abbiano anche attitudine decettiva nelle determinazioni di gara della Stazione appaltante), viceversa quello “generale” (le informazioni false tout court) non pare altrettanto focalizzato. Il Giudice amministrativo ammette, infatti, che per il vero le ipotesi di applicazione residuale della lett. f-bis) sono «di non agevole verificazione». Se non altro perché il Giudice stesso le individua (solo in via astratta) in negativo: sarebbero ipotesi in cui le dichiarazioni rese o la documentazione presentata in sede di gara siano obiettivamente false, senza alcun margine di opinabilità, e non siano finalizzate all’adozione del provvedimento di competenza dell’amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara o comunque relativa al corretto svolgimento di quest’ultima. Resta poco chiaro, però, in concreto, quando possano verificarsi tali ipotesi in una procedura a evidenza pubblica. Quindi, dal punto di vista teorico, la relazione, avendo un polo determinato (la species) e uno indeterminato (il genus), presta il fianco a qualche perplessità.
Una ragione pratica, di poi. L’applicazione del criterio di specialità al contrasto antinomico tra le lett. c) ed f-bis), così come modellato dalla Plenaria, implica che si dovrebbe riservare alle informazioni false tout court la sanzione dell’esclusione automatica; mentre a quelle – pur false – che abbiano però pure attitudine decettiva, la sanzione dell’esclusione eventuale previa verifica motivata della Stazione appaltante. La norma speciale sembra prevedere cioè una sanzione più blanda (o comunque più procedimentalizzata e meno immediata) rispetto a quella generale (o residuale): ma la prevede per una fattispecie che è più grave rispetto a quella generale. Si profila un paradosso: l’operatore economico che fornisce alla Stazione appaltante una informazione falsa e – in ipotesi – del tutto ininfluente rispetto alla procedura di gara, subisce l’esclusione automatica e obbligatoria ex lett. f-bis); viceversa, l’operatore che dichiari il falso, manipolando la realtà, con una attitudine a deviare l’Amministrazione nell’adozione dei provvedimenti di gara (relativi all’ammissione, alla selezione, alla valutazione e all’aggiudicazione: in pratica, tutta la procedura), è soggetto alla lett. c) e dunque ha diritto (essendovi la p.A. tenuta) alla previa valutazione in concreto dell’incidenza di quel falso sulla sua affidabilità, essendo l’esclusione soltanto eventuale e comunque motivata.
Ci si domanda che cosa potrebbe accadere se si assumesse un diverso dato ermeneutico di partenza. E cioè che, in realtà, le due norme possano avere due diversi ambiti applicativi.
Il Collegio sembra dichiarare l’identità di ambito d’applicazione sulla base di una equazione: e cioè che le «informazioni false» di cui alla lett. c) equivalgano alle «dichiarazioni non veritiere» di cui alla lett. f-bis).
Tuttavia, non è detto che a «informazioni» e «dichiarazioni» il legislatore volesse attribuire il medesimo ambito semantico. È vero che – come afferma il Collegio – le dichiarazioni (o i documenti) costituiscono il veicolo delle informazioni. Tuttavia, esse potrebbero distinguersi quanto alla loro formalizzazione. È cioè possibile che il legislatore si riferisca alle «informazioni» quando intenda un qualunque dato che sia comunicato alla Stazione appaltante (per esempio, dati relativi alla compagine sociale o alla suddivisione delle quote societarie); viceversa, il termine «dichiarazioni» potrebbe esser riferito a quegli atti di (auto)certificazione, di cui al D.P.R. n. 445/2000, che – come tali – hanno un preciso valore giuridico di sicurezza nell’ordinamento, perché destinati a far fede. Come tali, la loro manipolazione è assistita – ragionevolmente – dalla sanzione dell’esclusione tout court dalla procedura di gara[38].
In secondo luogo, anche gli aggettivi «falso» (riferito alle informazioni, lett. c)) e «non veritiero» (riferito alle dichiarazioni, lett. f-bis)) potrebbero non avere identico significato: poiché «falso» significa – come pure avverte il Giudice – che v’è stata in positivo una manipolazione della realtà, implica l’alterazione dei dati; viceversa, «non veritiero» include il falso, ma non si limita a quello, poiché non veritiera è la dichiarazione anche mendace, anche parziale, anche menzognera, anche semplicemente reticente.
L’intento del legislatore, dunque, potrebbe esser stato quello di tener distinti questi tipi di obblighi informativi. Vi sarebbe, cioè, una norma (lett. c)) che punisce con sanzione più blanda e più meditata l’operatore economico che fornisca alla Stazione appaltante una qualsiasi informazione falsa, a seconda che essa abbia effettivamente inciso nel processo decisionale della procedura evidenziale; e un’altra (lett. f-bis)) che, viceversa, sanziona con misura automatica l’operatore economico che presenti un’autocertificazione falsa, mendace, menzognera o reticente o comunque non aderente al vero. Questo perché, presentando una «dichiarazione non veritiera» il concorrente non turba solo la procedura cui sta partecipando, ma lede interessi generali di certezza del diritto che sono tutelati proprio con quelle disposizioni che sanzionano la sicurezza giuridica proveniente da dichiarazioni asseverate e autocertificazioni anche con la responsabilità penale. Non diversamente da quanto accade, per esempio, nella legge generale sul procedimento amministrativo quanto alle attività avviate con dichiarazione falsa o mendace e sanzionate ai sensi dell’art. 21, l. n. 241/’90[39] anche con la decadenza automatica dai benefici di cui all’art. 75, D.P.R. n. 445/2000.
Pertanto, il criterio di specialità ricostruito e applicato dalla Plenaria ha il pregio inequivocabile di offrire in generale nel sistema una maggiore sicurezza perché – di fatto – afferma la prevalenza e l’applicazione più generalizzata dell’art. 80, comma 5, lett. c), obbligando le Stazioni appaltanti a una previa valutazione discrezionale e motivata prima di escludere un concorrente dalla procedura. È una decisione di favore per il settore dei contratti pubblici, che evita l’esposizione dei concorrenti al pericolo di una sanzione espulsiva immediata per aver fornito informazioni non perfettamente aderenti al vero. È una decisione che incoraggia insomma all’applicazione del principio di proporzionalità nelle sanzioni.
Resta però in ombra l’ambito applicativo della lett. f-bis) del comma 5 dell’art. 80: che, da norma generale, in realtà sembra trovare un’applicazione limitatissima e non ben focalizzata. Sarà pertanto la futura casistica a determinare le ipotesi di verificazione delle fattispecie concrete che indurranno all’applicazione dell’esclusione automatica, sulla scia del principio dettato dall’Adunanza plenaria.
[1] La certezza giuridica nell’ambito del diritto amministrativo sostanziale e processuale è un valore al quale la giurisprudenza e il legislatore tendono sempre più, stante la sua immediata influenza sugli investimenti che possono risollevare il tessuto economico statale. In proposito v. F. Francario, Il diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in Dir. soc., n. 1/2018, pp. 11 ss.; Id., Certezza del diritto ed operatori economici: note a margine di recenti riforme, in AA.VV., Le fonti nel diritto amministrativo, Annuario AIPDA 2015, Napoli, 2016, pp. 269 ss. Nonché, in correlazione con la certezza dei poteri giurisdizionali, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Federalismi.it, n. 14/2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, n. 3/2018; Id., Ancora sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici. Postilla a “Principi e regole dell’azione amministrativa. Riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale”, in Federalismi.it, n. 11/2018.
[2] In ossequio all’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016, «La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l’operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80. Essa impone all’operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l’operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici».
[3] Ai sensi del quale, «nel caso di dichiarazioni mendaci, […] la stazione appaltante esclude il concorrente».
[4] Art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50/2016: «Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni […] qualora: […] l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere».
[5] Tar Puglia, Lecce, I, 22 maggio 2019, n. 846.
[6] Tar Puglia, Lecce, n. 846/2019, cit.: l’Amministrazione deve «poter fare affidamento non solo sul possesso dei requisiti allegati ma, più in generale, sulla rispondenza al ‘vero’ delle complessive circostanze in fatto auto-dichiarate dai concorrenti con riguardo agli stessi».
[7] Come rilevato da consolidata giurisprudenza, il falso innocuo – che si verifica allorquando «l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiono del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio» (cfr. da ultimo Tar Bologna, II, 29 gennaio 2020, n. 79) – non trova applicazione nelle procedure a evidenza pubblica: il falso, infatti, può dirsi innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati, mentre nelle procedure a evidenza pubblica «la completezza delle dichiarazioni già di per sé costituisce un valore da perseguire perché consente la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara e una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa meriti o meno di partecipare alla procedura competitiva» (cfr. ex multis, Cons. Stato, V, 3 giugno 2013, n. 3045; Tar Trentino Alto Adige, Trento, I, 12 marzo 2014, n. 89; Tar Abruzzo, Pescara, I, 12 ottobre 2015, n. 387; Tar Calabria, Catanzaro, I, 20 novembre 2017, n. 1753).
A quest’orientamento se ne oppone un altro più moderato, per il quale «gli istituti del “falso innocuo” od “omissione innocua” […] richiedono un controllo sostanziale, e non meramente formale, sui requisiti di partecipazione da parte della stazione appaltante» (Tar Lazio, I, 01 giugno 2015, n. 7744). Questa seconda opinione ritiene cioè che dalla dichiarazione non veritiera (falsa, mendace o reticente che sia) non possa derivare la sanzione automatica dell’esclusione: la Stazione appaltante ha un potere discrezionale di apprezzamento sulle circostanze non dichiarate in relazione alla loro effettiva rilevanza nella procedura di specie.
Sul tema v. anche P. Provenzano, La teoria del “falso innocuo” in materia di dichiarazioni ex art. 38 d.lg. n. 163 del 2006 al vaglio della Corte di Giustizia, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 1/2013, pp. 234 ss.; E.M. Barbieri, In tema di appalti pubblici e requisiti generali di partecipazione. Omessa dichiarazione e falso innocuo, in Nuovo not. giur., n. 1/2013, pp. 186 ss.; D. Bottega, Il “falso innocuo” nelle procedure ad evidenza pubblica, in Contr. St. Enti Pubbl., n. 2/2016, pp. 67 ss.; A.C. Bifulco, Il c.d. “falso innocuo”: riflessioni a margine di una ordinanza cautelare del TAR Campania, in Giustamm.it, n. 12/2016, pp. 12.
[8] Tar Puglia, Lecce, n. 846/2019, cit.: «la circostanza che la dichiarazione de qua non incidesse in modo rilevante sulla sussistenza del requisito di partecipazione alla procedura (cifra d’affari nel triennio, ampiamente superata anche senza tener conto dei lavori della General Works Italia), infine, non risulta significativa, perché il Consorzio avrebbe dovuto rappresentare alla Stazione appaltante l’effettiva propria posizione quanto al requisito in parola» (corsivo originale).
[9] Cons. Stato, V, ord. 9 aprile 2020, n. 2332.
[10] Val la pena di ricordare che la vicenda in questione, per quanto recente, vede l’applicazione ratione temporis di una versione dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50/2016 oggi superata: l’art. 5, d.l. n. 135/2018, conv. dalla l. 11 febbraio 2019, n. 12, ha infatti sdoppiato la precedente lettera c) del comma 5 dell’art. 80 nelle successive c-bis) e c-ter), pur mantenendo nella lett. c) la previsione di portata generale circa le dichiarazioni non veritiere.
[11] Cons. Stato, ord. n. 2332/2020, cit.
[12] La pervasività del principio di buona fede nel diritto amministrativo è testimoniata dai frequenti riferimenti in dottrina e in giurisprudenza. Nella sterminata biografia non ci si può esimere dal citare F. Merusi, Affidamento e buona fede nel diritto pubblico, Milano, 1970; Id., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, Milano, 2001. Prima ancora di questo studio fondamentale, v. anche U. Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965. Secondo l’A. l’imparzialità amministrativa comporta che le relazioni tra Amministrazione pubblica e cittadini devono ispirarsi alla buona fede, in quanto l’imparzialità pone la p.A. in una posizione comprensiva delle posizioni degli amministrati, per la necessaria considerazione dei loro interessi e tale situazione comporta che essa debba comportarsi secondo buona fede. Cfr. anche A. Mantero, Le situazioni favorevoli del privato nel rapporto amministrativo, Padova, 1979; P.M. Vipiana, L’autolimite della pubblica amministrazione, Milano, 1990; F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; di recente, v. anche A. Gigli, Nuove prospettive di tutela del legittimo affidamento nei confronti del potere amministrativo, Napoli, 2016.
E. Follieri, Il rapporto giuridico amministrativo dinamico, in Giustamm.it, n. 12/2017, parla di comportamento secondo buona fede, corretto e leale: questi obblighi comportamentali gravano tanto sulla p.A., quanto sul privato. L’A. assimila il procedimento amministrativo in generale alle trattative contrattuali: questo, dunque, esattamente come le trattative nel diritto privato, è permeato dai principi di buona fede e correttezza dall’avvio fino alla sua conclusione.
[13] Lo testimonia la corposa giurisprudenza in materia di responsabilità precontrattuale, per la quale «anche i soggetti pubblici, sia nelle trattative negoziali condotte senza procedura di evidenza pubblica che nelle procedure di gara, devono improntare la propria condotta al canone di buona fede e correttezza, sancito dall’art. 1337 c.c., non dovendo determinare nella controparte privata affidamenti ingiustificati ovvero tradire, senza giusta causa, affidamenti ingenerati legittimamente» (Tar Lazio, II, 9 luglio 2018, n. 7628). Anche l’Adunanza plenaria n. 5/2018 ha affermato, superando il contrario prevalente orientamento, che la responsabilità precontrattuale della p.a. possa perfezionarsi anche prima dell’aggiudicazione, perché la p.a. è tenuta al dovere di buona fede in tutte la fasi della procedura di gara.
[14] Tar Campania, Napoli, I, 4 febbraio 2019, n. 598.
[15] Cons. Stato, V, 24 gennaio 2019, n. 586; Id., V, 25 gennaio 2019, n. 591; Id., V, 3 gennaio 2019, n. 72; Id., III, 27 dicembre 2018, n. 7231; Id., V, 22 luglio 2019, n. 5171; Id., V, 11 giugno 2018, n. 3592; Id., 25 luglio 2018, n. 4532; Id., 19 novembre 2018, n. 6530; Id., III, 29 novembre 2018, n. 6787.
[16] Cons. Stato, V, 22 luglio 2019, n. 5171, cit.; Id., V, 3 settembre 2018, n. 5142.
[17] Cons. Stato, V, 5 marzo 2020, n. 1605, che ha dichiarato illegittima per violazione del principio di proporzionalità l’esclusione da una gara per grave illecito professionale basata su una precedente risoluzione contrattuale ante triennio.
[18] Lo impone il diritto europeo: art. 57, par. 7, dir. 2014/24/UE. In proposito, le Linee guida ANAC, delib. n. 6/2016, precedute dal parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato, 26 ottobre 2016, n. 2286, hanno affermato proprio la diretta applicazione nell’ordinamento statale della previsione di cui all’art. 57, par. 7, citato.
[19] Cons. Stato, V, 3 settembre 2018, n. 5142, cit: l’omissione comprende la reticenza, cioè l’incompletezza dell’informazione dichiarata.
[20] Cons. Stato, V, 12 aprile 2019, n. 2407: la falsità implica dichiarazioni non veritiere, rappresentative di una circostanza in fatto diversa dal vero.
[21] Anche qui, peraltro, può distinguersi tra dichiarazioni fuorvianti “in negativo”, cioè quelle reticenti (la c.d. mezza verità od omissione parziale, per cui l’attitudine decettiva si manifesta nel “non detto”); e fuorvianti “in positivo” (la c.d. mezza falsità, per cui l’attitudine decettiva si manifesta nella manipolazione dei dati reali).
[22] Elementi relativi «alla persistente validità del rapporto consortile in presenza di una delibera di sospensione; e alla possibilità di cumulare la cifra d’affari comunque realizzata nel triennio in considerazione dalla consorziata, ancorché priva di un’attestazione SOA», cfr. punto 9 in diritto della sentenza qui annotata.
[23] Nella versione applicabile ratione temporis alla fattispecie, la disposizione oggetto d’analisi era così formulata: «5. Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni […] qualora: c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: […] il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione; […] f-bis) l’operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere».
Oggi, la disposizione è stata modificata lasciando inalterata la lett. f-bis) e con una specificazione delle ipotesi sub lett. c) nelle lettere c-bis) e c-ter). Per cui l’attuale formulazione, per quel che qui rileva, è: «5. Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico […] qualora: […] c-bis) l’operatore economico abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione».
Le disposizioni da coordinare erano dunque contenute nelle lett. c) e f-bis); oggi, invece, sono contenute nelle lettere c-bis) ed f-bis).
[24] Le informazioni “false” o “fuorvianti” costituiscono due fattispecie differenti, equiparate sul piano degli effetti.
[25] Lo confermano le linee guida ANAC, del. n. 6/2016 e il parere Cons. Stato, Comm. sez. spec., 13 novembre 2018, n. 2616, sulle stesse: il Consiglio di Stato, in quell’occasione, forniva anche una proposta di riformulazione dell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 che regolasse meglio i rapporti tra fattispecie generale di grave illecito professionale e fattispecie tipizzanti («Riguardo alla condivisibile esigenza, rappresentata dall’ANAC nella relazione illustrativa, di specificare il rapporto che intercorre, nell’ambito dell’art. 80, tra fattispecie generale e fattispecie tipizzanti, si prospetta e si affida alla valutazione anche di opportunità di codesta Autorità la possibilità di una generale riformulazione dell’incipit del capitolo II delle linee guida, anteponendo all’elencazione delle tre classi tipologiche rientranti nel genus “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”, la seguente proposizione introduttiva […]: «Possono costituire grave illecito professionale, tale da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità dell’operatore economico, in via esemplificativa e non esaustiva, le seguenti tipologie di atti e di condotte […]», cfr. punto 7.2. del parere).
[26] Questa osservazione è fornita dal tenore letterale della norma, cfr. nota 23 nella quale è stata inserita per esteso. Oggi, come detto, la lett. c) è stata scissa ed è stato espunto quell’inciso per cui tra i gravi illeciti professionali «rientrano» le informazioni false, omesse o fuorvianti. L’espunzione, ad ogni modo, non suggerisce oggi una lettura diversa della disposizione, poiché la lett. c-bis) è comunque una sottocategoria della lett. c) circa i gravi illeciti professionali.
[27] La valutazione non può essere omessa nemmeno quando si tratta di procedimenti penali. Infatti «non tutto ciò che va dichiarato dall’operatore economico concorrente in gara, in quanto penalmente rilevante, si presta poi a essere utilizzato per escluderlo dalla gara: i fatti avranno rilievo a tal fine, solo se capaci di evolvere in illecito professionale. Ma tale valutazione spetta alla Stazione appaltante, che deve essere posta nelle condizioni di compierla grazie a una dichiarazione esaustiva» (Tar Lazio, II, 28 luglio 2020, n. 8821).
[28] Sul punto v. da ultimo A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo, Torino, 2020, spec. pp. 326 ss.
[29] Sebbene su vicenda disciplinata dal vecchio codice appalti, già il giudice di legittimità si era pronunciato circa l’estensione dei poteri giurisdizionali rispetto alla valutazione discrezionale della Stazione appaltante. Cfr. Cass., Sez. un., 17 febbraio 2012, n. 2312: «A norma dell’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione di prestazioni affidate dalla medesima stazione che bandisce la gara; il legislatore, quindi, ha voluto riconoscere a quest’ultima un ampio margine di apprezzamento circa la sussistenza del requisito dell’affidabilità dell’appaltatore. Ne consegue che il sindacato che il G.a. è chiamato a compiere sulle motivazioni di tale apprezzamento deve essere mantenuto sul piano della “non pretestuosità” della valutazione degli elementi di fatto compiuta e non può pervenire ad evidenziare una mera “non condivisibilità” della valutazione stessa; l’adozione del criterio della “non condivisione” si traduce, infatti, non in un errore di giudizio – insindacabile davanti alle Sezioni unite della Corte di Cassazione – ma in uno sconfinamento nell’area della discrezionalità amministrativa, ossia in un superamento dei limiti esterni della giurisdizione tale da giustificare l’annullamento della pronuncia del G.a.».
[30] Art. 15 c.p.: «Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».
[31] A.G. Pietrosanti, Sui gravi illeciti professionali previsti dall’art. 80, comma 5, lettera c) del d. lgs. n. 50/2016, in Riv. giur. ed., n. 4/2018, pp. 209 ss.
[32] Cfr. la celeberrima voce di V. Crisafulli, Disposizione (e norma), in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, pp. 195 ss.
[33] Un riferimento necessario e di ampio respiro è in P. Perlingieri, Istituzioni di diritto civile, Napoli, 2017, pp. 10 ss.
[34] Che riguarda l’abrogazione delle leggi. Il criterio di specialità è definito dall’art. 15 c.p.: questo ne spiega anche la frequente applicazione, anche qui con incertezze, nell’ambito delle sanzioni amministrative. Cfr. A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm., n. 4/2014, pp. 627 ss., per il quale il soggetto pubblico ha il dovere di chiarezza. Nell’ambito delle sanzioni amministrative, infatti, rileva anche l’ignoranza “inevitabile” della norma violata. Per l’A., «Questa rilevanza rispecchia la convinzione che anche la cogenza della legge incontri un limite preciso: il limite è rappresentato dalla necessità che chi pone le regole debba a sua volta rispettare alcuni principi. La condotta posta in essere in violazione di una regola “non certa” non è sanzionabile: l’esclusione della sanzionabilità, più a monte del riconoscimento della rilevanza della colpevolezza del trasgressore e dell’elemento soggettivo, richiama a un dovere essenziale di chiarezza e di univocità che grava su ogni soggetto pubblico che ponga una regola».
[35] La ricostruzione operata dalla plenaria suscita perplessità anche in G.A. Giuffrè e G. Strazza, Il rapporto tra le cause di esclusione di cui alle lettere c) e f-bis) dell’art. 80, comma 5, del d.lgs. 50/2016: qual è l’ipotesi residuale?, in Lamministrativista.it, 14 settembre 2020.
[36] P. Perlingieri, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 10, che così esemplifica: «(ad esempio, il trasporto via mare, disciplinato dal codice della navigazione, rispetto alle regole generali del trasporto di persone o cose dettate dal codice civile)».
[37] Sempre P. Perlingieri, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 14.
[38] Aspetto, questo, rilevato anche da A.G. Giuffrè e G. Strazza, Il rapporto tra le cause di esclusione, cit., per i quali la differenza tra la lett. c) e la lett. f-bis) sta solo nell’elemento oggettivo, e cioè nella differenza tra «dichiarazioni» e «informazioni». Gli AA. limitano così la discrezionalità della Stazione appaltante alla sola valutazione circa la possibilità delle informazioni false di sviare la sua scelta in sede di gara, non anche l’esclusione: la quale – se quell’attitudine decettiva è ritenuta esistente – è invece atto vincolato.
[39] Che peraltro punisce il dichiarante che abbia rilasciato dichiarazioni mendaci o false attestazioni anche ai sensi dell’art. 483 c.p., disposizione relativa al falso ideologico in atto pubblico che sanziona con la reclusione «chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità». La norma della legge generale sul procedimento amministrativo è foriera di molti problemi applicativi, specie in materia edilizia. V. in proposito, M.A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica amministrazione e illeciti edilizi, in Federalismi.it, n. 14/2015; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, ivi, n. 18/2019. Circa la difficoltosa distinzione tra dichiarazione falsa e mendace e sull’influenza di questa demarcazione rispetto alle sanzioni (ivi compresa la mancata formazione del silenzio assenso sull’istanza presentata dal privato) cfr. L. Ferrara, Sulla formazione del silenzio assenso e sulla necessità di una lettura di sistema, in P.L. Portaluri (per cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2016, pp. 107 ss.
La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (*)
(18 l. n. 241 del 1990 s.m.i. e D.P.R. n. 445 del 2000 s.m.i.)
di Maria Alessandra Sandulli
sommario: 1. Premessa. La ratio delle “dichiarazioni sostitutive”. — 2. Il sistema delle autodichiarazioni nel d.P.R. 445 del 2000. — 3. Segue: i controlli sulle autodichiarazioni. — 4. Segue: le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere. — 5. L’acquisizione d’ufficio.
1. Premessa. La ratio delle “dichiarazioni sostitutive”. Come anticipato nell’Introduzione, le riforme più recenti, nell’ottica della semplificazione amministrativa (sancita anche dal divieto di aggravio procedimentale), hanno, per un verso, sollecitato “l’acquisizione d’ufficio” dei “documenti attestanti fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria del procedimento quando sono in possesso dell’amministrazione procedente ovvero detenuti, istituzionalmente, da altre amministrazioni”, e “l’accertamento d’ufficio” da parte del responsabile del procedimento dei fatti, stati e qualità che la stessa amministrazione procedente o altra pubblica amministrazione è tenuta a certificare (la regola, risalente all’art. 2 del d.P.R. n. 678 del 1957, è oggi sancita dall’art. 18, commi 2, 3 e 3-bis, l. n. 241 del 1990 s.m.i.), e, per l’altro verso, in direzione sostanzialmente opposta, dato sempre maggiore spazio alle c.d. “autocertificazioni” (dichiarazioni sostitutive di “certificazioni” e di “atti di notorietà” su dati e informazioni non soggetti a certificazione) mediante le quali gli amministrati possono (e sempre più spesso devono) direttamente attestare l’esistenza di fatti, atti, rapporti, stati e qualità personali di loro conoscenza in forza del d.P.R. 445 del 2000 (art. 18, comma 1, aggiunto durante l’iter parlamentare di approvazione della legge, come modificato dal recentissimo d.l. n. 76 del 16 luglio 2020, recante “misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” a sostegno della ripresa economica per fronteggiare la crisi conseguente all’emergenza sanitaria COVID- 19, c.d. “Decreto Semplificazioni” cui si deve anche l’aggiunta del menzionato comma 3-bis).
Come osservato da pregevole dottrina (M. Occhiena, Autocertificazione, 874, cui si rinvia anche per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale fino al 2017), la norma “riflette appieno la concezione organizzativa del procedimento amministrativo e, in generale, dell’attività degli enti pubblici”. In un tempo in cui l’informatizzazione delle pubbliche amministrazioni era fortemente arretrata e lo scambio di dati tra le stesse era limitato e inefficiente, il legislatore aveva individuato nelle autocertificazioni e nella documentazione esibita in forza della l. n. 15 del 1968 (e relativi decreti di attuazione) gli strumenti per semplificare i processi decisionali pubblici e per evitare agli amministrati le lunghe e onerose attese agli sportelli per ritirare certificati e trasportarli materialmente dall’uno all’altro ufficio. Le autodichiarazioni furono poi significativamente rafforzate per effetto della “rivoluzione semplificatrice” operata dalla l. n. 127 del 1997 (c.d. “legge Bassanini-bis”), e, in particolare, negli artt. 1, 2 e 3 della stessa (poi modificati dalla l. n. 191/1998: c.d. “legge Bassanini-ter”) e nel relativo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 403/1998), che ne estese l’ambito di applicazione e gli effetti, eliminò l’obbligo di autenticazione della firma e, soprattutto, precisò che la loro mancata accettazione integrava violazione dei doveri d’ufficio.
Quando tuttavia (grazie ai supporti informatici e all’evoluzione telematica) i collegamenti tra gli uffici pubblici sono stati nettamente incrementati e facilitati, avrebbero potuto trovare attuazione anche i commi 2 e 3, in forza dei quali le amministrazioni procedenti avrebbero dovuto provvedere autonomamente all’acquisizione dei documenti e all’accertamento dei fatti.
Significativamente, la riforma del 2005, riscrivendo l’art. 18, comma 2, nei termini sopra riportati, ha sostituito la formula che onerava l’interessato di specificare i documenti in possesso dell’amministrazione attestanti i fatti, gli stati e le qualità necessari per l’istruttoria, con il nuovo obbligo dell’ente procedente di acquisirli d’ufficio, temperato unicamente dalla facoltà di “richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti” (v. anche infra, par. 5).
Lungi dal segnare il superamento del sistema delle dichiarazioni sostitutive, la riforma non ha però trovato concreta attuazione e, come dimostrano l’evoluzione della d.i.a./ s.c.i.a. (su cui v. infra l’apposito contributo) e i successivi interventi legislativi (ultimo dei quali il richiamato d.l. n. 76 del 2020), le autodichiarazioni hanno assunto un ruolo sempre più “centrale” nel sistema dei rapporti tra privati e amministrazioni e, travalicando l’originaria funzione di sostituire le “certificazioni” amministrative e gli “atti di notorietà” (consentendo agli amministrati di certificare essi stessi alle amministrazioni dati, circostanze e informazioni chiaramente risultanti da documenti amministrativi o comunque “notori”), sono state impropriamente chiamate anche a “supplire” alle inefficienze dei poteri pubblici, implicando di fatto il trasferimento in capo ai privati di responsabilità di ricostruzione e valutazione di un quadro normativo e tecnico sempre più farraginoso e complesso che i dipendenti pubblici non si sentono in grado di assumere (cfr. supra, l’Introduzione e le considerazioni di G. Trovati, Prove di semplificazione sulla responsabilità contabile, in Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2020, e di P. Severino, La burocrazia difensiva, in La Repubblica, 30 maggio 2020).
Il primo comma dell’art. 21 della l. n. 241, al primo periodo, infatti, testualmente recita che “Con la denuncia o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti” (rispettivamente per il valido utilizzo della d.i.a./s.c.i.a. e per l’accoglibilità, anche tacita, dell’istanza) e che “In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non `e ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”. Su tale formula le Amministrazioni e la giurisprudenza hanno costruito un’autoresponsabilizzazione del dichiarante anche per meri errori valutativi (v. le considerazioni svolte infra al par. 4 e nel contributo sulla s.c.i.a., nonché i contributi di G. Mari e M. Sinisi, rispettivamente sul silenzio assenso e sull’autotutela), confondendoli indebitamente con il rilascio di dichiarazioni false o mendaci e in tal modo contravvenendo allo spirito e alla logica della semplificazione. Come anticipato nell’Introduzione è infatti evidente che il falso o mendacio presuppone la volontà di travisare una circostanza inconfutabile (oggettivamente verificabile), sicché non può essere considerata falsa o mendace la dichiarazione che, basandosi su un elemento valutativo (ex se opinabile), propone senza dolo una costruzione/soluzione diversa da quella che l’amministrazione o il giudice ritengano poi corretta: una dichiarazione falsa o mendace è evidentemente sbagliata, ma non è vero l’inverso, ché l’errore del dichiarante non è necessariamente espressione di un falso, tanto più laddove la rappresentazione/valutazione richiestagli sia resa oggettivamente difficile dal contesto di riferimento; al punto che il legislatore ha avuto bisogno di intervenire a ridurre la responsabilità erariale e penale dei funzionari pubblici, bloccati dalla c.d. “paura della firma” (artt. 21 e 23 del d.l. 76/2020, su cui v. amplius infra). Si ricorda in proposito che, anche in tema di falsità documentali, ai fini dell’integrazione del delitto di falsità, materiale o ideologica, in atto pubblico, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, il quale, tuttavia, non può essere considerato in re ipsa, in quanto deve essere rigorosamente provato, dovendosi escludere il reato quando risulti che il falso non risponde a una volontà di immutatio veri, ma deriva da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell’agente, poiché il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo (così Cass. pen., Sez. III, 16 luglio 2015, n. 30862; si v. anche Cass. pen., Sez. V, 28 luglio 2010, n. 29764).
Le autodichiarazioni hanno avuto un ruolo decisivo anche nell’emergenza sanitaria COVID-19 (dimostrando tutta la loro debolezza e i loro rischi quando il dichiarante è stato chiamato a costruire, sotto la propria responsabilità, l’ignota nozione di “congiunto” introdotta dall’art. 29, d.P.C.M. 6 aprile 2020) e sono espressamente evocate anche dalle numerose disposizioni finalizzate a far fronte alle conseguenze sociali ed economiche di tale eccezionale e drammatica pandemia. Come anticipato, da ultimo, il menzionato d.l. n. 76 del 2020, intervenendo direttamente sull’art. 18 l. n. 241, vi ha aggiunto un comma 3-bis, il quale dispone che “Nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l’erogazione di benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni, da parte di pubbliche amministrazioni ovvero il rilascio di autorizzazioni e nulla osta comunque denominati, le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ovvero l’acquisizione di dati e documenti di cui ai commi 2 e 3, sostituiscono ogni tipo di documentazione comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento, fatto comunque salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159”.
Nonostante l’insistenza sul duplice binario autodichiarazioni/acquisizioni o accertamenti d’ufficio, è presumibile che le prime siano destinate, ancora una volta, a prevalere, con tutti i rischi che ne conseguono, in termini di garanzia della legalità (a svantaggio dell’interesse pubblico particolare e generale) e di certezza degli effetti del provvedimento o del titolo ottenuto (a svantaggio dell’autodichiarante).
2. Il sistema delle autodichiarazioni nel d.P.R. 445 del 2000. Il sistema delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e/o di atti di notorietà è attualmente disegnato dalla Sezione V (“Norme in materia di dichiarazioni sostitutive”) del Capo III (“Semplificazione della documentazione amministrativa”), del “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, approvato con d.P.R. n. 445 del 2000 (che, all’art. 2, dispone che le dichiarazioni sostitutive possono essere impiegate anche nei rapporti tra l’attestante e gli altri soggetti “privati che vi consentono”).
In particolare, detto d.P.R. elenca, all’art. 46, le “dichiarazioni sostitutive di certificazioni”, precisando che esse possono essere rese anche contestualmente all’istanza per comprovare “in sostituzione delle normali certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti: a) data e il luogo di nascita; b) residenza; c) cittadinanza; d) godimento dei diritti civili e politici; e) stato di celibe, coniugato, vedovo o stato libero; f) stato di famiglia; g) esistenza in vita; h) nascita del figlio, decesso del coniuge, dell’ascendente o discendente; i) iscrizione in albi, registri o elenchi tenuti da pubbliche amministrazioni; l) appartenenza a ordini professionali; m) titolo di studio, esami sostenuti; n) qualifica professionale posseduta, titolo di specializzazione, di abilitazione, di formazione, di aggiornamento e di qualificazione tecnica; o) situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefìci di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali; p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l’indicazione dell’ammontare corrisposto; q) possesso e numero del codice fiscale, della partita I.V.A. e di qualsiasi dato presente nell’archivio dell’anagrafe tributaria; r) stato di disoccupazione; s) qualità di pensionato e categoria di pensione; t) qualità di studente; u) qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore, di curatore e simili; v) iscrizione presso associazioni o formazioni sociali di qualsiasi tipo; z) tutte le situazioni relative all’adempimento degli obblighi militari, ivi comprese quelle attestate nel foglio matricolare dello stato di servizio; aa) di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa; bb) di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali; cc) qualità di vivenza a carico; dd) tutti i dati a diretta conoscenza dell’interessato contenuti nei registri dello stato civile; ee) di non trovarsi in stato di liquidazione o di fallimento e di non aver presentato domanda di concordato”.
Il successivo art. 47 dispone, a sua volta, ai commi 1 e 2, che “l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti [anche relativi ad altri soggetti] che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da [apposita] dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con l’osservanza delle modalità di cui all’art. 38”, che regola, in termini generali, le modalità di invio, anche per fax e via telematica, e sottoscrizione, anche digitale, delle istanze e delle dichiarazioni da presentare alle pubbliche amministrazioni o ai gestori o esercenti di pubblici servizi (disciplina che deve essere pertanto integrata dalle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale).
A rafforzare la valenza dello strumento, il comma 3 prevede che, salvo espresse preclusioni di legge, nei rapporti con gli enti pubblici e i concessionari di pubblici servizi “tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46” (ovvero che non sono oggetto di certificazione) “possono essere comprovati dall’interessato mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”. L’art. 19 dello stesso d.P.R. ammette inoltre l’utilizzo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà anche per attestare la conformità di una copia di un atto o di un documento al suo originale.
L’art. 49 ha invece cura di precisare che, salvo diverse disposizioni speciali, “i certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti non possono essere sostituiti da altro documento”.
Dopo aver ribadito che le dichiarazioni sostitutive “hanno la stessa validità temporale degli atti che sostituiscono”, l’art. 48 prescrive alle singole amministrazioni di predisporre “i moduli necessari per la redazione delle dichiarazioni sostitutive, che gli interessati hanno facoltà di utilizzare” e di inserire la relativa formula nei moduli per le istanze. La norma si combina con il disposto dell’art. 35, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (cd. “Decreto Trasparenza”), che impone alle amministrazioni di pubblicare sui loro siti istituzionali, “per i procedimenti ad istanza di parte, gli atti e i documenti da allegare all’istanza e la modulistica necessaria, compresi i fac-simile per le autocertificazioni”, e vieta alle medesime di “richiedere l’uso di moduli e formulari che non siano stati pubblicati”, precisando che “in caso di omessa pubblicazione, i relativi procedimenti possono essere avviati anche in assenza dei suddetti moduli o formulari” e che, comunque, “L’amministrazione non può respingere l’istanza adducendo il mancato utilizzo dei moduli o formulari o la mancata produzione di tali atti o documenti, e deve invitare l’istante a integrare la documentazione in un termine congruo”.
3. Segue: i controlli sulle autodichiarazioni. Il Capo V della Sezione VI (artt. 71 e 72) del t.u. del 2000 è dedicato ai “controlli” sulle suddette autodichiarazioni. L’art. 71, recentemente novellato dal d.l. n. 34 del 2020 (c.d. “Decreto Rilancio”), convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio, disciplina le modalità di controllo, anche a campione, sollecitandone l’effettuazione. Anche in relazione a quanto si dirà subito infra in riferimento alle conseguenze delle dichiarazioni non veritiere, merita sottolineare che il terzo comma del suddetto articolo precisa testualmente che “se le dichiarazioni sostitutive rese in un procedimento amministrativo contengono irregolarità od omissioni rilevabili d’ufficio che non costituiscono falsità, a pena di mancata prosecuzione del procedimento l’interessato deve riceverne apposita segnalazione da parte del funzionario competente e deve procedere alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione medesima”, e che se egli non provvede “alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione”, “il procedimento non ha seguito”. In coerenza con il principio di leale collaborazione (declinato anche nel dovere del c.d. “soccorso istruttorio” di cui all’art. 6 l. n. 241, su cui v. il contributo di F. Aperio Bella), il legislatore ha dunque introdotto un evidente elemento distintivo tra le mere “irregolarità od omissioni” e le “falsità”, espressamente onerando l’Amministrazione procedente di rilevare e contestare le prime in tempo utile per permetterne la regolarizzazione in corso di procedimento.
Nella medesima ottica di garanzia, il quarto, e ultimo, comma dell’art. 71 stabilisce invece che “Qualora il controllo riguardi dichiarazioni sostitutive presentate ai privati che vi consentono di cui all’articolo 2, l’amministrazione competente per il rilascio della relativa certificazione, previa definizione di appositi accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del soggetto privato corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta, anche attraverso l’uso di strumenti informatici o telematici, della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati da essa custoditi”.
L’art. 72 impone la trasparenza delle modalità di controllo adottate e stigmatizza come violazione dei doveri d’ufficio la mancata risposta alle richieste di controllo entro i successivi trenta giorni.
4. Segue: le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere. Il d.P.R. 445/2000 disciplina, al Capo VI (“Sanzioni”) le conseguenze delle dichiarazioni non veritiere (artt. 73, 75 e 76) e della violazione dell’obbligo di accettare le dichiarazioni sostitutive (art. 74).
Tali disposizioni, come anticipato nell’Introduzione e come si avrà modo di riscontrare dalla lettura dei successivi contributi, incidono sulla stabilità degli effetti dei provvedimenti che, sulla scorta di tali dichiarazioni, abbiano determinato l’erogazione di benefici e, di conseguenza, interferiscono con le garanzie di “certezza” che il legislatore sta cercando (almeno dichiaratamente) di garantire agli amministrati attraverso i modelli di semplificazione dei sistemi di controllo sulle attività interferenti con interessi pubblici (silenzio assenso e s.c.i.a.) e, in termini più generali, attraverso il nuovo paradigma dell’autotutela soprassessoria e caducatoria.
La disamina degli artt. 73 ss. del d.P.R. 445 deve essere condotta pertanto in parallelo con quella degli artt. 21 e 21-nonies della l. n. 241 (al quale ultimo espressamente rinviano gli artt. 19, per i limiti ai controlli postumi sulla s.c.i.a.), e 21-quater (per quelli al potere di sospensione di precedenti provvedimenti), e rimeditata anche alla luce delle ultime disposizioni del Decreto Semplificazioni (il d.l. n. 76 del 2020).
Come più diffusamente illustrato nel contributo sull’autotutela (M. Sinisi), a partire dal 2004 (art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004, che sanciva il divieto di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi incidenti su rapporti contrattuali o negoziali decorso il termine di tre anni “dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”), il legislatore ha cercato di delimitare il potere dell’Amministrazione di rimuovere/sospendere in autotutela i propri atti sul presupposto della loro originaria illegittimità, curandosi di bilanciare l’interesse al ripristino della legalità con quello del destinatario alla conservazione delle posizioni soggettive (anche invalidamente) acquisite o riconosciute. Attraverso un progressivo percorso in tal senso, l’art. 21-nonies della l. n. 241, nel testo attualmente vigente, dispone che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”. I suddetti limiti, motivazionali e temporali, sono stati espressamente richiamati anche per l’eventuale controllo postumo sulla s.c.i.a. (consentito all’Amministrazione, in parallelo al potere di annullamento sui propri provvedimenti, impliciti o espliciti, dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 19, commi 3 e 6-bis, per la verifica immediata, e doverosa, dell’idoneità/validità della segnalazione). Proprio con riferimento ai titoli impliciti o autocertificati, l’assenza della garanzia del provvedimento espresso rendeva e rende infatti ancora più importante garantirne la stabilità (e la spendibilità) contro l’esercizio tardivo del potere di controllo (M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio; Riflessioni sulla tutela del cittadino; Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela). Come recentemente evidenziato dalla giurisprudenza (CGAS, 26 maggio 2020 n. 325) a proposito dello speciale regime dell’annullamento regionale dei titoli edilizi, infatti, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Osserva in merito condivisibilmente l’organo giudicante che “il principio costituzionale dell’art. 97 cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro”, che “trova fondamento anche nell’art. 3 cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all’esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l’uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”; e significativamente concludendo che l’obbligo di motivazione (che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha, almeno formalmente, escluso potersi rinvenire in re ipsa per particolari categorie di atti: cfr. infra il contributo di M. Sinisi) “è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”.
Per contemperare detta garanzia di stabilità con l’esigenza di evitare un utilizzo fraudolento dei nuovi strumenti di semplificazione e di liberalizzazione, lo stesso art. 21-nonies ha peraltro disposto, in via derogatoria ed eccezionale, al comma 2-bis, a sua volta valido anche per i provvedimenti taciti e per i controlli postumi sulla s.c.i.a., che il predetto limite temporale non opera in riferimento al potere di annullamento dei “provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, con sentenza passata in giudicato”. La stessa disposizione fa peraltro testualmente “salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445”: formula infelice, frutto di un verosimile errore di trasposizione della formula originariamente contenuta nell’art. 19 (“sanzioni penali di cui al comma 6, nonché di quelle di cui al capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”), che, più coerentemente, come osservato nella precedenti edizioni di questo Volume (contributo sulla s.c.i.a.), sembrava limitare la clausola di salvezza alle sanzioni penali di cui all’art. 76 dello stesso t.u.. Nonostante il dettato normativo appaia chiaro e univoco, tanto nel senso dell’imprescindibile correlazione tra la derogabilità al termine di 18 mesi e il “falso”, quanto nel senso che il riferimento alle “false rappresentazioni dei fatti o [di] dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci” debba leggersi in termini di endiadi (stante anche l’oggettiva difficoltà di configurare “rappresentazioni dei fatti” al di fuori delle dichiarazioni sostitutive, che, come sopra evidenziato, assolvono, tra l’altro, proprio alla finalità di attestare “fatti”), la giurisprudenza, supportata da parte della dottrina, vi ha però individuato una breccia per ridurre l’ambito di operatività del limite del giudicato penale e per ricondurre, in modo evidentemente improprio, alle “false rappresentazioni dei fatti”, non tanto e non soltanto (in coerenza con il ricostruito “sistema” delle autodichiarazioni disegnato dal t.u. del 2000) le eventuali alterazioni dei documenti o dei dati oggettivamente risultanti da pubblici registri o simili, o comunque “notori”, ma anche le presunte inesattezze nella descrizione o qualificazione tecnicogiuridica delle fattispecie, riconducibili piuttosto a errori di valutazione e/o ricostruzione del quadro normativo e/o tecnico di riferimento (quali quelli su la validità di un titolo, la qualificazione di un intervento edilizio, la sussistenza di un vincolo, l’individuazione della regula iuris correttamente applicabile, e simili), perfettamente compatibili con la sua riconosciuta complessità e contraddittorietà e, come tali, irriducibili all’antitesi vero/falso (cfr. amplius l’apposita appendice al contributo di M. Sinisi). Significativamente, il Consiglio di Stato, nei succitati pareri nn. 839 e 1784 del 2016, aveva sollecitato un intervento chiarificatore da parte del legislatore, suggerendo, in alternativa alla proposta lettura in chiave di endiadi delle due espressioni, la sostituzione di quella “false rappresentazioni dei fatti” con la più consona “presentazione di documenti falsi”.
La confusione sull’effettiva portata del limite dei 18 mesi è stata sotto altro profilo alimentata da uno scarso coordinamento con l’art. 21 della stessa l. n. 241 e dal suddetto richiamo alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445” (come detto, verosimilmente frutto del riferito errore di trasposizione di quello originariamente contenuto nell’art. 19: v. amplius infra, in questo contributo, con riferimento all’art. 264 del d.l. n. 34 del 2020).
Pur opportunamente intervenendo a eliminare il comma 2 dell’art. 21 (che, in contraddizione con il sistema costruito dagli artt. 19 e 20, assoggettava le attività esercitate in base a titoli illegittimi alle medesime sanzioni comminate per quelle esercitate in assenza di titolo: sul punto v. amplius il contributo di G. Mari), la l. n. 124 del 2015 (“legge Madia”) ha infatti lasciato inalterato il comma 1 dello stesso articolo, che, tutt’ora, come visto, dopo aver ribadito (in chiave responsabilizzante) l’obbligo dell’interessato di dichiarare nella segnalazione di cui all’art. 19 e nella domanda di cui all’art. 20 la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti (obbligo corroborato dall’art. 12 del d.l. n. 76 del 2020, che fa però correttamente testuale rinvio alle sole dichiarazioni sostitutive di cui ai riferiti artt. 46 e 47 d.P.R. 445 del 2000), non ammette “la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge e la sanatoria prevista dagli articoli medesimi”. Il persistente riferimento alla “sanatoria”, prevista nel testo originario dell’art. 20, ma eliminata dalla riforma del 2005 (che fa anzi espresso ed esclusivo riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies), dimostra che la mancata modifica della disposizione non risponde a una specifica scelta legislativa in senso antitetico a quella operata con l’abrogazione del comma 2 e con l’introduzione di puntuali limiti (e controlimiti) al potere di rimuovere con effetto ex tunc i titoli e i benefici acquisiti in forza dei richiamati artt. 19 e 20. Come già rilevato nelle precedenti edizioni (nel contributo specificamente dedicato alla s.c.i.a.), lo spirito della riforma, l’abrogazione dell’art. 21, comma 2, e il chiaro disposto dell’art. 21-nonies, comma 2-bis, inducono dunque ragionevolmente a circoscrivere la portata dell’art. 21, comma 1, alla verifica ordinaria di conformità della s.c.i.a., che l’amministrazione deve compiere nei primi 60 o 30 giorni. Anche il Consiglio di Stato, nei pareri 839 e 1784 del 2016 sui decreti delegati s.c.i.a. (su cui v. amplius nel relativo contributo), riscontrando la distonia della disposizione, aveva del resto giustamente sottolineato che, se avesse inteso effettivamente legittimare una deroga ulteriore a quella prevista dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies, il legislatore avrebbe dovuto specificare “quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”.
La chiave di lettura qui prospettata trova ormai conferma nel comma 8-bis dell’art. 2, l. 241, introdotto dall’art. 12 del citato d.l. n. 76 del 2020, che, ribadendo la volontà legislativa a favore della stabilità del titolo tracciata dalla riforma Madia e sgombrando (si spera, definitivamente) il campo da ipotesi di mancata formazione dei titoli impliciti o autocertificati (su cui amplius il citato contributo di G. Mari e, ancora recentemente, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 aprile 2020, n. 634), precisa testualmente che “le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14 -bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando [soltanto: n.d.r.] quanto previsto dall’art. 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Le precedenti considerazioni consentono di esaminare con maggiore cognizione di causa le disposizioni di cui al Capo VI del d.P.R. 445 del 2000 e la relativa incidenza sul sistema generale sopra ricostruito. A tale proposito occorre peraltro preliminarmente evidenziare che l’art. 264, comma 1, del richiamato d.l. n. 34 del 2020 (convertito, senza modificazioni in parte qua, nella l. n. 77 del 17 luglio), nell’ampliare ulteriormente l’ambito delle dichiarazioni e asseverazioni sostitutive in relazione alle istanze di benefici e agevolazioni legate alla nuova, drammatica, emergenza pandemica, ha confermato e rafforzato i limiti imposti all’autotutela caducatoria dalla riforma Madia. La novella ha invero ridotto, in via derogatoria ed eccezionale, con riferimento agli atti adottati (o all’attività intrapresa) in relazione alla stessa emergenza, da 18 a 3 mesi il termine perentorio di cui all’art. 21-nonies, dandosi espressamente cura di ribadire, facendola dunque testualmente propria, la regola che tale limite, come disposto dal riportato comma 2-bis dello stesso articolo, trova eccezione nel caso (e, proprio perché si tratta di eccezione, salvo chiare ed espresse controindicazioni, soltanto nel caso) in cui detti atti o titoli siano frutto di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Si conferma dunque che la deroga al limite temporale per inesatte “rappresentazioni dei fatti” richiede l’elemento della “falsità” e che, anche a voler accettare la lettura (a mio avviso strumentale e non conforme all’intentum legis) che esclude per le “false rappresentazioni dei fatti” la necessità del giudicato penale, tale garanzia è ineludibile quantomeno per le “dichiarazioni sostitutive”. Sicché, dal momento che, come detto, esse normalmente assorbono ogni tipo di “fatto”, la querelle sulla possibilità di distinguere, ai fini della prescritta condizione del giudicato penale, tra false rappresentazioni dei fatti e false dichiarazioni sostitutive dovrebbe assumere una rilevanza affatto marginale (si segnala in proposito che le dichiarazioni “asseverate” da un professionista abilitato possono essere disattese solo attraverso una prova rigorosa e stringente in senso opposto e non possono certamente essere smentite mediante mere presunzioni o deduzioni: Cass. pen., III, 19 gennaio 2009 n. 1818; Cons. St., Sez. VI, n 148/ 2014). Non solo. Lo stesso art. 264, comma 1, del d.l. n. 34 dà ragione anche della suesposta prospettazione in termini di errore di drafting del richiamo alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445” operato dall’art. 21-nonies, comma 2-bis. Riavvicinandosi al testo originario dell’art. 19 l. 241, evidentemente erroneamente trasposto nella novella del 2015, il legislatore del 2020 fa invero (più correttamente) salve soltanto le “sanzioni penali, ivi comprese quelle previste dal capo VI” del suddetto t.u. e, dunque, soltanto quelle previste dal suo art. 76, il quale statuisce che chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso “è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”. In particolare, per le fattispecie incriminatrici previste dal codice (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art. 483 c.p., false attestazioni o dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altri ex artt. 495 e 496 c.p., su cui, rispettivamente, inter alia, Cass. pen., Sez. V, 14 giugno 2016, n. 36821 e 21 luglio 2009, n. 35447), il d.l. n. 76 del 2020 ha previsto l’aumento da un terzo alla metà della sanzione ordinaria. Il comma 4 dell’art. 76 aggiunge che se la falsa dichiarazione è resa per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l’autorizzazione all’esercizio di una professione o arte, “il giudice, nei casi più gravi, può applicare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e arte”. Tra le norme speciali, si segnala l’art. 19, comma 6, l. 241, che, nel testo modificato dalla l. 122/2010, stabilisce che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, la falsa dichiarazione o attestazione nella segnalazione dell’esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al comma 1 è punita con la reclusione da uno a tre anni.
Le questioni più complesse investono però, come anticipato, le conseguenze di ordine amministrativo e il loro raccordo con il richiamato paradigma dell’autotutela caducatoria.
Oltre alle conseguenze penali, il d.P.R. 445 ha invero sin dall’origine disposto che, qualora a seguito dei controlli di cui al richiamato art. 71 emerga la “non veridicità” del contenuto della dichiarazione sostitutiva, “il dichiarante decade dai benefìci eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. La norma, risalente al 2000, deve essere pertanto coordinata con il sopravvenuto art. 21-nonies, l. 241 (aggiunto, si ricorda, dalla riforma del 2005 e rivisitato, anche e soprattutto nell’ottica di dare maggiore stabilità ai titoli semplificati e autocertificati, da quella del 2015), che, come visto, introduce limiti motivazionali e temporali al potere amministrativo di rimuovere ex tunc, per vizi originari di legittimità, i provvedimenti/titoli autorizzatori o attributivi di vantaggi economici, consentendo la deroga del limite temporale (fermo in ogni caso quello motivazionale) unicamente nell’ipotesi in cui l’atto risulti adottato sulla base di “false rappresentazioni della realtà o di dichiarazioni false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Se dunque, come sostenuto nelle precedenti edizioni di questo Volume e come sembra ormai chiarito dal comma 1 dell’art. 264 del Decreto Rilancio, l’espressa clausola di salvezza delle sanzioni di cui al d.P.R. 445 del 2000 deve intendersi limitata alle sanzioni penali, si potrebbe anche ritenere che il paradigma dell’autotutela caducatoria costruito dal Capo IV-bis della l. n. 241, privilegiando (nella linea intrapresa, proprio per i benefici economici, dall’art. 1, comma 136, della l. 311 del 2004), la stabilità dei rapporti tra privato e pubblica Amministrazione, abbia assorbito e implicitamente abrogato la misura decadenziale automatica e imperitura comminata dal citato art. 75. Se però, come imposto dai richiamati princìpi di legalità, buona amministrazione e certezza del diritto e tutela del legittimo affidamento, le due disposizioni vengono lette e applicate con il dovuto rigore, la sovrapposizione si rivela soltanto apparente. Diversamente dall’annullamento, che interviene con effetto ex tunc sull’atto - o, nella forma del controllo postumo sulla s.c.i.a., sulla valenza del titolo autocertificato - la decadenza ex art. 75 d.P.R. 445 (a meno di integrare una forma di “annullamento travestito”, espressamente stigmatizzata dal Consiglio di Stato nei già richiamati pareri 839 e 1784 del 2016 sugli schemi dei decreti s.c.i.a.) opera sui soli benefici eventualmente ancora dovuti in forza del provvedimento ottenuto attraverso una dichiarazione/asseverazione/attestazione non veritiera. La misura, che non incide direttamente sul provvedimento, si inquadra dunque nella più generale tipologia della decadenza per perdita (o sopravvenuto accertamento dell’insussistenza) dei presupposti o requisiti di legge (M.A. Sandulli, Decadenza, II) Diritto Amministrativo e, prima, Decadenza e sanzione amministrativa). Essa risponde (rectius, dovrebbe rispondere), correttamente e ragionevolmente, alla logica di precludere la (“ulteriore”) fruizione dell’utilitas in tesi indebitamente conseguita, impedendo che il dichiarante “continui” a godere di un beneficio cui non ha diritto: essa coerentemente opera ex nunc e, in questi termini e con questi limiti, può prescindere dall’elemento soggettivo e dalla gravità del mendacio (Cons. St., Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3934, ha sottolineato in proposito che la ratio delle autodichiarazioni, che è quella di “semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante: il corollario che deve trarsi da tale constatazione è che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell’Amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante, perché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in giuoco, ma solo le necessità di spedita esecuzione della legge sottese al sistema della semplificazione” (analogamente, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12 marzo 2018, n. 1524; TAR Veneto, Sez. I, 18 settembre 2017, n. 832; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 4 gennaio 2016, n. 33). Il tema resta comunque estremamente delicato, soprattutto alla luce del principio di proporzionalità (su cui v. supra il contributo di D.U. Galetta): con ord. n. 92 del 2020, il TAR Puglia, Lecce, Sez. III (riprendendo e sviluppando gli argomenti svolti nelle ordd. nn. 1346, 1531, 1552 e 1544 del 2018, dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza da C. cost., n. 199 del 2019), ha (ri)sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione, nella lettura datane dal “diritto vivente”, nel senso di ritenerla applicabile, con un “meccanico automatismo legale (del tutto contestualizzato dal caso specifico)” e con “assoluta rigidità”, per qualsivoglia errore “sostanziale” della dichiarazione, a prescindere dalla sua concreta rilevanza e dalla sua effettiva gravità, anche sul piano dell’elemento soggettivo. Il contrasto è stato dedotto in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e sproporzione della misura impeditiva e decadenziale automatica, anche alla luce delle aperture create dall’ordinamento attraverso il soccorso istruttorio. Sottolinea invero l’ordinanza che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, sia appalesa idoneo (...) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamato a regolare, anche in funzione dell’«“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a a criteri di coerenza logica, teleologica, ..., che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa (sentenza numero 87 del 2012)» (Corte costituzionale sentenza 10 giugno 2014 n. 162)”. Spunti interessanti sul rapporto tra effetto preclusivo automatico e principio di proporzionalità sono rinvenibili anche, in termini più generali, nella recente sentenza C UE 30 gennaio 2020, causa C-395/ 2018.
Il legislatore del 2020 (tanto in sede di decretazione d’urgenza, quanto in sede di conversione) ha perso un’importante occasione per fare aperta chiarezza su tale quadro normativo. Ancora una volta, le nuove disposizioni della normativa emergenziale — come si è già visto a proposito della conclamata inefficacia delle determinazioni assunte dopo la scadenza dei termini per la decisione implicita o per la verifica immediata sulla s.c.i.a. (ex art. 12 d.l. n. 76) in rapporto all’art. 21, comma 1, l. n. 241 e del richiamo alle (sole) sanzioni penali di cui al d.P.R. 445 nella rielaborazione della formula del comma 2-bis dell’art. 21-nonies leggibile nel comma 1 dell’art. 264 d.l. n. 34 — offrono però utili spunti ricostruttivi. In particolare, pur senza intervenire direttamente sulla disposizione comminatoria della decadenza di cui al citato art. 75, lo stesso art. 264 del d.l. n. 34 ne ha invero comunque chiaramente circoscritto gli effetti, laddove, nel decidere, con un improvviso e criticabilmente non segnalato cambio di rotta (cfr. M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020), di inasprire il regime delle conseguenze amministrative delle false dichiarazioni, facendo retroagire (e ultragire) gli effetti della decadenza, ha (correttamente) ritenuto necessario aggiungere un apposito (e autonomo) comma 1-bis all’art. 75, enunciante la — nuova — regola che “La dichiarazione mendace comporta, altresì, la revoca degli eventuali benefici già erogati” e, addirittura, “il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni per un periodo di 2 anni decorrenti da quando l’amministrazione ha adottato l’atto di decadenza”.
Sorge però a questo punto un nuovo ordine di questioni. Come rilevato in sede di primo commento alla disposizione (M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264, cit.), la nuova “revoca” (che con la revoca in senso proprio non ha peraltro nulla a che vedere) integra invero, diversamente dalla decadenza, una misura evidentemente distonica rispetto al dettato e allo spirito dell’art. 21-nonies della l. n. 241. È indubbia infatti la differenza tra la preclusione al conseguimento o all’ulteriore godimento di un’utilitas cui il dichiarante non avrebbe avuto in tesi diritto (decadenza) e la revoca ex tunc dei benefici medio tempore ottenuti (e verosimilmente spesi o comunque investiti) per l’inefficienza dei controlli amministrativi. Al di là del nomen, quest’ultima misura appare invero sovrapponibile all’annullamento dell’atto presupposto all’erogazione del beneficio. Ne dà conferma l’art. 56 del più volte citato d.l. n. 76 del 2020, che, ponendo finalmente termine alla vexata quaestio dell’applicabilità dei limiti di cui all’art. 21-nonies al potere del GSE (Gestore dei Servizi Energetici) di intervenire con effetto ex tunc sulla spettanza degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili all’esito della rilevazione, in sede di verifica postuma, del loro indebito riconoscimento (anche a causa della presentazione di documentazione non veritiera o di dichiarazioni false o mendaci), ha espressamente chiarito (mediante una testuale puntualizzazione all’interno dell’art. 42 d.lg. n. 28 del 2011, in tesi estraneo al paradigma generale dell’autoannullamento) che tale potere si esplica “in presenza dei presupposti di cui all’articolo 21-nonies” della l. n. 241 e ha conseguentemente fatto obbligo allo stesso Gestore di riesaminare, su richiesta dell’interessato, i provvedimenti di annullamento e/o di decadenza non ancora divenuti definitivi, provvedendo alla relativa rimozione (impropriamente definita “revoca”) entro 60 giorni dalla stessa richiesta.
La novella conferma dunque la valenza generale dei limiti posti dall’art. 21-nonies per ogni intervento di rimozione degli atti (o rilevamento postumo dell’inefficacia della s.c.i.a.) per vizi originari.
Diversamente da quanto disposto dall’art. 21-nonies, l. n. 241, il comma 1-bis dell’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000 prevede però una misura “automatica” (senza bilanciamento dei contrapposti interessi) e, soprattutto, pur avendo specificamente ad oggetto il recupero di “benefici”, non fa alcuna menzione del giudicato penale. Per giustificare la distonia della “revoca” di cui al novellato art. 75 d.P.R. 445 rispetto al regime generale dell’annullamento d’ufficio, bisogna dunque ricondurla, come del resto ben compreso dai Servizi studi della Camera e del Senato nella Scheda di presentazione del Decreto Rilancio ai fini della relativa conversione in legge, analogamente alla correlata interdittiva biennale da ogni agevolazione, al genus delle sanzioni (identificabili, a prescindere dalla qualificazione, per la loro connotazione afflittiva, siccome definita dalla Corte EDU con i cd Engel criteria, pacificamente applicati, a partire dalla nota sentenza n. 196 del 2010, anche dalla Consulta). Ma ciò implica che le riferite misure devono rigorosamente rispettare i principi e le regole che la Costituzione, la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) univocamente impongono per le pene: inter alia, stretta legalità (e dunque rigorosa delimitazione alle dichiarazioni attinenti all’erogazione di “benefici”, quali evidentemente non sono le autorizzazioni all’esercizio di un’attività e men che meno la s.c.i.a.: cfr. la giurisprudenza costituzionale richiamata nell’apposito contributo), presunzione di non colpevolezza, favor rei, adeguata motivazione e istruttoria, proporzionalità (anche in termini di necessaria graduabilità della sanzione in relazione alla specifica gravità e rilevanza del fatto) e valenza dell’elemento soggettivo (in proposito, tra le più recenti, le sentenze nn. 63 e 112 del 2019, rispettivamente nel senso dell’applicabilità anche alle sanzioni amministrative della regola della retroattività della legge più favorevole e dell’illegittima costituzionale delle sanzioni interdittive non graduabili: cfr. anche E. Bindi, A. Pisaneschi, La retroattività in mitius delle sanzioni amministrative sostanzialmente afflittive tra Corte EDU, Corte di Giustizia e Corte costituzionale, in Federalismi.it, 2019, e ivi ulteriori richiami).
Da ciò la palese erroneità e superficialità della suddetta Scheda, quando unifica e assimila istituti come decadenza, revoca e interdizione e concetti come falsità, mendacio e non veridicità, assumendo (con un’impropria estensione del surrichiamato “diritto vivente” sulla decadenza) che anche per le neo-introdotte misure sanzionatorie la “«dichiarazione falsa o non veritiera» opera come fatto”, sì che “perde[rebbe] rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante”.
La confusione, purtroppo sempre più diffusa e frequente, tra le categorie giuridiche è uno dei più gravi difetti del nostro sistema e aumenta gravemente l’incertezza delle regole e, per l’effetto, la sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese.
Come segnalato nel citato commento a prima lettura della disposizione (M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020), deve essere pertanto stigmatizzata qualsiasi chiave di lettura che, disattendendo i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento permeanti l’azione amministrativa e posti significativamente alla base del nuovo paradigma dell’autotutela soprassessoria e caducatoria, obliteri il connotato doloso intrinseco al falso e al mendacio, che, solo, può giustificare, nel suddetto paradigma, il recupero in ogni tempo del beneficio in forza della rilevata non rispondenza della dichiarazione originariamente resa ai dati e alle situazioni (di “realtà materiale”) riportate, e, travalicando i confini tracciati dal d.P.R. 445, tenda inammissibilmente ad estendere l’applicazione delle nuove sanzioni — testualmente riferite alle sole dichiarazioni “mendaci”, rese, in forza dei menzionati artt. 46 e 47 dello stesso t.u., per l’erogazione di “benefici” — a qualsiasi, preteso, “errore” di ricostruzione e valutazione del quadro tecnico e normativo di riferimento imputabile all’interessato anche nella dichiarazione di circostanze (come il generico possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento) sulle quali (a differenza di quelle risultanti dagli atti di certazione) i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giurisdizionale) o la realtà fattuale (dati inconfutabili, come il peso, la misura, ecc.) non offrono certezza. Merita in quest’ottica sicuro apprezzamento la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato nel senso che, “il concetto di “falso”, nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso” (Sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976; sulla necessità del dolo, ancorché generico, per configurare il reato di falso ideologico in un’autodichiarazione, cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, sent. n. 2496 del 19 dicembre 2019, dep. il 22 gennaio 2020. Analogamente, sulla necessità di una lettura rigorosa della nozione di “falsa dichiarazione”, con riferimento all’impossibilità di assimilarvi l’ipotesi di “omessa o reticente dichiarazione” cfr. Cons. St., Sez. V, 6 luglio 2020 n. 4313, con la conseguenza che, ai fini dell’ammissione a una gara pubblica, “solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso”; negli stessi sensi, la stessa Sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; Id. 22 luglio 2019, n. 5171; Id. 28 ottobre 2019, n. 7387; Id. 13 dicembre 2019, n. 8480). La tematica è comunque all’esame dell’Adunanza Plenaria (Sez. V, ord. 9 aprile 2020, n. 2332), che si confida fornisca opportuni chiarimenti anche di carattere generale.
Non si deve infatti dimenticare che le misure di semplificazione e liberalizzazione sono, sì, volte a rendere più efficace ed efficiente l’azione amministrativa, ma sono altrettanto inequivocabilmente finalizzate a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato e non possono quindi provocarne un sostanziale indebolimento, imputando ai relativi titolari “responsabilità oggettive” per condotte legate a deficienze e incertezze del sistema normativo da cui si cerca di tenere indenni le amministrazioni (E. Casetta, La difficoltà di “semplificare”, 341; M. Occhiena, L’autocertificazione, 891). Merita in proposito segnalare che la giurisprudenza penale ha rigorosamente circoscritto la possibilità di rinvenire un c.d. falso valutativo (qualora specificatamente previsto) alle ipotesi in cui “in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici normalmente accettati l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni” (Cass., Sez. Un., 27 maggio 2016, n. 22474). Si richiede dunque, per un verso, una certezza a monte dei criteri di valutazione e, per l’altro, una consapevolezza della relativa violazione, in una con l’impossibilità di dare altre giustificazioni alla soluzione accolta (sul falso valutativo si v. anche G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione).
Le precedenti considerazioni valgono a maggior ragione quando si osservi che, proprio per ovviare al diffuso fenomeno della “paura della firma”, determinata dalla preoccupazione dei dipendenti pubblici di incorrere in responsabilità amministrative e penali per possibili errori interpretativi derivanti dall’oggettiva difficoltà di ricostruzione del quadro normativo, il d.l. n. 76 del 2020 (di fatto coevo alla legge di conversione della riportata novella sanzionatoria) per un verso, ha disposto la (per ora temporanea) limitazione della “responsabilità erariale” (responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici e dei soggetti equiparati per danni all’erario) per atti e comportamenti “commissivi” ai casi di dolo (da comprovare attraverso la dimostrazione della “volontà dell’evento dannoso”), mantenendo la responsabilità per colpa (che già la l. n. 20 del 1994 circoscriveva peraltro alla “colpa grave”) soltanto per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente, e, per l’altro verso, ha rigorosamente ridefinito (a regime) l’ipotesi di reato per cd “abuso d’ufficio”. L’art. 23 del decreto è infatti intervenuto direttamente sull’art. 323 c.p. limitando la configurabilità di tale reato alla violazione (affatto difficilmente ravvisabile) “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Sarebbe dunque evidentemente ingiusto “punire” i privati autodichiaranti per omissioni e/o errori dichiarativi (anche imputabili a negligenza) che vengono invece giustificati agli agenti pubblici (sul tema si rinvia a R. Greco, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Giustizia insieme, 22 luglio 2020 e al webinar, introdotto e coordinato da M.A. Sandulli, su “Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza”, 13 luglio 2020).
5. L’acquisizione d’ufficio. Come anticipato in premessa, il nuovo comma 3-bis aggiunto all’art. 18 l. n. 241 dal d.l. n. 76, in parallelo alle autodichiarazioni, fa anche esplicito richiamo all’acquisizione d’ufficio di cui ai commi 2 e 3 dello stesso articolo, che, come evidenziato in dottrina (M. Occhiena, L’autocertificazione, 890), è ispirata al modello più evoluto dell’istruttoria procedimentale pubblica, in quanto, nella prospettiva degli amministrati, li esonera dal deposito di certificati o delle corrispondenti dichiarazioni sostitutive e dei relativi rischi, e sul piano dell’effettiva realizzazione del pubblico interesse, elide le fisiologiche deficienze e incertezze correlate all’utilizzo delle autocertificazioni.
Il dovere dell’Amministrazione di acquisire in via autonoma gli atti e i certificati concernenti fatti e circostanze che risultino attestati in documenti già in suo possesso o che essa stessa sia tenuta a certificare risale all’art. 2 del d.P.R. n. 678 del 1957 ed è stato formalmente ribadito e progressivamente aggiornato nelle diverse disposizioni che sono intervenute sul tema della produzione documentale privati- pubbliche Amministrazioni: così, in particolare, dopo l’art. 10 della l. n. 15 del 1968, l’art. 18, commi 2 e 3, l. n. 241 (modificato dalla riforma del 2005 e, da ultimo, dal d.l. n. 76 del 2020) e l’art. 43 d.P.R. 445 del 2000, che, al comma 1, come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. c, l. n. 183 del 2011, sottolinea che “Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato” e, al comma 3, come modificato dall’art. 14, comma 1-ter, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 98, dispone che “L’amministrazione procedente opera l’acquisizione d’ufficio...esclusivamente per via telematica”. Quest’ultimo strumento, come quello delle banche dati centralizzate, rende, evidentemente, ancora meno giustificabile, anche alla luce dei parametri fondamentali di ragionevolezza e proporzionalità, l’aggravio allegatorio e autodichiarativo imposto agli amministrati.
Meritano pertanto condivisione le considerazioni di chi rileva la necessità di estendere alla mancata acquisizione d’ufficio la previsione, già operata per la mancata accettazione delle autodichiarazioni, che essa integra una fattispecie di violazione dei doveri d’ufficio e sollecita la giurisprudenza a intervenire con maggior rigore sui provvedimenti adottati all’esito di istruttorie in cui si è verificato il mancato rispetto del dovere di acquisizione d’ufficio (ancora M. Occhiena, L’autocertificazione, 893).
Bibliografia
G. Arena, Autocertificazione e amministrazione per interessi, in Scritti in onore di M.S. Giannini, I, Milano, 1998, 49 ss.; G. Bartoli, L’autocertificazione, Rimini, 1993; M. Bombardelli, Gli errori formali nelle dichiarazioni sostitutive, in GDA, 2007, 31 ss.; Id., Autocertificazione, in E.G.I., IV, Roma, postilla agg. 1999, 1996; G. Cammarota, Circolazione cartacea e circolazione telematica delle certezze pubbliche. Accertamento d’ufficio ed acquisizione d’ufficio, in FA TAR, 2004, 3527 ss.; E. Casetta, La difficoltà di “semplificare”, in D AMM, 1998, 335 ss.; Id., Profili della evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, in D AMM, 1993, 9 ss.; L. Donato, Le «autocertificazioni» tra “verità” e “certezza”, Napoli, 2015; Id., L’«autocertificazione» tra certezza e semplificazione, in D E PROC AMM, 2009, 201 ss.; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, Padova, 2003; F. Fracchia, M. Occhiena, I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006; G. Sala, Certificati e attestati, in D. disc. pubbl., II, Torino, 1987, 531 ss.; G. Gardini, Autocertificazione, in D. disc. pubbl. (Agg.), Torino, 2005, 107 ss.; S. Giacchetti, Certificazione, E.G.I., VI, Roma, 1988; S. Gianferrara, Commento art. 18, in Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi (legge 7 agosto 1990 n. 241), in NLC 1995, 99 ss.; M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993; Id., Certezza pubblica, in EdD, VI, Milano, 1960; M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale - Il caso dell’autocertificazione, in N AUT, 2008, 603 ss.; G.C. Lo Bianco, Autocertificazione e organizzazione amministrativa, Milano, 1999; F. Luciani, Difetto di sottoscrizione delle dichiarazioni sostitutive e poteri di regolarizzazione, in GDA, 2004, 993 ss.; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni delle leggi Bassanini, in N AUT, 1999, 45 ss.; F. Merloni (a cura di), Introduzione all’@government, Torino, 2005; M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966; M. Occhiena, Autocertificazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 873 ss.; Id., Le certificazioni nei processi decisionali pubblici e privati, in I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 91 ss.; Id., Istanze, autocertificazione, acquisizioni d’ufficio, cause di esclusione, regolarizzazione nei concorsi a pubblico impiego e nelle gare d’appalto prima e dopo la riforma Bassanini, in FI, 1999, III, 268 ss.; L. Palmieri, Acquisizione d’ufficio di atti e documenti: un difficile equilibrio fra semplificazione amministrativa e aggravio del procedimento, in SC IT, 2005, 682 ss.; A. Romano Tassone, Amministrazione pubblica e produzione di “certezza”: problemi attuali e spunti problematici, in I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 23 ss.; M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in Giustiziainsieme.it, 2020; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 18, 2019; Id., Le novità in tema di silenzio, in LAD Treccani, 2014; Id., Certificazione, in E.G.I., 2006; Id., Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione, in GC, 1994, II, 485 ss.; Id., Decadenza, II) Diritto Amministrativo, in E.G.I, XI, 1989, 1 e ss.; Id., Decadenza e sanzione amministrativa, in D SOC, 3, 1980, 460 ss.; A. Stoppani, Certificazione, EdD, Milano, 1960; G. Trotta, La semplificazione nella documentazione amministrativa e nel controllo sugli atti, in Semplificazione dell’azione amministrativa e procedimento amministrativo alla luce della l. 15 maggio 1997 n. 127, Milano, 1998, 24 ss.; A. Bartolini, S. Fantini, G. Ferrari (a cura di).
(*) Estratto dal volume "Principi e regole dell'azione amministrativa" su gentile autorizzazione dell'editore.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.