ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Covid, mascherine e diritto penale: precisiamo
di Andrea Apollonio
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto legge).
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo.
Nonostante il XX secolo abbia avuto numerosi geniali scrittori distopici e fantapolitici, non un Huxley, non un Orwell sono riusciti ad immaginare gli scenari che, da un paio di settimane a questa parte, ci sono (tristemente) noti: infatti, con decreto legge n. 125 del 7 ottobre 2020 è stato introdotto l'obbligo, legato alla diffusione del virus Covid19, di indossare la mascherina all'aperto. E' quindi trascorso il secondo fine settimana con vie e piazze - va detto: popolate quanto e più di prima - a presentare uno scenario degno di un film di George Lucas: tutti col viso coperto dalle mascherine. Tutti o quasi.
Perché non tutti si sono adeguati all'obbligo imposto dalla legge, chi per incoscienza chi per una netta presa di posizione personale. E' il caso dei c.d. "no mask", di coloro cioé che ritengono di non dover utilizzare la mascherina, da un lato perché dannosa alla salute (con il naso coperto dal dispositivo di protezione si respirerebbero microparticelle cancerogene), dall'altro, perché tale obbligo sarebbe illegittimo, frutto di una inconcepibile "dittatura sanitaria". Per forza di cose tra i "no mask" si annidano, in rapporto di genere a specie, anche i c.d. "negazionisti Covid" (quanti neologismi in tempi di pandemia...) secondo i quali il virus sarebbe un'invenzione della politica e dei media. Una clamorosa montatura funzionale agli scopi delle oligarchie mondiali - chi siano però i beneficiari ultimi di questo "complotto", non è dato sapere.
Veniamo a noi. Il tema che, in astratto considerato, per un giurista può suscitare interesse è quello relativo alla legittimità del precetto e quindi, nel nostro caso, alla fondatezza dell'obbligo di indossare le mascherine. Tema che ha già trovato una prima articolazione su questa Rivista nello scritto pubblicato il 16 giugno 2020 da Alberto Rizzo, titolato "Covid e mascherine": un contributo che, senza scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi "la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche", prova a rispondere alla domanda: "i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?". Nel momento in cui è stato scritto l'articolo, infatti, non c'era una legge (recte: un atto avente forza di legge, quale il decreto emergenziale) a disciplinare l'obbligo, bensì un DPCM (quello del 26 aprile 2020) che provava a mettere ordine tra le varie ordinanze regionali e sindacali; inoltre, quattro mesi fa l'obbligo era meno invasivo riferendosi essenzialmente ai luoghi chiusi accessibili al pubblico. Sostituita la fonte, ampliato il divieto, l'interrogativo assume una sua problematicità giuridica e merita oggi una risposta più rigorosa ed esaustiva.
Partendo, anzitutto, da alcuni spunti dell'autore, il quale fa riferimento a due norme di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico: l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931) e l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975 (c.d. Legge Reale). Questo, in sintesi, il ragionamento seguito da Rizzo: poiché in particolare l'art. 5 sanziona penalmente l'utilizzo di ogni mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, e poiché quello da cui origina la pandemia non è "un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio" (questa, l'opinione dell'autore), indossare la mascherina all'aperto non andrebbe a costituire un "giustificato motivo": facendone discendere la conseguenza che tutti quelli che oggi la indossano potrebbero essere passibili di sanzione penale. Sollevando un ulteriore dubbio di tenuta ordinamentale: "o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore".
Anche al di là del fatto che, come detto, l'obbligo di indossare le mascherine sia stato recentemente introdotto con un decreto legge (e quindi, ragionando in termini costituzionali: è stato elevato il rango della fonte normativa), e al netto di quelle che appaiono inesattezze sul piano della teoria del reato (es.: una legge penale, anche se di rango superiore, non potrà mai prevalere su un successivo atto normativo relativo alla stessa materia più favorevole o addirittura scriminante; es.: una pena è applicabile al cittadino solo in quanto accessibile e prevedibile, giammai lo sarebbe se fosse l'Autorità - o addirittura lo stesso legislatore - ad imporre la condotta prevista dalla norma penale, acriticamente valutata), oggi appaiono doverose alcune specificazioni.
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto-legge).
L'art. 5 della Legge Reale adotta infatti una tecnica normativa talvolta utilizzata nella formulazione dei precetti penali: viene definita una condotta (andare in giro col volto coperto, da caschi o da altro) penalmente rilevante ma si introduce al contempo una clausola scriminante, di salvaguardia in punto di illiceità, che è appunto il "giustificato motivo": questa locuzione, che può apparire ad occhi inesperti una formula di stile, è in realtà il principale elemento normativo della fattispecie penale, perché ne consente - per meglio definire i contorni della condotta - una integrazione eteronoma: dentro o fuori il sistema penale, prima o dopo l'entrata in vigore del reato, con norma di rango primario o secondario è possibile - in questo caso - legittimare l'individuo a "mascherarsi", per ogni ragione che, in virtù di un interesse pubblico (quello a cui ogni norma deve tendere), viene in astratto individuata.
In questo modo i compilatori della Legge Reale (una legge che peraltro aveva una finalità ben precisa, di tutela della pubblica sicurezza, emanata in un periodo storico in cui mafia, terrorismo e delinquenza comune - "a volto coperto" - rappresentavano il principale rischio di tenuta per il Paese) avevano intelligentemente prospettato una incriminazione che si espande e si riduce a seconda di altre e diverse esigenze che l'ordinamento deve assicurare all'individuo, giustificando talune sue azioni. Il concetto stesso di "giustificazione" esprime non solo la mera non punibilità, ma qualcosa di più: l'assenza di contrasto con l'ordinamento giuridico complessivamente inteso. Cosicché, il fatto che una norma (ieri di rango secondario: il DPCM; oggi di rango primario: il decreto legge) imponga l'utilizzo della mascherina anche all'aperto per chiare esigenze di carattere sanitario non collide in alcun modo con una fattispecie penale dal precetto elastico (che accoglie già, in via preordinata e astratta, diritti, facoltà e obblighi aliunde previsti nell'ordinamento); la quale peraltro, volendola analizzare sotto l'aspetto teleologico, primo vero criterio interpretativo, è stata ideata per contrastare fenomeni che, con il virus Covid19, non hanno nulla a che fare.
Stesso discorso vale per le esigenze religiose di ciascuno. In questo senso, non appare conferente il richiamo che Rizzo fa, quale termine di confronto del tema trattato, alle problematiche sollevate dall'utilizzo del burqa. Non a caso, alla domanda che egli si pone ("Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?") seguono riferimenti a pronunce del Consiglio di Stato, verosimilmente compulsato a seguito dell'emanazione di atti amministrativi: segno tangibile che la questione, al di là delle speculazioni che possono farsi in astratto, non ha mai avuto significativi dibattiti nel campo giurisprudenziale penale: e possiamo facilmente immaginarne le ragioni.
L'oscillazione tra le due possibili soluzioni prospettate (esser incriminati per aver indossato la mascherina o ritenere abrogata la relativa fattispecie incriminatrice) sconterebbe quindi, a nostro avviso, una fallacia argomentativa che non tiene conto da un lato dei meccanismi dell'incriminazione, in ogni caso conformati sul principio di effettiva rimproverabilità del soggetto agente, e dall'altro del concreto dispiegarsi del fenomeno dell'abrogazione implicita, cui l'ordinamento ricorre solo nell'estrema ipotesi in cui un legislatore strabico disciplini diversamente - in termini speculari e opposti - anche in tempi diversi una stessa materia.
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo: basti pensare alle responsabilità colpose di contagio - penalmente rilevanti, queste sì - di chi, bizzarramente sostenendo che "il virus non esiste", vada in giro a fare shopping come se nulla fosse, senza adottare alcuna protezione pur essendo infetto, e magari sintomatico; o di chi addirittura sia consapevole di esserlo, con o senza provvedimenti di confinamento a carico. Un obbligo quindi giuridicamente legittimo e, detto per inciso, fondato sotto l'aspetto scientifico, se è vero che questi provvedimenti, ieri e oggi, sono stati adottati di concerto con gli specialisti del relativo campo medico-sanitario.
Perché poi, in fondo, il diritto si trasforma in un vuoto simulacro senza un bagno nell' "immane concretezza" dei fatti concreti. Io, ad esempio, non so se il virus Covid19 "aleggia libero nell'aria" oppure si trasmetta attraverso un "contatto stretto" con la persona infetta; non so neppure se l'utilizzo prolungato di una mascherina determini o meno effetti dannosi per la salute. So soltanto che mentre scrivo il Presidente del Consiglio dei Ministri sta illustrando le nuove regole anti-contagio (sempre suggerite dalla comunità scientifica nazionale) che sembrano preludere ad un nuovo lock-down, e che comunque avranno ricadute disastrose sull'economia - le ennesime. In questo contesto, il problema (giuridico?) della possibile antinomia tra le norme dell'ordinamento e dell'implicita abrogazione di una legge del 1931 (la cui violazione è sanzionata con l'ammenda massima di mille lire...) e della legge Reale del 1975, una volta ribaditi i principi fondamentali, non assume alcuna rilevanza; ed è comunque lontano dalla realtà che oggi ci circonda.
Il CSM ha deciso: Davigo decade
di Mario Serio
Nel pomeriggio di ieri il Consiglio Superiore della Magistratura ha scritto una pagina di alto valore istituzionale nel corso del dibattito e, al termine di esso, del voto circa la legittimità della permanenza in carica di un Consigliere eletto quale magistrato di legittimità e collocato in quiescenza per il raggiungimento dell'età pensionabile durante il quadriennio.
Il valore che qui si riconosce ad un organo di recente percorso da scosse telluriche non dipende in alcun modo dal tipo di deliberazione adottata o dal merito degli argomenti a lungo e meditatamente discussi da ciascuno dei tanti Consiglieri intervenuti. In effetti, ognuno di essi ha offerto argomenti esclusivamente e motivatamente di tecnica giuridica, in particolare indirizzati al rinvenimento dei fondamenti costituzionali delle contrapposte tesi che si sono decorosamente contese il campo. Argomenti seri, serenamente fatti valere, intessuti del dichiarato rispetto per le contrarie opinioni. Si sono confrontate posizioni molto spesso sofferte sul piano umano e, malgrado ciò, mai viziate da ragioni di carattere personale. Si è trattato di un dibattito limpido e palese, ad onta della segretezza del voto: ammirevole esempio di convinzione e fiducia nell'idea senza remore o infingimenti manifestata. Ancor più rassicurante è stata la circostanza che nessuno dei partecipanti fosse portatore di preconcetti in tal misura radicati da impedirgli di apprezzare l'andamento del confronto: la più affidabile prova è costituita dalla riconsiderazione, anch'essa pubblica e plateale, dell'opinione precedentemente espressa e dalla conseguente modificazione della dichiarazione di voto, occorsa in qualche caso. C'è da nutrire la certezza che l'opinione pubblica non rimarrà insensibile, ed anzi si pronuncerà in termini plaudenti, al criterio aperto e leale di svolgimento di un'attività di non comune impegno in ragione sia della decisione da prendere sia dei valori in essa impliciti.
Vi è poi un altro elemento di indubbio, positivo interesse, che consolida una svolta già da qualche mese riscontrabile nella vita consiliare. Si allude all'interpretazione, coraggiosa e franca, che del proprio ruolo all'interno dell'Istituzione, hanno dato i componenti di diritto. Essi – come, appunto, da qualche tempo accade – hanno inteso contribuire al dibattito, e non con dichiarazioni rinunciatarie e di puro stile, sebbene con profonde riflessioni capaci di orientare, non certo per timore reverenziale o opportunistiche abdicazioni, il corso della discussione. Quel che maggiormente e favorevolmente ha impressionato è stato il dichiarato ed evidente fine degli interventi di Primo Presidente e Procuratore Generale della Corte di Cassazione: quello di concorrere all'adozione di una deliberazione che rinsaldasse funzioni, autorevolezza e solidità del Consiglio Superiore. In altri termini, cooperare al mantenimento del relativo prestigio e credibilità. Non viene qui in rilievo il fatto che il voto espresso dai due componenti di diritto abbia o meno in concreto raggiunto lo scopo (né i loro interventi si sono in alcun modo caratterizzati nel senso di aspirare ad un indebito condizionamento dell'organo): la punta di massima utilità è stata toccata nel momento stesso in cui il relativo sforzo argomentativo è stato votato alla stabilità del Consiglio Superiore, onde proteggerne la futura attività dalle insidie rappresentate dalla temuta discontinuità rispetto all'assetto costituzionale quale da essi divisato.
Se un modo andava cercato per rinfrancare la fiducia nell'operato di un organo dalla recente vita "agra", è certo che esso sia stato esattamente e perspicuamente individuato, nel superiore interesse del Consiglio, dall'apice della Magistratura italiana e dal trasparente e non renitente metodo applicato per far valere ( e non per la prima volta) la propria presenza, lontano dai prudenti ed imperscrutabili silenzi del passato.
Fabio Francario
UNA GIUSTA REVOCAZIONE “OSCURATA” DALLA PRIVACY. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866).
Sommario: 1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze) - 2. La vicenda processuale pregressa - 3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione - 4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi - 5.Osservazione conclusiva
1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze).
La sentenza del CGARS n. 866 del 1 ottobre 2020 è meritevole di segnalazione sotto più profili.
Innnanzi tutto perché accoglie un ricorso per revocazione per dolo del giudice, che è di per sé ipotesi non frequente, e per la conseguente puntualizzazione di alcuni profili del regime giuridico dell’istituto della revocazione.
In secondo luogo perché è resa in materia elettorale, ed offre interessanti precisazioni sul tema della rilevanza delle lacune della verbalizzazione delle operazioni elettorali in termini di mera irregolarità o di efficacia invalidante.
In terzo luogo per le precisazioni sul tema dell’effetto espansivo esterno della riforma di una sentenza, dal momento che nel caso di specie la sentenza di merito era stata seguita dal giudizio di ottemperanza e questo a sua volta dalla rinnovazione dell’attività amministrativa.
In quarto luogo per l’attenzione al problema del contenuto e dei limiti del momento rescissorio, con particolare riferimento alle domande risarcitorie e restitutorie proponibili in esito al giudizio di revocazione.
Si potrebbe aggiungere che si segnala anche, non meritoriamente (ma il problema non dovrebbe riguardare il giudicante), per il fatto che un improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali, pregiudica la possibilità di avere piena contezza degli avvenimenti. Non vengono infatti oscurati solo i dati identificativi delle persone fisiche interessate dalla decisione. Anzi, a dire il vero, continuano ad essere chiaramente visibili le generalità di una delle parti del giudizio. Si obliterano però inspiegabilmente i dati identificativi delle pronunce di primo e secondo grado oggetto del giudizio di revocazione, fatto che rischia di render incomprensibile la pronuncia e che comunque di certo non ne agevola la comprensione. Dati identificativi delle pronunce (autorità, data e numero) e dati identificativi delle persone fisiche (generalità e altri dati identificativi della persona) sono cose diverse e sarebbe completamente fuori luogo, ove ne sia stata mai questa la ragione, invocare la possibilità che ciò renderebbe possibile identificare indirettamente la persona fisica, poiché un simile livello di riservatezza è previsto dall’ordinamento solo per le pronunce rese nei confronti di persone offese da atti di violenza sessuale o di minori o in materia di diritto di famiglia e di stato delle persone (articoli 51 e 52 codice della privacy). Allo stato l’oscuramento dei dati identificativi delle pronunce giudiziarie non solo mina l’intellegibilità intrinseca della pronuncia, ma pregiudica la stessa possibilità di controllo democratico delle decisioni giurisdizionali da parte degli operatori del diritto e di ogni singolo cittadino interessato. E’ un problema che va segnalato e sul quale sarà necessario tornare perché sotto questo profilo la pronuncia non è un caso isolato ma espressione di una crescente tendenza ad oscurare i dati identificativi delle pronunce giurisdizionali nonché, come spesso avviene in altri casi, i dati di enti e persone giuridiche che sono notoriamente sottratti alla disciplina della protezione dei dati personali (cfr. art 1 DPGR 2016/679: il Regolamento “stabilisce le norme relative alla protezione dei persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” e “protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”).
Il profilo che le presenti note intendono prendere in considerazione è però quello forse più delicato tra quelli toccati dalla pronuncia in commento, che è quello del rapporto tra giudicato penale e amministrativo. Di per sé considerata, la questione non avrebbe motivo di apparire problematica nei casi di revocazione straordinaria della sentenza per dolo del giudice, in quanto l’ipotesi normativa dell’art 395 c.p.c. presuppone chiaramente e dichiaratamente che il dolo sia appunto “accertato con sentenza passata in giudicato”. Nel caso di specie, tuttavia, il profilo torna problematico in quanto il giudizio penale, al termine del quale era stata comminata la pena prescritta per il reato di corruzione in atti giudiziari, si era chiuso con sentenza di patteggiamento.
2. La vicenda processuale pregressa.
Nella sua essenza, la vicenda processuale può essere ricostruita nei seguenti termini.
Nel 2012 si svolgono le consultazioni per l’elezione del Presidente della Regione e dell’Assemblea regionale siciliana.
Avverso il risultato delle operazioni elettorali vengono proposti diversi ricorsi al TAR Palermo, rigettati dal giudice di primo grado.
I ricorsi vengono però accolti dal CGARS che, riformando le sentenze di primo grado, ordina il rinnovo delle operazioni elettorali nei seggi interessati e in sede di ottemperanza nomina successivamente un candidato diverso dal controinteressato originariamente eletto.
Il Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa, della Sezione giurisdizionale, del Collegio giudicante, nonché relatore ed estensore delle sentenze d’appello viene successivamente condannato per i reati di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., a due anni e sei mesi di reclusione, pena sospesa, con contestuale interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo ex art. 317-bis c.p., versando la somma di € 25.000,00 sul libretto giudiziario a titolo di risarcimento del danno.
Il giudizio penale si conclude con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., depositata il 18 luglio 2019 e passata in giudicato il 14 settembre 2019.
La parte rimasta soccombente in appello, già controinteressata, proponeva a questo punto ricorso chiedendo la revocazione delle sentenze CGARS per dolo del giudice ai sensi all’art. 395, n. 6 c.p.c. e, conseguentemente, il rigetto dei ricorsi in appello e di ottemperanza, la conferma delle sentenze di primo grado e l’annullamento o dichiarazione di nullità del rinnovo parziale delle elezioni, ivi compresa l’avvenuta elezione dell’appellante a deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana in sostituzione del ricorrente in revocazione, nonché la dichiarazione della reviviscenza dell’originaria elezione di quest’ultimo alla carica di deputato dell’Assemblea regionale siciliana con le ulteriori conseguenziali statuizioni restitutorie e risarcitorie.
3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione.
In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo ovvero dei termini del rapporto tra giudicato penale e amministrativo[1].
Si legge nella sentenza: “ In particolare, al Presidente ed estensore delle sentenze di cui è stata chiesta la revocazione sono stati ascritti i reati “di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., poiché, per favorire -OMISSIS- nei ricorsi presentati innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione Siciliana per ottenere l’annullamento delle elezioni regionali della Sicilia del 2012, -OMISSIS-, pubblico ufficiale, quale Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana e consigliere estensore della sentenza del 5-OMISSIS-, sui ricorsi proposti, rispettivamente, da - OMISSIS- e -OMISSIS-, di fatto entrambi nell’interesse di -OMISSIS-, riceveva da - OMISSIS- – che metteva a disposizione la provvista finanziaria – con la mediazione di - OMISSIS- e -OMISSIS-, attraverso -OMISSIS-, somme di denaro non inferiori a 30.000,00 euro”.
Ai fini della decisione rescindente la vicenda penale evidenzia, ad avviso del ricorrente, che le sentenze n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- del CGARS, alla luce del disegno unitario che le connoterebbe, sono state emesse per effetto del dolo del giudice. Ciò in quanto, nell’impostazione della domanda in esame, il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p. presenta, quale requisito di fattispecie, il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale, favorevole al corruttore.
Il ricorrente ha evidenziato, in particolare, come il pactum sceleris, intercorso fra il corruttore (sig. -OMISSIS-), che ha messo la provvista finanziaria a disposizione del corrotto (l’allora Presidente del CGARS), il quale ha accettato la provvista e ha compiuto l’atto per favorire chi lo ha corrotto, fosse preordinato all’emanazione delle sentenze del CGARS n. -OMISSIS-, n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS-, oggetto dell’azione revocatoria in esame”.
Stante la sussistenza di una disposizione come quella recata dall’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. che stabilisce espressamente che la sentenza cd di patteggiamento “non ha efficacia” nei giudizi civili e amministrativi, si è così posto il problema di chiarire se la natura giuridica della sentenza di patteggiamento sia tale da poter far ritenere comunque sussistente l’accertamento del dolo richiesto dall’art. 395, n. 6 c.p.c. per la revocazione della sentenza.
A voler esser più precisi, il problema si pone in quanto l’art. 445 c.p.p., per un verso, ai sensi del comma 1-bis, ultimo periodo, equipara la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a una sentenza di condanna, per l’altro, ai sensi del medesimo comma 1- bis dell’art. 445, ma primo periodo, afferma che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non produce effetti nei giudizi civili o amministrativi, come sopra già ricordato.
Nella sentenza in commento, il CGARS ha ritenuto che “In presenza di una sentenza di condanna emanata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. la valutazione in essa contenuta comprende anche l’elemento soggettivo del reato che, per i delitti, quale si configura la corruzione in atti giudiziari, consiste nel dolo (art. 42, comma 2, c.p.) e, per il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p., richiede il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale e scorretta del pubblico ufficiale favorevole a una delle parti” e che ciò sia sufficiente per ritenere che nel caso di specie sia ravvisabile una sentenza di accertamento del dolo nei termini richiesti ai fini della revocazione straordinaria.
In punto d’interpretazione sistematica, la sentenza sottolinea che l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. rappresenterebbe un “frammento” dell'articolata disciplina dei rapporti tra processo civile e amministrativo, da un lato, e processo penale, dall’altro, che va pertanto interpretato alla luce del microsistema prefigurato dal legislatore per il raccordo tra i suddetti giudizi creato dagli artt. 651 e 654 c.p.p. e considerando che il codice del 1988 ha ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale in favore di quello della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e dell'autonomia dei giudizi (Cass., sez. un., 11 febbraio 1998, n. 1445 e sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768), anche se, in specifiche e limitate ipotesi, continua ad attribuire al giudicato penale valore vincolante e/o preclusivo sugli altri giudizi. Muovendo da tali premesse, (con specifico riferimento al fatto che il primo periodo dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. dispone espressamente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti “non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”) il CGARS ritiene che “gli artt. 651 e ss. c.p.p., di cui l’art. 445, comma 1-bis c.p.p. costituisce un corollario, riferiscono la limitata rilevanza extrapenale della pronuncia penale all’accertamento fattuale, che prescinde dall’elemento soggettivo, che costituisce invece l’unico dato rilevante ai fini della fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c.” e che “quest’ultima norma quindi si muove, sia da un punto di vista sistematico, sia sulla base dell’interpretazione del dato testuale, in prospettiva diversa dalle disposizioni di cui agli artt. 651, 651-bis, 652, 653 e 654 (e 445, comma 1-bis) c.p.p., non ricadendo quindi nelle preclusioni degli effetti extrapenali dei giudicati penali ivi previste”. La distinzione consente di affermare che “tratto distintivo delle ipotesi di rilevanza extrapenale della sentenza penale è costituito dalla circostanza che esse si riferiscono a casi nei quali il medesimo fatto storico (o parte di esso) rileva nei due giudizi per i diversi fini ai quali questi ultimi sono preordinati”; che “il presupposto della loro operatività è rappresentato dalla necessità di due diversi giudici di accertare la medesima realtà storica, sollecitando quindi un tema di incontrovertibilità del giudicato e di economia processuale, oltre che di garanzia del contraddittorio”; che “in ossequio alla volontà di circoscrivere in maniera chiara e netta l’efficacia extrapenale del giudicato penale, che costituisce una deroga alla scelta sistematica di garantire autonomia e separazione delle giurisdizioni, gli articoli sopra richiamati (651, 651-bis, 652, 653 e 654 c.p.p.) limitano espressamente tale efficacia all'accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, sottostando al limite costituzionale del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2004, n. 14777), limite che viene in evidenza proprio in ragione dell’identità, almeno parziale, del fatto storico da accertare da parte di due giudici diversi e con regole processuali e di fattispecie differenti”, e che “la fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c., attribuendo espressamente rilevanza al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato, si riferisce, invece, a un’ipotesi processuale del tutto diversa”.
Si raggiunge così la conclusione che “la sentenza penale di accertamento del dolo, resa ai fini penali, costituisce un fatto storico la cui esistenza è idonea a consentire il positivo riscontro della domanda rescindente. Ciò è confermato dalla formulazione testuale del citato n. 6 dell’art. 395 c.p.c., che richiede che l’accertamento del dolo sia stato compiuto, con decisione intangibile, dal giudice a quo, e quindi nell’ambito della decisione resa per gli effetti penali”.
4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi.
4.1. In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento[2] ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo, creando l’occasione per una rimeditazione più generale del problema. Il problema non è stato tuttavia affrontato e risolto in maniera esplicita nei suoi termini generali, ma il percorso argomentativo lascia chiaramente trasparire il convincimento di fondo che il rapporto tra pronunce di giudici appartenenti a diversi ordini giurisdizionali, oggi come oggi, non possa più ritenersi regolato esclusivamente dal principio della rilevanza extra penale del giudicato (penale), riconducendo di volta in volta i singoli casi in una delle ipotesi normativamente tipizzate dagli articoli 651 e seguenti del c.p.p.; ma risponda comunque ad un più ampio principio di non contraddizione degli accertamenti giurisdizionali che è espresso solo in parte dalla disciplina degli effetti extra penali del giudicato.
Il fatto che, nel caso di specie, il problema sia stato risolto assumendo che l’ipotesi del patteggiamento non sia compiutamente riconducibile al sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p. e che concorra esso stesso alla definizione del sistema dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo, rende evidente lo sforzo di superare i limiti interpretativi che deriverebbero dall’applicazione dell’istituto del giudicato propriamente inteso. Nel caso del patteggiamento, il giudicato non si forma infatti nei termini presupposti ed espressamente indicati dagli artt 651 ss c.p.p. con riferimento ai fatti materialmente accertati nel giudizio penale (accertamento che in termini siffatti non avviene), ma il CGARS ritiene doveroso attribuire rilevanza ed efficacia vincolante al fatto di per sé considerato dell’intervenuta condanna per il reato di corruzione in atti giudiziari.
Se il percorso argomentativo non è perfettamente lineare e in alcuni tratti può destare più di una perplessità, ciò dipende dall’intrinseca inidoneità del giudicato a regolare i rapporti tra le decisioni giurisdizionali quando queste sono rese da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi tra loro.
Non viene delineato chiaramente il principio applicabile e il problema viene risolto applicando la tecnica del distinguo, sottraendo l’efficacia della sentenza di patteggiamento dal micro sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p.; ma proprio ciò rende evidente come entrambe le ipotesi debbano ritenersi espressione di un più generale principio di non contraddittorietà delle decisioni giurisdizionali, che è doveroso enucleare una volta venuta meno la regola della necessaria pregiudizialità ed affermatasi quella dell’autonomia come regola del rapporto tra giudizi resi da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
4.2. I limiti del presente commento non rendono ovviamente possibile ripercorrere le ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali sulla natura e sulla consistenza del giudicato e della cosa giudicata e sulle trasformazioni che l’istituto sta peraltro subendo nei tempi più recenti per effetto dell’evoluzione e/o integrazione dell’ordinamento nazionale con gli ordinamenti sovranazionali, comunitario e internazionale[3]. Riprendendo osservazioni che ho già svolto altrove [4], può essere sufficiente osservare che il giudicato è lo strumento cui ricorre l’Ordinamento per garantire certezza a rapporti giuridici controversi[5] e che il fenomeno del giudicato non è spiegabile né sul piano puramente processuale, né su quello puramente sostanziale, ma diventa pienamente comprensibile solo se visto sul piano dell’ordinamento giuridico generale [6], come momento d’incontro del processo con il diritto sostanziale, finalizzato a creare certezza in ordine ad una determinata situazione o rapporto giuridico.
Le norme creano certezza indicando preventivamente le condotte che possono o devono essere seguite. Le sentenze creano certezza in ordine al fatto che le norme siano state effettivamente osservate o violate. Una volta acquisita l’autorità della cosa giudicata, la sentenza diventa incontestabile ed incontrovertibile; ed in tal modo il giudicato garantisce che l’accertamento, una volta operato e divenuto incontestabile ed incontrovertibile, fornisca risposta alla fondamentale esigenza di certezza dei rapporti giuridici imposta dall’ordinamento generale. Qualunque sentenza, da qualunque giudice pronunciata, ha infatti un contenuto minimo che la caratterizza come atto espressione dell’esercizio della funzione giurisdizionale: l’accertamento[7]. Ciò che al fondo differenzia la sentenza dagli atti tipici degli altri pubblici poteri, la legge e l’atto amministrativo, non è altro che questa attitudine a creare certezza in ordine ad un rapporto giuridico controverso, ad un fatto, atto o comportamento la cui antigiuridicità è meramente asserita in limine litis, ma che risulta certa, in un modo o nell’altro, alla fine del giudizio. Un atto legislativo o un atto amministrativo sono pur sempre modificabili da un successivo atto dotato di pari forza; altrettanto non può dirsi per la sentenza, una volta che abbia acquistato la caratteristica che solo essa può acquisire: l’autorità della cosa giudicata.
All’interno dei diversi sistemi (penale, amministrativo e civile) il giudicato (e con esso il livello di certezza giuridica) non è però configurato in maniera omogenea. Nel sistema penale, la figura è normata essenzialmente dall’art. 649 cpp (divieto di un secondo giudizio): “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”. L’accento è posto soprattutto sul momento /effetto preclusivo del ne bis in idem[8]. Nel sistema civile, la norma di riferimento è recata dall’art. 2909 cod. civ. : “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. E’ evidente la sottolineatura del fatto che il giudicato è destinato a coprire tanto il dedotto, quanto il deducibile [9]. Più relativa appare la certezza nel sistema amministrativo, che presuppone e non definisce la nozione di giudicato. Le disposizioni generali sull’ottemperanza (art 112 c.p.a.) si limitano a prevedere che “i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altri parti” e che “l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione … delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato” (anche se ormai il passaggio in giudicato non è più presupposto necessario per l’ammissibilità del giudizio); e l’art 34, con riferimento alle sentenze di merito, prevede che “In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: a) annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato …” e che “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Il codice del processo amministrativo non ripropone più espressamente la formula risalente all’art 45 RD 26 giugno 1924 n. 1054 per la quale in caso di accoglimento del ricorso l’annullamento dell’atto amministrativo avviene con salvezza degli “ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”, ma rimane comunque evidente la limitazione al solo dedotto dell’efficacia della cosa giudicata, con significativa differenza rispetto al giudicato civile[10].
Qual che siano i suoi limiti oggettivi, il giudicato pare comunque in grado di assicurare la suddetta esigenza di certezza (non contraddittorietà e coerenza degli accertamenti) all’interno dello specifico sistema giurisdizionale in cui nasce.
Se, com’è nella tradizione e nell’opinione prevalente, cosa giudicata è il solo dispositivo della sentenza, una volta che sia stata già concessa ovvero negata una data misura giurisdizionale, questa non può essere nuovamente richiesta/concessa a/da altro giudice del medesimo sistema.
Nell’ambito di un medesimo sistema, dunque, l’istituto del giudicato è certamente in grado di risolvere il problema: la nuova richiesta di una misura già concessa o negata inter partes è paralizzata dall’eccezione di cosa giudicata.
4.3. Diversamente stanno le cose se il problema di evitare il contrasto tra giudicati viene considerato con riferimento alla funzione giurisdizionale vista nel suo complesso, con riferimento cioè alle decisioni non solo di diversi giudici, ma di giudici diversi (penale amministrativo e civile). In tal caso si deve infatti prendere atto che l’istituto del giudicato, di per sé considerato, non può essere utilmente impiegato a tal fine.
Se si vuole utilizzare l’istituto per risolvere il problema delle possibili reciproche interferenze, bisognerebbe iniziare a chiarire innanzi tutto che il giudicato deve ritenersi inteso in senso estensivo, con estensione cioè dell’autorità del giudicato alla motivazione della sentenza. E’ noto infatti che l’accertamento si distribuisce tra motivazione e dispositivo, tra la parte della sentenza in cui si forma il giudizio di diritto in relazione alla situazione di fatto ricostruita in base alle allegazioni ed alle prove delle parti e quella in cui si esprime il comando del giudice rivolto alle parti; ma è noto anche che è molto discusso cosa effettivamente “passi in giudicato” di una sentenza: se solo il dispositivo o anche la motivazione (e quindi anche le premesse di fatto e di diritto della decisione) [11]. Sul piano della teoria generale, il fenomeno è ampiamente ed approfonditamente studiato nell’ambito della teoria della pregiudizialità, ed in linea di principio porta ad escludere dall’ambito oggettivo della cosa giudicata la questione pregiudiziale che venga decisa nell’ambito del medesimo processo senza trasformarsi in una vera e propria causa pregiudiziale[12]. A rigore, quindi, ciò che rappresenta un antecedente logico della decisione, una questione soltanto pregiudiziale, non verrebbe coperto dall’efficacia della cosa giudicata, sicchè a nulla varrebbe invocare l’avvenuta formazione del giudicato. Si potrebbe tuttavia prendere atto che, specie nel processo civile ed in quello amministrativo, è ormai invalsa la distinzione tra questioni che sono semplicemente un antecedente logico giuridico della decisione, e quelle che rappresentano un presupposto logico necessario del dispositivo; e che tale distinzione ha come conseguenza quella di comprendere queste ultime nell’ambito della cosa giudicata sostanziale[13].
Ma anche estendendo la formazione della cosa giudicata alla motivazione della sentenza e quindi alle questioni pregiudiziali nei limiti e nel senso sopra precisati, bisognerebbe prendere comunque atto che il giudicato ormai da tempo non è più lo strumento in grado di garantire coerenza e uniformità degli accertamenti giurisdizionali di giudici diversi.
Il sistema anteriore alla riforma del codice di procedura penale del 1988 privilegiava infatti l’impiego della tecnica della sospensione del processo [14]per consentire la previa risoluzione, con forza di giudicato, della “questione” pregiudiziale nell’ambito di quella che diveniva una vera e propria “causa” pregiudiziale (v. artt. 18, 19 20 e 21 cod. proc. pen.). Tale soluzione era sicuramente in grado di assicurare coerenza ed uniformità degli accertamenti, ma è stata ritenuta tale da incidere altresì in modo eccessivamente gravoso sulla speditezza processuale e sul principio della ragionevole durata dei processi; e l’ordinamento si è pertanto orientato nel verso di impiegare la tecnica delle cognizione incidentale in luogo di quelle della sospensione per pregiudizialità. Non essendo più necessario risolvere con forza di giudicato una questione soltanto pregiudiziale, è pertanto possibile che la medesima questione venga adesso conosciuta da entrambi i giudici.
Nel sistema attuale, Cassazione e Consiglio di Stato concordano nel ritenere che “dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale si desume che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione”; e che “pertanto, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo (civile previste dall’art. 75 cpp nuovo terzo comma) da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e dall’altro il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti” (CASS. Civ. Sez. III, 10 agosto 2004 n. 15477 ; id. Cass. Civ. Sez. II 25 marzo 2005 n. 6478); ovvero che “a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale è stato espunto dall’ordinamento l’art. 3 del previdente cpp il quale prevedeva la possibilità della sospensione del processo civile o amministrativo, conseguentemente i due giudizi sono attualmente dominati dalla regola dell’autonomia” (Cons. Stato, Sez. V 6 dicembre 2004 n. 1462; Id. sez. IV 1 giugno 2004 n. 465).
L’inversione di rotta sul tema della pregiudizialità, puntualmente sottolineata dalla sentenza che si commenta, per un verso dimostra che attualmente l’Ordinamento non sarebbe uniformato al principio dell’unità della giurisdizione, ma al principio dell’autonomia delle singole giurisdizioni; per l’altro deve però anche condurre a concludere che diventa irrilevante e fuorviante l’impiego dell’istituto del giudicato per trarre da esso la regola del rapporto tra accertamenti operati da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
5. Osservazione conclusiva.
La sentenza in commento sembrerebbe dunque dimostrare che l’abbandono della tecnica della sospensione per pregiudizialità ha fatto venir meno il ruolo centrale svolto dal giudicato strettamente inteso, ma non ha certamente implicato il venir meno del principio generale che vuole comunque garantita la coerenza e la non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali.
Affermare il principio di autonomia anziché di unicità della giurisdizione non significa affatto escludere la vigenza del principio di coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali[15]. Al contrario, nel momento in cui si chiarisce che l’impiego a tali fini dell’istituto del giudicato avviene in maniera impropria, vale piuttosto a dare ad esso maggior risalto. Se infatti si chiarisce che il doveroso condizionamento che può aversi qualora uno stesso fatto venga conosciuto da più giudici appartenenti ad ordini diversi, fuori dai casi espressamente previsto dagli artt 651 ss c.p.p., non è spiegabile in termini di efficacia propria e diretta del giudicato, bensì appunto per l’osservanza del suddetto principio di coerenza e non contraddittorietà, ciò aiuta sicuramente a far emergere con maggior nitidezza il principio in quanto tale. Ciò che conta è che accertamento giurisdizionale vi sia stato e che, per poter risultare vincolante, esso sia avvenuto nel rispetto del contraddittorio e quindi dell’identità delle parti nei giudizi.
Una volta chiarito che il principio da osservare è quello che impone di assicurare la coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, ciò ha ricadute che, per loro importanza, non possono essere trascurate. Prima tra tutte quella che l’abbandono del principio di unicità e l’affermazione di un principio di autonomia non possono giungere fino al punto di consentire che giudici diversi possano ricostruire “verità” diverse solo perché appartenenti ad ordini diversi o per via del fatto che il rapporto non può essere regolato attraverso l’efficacia del giudicato propriamente inteso.
La sentenza commentata ha fatto corretta applicazione di tale principio, ritenendo che la sentenza di patteggiamento abbia comunque consumato un (motivato) giudizio che ha portato ad irrogare la pena prevista per il reato di corruzione in atti giudiziari.
[1] Per la ricostruzione tradizionale dei termini generali del problema v. Chiavario, Giudizio (rapporti tra giudizi), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 984 ss; E.T. Liebman, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv dir proc. 1957, 5 ss; R. Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, VI, 59 ss.
[2] Sulla discussa natura della sentenza di applicazione della pena adottata dal giudice in accoglimento della richiesta delle parti per tutti v. A. Arru, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, 4, I, 38 ss e A. Ruggiero, Patteggiamento, in Dig. Discpl. Pen., Aggiornamento, Milano, 2009, II, 964 ss e ivi ulteriori riferimenti.
[3] Per più ampi riferimenti si rinvia a F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018 e La violazione del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata ingiudicato, in Federalismi.it, 13/2017, entrambi ripubblicati nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 209 ss e 399. Tra i diversi contributi dottrinari si segnalano comunque in particolare V. Colesanti, La revocazione è diventata un istituto inutile?, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1, 26 ss; L.P. Comoglio, Requiem per il processo “giusto”, in Nuova Giur. Civ., 2013, 1 ss.
[4] Sul rapporto, generalmente considerato, tra giudicato penale e amministrativo v. F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio penale e amministrativo. Problemi e interferenze, in Pubblica amministrazione diritto penale criminalità organizzata, Atti del convegno dell’Osservatorio Permanente sulla criminalità Organizzata – O.P.C.O., Siracusa 14 – 16 luglio 2006, Milano, 2008, 93 ss; con particolare riferimento alle problematiche tipiche della materia edilizia e urbanistica v. anche Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale e amministrativo, in Riv. giur. edil, 4/2015 ripubblicato anche nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa, cit., 185 ss.
[5] A. Cerino Canova, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. dir. civ., 1977, I, 395 ss; E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, rist., Milano, 1962; G. Pugliese, Giudicato civile, in Enc. Dir., XVIII,Milano, 1969, 727.
[6] A. Falzea, Accertamento, in Enc. Dir., I, Milano, 1958.
[7] E. Fazzalari, Sentenza civile, in Enc. Dir., XLI, Milano, 1989, 1245 ss; F. Lancellotti, Sentenza civile, in Noviss Dig. It., XVI, Torino, 1969, 1139 ss.
[8] Cfr.: F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, 1083 ss; De Luca, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. Giur., XV, Roma, 1989, 1 ss.
[9] Per tutti v E.T. Liebman, Giudicato (diritto processuale civile), in Enc. Giur., XV,Roma, 1989, 1 ss; S. Menchini, Il giudicato civile, Torino, 2002.
[10] Cfr. C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2013, 559 ss; G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione ed ottemperanza, Napoli, 2013, 154 ss; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria dl processo, Milano, 2016; S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017. Fondamentali ancora oggi F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969; E. Cannada-Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XII, Milano, 1966, 1080ss. Anteriormente all’entrata in vigore del codice v. anche A. Attardi, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1990, 386 ss; C. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. Trim. Dir. Proc. civ., 1991, 569 ss; B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989.
[11] È d’immediata evidenza che il problema non ha ragione d’essere se il giudicato viene limitato al solo dispositivo della sentenza, al comando del giudice. In tal caso diventa perfettamente inutile invocare l’applicazione dell’istituto del giudicato in quanto le misure giurisdizionali sono tipiche di ciascun ordinamento e non è nemmeno immaginabile che il giudice amministrativo irroghi misure penali o viceversa.
[12] Problematica esemplarmente affrontata da A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958; per gli ulteriori sviluppi e riferimenti dottrinari mi sia consentito rinviare a F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, 14 ss.
[13] Cfr.: S. Menchini, Il giudicato civile, cit., 76-96; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 1/2007, 82 ss. In giurisprudenza v. ad es. Cass. Civ. Sez. I, 5 luglio 2013 n. 16824; Id., 10 settembre 2013 n. 20692;
[14] E. Micheli, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1942, 7 ss; E.T. Liebman, Sulla sospensione propria ed “impropria” del processo civile, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1958, 153 ss; Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987.
[15] Per spunti in tal senso v. anche E. Follieri, L’autonomia e la dipendenza tra i processi in materia di responsabilità pubbliche, in Dir. Proc. Amm., 2014, 391 ss; E. Picozza, La rilevanza delle pronunce del giudice amministrativo nel giudizio civile ed in quello penale, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Europa del diritto: i giudici e gli ordinamenti. Atti del convegno di Lecce del 27-28 aprile 2012, Napoli, 2012, 294 ss.
Giulia Cavallone, un ricordo
di Sibilla Ottoni
Dal 21 settembre 2020, al Tribunale di Roma, c’è un’aula intitolata alla memoria di Giulia Cavallone. Qualche parola, allora, per ricordare chi era Giulia, e per raccontarlo a coloro che non l’hanno conosciuta, se frequentando quell’aula, leggendo quella targa, chiederanno di lei.
Si è svolta pochi giorni fa la cerimonia di intitolazione dell’ex aula 18 del Tribunale penale di Roma alla memoria di Giulia Cavallone, giovane magistrato, scomparsa a soli 36 anni lo scorso aprile dopo una lunga lotta contro la malattia. Una lotta combattuta anche, fino all’ultimo, dentro quell’aula ed in quelle stanze della Settima Sezione.
La partecipazione e la commozione testimoniate durante la cerimonia non sono dovute soltanto alla giovane età, allo sconcerto che inevitabilmente si prova di fronte alla notizia di una morte prematura ed ingiusta. Chi vi ha partecipato sa che c’è qualcos’altro; qualcosa che spiega non tanto e non soltanto l’onore riconosciutole, ma anche, soprattutto, l’autenticità e la dura intensità di questo cordoglio.
Quel qualcosa era tangibile nell’aria durante la commemorazione. Coloro che non hanno mai incontrato Giulia potrebbero non averne colto appieno il colore, il tono. Non aver sentito, come a noi è parso di sentire, i commenti sarcastici che lei avrebbe riservato ai pochi ma inevitabili scivolamenti nella retorica che caratterizzano, forse, ogni cerimonia solenne. Non aver visto, come a noi è parso di vedere, il sorriso ironico che le sarebbe affiorato nel prendere atto di quel velo di malinconia che alcuni le hanno inventato negli occhi, nell’ascoltare le versioni altrui di quegli ultimi giorni di udienza, così sfumatamente ma sensibilmente diverse dalla propria. Eppure, certamente, anche chi non l’ha mai incontrata ha dovuto arrendersi all’incontenibile tremore delle mani, alla nota spezzata nella voce, alla forza delle parole pronunciate per lei in quell’occasione dai congiunti, dagli amici e dai colleghi.
Di lei è stato detto che era mite, gentile, disponibile. Che era una giurista di notevole spessore. Che era un magistrato di grande impegno, serietà, dedizione alla funzione. Chiunque sia avvezzo al tenore delle celebrazioni grandi o piccole, riservate o solenni, che accompagnano ogni mutamento di funzioni, di ufficio, di carriera, o finanche ai toni contenuti nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, sentirà risuonare in questi attributi il vuoto dell’étiquette. Ma chi era in quella sala ha potuto percepire quel qualcosa, apprezzare uno scarto: comprendere che Giulia era tutte queste cose davvero.
Era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali a cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici.
E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli. Quasi impercettibili nel contegno impeccabile che Giulia aveva in ogni contesto, nell’orgoglio del suo riserbo. Eppure c’erano.
La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano.
Come ha ricordato Edoardo, il suo compagno, la vita di Giulia è stata profondamente intenzionale. Dedicata costantemente a lavorare su di sé, ed attraverso questo lavoro, capace di fare da esempio, di seminare il germe di qualcosa che le sopravvive.
Nel cortile della città giudiziaria, un ulivo è stato messo a dimora in memoria di Giulia, con una targa che recita: “Siate giusti, siate gentili”. L’auspicio è che quella targa, così come quella affissa davanti all’aula che porta il suo nome, possano stimolare, insieme al ricordo, una riflessione più profonda sul ruolo di ciascuno di noi, non solo come magistrati. In onore di un giudice e di una donna di tutta sostanza ed alcuna apparenza, che credeva profondamente in quello che faceva e che con questa attenzione, con questa intenzione, ha svolto la funzione che aveva scelto.
Decidere nell’emergenza. Limitazione e bilanciamento dei diritti fondamentali - Video del webinar AIPDA del 9.10.2020 L'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo - AIPDA ha dedicato il suo convegno annuale al tema della limitazione e del bilanciamento tra diritti fondamentali nell'emergenza pandemica, prendendo spunto dall’intervista di Jurgen Habermas e Klaus Gunter e dalla rilettura operata dalla dottrina giuspubblicistica italiana ospitate da GiustiziaInsieme.
Il video riproduce gli atti del Convegno, presieduto da Carla Barbati e coordinato dal Prof. Fabio Francario, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Franco Scoca, Mimmo Sorace, Pierluigi Portaluri, Antonio Bartolini, Cecilia Corsi, Matteo Gnes e Chiara Cacciavillani.
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