ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?[1]
di Bruno Nascimbene* e Paolo Piva**
Sommario: 1. Considerazioni introduttive - 2. Il rinvio per presunta “incompatibilità comunitaria”: la questione all’origine e il diritto ad un ricorso effettivo in materia di appalti pubblici - 3. Il difetto di giurisdizione ex art. 111 Cost. con riferimento alle pronunce del Consiglio di Stato - 4. La sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e le sue conseguenze - 5. Autonomia procedurale, equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale - 6. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e l’effettività della tutela. Il possibile rimedio “alla Köbler” - 7. Considerazioni conclusive e prospettive.
1. Considerazioni introduttive
Con ordinanza del 18 settembre 2020, n. 19598 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione chiedono alla Corte di giustizia di pronunciarsi su un tema cruciale di effettività e primato del diritto dell’Unione europea nel contesto del corretto dialogo fra Corti “superiori” nazionali e Corte di giustizia[2].
La problematica, peraltro, è stata ben illustrata da una recente pronuncia della Corte di giustizia, Commissione c. Polonia, C‑619/18, che richiama non solo la necessità della coerenza fra ordinamenti nazionali e ordinamento dell’Unione, nonché il principio dello Stato di diritto, ma soprattutto lo stretto collegamento con il principio della tutela giurisdizionale, garantito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, oltre che dall’art. 6 CEDU: un “principio generale […] che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri […] sancito dagli articoli 6 e 13” della CEDU e “attualmente affermato dall’art. 47 della Carta”[3] .
Il primo dei tre quesiti dell’ordinanza si incentra su un tema su cui si erano a più riprese confrontate le supreme Corti italiane, con esito sino ad oggi per lo più negativo in termini di tutela del c.d. droit au juge, per usare un’espressione cara alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Vale la pena riprendere le parole delle Sezione Unite nel porre il quesito alla Corte di giustizia: “Se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad una prassi interpretativa come quella concernente gli articoli 111, ottavo comma, della Costituzione, 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, del codice di procedura civile e 110 del codice del processo amministrativo – nella parte in cui tali disposizioni ammettono il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per «motivi inerenti alla giurisdizione» – quale si evince dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e dalla giurisprudenza nazionale successiva che, modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione sotto il profilo del cosiddetto «difetto di potere giurisdizionale», non possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea (nella specie. in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici) nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare i loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l‘effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario che potrebbero essere corrette tramite il predetto rimedio e di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione e l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, in contrasto con l’esigenza che tale diritto riceva piena e sollecita attuazione da parte di ogni giudice, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione da parte della Corte di giustizia, tenuto conto dei limiti alla «autonomia procedurale» degli Stati membri nella conformazione degli istituti processuali”[4] .
Il primo quesito, come qui riprodotto, rappresenta icasticamente e realisticamente il punctum dolens di una prassi avallata in passato dalla stessa Corte di cassazione[5], oggi rafforzata da una pronuncia della Corte costituzionale, la n. 6 del 18 gennaio 2018[6], volta ad impedire -in omaggio al principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri[7]- l’impugnazione ex art. 111 Cost. delle decisioni del Consiglio di Stato confliggenti in modo grave e manifesto con il prevalente diritto dell’Unione europea, nella specie con pronunce della Corte di giustizia fondate sul principio della tutela giurisdizionale effettiva.
Si può sin d’ora osservare che, nonostante le Sezioni Unite segnalino una sorta di “revirement necessitato” della giurisprudenza di Cassazione in virtù dell’intervento del Giudice delle leggi (in particolare, la pronuncia Cass. S.U. del 29 dicembre 2017, n. 31226), a ben vedere, l’ammissibilità di azioni volte a contestare presunti straripamenti del giudice amministrativo in ragione di violazioni del diritto dell’Unione europea è sempre stato un fatto eccezionale, se non già un vero e proprio hàpax legòmenon, stante il richiamo, anche da parte della Cassazione, delle sole pronunce S.U. del 6 febbraio 2015, n. 2242 e n. 31226.
È invece vero che, almeno teoricamente, si potesse in precedenza ammettere che uno stravolgimento della norma in modo del tutto arbitrario da parte del giudice amministrativo di ultima istanza fosse possibile anche in riferimento a fattispecie aventi causa petendi comunitaria e non solo a fattispecie di “travisamento di norma interna”. L’aspetto, come si osserverà, è significativo, rilevando immediatamente per il diritto dell’Unione che il giudice nazionale, nel tutelare le situazioni giuridiche soggettive azionate alla stregua di norme comunitarie, debba sempre rispettare, oltre che il principio dell’effettività, anche il connesso principio dell’equivalenza. Due principi, questi, strettamente connessi nella valutazione della Corte di giustizia[8].
Gli altri due quesiti, infine, si incentrano, il secondo[9] (par. 60 dell’ordinanza), sul dubbio relativo al se un’applicazione combinata degli artt. 4.3 TUE, 267 TFUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali impongano alla Corte di nomofilachia il superamento della nozione restrittiva di difetto di giurisdizione quale ricavabile dalla pronuncia della Corte costituzionale, allorquando in particolare il Consiglio di Stato abbia omesso -quale giudice di ultima istanza- il rinvio nelle condizioni processuali così come illustrate in CILFIT[10] (cioè sussistenza di un dubbio interpretativo rilevante); il terzo, infine, sulla specifica fattispecie sub judice, ovvero sul dubbio che sia compatibile con il prevalente diritto dell’Unione la prassi interpretativa del Consiglio di Stato secondo cui il concorrente escluso da una gara d’appalto non sia legittimato ad impugnare l’aggiudicazione finale, alla stregua della linea giurisprudenziale della Corte in Fastweb[11]-Puligienica[12]-BTG[13]-Lombardi[14].
In questa prima “delibazione”, si può certamente affermare che il diritto dell’Unione è a favore di un’interpretazione che, pur nel rispetto del principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri, garantisce una più effettiva tutela giurisdizionale. Tuttavia, se il diritto dell’Unione europea e la giurisprudenza della Corte non impongono sicuramente un “terzo grado di giudizio” (mancante, quanto meno pleno jure, rispetto alle pronunce del giudice amministrativo), non si può negare, come già anticipato, che l’ordinamento dell’Unione europea non tolleri prassi differenziate rispetto ad identiche o analoghe violazioni di legge, l’una per il diritto interno e l’altra per il diritto dell’Unione. Se si può, altrettanto ragionevolmente, ammettere che il diritto dell’Unione non imponga un intervento riparatore (nel caso di specie, dalla Corte della nomofilachia) in qualunque caso di violazione del diritto dell’Unione, non si può nemmeno negare che la violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione -suscettibile di condanna al risarcimento del danno- possa e debba integrare il caso dello stravolgimento grave del diritto idoneo ad abilitare la parte al ricorso ex art. 111 Cost e/o art. 360, n. 1 c.p.c.
Da ultimo, il che rileva anche per il terzo quesito, si deve segnalare che l’aver omesso un rinvio in una fattispecie che palesemente lo imponeva integra una violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione, in virtù della giurisprudenza Köbler[15]-Traghetti del Mediterraneo[16] e della legge sulla responsabilità dei magistrati (legge 117/88), così come novellata dalla legge 18/2015[17].
In altre parole, anche ammettendo che la pronuncia del Consiglio di Stato in punto di legittimazione non fosse del tutto distonica rispetto alla giurisprudenza (non sempre così lineare) della Corte, non c’è dubbio che il caso meritasse quanto meno una “rilettura” autorevole da parte della Corte stessa e, quindi, onerasse il massimo organo di giustizia amministrativa al rinvio ex art. 267, n. 3, TFUE.
2. Il rinvio per presunta “incompatibilità comunitaria”: la questione all’origine e il diritto ad un ricorso effettivo in materia di appalti pubblici
La questione in concreto riproposta alla Corte di Cassazione in sede di ricorso ex art. 111 Cost. per difetto di giurisdizione riguardava la nota problematica di ricorsi incrociati, in sede giurisdizionale amministrativa, volti ciascuno -rispettivamente, ricorso principale ed incidentale- a negare il diritto dell’altro candidato per le più diverse ragioni di partecipare alla gara, con la conseguenza che l’aggiudicazione, secondo la prassi avallata dalle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 7 aprile 2011 e n. 9 del 25 febbraio 2014, rimarrebbe sostanzialmente priva di contestazione.
Secondo i giudici amministrativi, in effetti, vi sarebbe una sorta di poziorità logico-processuale nell’esame del ricorso incidentale che, se fondato, farebbe venir meno l’interesse alla decisione del ricorso principale, con la naturale conseguenza di lasciare inalterato il provvedimento amministrativo di aggiudicazione.
Questo tipo di situazione processuale (ovvero, ricorsi incrociati egualmente paralizzanti) è stato oggetto di plurimi interventi ex art. 267 TFUE dalla Corte di giustizia[18].
In una prima causa austriaca, Hackermüller, piuttosto risalente e comunque precedente alla Direttiva 66/2007, in un contesto in cui un offerente aveva indicato il proprio nome violando il principio di segretezza dell’offerta, la Corte ha affermato che la prima Direttiva ricorsi (la n. 665/1989/CE, art. 1, n. 3) “non obbliga gli Stati membri a rendere dette procedure di ricorso accessibili a chiunque voglia ottenere l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ma che essa consente loro di esigere, inoltre, che la persona interessata sia stata o rischi di essere lesa dalla violazione da essa denunciata” [19].
In sostanza, a fronte di un motivo di esclusione del candidato ma in assenza di una decisione in tal senso dell’autorità amministrativa in sede procedimentale, per la Corte non si può negare al candidato il diritto di impugnare, in una con la contestazione del motivo di esclusione (rilevato peraltro solo dall’organo di decisione in sede di ricorso amministrativo) anche la decisione di aggiudicazione a favore di altro candidato.
Si deve tuttavia osservare che un obiter dictum della Corte aveva lasciato un profilo irrisolto: “non si può escludere che, al termine di tale procedura, l'autorità adita pervenga alla conclusione che detta offerta avrebbe dovuto effettivamente essere esclusa in via preliminare e che il ricorso dell'offerente debba essere respinto in quanto, tenuto conto di tale circostanza, egli non è stato o non rischia di essere leso dalla violazione da lui denunciata”[20].
Vi è da osservare poi che l’introduzione, da parte della II Direttiva ricorsi, della nozione di “offerente interessato” (art. 1, par. 3 novellato), ha dato alla Corte la possibilità di affinare il proprio punto di vista, osservando, nella nota pronuncia Fastweb, che “tale insegnamento è applicabile, in linea di principio, anche qualora l’eccezione di inammissibilità non sia sollevata d’ufficio dall’autorità investita del ricorso, ma in un ricorso incidentale proposto da una parte nel procedimento di ricorso, come l’aggiudicatario regolarmente intervenuto nello stesso”, con la conseguenza che, ove “ l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto, sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale”[21].
Nel successivo caso BTG, la Corte ha avuto modo di distinguere la fattispecie in Fastweb (e nell’analoga Puligienica) dalla situazione procedurale in cui vi fossero solo due offerenti e il concorrente escluso dalla gara d’appalto con provvedimento divenuto definitivo ambisse, in qualche modo, a riazzerare la gara (c.d. interesse strumentale), contestando la decisione di aggiudicazione in favore del suo unico concorrente.
La Corte, valorizzando la nozione di “offerente interessato”, e dunque di interesse ad agire dell’offerente, ha disconosciuto la legitimatio ad causam del concorrente escluso precisando che è consentito “a qualsiasi offerente escluso di impugnare non solo la decisione di esclusione, ma anche, fino a quando tale impugnazione non è stata risolta, le decisioni successive che la danneggerebbero se la sua esclusione fosse annullata” (grassetto aggiunto) [22].
In Lombardi , più recentemente, la Corte di giustizia ha avuto modo di ribadire il proprio orientamento anche in una fattispecie caratterizzata dall’impugnativa del concorrente, risultato terzo nella gara d’appalto, che contesti la propria esclusione in vista ed in funzione dell’esclusione dell’aggiudicatario e del secondo in graduatoria, “in quanto non si può escludere che, anche se la sua offerta fosse giudicata irregolare, l’amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara” [23] .
In quest’ultima pronuncia (val la pena sottolinearlo) la Corte interpreta l’art. 1, par. 1, terzo comma, e par. 3 della Direttiva n. 89/665/CEE, come modificata dalla Direttiva 2007/66/CE affermando che osta che un ricorso eiusdem generis “venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorsi”[24].
E pur tuttavia, alcuna dottrina amministrativistica ha evidenziato che “profonda e irriducibile appare la contraddizione tra le sentenze BTG e Archus”, nella misura in cui quest’ultima, surrettiziamente, “sulla scia di Fastweb, determina l’impropria soppressione, ai fini dell’accesso alle procedure di ricorso, della qualità di soggetto leso o che rischia di esserlo a causa dell’illegittimità denunciata (art. 1, par. 3, dir. 92/13/CEE), qualifica confermata dall’introduzione, con la dir. 2007/66/CE, della nozione normativa di «offerenti interessati»[25].
A prescindere dal fatto che in Archus il requisito soggettivo non pare propriamente mancare[26], il discrimine fra BTG e Fastweb-Archus sembra, piuttosto, rinvenibile nel carattere definitivo, o non, dell’esclusione, definitività per inoppugnabilità della decisione amministrativa e/o giurisdizionale.
Nel caso analizzato dal Consiglio di Stato, dunque, anche richiamando la pronuncia dell’Adunanza n. 4/2011, sembra potersi affermare che la ragione dell’esclusione (cioè il mancato superamento della soglia di sbarramento) non sia diversa da altre forme di esclusione. Secondo la Sezione, infatti, “per poter delibare la carenza di legittimazione, rileva ogni forma di estromissione dalla gara, anche se disposta in fasi successive all’atto iniziale di ammissione, ma comunque deputate (anche solo in senso logico) all'accertamento della regolare partecipazione del concorrente, anche sotto il profilo dei requisiti oggettivi dell’offerta (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9/2014)”[27].
Tale pronuncia di difetto della legittimazione in capo al ricorrente ad impugnare l’esclusione e/o l’aggiudicazione altrui sembra in effetti emessa per le stesse ragioni che avevano dato origine a suo tempo a Fastweb[28]: di qui il ricorso per Cassazione e la reazione di quest’ultima Corte tendente a ravvisare un caso eclatante di “disobbedienza” ai dicta della Corte di giustizia.
In effetti, anche ammesso che si possa distinguere la situazione da quella occorrente in Fastweb-Puligienica o che queste ultime pronunce contrastino con i precedenti Hackermüller-Archus, non può revocarsi in dubbio che il Consiglio di Stato avrebbe fatto certamente meglio a chiedere lumi alla Corte ex art. 267 TFUE affinché chiarisse il significato dei propri precedenti, talora per vero non così perspicui anche per la discutibile abitudine della Corte a non ammettere le parti alla discussone orale, con ogni naturale conseguenza sulla migliore comprensione dei fatti di causa.
Ad ogni buon conto, non sembra proprio che si possa concludere nel senso che le Sezioni Unite sarebbero incorse in una sorta di freie Rechtsschöpfung, mentre il giudice amministrativo avrebbe applicato nitidamente la giurisprudenza della Corte o, comunque, la “preferibile” giurisprudenza in materia.
A fronte di un contrasto (quanto meno apparente) fra il pronunciamento del Consiglio di Stato e la giurisprudenza (o qualche precedente) della Corte di giustizia, bene ha fatto la Corte di cassazione a ritenere che la prospettiva di negare accesso al ricorso ex art. 111 Cost. o 360, n. 1 c.p.c. “avrebbe l’effetto di fare consolidare una grave violazione del diritto dell’Unione in un momento in cui essa è ancora rimediabile”.
In effetti, sembra evidente la volontà del Consiglio di Stato di imporre il proprio punto di vista tradizionale su quello della Corte di giustizia, nonostante la norma da interpretarsi per risolvere il dubbio interpretativo sul punto della legittimazione fosse, e sia, una norma dell’Unione e le pronunce della Corte di giustizia notoriamente abbiano effetto erga omnes (così Corte Cost., 23 aprile 1985, n. 113). Sembra quasi di essere di fronte ai modi con cui il Conseil d’Etat francese invocava la propria teoria dell’acte clair al fine di sottrarsi al doveroso rinvio, prassi che ha poi provocato la forte risposta della Corte nella ricordata sentenza CILFIT [29].
Come ebbe modo di precisare la Corte in quell’ultima occasione, è possibile, in effetti, un’attenuazione dell’obbligo del rinvio a carico dei Giudici nazionali di ultima istanza, laddove “la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia. Solo in presenza di tali condizioni il giudice nazionale può astenersi dal sottoporre la questione alla Corte risolvendola sotto la propria responsabilità”[30].
Né si tratta, a ben vedere, di una “dequotazione” dell’autonomia procedurale degli Stati membri: il tema vero è quello del primato della lex communis e dell’effettività della tutela giurisdizionale che i Giudici nazionali (juges communautaires de droit commun) devono garantire (artt. 19, par.2 TUE).
Il problema, sotto questo profilo, va ben oltre il problema specifico della soluzione processuale ai ricorsi reciprocamente escludentisi e alla poziorità dell’esame dell’uno rispetto all’altro, riguardando piuttosto l’uso della nomofilachia della Corte di cassazione in un senso idoneo a valorizzare, nel massimo grado, l’effettività del diritto comprensivo anche del diritto dell’Unione che si integra in quello degli Stati membri e alla cui osservanza è posta, al vertice, la Corte di giustizia.
3. Il difetto di giurisdizione ex art. 111 Cost. con riferimento alle pronunce del Consiglio di Stato
Tradizionalmente, la prassi della Corte di cassazione è sempre stata piuttosto rigorosa, per ovvie ragioni, nell’interpretare la categoria di “difetto di giurisdizione” idonea a dare origine ad un ricorso avanti alla Corte di cassazione ex art. 360, n. 1 ovvero art. 111, n. 8, Cost. avverso le pronunce del Consiglio di Stato, in thesi, abnormi.
Era piuttosto ricorrente, in effetti, l’affermazione giurisprudenziale secondo cui, in tema di limiti al sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, l'eccesso di potere giurisdizionale per “invasione” della sfera di attribuzioni riservata al legislatore non ricorre quando il giudice amministrativo si sia limitato ad interpretare la legge oggetto delle opzioni contrastanti da parte dei contendenti. Si osservava tuttavia che “la figura dell'eccesso di potere giurisdizionale per invasione nelle attribuzioni di spettanza del legislatore può verificarsi solamente quando il giudice applichi non già una norma esistente bensì una norma da lui creata, a condizione che si possa distinguere tra un’attività di formale produzione normativa - inammissibilmente esercitata dal giudice - da un’attività interpretativa che si sostanzia invece in un'opera creativa della volontà di legge nel caso concreto”[31].
In una prospettiva storica, tuttavia, ha segnato una sorta di “rivoluzione copernicana” la pronuncia del 23 dicembre 2008, n. 30254 con cui la Corte di Cassazione è giunta ad una “lettura” più evoluta e rispondente alle odierne esigenze dell’ordinamento della nozione di “giurisdizione”[32].
In questa pronuncia, in effetti, la Corte ha elaborato “nuovi” presupposti per apprezzare i limiti esterni della giurisdizione amministrativa.
In quel caso, peraltro e notoriamente, si discettava di pregiudizialità amministrativa, ma si può senz’altro affermare che i dicta espressi dalla Corte nella pronuncia possano avere una portata generale come una sorta di guideline per il futuro.
Si legge, infatti, in essa: “ai fini dell’individuazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che tradizionalmente delimitano il sindacato consentito alle sez. un. sulle decisioni del Consiglio di Stato che quei limiti travalichino, si deve tenere conto dell'evoluzione del concetto di giurisdizione - dovuta a molteplici fattori: il ruolo centrale della giurisdizione nel rendere effettivo il primato del diritto comunitario; il canone dell'effettività della tutela giurisdizionale; il principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina, tenuto conto dell'ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva; il rilievo costituzionale del principio del giusto processo, ecc. - e della conseguente mutazione del giudizio sulla giurisdizione rimesso alle sez. un., non più riconducibile ad un giudizio di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta […] ma nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, che comprende, dunque, le diverse tutele che l’ordinamento assegna a quei giudici per assicurare l’effettività dell’ordinamento. rispettandone il contenuto essenziale, così esercitando il sindacato per violazione di legge che la S.C. può compiere anche sulle sentenze del giudice amministrativo”[33].
Si aggiunga che, su questa linea giurisprudenziale, le S.U. avevano già accolto un analogo ricorso a quello oggetto del ricorso in Corte di cassazione in questi termini: “è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”[34] .
Ancora, va ricordata una successiva pronuncia secondo cui “non costituiscono diniego di giurisdizione, da parte del Consiglio di Stato (o della Corte dei conti), gli errori in procedendo o in giudicando, ancorché riguardanti il diritto dell’Unione europea, salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) tali da ridondare in denegata giustizia, e in particolare il caso, tra questi, di errore in procedendo costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”[35].
Dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 6/2018 (vera e propria pierre d’achoppement), tuttavia, la Corte di Cassazione è ritornata a formule “ante-2008”, ribadendo che “non sussiste eccesso giurisdizionale quando il giudice svolge attività interpretativa delle norme; il sindacato delle Sezioni Unite della Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo è, infatti, circoscritto ai motivi inerenti alla giurisdizione, ossia ai vizi concernenti l'ambito della giurisdizione in generale o il mancato rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, con esclusione di ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, cui attengono invece gli errori «in iudicando», o anche «in procedendo» […] quale che sia la gravità della violazione, anche ove essa attinga alla soglia del c.d. stravolgimento delle norme di riferimento, sostanziali o processuali, applicate; infatti, in linea di principio, l'interpretazione della legge (e perfino la sua disapplicazione) non trasmoda di per sé in eccesso di potere giurisdizionale, perché essa rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e non può, dunque, integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, così da giustificare il ricorso previsto dall'art. 111, comma 8, Cost.”[36].
Sulla scorta di queste considerazioni, pare proprio che la scelta della Corte di cassazione di consentire, sia pure eccezionalmente, un sindacato sull’esercizio concreto della giurisdizione da parte del G.A. sia non soltanto da accogliere favorevolmente, ma sia in linea con i dettami della Costituzione che “deve fare i conti” con l’essere, l’ordinamento italiano, parte integrante di un ordinamento sovranazionale (art. 11 Cost.), alla cui fedeltà e primato la Carta fondamentale ha riaffermato la propria adesione (art. 117 Cost. novellato).
In questa prospettiva, dunque, appare condivisibile che il sindacato della Corte di cassazione sulla giurisdizione amministrativa debba essere inteso come uno scrutinio sull’effettività della stessa, così che laddove il giudice amministrativo, nell’erogare in concreto la propria giurisdizione, non risponda a standard di effettività della tutela (anche imposti dal diritto dell’Unione), il suo operato sia suscettibile di censura in sede di ricorso ex art. 111 Cost.
Ma, per l’appunto, vi era (vi è) la “pietra d’inciampo” di Corte cost. n. 6 del 2018.
4. La sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e le sue conseguenze
La pronuncia del Giudice delle leggi che ha condotto ad una “rilettura” della nozione di giurisdizione e dei suoi limiti veniva pronunciata, su rinvio delle S.U., con riferimento ad una questione di legittimità avente ad oggetto l’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), “nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
La Cassazione deduceva in particolar modo la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione ai parametri interposti dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa.
Il Giudice rimettente, peraltro, aggiungeva che si era affermata recentemente nella sua giurisprudenza una interpretazione “evolutiva” e “dinamica” del concetto di giurisdizione, che consentirebbe di sindacare non solo le norme che individuano “i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale”, ma anche quelle che stabiliscono “le forme di tutela” attraverso cui la giurisdizione si estrinseca.
Si precisava, altresì, che tanto aveva consentito la cassazione di una sentenza del Consiglio di Stato che aveva interpretato le norme di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, così come acclarato da una pronuncia della Corte di giustizia successivamente intervenuta.
Dopo aver ricordato la propria sentenza del 6 luglio 2004, n. 204, che si esprime in termini di unità funzionale e non già organica delle giurisdizioni, e dopo aver ricordato i lavori dell’Assemblea Costituente escludenti la “soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione”, salvo il solo “eccesso di potere giudiziario”, in virtù di “una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)”, la Corte giunge alla conclusione che l’intervento delle S.U. “nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU, non essendo peraltro chiaro, nell’ordinanza di rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o della Corte di Strasburgo”[37].
Secondo la Corte costituzionale, insomma, “L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione”, rispetto ad altri giudici.
Ma quel che preme segnalare, in questo contesto, è come la pronuncia abbia, per così dire, fatto strame non solo della nozione evolutiva di giurisdizione di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 30254/2008 già ricordata, ma anche di alcune acquisizioni giurisprudenziali divenute sin qui jus receptum, in virtù delle quali, allorquando lo stravolgimento della norma sia tale da comportare, sostanzialmente, l’applicazione di una norma inesistente o esistente solo, per così dire, in mente dei, si possa dar adito ad un ricorso ex art. 111 Cost.[38].
Sottolinea, invero, la sentenza che “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze «abnormi» o «anomale» ovvero di uno «stravolgimento», a volte definito radicale, delle «norme di riferimento». Attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”[39].
Non attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio posto in essere dallo Stato-Giudice, d’altra parte, si pone in netto contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui “al fine di stabilire un'eventuale responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto […]. La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente” [40].
In proposito, non si può non dar ragione alla dottrina processualcivilistica secondo cui “è singolare che la pronuncia dei giudici costituzionali, pur riconoscendo che l’eventuale contrasto fra le sentenze del Consiglio di Stato e il diritto dell’Unione o la giurisprudenza della Corte di giustizia pone un problema di effettività della tutela, continui a declinare il principio di effettività e il problema della sua garanzia in termini esclusivamente «domestici» e non in confronto all’impianto normativo sovranazionale. Infatti, sostenere che – come si legge nella motivazione della sentenza n. 6 del 2018 – «quanto all’effettività della tutela e al giusto processo, non c’è dubbio che essi vadano garantiti, ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione», significa sottrarsi al necessario confronto fra la soluzione che sembrerebbe emergere dal dettato costituzionale per come interpretato dai giudici costituzionali e gli standards di effettività imposti dall’ordinamento sovranazionale”[41]. Anche la migliore dottrina del passato aveva correttamente rilevato, dando per scontato l’impugnabilità per eccesso di potere giurisdizionale delle pronunce dei giudici speciali, che “l’art. 111 Cost. ha tendenzialmente ampliato e non limitato le attribuzioni della Cassazione vuoi perché l’eccesso di potere giurisdizionale si risolve nella violazione delle norme costituzionali, che presiedono alla suddivisione dei poteri tra gli organi dello Stato, cui sono commesse la funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale”.
Con la conseguenza che, anche alla luce della novella dell’art. 111 Cost. con l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, “va rigettata in radice, perché incompatibile con il sistema, l’idea secondo la quale qualsiasi estensione dei motivi di ricorso per cassazione oltre l’ambito tradizionalmente assegnato al ricorso ex art. 362, comma 1, c.p.c. e/o coincidente con le questioni di giurisdizione di cui all’art. 37 c.p.c. comporti una indebita parificazione tra i rimedi contemplati nei commi 7° e 8° dell’art.111 Cost.”[42].
In definitiva, anche a tacere dalle (invero) non perspicue considerazioni ricavabili da Corte cost. n. 6/2018 in tema di effettività della tutela giurisdizionale e/o di mancato apprezzamento delle pronunce n. 348 e n. 349 del 2007 della stessa Corte in tema di differenze fra norme CEDU e norme UE, la pronuncia della Corte (pur essendo a rigore irrilevante per qualunque giudice nazionale -e dunque anche per la Cassazione- che si muova sulla via indicata dalla Corte di giustizia in termini di disapplicazione e interpretazione comunitariamente conforme)[43], potrebbe ragionevolmente dare origine ad una “remora” o “disagio” che la Corte di giustizia dovrebbe comunque essere in grado di affrontare e risolvere[44].
5. Autonomia procedurale, equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale
La soluzione della Corte di cassazione, peraltro, così come prospettata nell’ordinanza oggetto di esame, appare coerente con la giurisprudenza anche risalente della Corte di giustizia, essendo pacifico che “secondo il principio di collaborazione, enunciato dall’art. 5 del Trattato [poi art. 4.3, TUE], è ai giudici nazionali che è affidato il compito di garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi diretta efficacia”[45].
Si può, del resto, ricordare che, con le sentenze “gemelle” Rewe-Comet, si sono introdotti, per la prima volta, dei precisi e rigorosi limiti all’autonomia procedurale degli Stati membri. Con riguardo alla concreta questione dei termini processuali di decadenza e prescrizione, ad esempio, si precisa che “allo stato attuale del diritto comunitario, questo non vieta di opporre, a coloro che impugnano dinanzi ai giudici nazionali, per incompatibilità col diritto comunitario, il mancato rispetto di un termine contemplato dalle norme interne, a condizione che le modalità procedurali dell’azione giudiziale non siano meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale” [46].
Il punto della sollevabilità di eccezioni di prescrizione e decadenza ex parte publica è stato con il tempo affinato dalla Corte, avendo la stessa precisato, fra l’altro, che la Direttiva n. 665/89 dev’essere interpretata nel senso che essa (una volta accertato che un’autorità aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell’Unione leso da una decisione di tale autorità che lo esclude da una gara d’appalto) impone ai giudici nazionali competenti l’obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull'incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un ricorso proposto contro la detta decisione: avvalendosi, se del caso, della possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare tale incompatibilità”[47].
Il che, evidentemente, non potrebbe non rilevare anche ex art. 111 Cost., laddove ignorato dal Consiglio di Stato.
Più precisamente, come si desume dall’iter argomentativo della Corte, i limiti posti all’operatività delle norme processuali interne sono, sostanzialmente, tre.
a) Non deve esistere una specifica disciplina dell’Unione. Ciò significa che, qualora siano previste norme procedurali per l’esercizio concreto dei diritti derivanti da norme comunitarie, sono queste ultime ad applicarsi con conseguente prevalenza sulle norme processuali interne di contenuto contrastante. Anche questo aspetto non è irrilevante nel caso sub judice, posto che, com’è stato correttamente osservato, con l’adozione delle direttive ricorsi (n. 665/89 e 66/2007) “l’autonomia dei singoli Stati membri, nella definizione delle controversie concernenti l’affidamento dei contratti pubblici, è stata limitata in alcuni punti significativi, avviando un percorso di avvicinamento tra tradizione processuali, dei diversi Stati membri, in origine sensibilmente differenti”[48].
b) Le modalità procedurali delle azioni giudiziali miranti a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme UE non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale (c.d. criterio dell’equivalenza o dell’assimilazione). In tal senso, ad esempio, qualora al diritto dei privati al risarcimento dei danni causati da violazione di norme comunitarie ex parte publica fosse riservato un trattamento processuale più sfavorevole rispetto ad un diritto analogo basato sulla normativa interna (richiedendosi, in ipotesi, un ulteriore onere probatorio), si dovrebbe concludere per l’illegittimità delle norme del foro che sanciscono una tale “discriminazione”.
Come ricorda anche la Cassazione nell’ordinanza in esame, “la Corte ha precisato che «per quanto riguarda il principio di equivalenza, si deve ricordare che esso richiede che la complessiva disciplina dei ricorsi si applichi indistintamente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto dell’Unione e a quelli simili fondati sulla violazione del diritto interno” (fra le tante, Corte di giustizia 15 marzo 2017, C-3/16, Lucio Cesare Asquino, punto 50)”.
La conseguenza è che “non sembra conforme al principio di equivalenza la prassi giurisprudenziale di cui si discute, la quale, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto nazionale, ammette il ricorso per cassazione per difetto di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato, cui si imputi di aver svolto attività di produzione normativa invasiva delle attribuzioni del legislatore, mentre, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto dell’Unione, dichiara pregiudizialmente inammissibili i ricorsi per cassazione”[49]. È tuttavia evidente che il principio dell’equivalenza o dell’assimilazione, che qui rileva in modo particolare, possa portare a conseguenze aberranti se non interpretato congiuntamente al principio dell’effettività[50]. Ciò è apparso manifesto (ad esempio) in casi relativi a rimborsi in materia di tasse societarie, in cui la Corte di giustizia ha avallato l’opposizione a termini di decadenza previsti per azioni analoghe di diritto interno che non potevano che apparire, a rigore, insoddisfacenti, specie se introdotti retroattivamente[51].
Per quel che qui interessa, comunque, è stato recentemente osservato che “il diritto dell’Unione, in particolare la direttiva 89/665 e la direttiva 92/13 nonché i principi di equivalenza e di effettività, deve essere interpretato nel senso che esso non osta alla normativa di uno Stato membro che non autorizza il riesame di una sentenza, passata in giudicato, di un giudice di detto Stato membro che si è pronunciato su un ricorso di annullamento avverso un atto di un’amministrazione aggiudicatrice senza affrontare una questione il cui esame era previsto in una sentenza precedente della Corte pronunciata in risposta a una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta nell’ambito del procedimento relativo a tale ricorso di annullamento. Tuttavia, qualora le norme processuali interne applicabili prevedano la possibilità per il giudice nazionale di ritornare su una sentenza passata in giudicato, per rendere la situazione derivante da tale pronuncia compatibile con una decisione giudiziaria definitiva nazionale precedente, di cui il giudice che ha emesso tale sentenza e le parti della causa che l’ha originata erano a conoscenza, tale possibilità deve prevalere, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, alle stesse condizioni, per ripristinare la conformità di tale situazione alla normativa dell’Unione, come interpretata da una precedente sentenza della Corte”[52].
c) Infine, modalità e termini previsti dal sistema processuale interno non devono essere tali da rendere, in pratica, impossibile o comunque molto difficile l’esercizio dei diritti con causa petendi nel diritto dell’Unione che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare (c.d. principio dell’effettività della tutela).
Si era ritenuto, in passato,[53] che quest’ultima clausola limitatrice dell’autonomia fosse pleonastica rispetto alle prime due e che fosse stata aggiunta soltanto per una qualche forma di cautela. In realtà, si può affermare, anche alla luce della copiosa giurisprudenza successiva, che questo limite all’autonomia istituzionale degli Stati membri giochi un ruolo non solo distinto ma, di regola, maggiore rispetto a quello di “equivalenza”.
Si osservi (il che pare significativo nel caso in esame) che il tema della competenza-giurisdizione interna può pacificamente concretarsi in un problema di effettività della tutela di “seconda generazione”[54]: come si è espresso puntualmente l’avvocato generale Kokott, “non sussiste alcuna differenza sostanziale fra le norme relative alla competenza e quelle relative alle regole procedurali: una cattiva gestione del procedimento, infatti, può rendere molto gravoso l’accesso del singolo alle giurisdizioni nazionali quanto una cattiva normativa sulla competenza”[55] .
Nella specificità della tutela imposta dal prevalente diritto dell’Unione e dalla Corte di giustizia, si possono elaborare dei punti fermi, coerenti con la giurisprudenza dei giudici lussemburghesi.
Il diritto dell’Unione europea di per sé non esige che vi siano tre gradi di giudizio, né che agli ordinari errori nell’interpretazione ed applicazione di quel diritto sia posto rimedio ad ogni costo dalla giurisdizione individuata come competente o da un’altra che ne sia in qualche modo superiore.
In tal senso, appare corretto affermare, senza forzature, che “il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea”[56].
Ciò vale tuttavia solo e nella misura in cui questa forma di controllo venga riservata anche ad analoghe cause interne, aventi causa petendi nella norma nazionale. Qualora, invece, ai ricorsi interni fosse riservato un rimedio ulteriore, nelle forme dell’eccesso di potere giurisdizionale latamente inteso, cioè anche come ineffettività della giurisdizione in concreto erogata, questo genere di rimedio dovrà ineludibilmente estendersi anche ai ricorsi con base giuridica in norma di diritto dell’Unione.
Ed invero, il principio dell’equivalenza della tutela[57] che opera su un piano diverso ma è comunque strumentale al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, impone che ogniqualvolta l’ordinamento interno garantisca una qualche forma di tutela ad un’azione o ricorso con causa petendi basata sul diritto nazionale, identica tutela debba essere garantita ad un’azione o ricorso eiusdem generis avente causa petendi nel diritto dell’Unione europea.
In definitiva, se lo stravolgimento della norma di diritto interno può garantire all’interessato un ricorso ex art. 360, n. 1 c.p.c. e art. 111 Cost., n. 8, analogo ricorso dev’essere garantito anche a chi abbia subito un’applicazione del diritto dell’Unione stravolto nei suoi connotati propri. Il che può essere anche tradotto in termini di ricorribilità ex art. 111, n. 8, Cost. di ogni violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione, così come declinata dalla Corte di giustizia nella propria giurisprudenza relativa all’obbligo di risarcimento del danno a carico dello Stato membro che in essa incorra.
6. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e l’effettività della tutela. Il possibile rimedio “alla Köbler”
Il Consiglio di Stato ha violato, già si è detto in modo grave e manifesto gli obblighi derivanti dal Trattato e in particolare dall’art. 267, par. 3 TFUE.
A tal riguardo, la Corte di cassazione, dopo aver richiamato la giurisprudenza più recente in tema di rinvio pregiudiziale, ha osservato nell’ordinanza che “dubbia è la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’orientamento interpretativo di cui si è dato conto (sub paragrafo 50) che in radice esclude la possibilità per le Sezioni Unite della Corte di cassazione, investite da un mezzo di impugnativa ordinaria, qual è il ricorso per cassazione, di esaminarlo nel merito quando sia denunciata la immotivata violazione dell’obbligo di rinvio da parte del Consiglio di Stato e di effettuare direttamente il rinvio pregiudiziale, al fine di accertare l’esatta interpretazione del diritto dell’Unione e, di conseguenza, la compatibilità della sentenza con il diritto dell’Unione”[58].
A proposito dell’importanza che riveste il comportamento del Giudice nazionale nel contesto del rinvio pregiudiziale, si può ricordare quanto già affermava l’avvocato generale Léger in Traghetti del Mediterraneo: “l’inadempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale costituisce uno dei criteri da prendere in considerazione per stabilire se sussista una violazione sufficientemente caratterizzata del diritto comunitario, imputabile ad un organo giurisdizionale supremo, che si aggiunge a quelli che la Corte aveva già formulato nella citata sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame, e nella successiva giurisprudenza, riguardo alla responsabilità dello Stato per fatto del legislatore o dell’amministrazione. Benché la Corte si sia astenuta dallo stabilire una gerarchia tra tali diversi criteri, nei confronti di alcuni dei quali nutro riserve circa la pertinenza, considero che quello riguardante l’obbligo di rinvio pregiudiziale rivesta un’importanza particolare.
Per stabilire, infatti, se l’errore di diritto di cui trattasi sia scusabile o inescusabile ( permanendo, a mio avviso, tale elemento il criterio centrale attorno al quale si dispongono gli altri criteri), occorre prestare particolare attenzione all’atteggiamento tenuto dall’organo giurisdizionale supremo considerato rispetto all’obbligo di rinvio ad esso incombente”[59].
L’orientamento del Consiglio di Stato, in quanto giudice del rinvio, non ha rispettato i propri obblighi. Si potrebbe intravvedere una qualche volontà di sottrarsi ai precisi dicta della Corte: attraverso la via della violazione manifesta degli obblighi incombenti sul Consiglio di Stato, ai sensi e agli effetti dell’art. 267 TFUE, si potrebbe, invero, giungere alla conclusione che debba ammettersi il ricorso ex art. 111 Cost., anche al fine di consentire alla Corte di cassazione di apprezzare fino in fondo la gravità della violazione e di richiedere l’intervento chiarificatore della Corte di giustizia.
Nell’ordinanza in esame si osserva, precisamente, che “La tesi secondo cui l’unico rimedio praticabile in caso di violazione del diritto dell’Unione sarebbe quello del risarcimento del danno per responsabilità dello Stato (v. sub paragrafo 31) non sembra condivisibile, trattandosi di un rimedio indiretto e succedaneo, nonché sottoposto a rigide condizioni (Corte di giustizia, 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler; 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa; 24 novembre 2011, C-379/10, Commissione c. Repubblica Italiana)”[60].
In altre parole, all’argomento invocato in senso opposto, ovvero che vi sarebbe comunque l’ulteriore rimedio risarcitorio modellato sulle soluzioni adottate nei casi Köbler e Traghetti del Mediterraneo-Commissione c. Italia, si dovrà giocoforza rispondere che il rimedio risarcitorio per fatto dello Stato-Giudice (a prescindere dalla sua difficile azionabilità) comporterebbe comunque un vulnus al principio dell’effettività che richiede, in linea di massima (e se possibile) il soddisfacimento dell’interesse specifico azionato, ovvero il riconoscimento a favore della parte vittoriosa cui essa aspira.
Come osserva la Corte di giustizia, “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato”[61]. All’obbligo posto a carico dello Stato, corrisponde, invero, il diritto del singolo, secondo la nota impostazione espressa nella sentenza Van Gend en Loos, che ben sottolinea la natura di soggetto optimo jure del cittadino dell’Unione e l’esistenza di diritti in suo favore anche in assenza di espressa previsione normativa, come contropartita di obblighi imposti ad altri soggetti (singoli, Stati membri, istituzioni comunitarie)[62].
Il secondo aspetto, nel ragionamento della Corte, non poteva che essere quello dell’effettività della tutela di tali diritti che dev’essere garantita dai giudici nazionali. In questa prospettiva, il richiamo alla giurisprudenza Simmenthal [63] e Factortame [64] è necessario e sufficiente alla Corte per ritenere che “sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro”[65].
La tutela completa ed effettiva di una posizione giuridica soggettiva, insomma, presuppone sempre la risarcibilità del danno ingiusto. La capacità di reintegrare, quanto meno in via subordinata per equivalente, la posizione giuridica lesa da un comportamento illecito è propria di ogni ordinamento giuridico che possa o voglia dirsi effettivo. E posto che la garanzia della piena efficacia delle norme comunitarie spetta ai giudici nazionali, a loro incombe pure, in virtù dell’art. 4.3 TUE sul principio di leale cooperazione, l’obbligo di eliminare le conseguenze illecite di una violazione del diritto comunitario. Come osserva, precisamente, la Corte di Cassazione, il rimedio del risarcimento del danno è subordinato a condizioni e presupposti particolarmente rigorosi, di difficile azionabilità, risultando in ultima analisi “succedaneo”.
Nelle materie coperte dal diritto dell’Unione, invero, è difficile negare che vi sia una sorta di sconvolgimento nei rapporti interni fra poteri, delineati tradizionalmente in termini di separazione e di indipendenza, a favore dei giudici. Questi ultimi, infatti, in virtù del primato del diritto dell’Unione e del principio dell’effettività della tutela delle posizioni giuridiche soggettive create dallo stesso, sono legittimati a sindacare atti del legislatore e dell’amministrazione rispetto ai quali, prima, non avevano alcuna competenza e potere[66].
In quanto giudici dell’Unione di diritto comune, poi, sono investiti (conformemente a quanto previsto dall’art. 19 TUE) della fondamentale funzione di garantire la piena effettività dell’ordinamento comunitario e possono persino creare nuovi rimedi processuali o adattare quelli esistenti al soddisfacimento delle nuove esigenze imposte dal diritto UE.
L’inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, comma 3, TFUE, se di per sé non è sempre indicativa di una violazione grave e manifesta[67], può in talune circostanze essere espressione di siffatta violazione, specie nel caso in cui la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia sia (manifestamente) ignorata.
D’altro canto, lo stesso “storico” precedente CILFIT (sentenza già ricordata, resa proprio su rinvio della Cassazione) insegna che qualunque dottrina sull’acte clair non è idonea a fondare il mancato rinvio ex art. 267 TFUE in assenza di chiare indicazioni provenienti dalla stessa Corte di giustizia[68].
In determinate circostanze (assenza di adeguata motivazione alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia), il mancato rinvio assurge da solo a violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea ed è suscettibile di idonea censura ex art. 111 Cost. Non è un caso, ad esempio, se la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia contestato all’Italia l’inosservanza, senza motivazione alcuna, dell’obbligo di rinvio ex art. 267 TFUE[69].
La violazione, da parte del giudice nazionale, dell’obbligo di adeguarsi e di recepire in toto i principi affermati dalla Corte di giustizia a seguito di rinvio ex art. 267 TFUE costituisce una violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea ed è in grado di mettere a repentaglio le stesse basi su cui si fonda l’ordinamento comunitario, ovvero la diretta efficacia e il primato.
Come ricorda la Corte “una violazione del diritto dell’Unione è sufficientemente qualificata allorché è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia (sentenze del 30 settembre 2003, Köbler, C‑224/01, EU:C:2003:513, punto 56; del 25 novembre 2010, Fuß, C‑429/09, EU:C:2010:717, punto 52, e del 28 luglio 2016, Tomášová, C‑168/15, EU:C:2016:602, punto 26)” [70].
In conclusione, la violazione grave e manifesta del diritto dell’UE compiuta dal Consiglio di Stato in relazione alla giurisprudenza comunitaria e all’obbligo di rinvio non può considerarsi entro i c.d. limiti interni della giurisdizione del giudice amministrativo. Oltre ad involgere la responsabilità dello Stato di fronte all'Unione e agli altri Stati membri, non può non essere sindacabile ex art. 111 Cost. sotto il profilo del diritto ad una tutela effettiva e del giusto processo.
Poiché “risulta da una giurisprudenza costante che la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite principale”[71], il Consiglio di Stato ha posto in essere una violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea.
Basterebbe solo ricordare che, secondo la Corte di giustizia, “In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l'inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l'illegittimità del comportamento in questione”[72]. Ricorda, ancora, la Corte che “una violazione manifesta del diritto comunitario vigente viene commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia”[73]. Il che, sotto altro profilo, e più propriamente sulla scorta dell’ammissibilità del ricorso ex art. 111, c. 8, Cost., dà anche la misura di quanto la decisione del Consiglio di Stato sia frutto di uno stravolgimento delle norme di riferimento e degli obblighi derivanti da quel fondamentale meccanismo di cooperazione fra giudice nazionale e Corte di giustizia, rappresentato dall’art. 267 TFUE, vera “chiave di volta” dell’intero sistema[74].
7. Considerazioni conclusive e prospettive
L’ordinanza delle Sezioni Unite di rinvio alla Corte di giustizia, senz’altro animata da un apprezzabile souci d’éfficacité in favore dell’effettività del diritto dell’Unione, è del tutto coerente e conforme agli obblighi derivanti al giudice nazionale dal Trattato (art. 19, par. 2, TUE).
L’individuazione delle ragioni in virtù delle quali deve ammettersi il ricorso ex art. 111, comma 8, Cost. per violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea da parte del Consiglio di Stato è perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte, nella quale il principio di autonomia procedurale degli Stati membri non trova applicazione nel caso in cui la norma procedurale renda impossibile o anche solo particolarmente difficile l’esercizio del diritto di derivazione UE, né tanto meno laddove la norma processuale interna riservi un diverso trattamento (sfavorevole) alla situazione giuridica con causa petendi comunitaria in violazione, come già si è ricordato, del principio dell’equivalenza.
Questo avverrebbe nel caso di una prassi giurisprudenziale in virtù della quale, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto nazionale, si ammettesse il ricorso per cassazione per difetto di potere giurisdizionale avverso le sentenze del Consiglio di Stato, responsabile di aver invaso le attribuzioni del legislatore, mentre, nelle controversie aventi ad oggetto l’applicazione del diritto dell’Unione, tale straripamento sarebbe pregiudizialmente irrilevante, con violazione, pure, del diritto al giudice di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE.
Questa conclusione, invero, non può essere rimessa in discussione dal tradizionale principio di autonomia procedurale degli Stati membri, particolarmente in un settore in cui una specifica disciplina di diritto dell’Unione (direttive n. 665/89 e 66/77) ha inteso uniformare le condizioni processuali di tutela.
Il disconoscimento, da parte del giudice amministrativo, degli obblighi derivanti dalla giurisprudenza comunitaria e dalla sua vincolatività, estrinsecantesi nell’immotivata elusione dell’obbligo di rinvio (come nel caso di specie) costituisce una violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea suscettibile di un rimedio risarcitorio “alla Köbler”.
Ciò, tuttavia, non impedisce alla Corte regolatrice, in omaggio al principio dell’effetto utile dell’effetto diretto, di fare tutto il possibile per garantire ai privati interessati il c.d. bene specifico della vita cui ambiscono, se del caso preservando l’accesso al Giudice della nomofilachia in nome del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Non resta che attendere e confidare nell’intervento chiarificatore della Corte di giustizia e seguirne il prosieguo avanti al giudice nazionale.
Il presente contributo è frutto della condivisione di opinioni dei due autori, in particolare, la premessa e le considerazioni conclusive; i paragrafi da 2 a 4 sono da attribuire a Paolo Piva, mentre i paragrafi 5 e 6 a Bruno Nascimbene (una precedente versione è stata pubblicata in Jus, n. 5/2020, qui aggiornata e modificata).
[1] Nel presente scritto l’aggettivo “comunitario” viene usato come equivalente di “dell’Unione” (secondo una prassi in uso nella dottrina).
* Già professore ordinario di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea.
** Professore associato di diritto dell’Unione europea.
[2] Sul tema, oltre al recente contributo di B. Nascimbene, La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), in Eurojus, 2020, cfr. nella manualistica recente, L. Daniele, Diritto dell’Unione europea, 7° ed., Milano, 2020, pp. 326 ss.; G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, a cura di P. De Pasquale e F. Ferraro, II ed., Napoli, 2020,, pp. 231 ss.; U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 6° ed., Bari, 2020, pp. 109, 450 ss.; R. Adam, A. Tizzano, Manuale di Diritto dell’Unione europea, III ed., Torino, 2020, pp. 921 ss., nonché K. Lenaerts, I. Maselis, K. Gutman, Eu Procedural Law, Oxford, 2014, pp. 48 ss. Molto appropriate, in prospettiva storica, anche le considerazioni di F. Jacobs, The Role of National Courts and of the European Court of Justice in Ensuring the Uniform Application of Community Law, in Studi in onore di Francesco Capotorti, II Tomo, Milano, 1999, pp. 175 ss. Per i commenti all’ordinanza si vedano P. Baratta, E’ censurabile per Cassazione la violazione del diritto sovranazionale imputabile al giudice amministrativo?, in www.apertacontrada.it; S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione «fuori contesto»: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Federalismi.it, 2020; R.Bin, E’ scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in Federalismi.it, 2020; M. Clarich, Giurisdizione: "Partita a poker" tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Civile NTplus.ilsole24ore.com del 14 ottobre 2020; G. Costantino, A. Carratta, G. Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione giustizia, 2020; F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 2020; Ginevra Greco, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione ?, in Eurojus, 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista. Si vedano inoltre le relazioni di E. Cannizzaro, M. Luciani, A. Carratta, G. Ruffini, A. Travi, F. Francario tenute al webinar del 6 novembre 2020 “Limiti esterni di giustizia e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE (a proposito di Cass. S.U. n. 19598/2020)”: la registrazione delle relazioni e interventi è in questa Rivista, 2020; le relazioni, in particolare quella di C. Curti Gialdino, al webinar del 13 novembre 2020 “Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del Giudice delle leggi, tra Corti europee e giudici comuni” : la registrazione delle relazioni e interventi è in Federalismi.it, 2020); le relazioni di L. Daniele, B. Sassani, A. Police al webinar del 18 novembre 2020 “La «querelle» sulla definizione dei «motivi inerenti la giurisdizione» ai sensi dell’art. 111, comma 8 Cost. davanti alla Corte UE (sull’ordinanza Cass., S.U. n. 19598/2020): la registrazione delle relazioni e interventi è in https://uniroma2.sharepoint.com/sites/FormazionePostLaureamJuris/Documenti%20condivisi/General/Webinar%2018.11.2020.mp4.
[3] Sentenza del 24 giugno 2019, spec. punto 49, in ECLI:EU:C:2019:531.
[4] Cfr. il par. 46 dell’ordinanza.
[5] Anche se non sempre, come si illustrerà oltre.
[6] Sulla sentenza della Corte cost. si veda oltre, par. 4.
[7] Sul tema, si veda, fra gli altri, R. Medhi, L’autonomie institutionnelle et procédurale et le droit administratif, in J.-B. Auby, J. Dutheil De La Rochère (sous la direction de), Droit Administratif Européen, Bruxelles, 2007, pp. 685 ss ; per rilievi di carattere generale A.M. Romito, La tutela giurisdizionale nell’Unione europea: tra effettività del sistema e garanzie individuali, Bari, 2015, pp. 127 ss.
[8] Per un interessante caso di applicazione del principio di equivalenza, si vedano le sentenze del 26 gennaio 2010, Transportes Urbanos, C-118/08, ECLI:EU:C:2010:39 e del 22 giugno 2010, Aziz Melki (C-188/10) e Sélim Abdeli (C-189/10), ECLI:EU:C:2010:363. Sul tema si permette di ricordare, fra gli altri, P. Piva, Il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale nel Diritto dell’Unione Europea, Napoli, 2012, in particolare, pp. 47 ss. Sul principio di equivalenza, si veda, fra gli altri, E. Cannizzaro, Effettività del Diritto dell’Unione e rimedi processuali nazionali, in Il Dir.Un.Eur., 3/2013, pp. 671 ss. Sul tema della leale cooperazione, si vedano, fra gli altri, P. Mori, Quelques réflections sur la confiance réciproque entre Etats membres: un principe essentiel de l’Union européenne, in Liber Amicorum Antonio Tizzano, Torino, 2018, pp. 651 ss.; U. Villani, Istituzioni cit., pp. 108 ss.
[9] Cfr. il par. 60 dell’ordinanza.
[10] Sentenza del 6 ottobre 1982, C-283/81, ECLI:EU:C:1982:335.
[11] Sentenza del 4 luglio 2013, C-100/12, ECLI:EU:C:2013:448.
[12] Sentenza del 5 aprile 2016, C‑689/13, ECLI:EU:C:2016:199.
[13] Sentenza del 21 dicembre 2016, C- 355/15, ECLI:EU:C:2016:988.
[14] Sentenza del 5 settembre 2019, C-333/18, ECLI:EU:C.2019:675.
[15] Sentenza del 30 settembre 2003, C-224/01, ECLI:EU:C:2003:513.
[16] Sentenza del 13 giugno 2006, C-173/03, ECLI:EU:C:2006:391.
[17] Per la quale, si rinvia a F. Auletta, S. Boccagna, N. Rascio (a cura di ), La responsabilità civile dei magistrati. Commentario alle leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, Bologna, 2017.
[18] Sul tema, cfr. M. Rainey, C. Dwyer , A. Rose, European Union, in J. Davey, A. Gatenby (eds.),The Government Procurement Law, 8th ed., London, 2020, pp. 74 ss. Si veda altresì C. Benetazzo, Ricorso incidentale, ordine delle questioni e principio di effettività, Torino, 2016, pp. 129 ss. Si devono segnalare anche le forti critiche della dottrina processualamministrativistica rinvenibile, fra gli altri, in R. Villata, Osservazioni in tema di incidenza del diritto comunitario sul sistema italiano di giustizia amministrativa, in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, pp. 1217 ss.
[19] Sentenza del 19 giugno 2003, C-249/01, ECLI:EU:C:2003:359, punto 18.
[20] Sentenza Hackermüller cit., punto 27.
[21] Sentenza del 4 luglio 2013, C-100/12, ECLI:C:2013:448, punti 30-34.
[22] Sentenza BTG cit., punto 34.
[23] Sentenza Lombardi cit., punto 27.
[24] Sentenza Lombardi cit., punto 34.
[25] Così G. Tropea, Il Golem europeo cit., loc. cit. che richiama in tal senso L. Bertonazzi, La giurisprudenza europea in tema di ricorso incidentale escludente, in Dir. proc. amm., 2020, p. 543.
[26] Sentenza dell’11 maggio 2017, C-131/16, Archus, ECLI:EU:C:2017:358, punto 50 ove si afferma che “ gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalità che spetta agli Stati membri determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”.
[27] Cons. Stato, III, sentenza del 7 agosto 2019, n. 5606.
[28] Come si è osservato puntualmente, “il caso di specie s’inscrive a pieno titolo in questo filone, in quanto il Consiglio di Stato nega la possibilità di ravvisare un interesse legittimo se l’interesse è soltanto strumentale alla ripetizione della gara e ritiene che in tal caso si sia in presenza di un interesse di mero fatto”: in questi termini F. Francario, Quel pasticciaccio brutto cit., loc. cit.
[29] Cfr. i rifer. alla nota 10.
[30] Punto 17 della sentenza CILFIT cit.
[31] Cfr. ex multis, Cass. S.U., sentenza del 15 luglio 2003, n. 11091.
[32] Si veda l’Introduzione di M. A. Sandulli, La Corte di Cassazione. Sentenza n. 30254/2008, le Sezioni Unite in tema di pregiudiziale amministrativa, in Federalismi.it, 2009. Sul tema, si veda pure F. Cortese, La questione della pregiudizialità amministrativa. Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo tra diritto sostanziale e processuale, Padova, 2007, passim.
[33]Cfr. la pronuncia S.U. n. 30254/08 cit.
[34] Cfr. la pronuncia S.U. n. 2242/2015 cit.
[35] Cfr. la pronuncia S.U. n. 31226/2017 cit.
[36] Cfr. fra le altre Cass. S.U., 23 aprile 2020, n. 8096, nonché S.U. 16 maggio 2019, n. 13243 in cui, analogamente, un ricorso ex art. 111 Cost. avverso la pronuncia del Consiglio di Stato che aveva accolto il ricorso incidentale escludente contro l’insegnamento della Corte di giustizia era stato respinto. Sulla tematica si veda anche G. Greco, La violazione cit., loc. cit.
[37] Cfr. il punto 12 del “Considerato in diritto”; per le citazioni successive si vedano i punti 13-17.
[38] Cfr. fra le altre Cass. S.U., 15 luglio 2003, n. 11091; S.U. 4 febbraio 2014, n. 2403 che richiama molti precedenti in materia.
[39] Cfr. il punto 16 del “Considerato in diritto”.
[40] Cfr. la sentenza Köbler cit. Si vedano pure la sentenza Traghetti del Mediterraneo cit., nonché 24 novembre 2011, C- 379/10, Commissione c. Repubblica italiana, ECLI:EU:C:2011:775.
[41] Cfr. G. Costantino, A. Carratta, G. Ruffini, Limiti esterni cit., loc. cit.
[42] In questi termini V. Andrioli, Commento al Codice di procedura civile, Vol. II, III ed. riveduta, Napoli, 1956, p. 362.
[43] Di questo profilo, peraltro, la Corte di Cassazione è perfettamente consapevole: cfr. punto 45 dell’ordinanza. Anche il tema della revocazione ex art. 395 c.p.c. viene sollevato dalla sentenza n. 6/18 in modo poco persuasivo: cfr. la stessa ordinanza, par. 37.
[44] Su una pretesa irriducibilità del contrasto, si veda F. Deodato, Nota a Corte costituzionale – Sentenza 24 giugno 2018, n. 6 e Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili, Sentenza 29 dicembre 2019, n. 31226, in Il diritto amministrativo, Rivista giuridica online; più recentemente R. Bin, E’ scoppiata cit., loc. cit.; B. Caravita, La Cassazione cit., loc. cit.; M. Clarich, Giurisdizione cit., loc. cit. (che si esprime in termini di “arbitraggio” rispetto all’invocato intervento della Corte). Sembra utile ricordare, peraltro, che già nel passato la Corte di giustizia si occupò di “effettività” della giurisdizione interna (precisamente di quella italiana, come nel caso in esame), ovvero di “tutela diretta e immediata”, venendo in rilievo la distinzione, nel diritto italiano, appunto, fra diritti soggettivi e interessi legittimi, e quindi la diversa competenza del giudice interno, civile o amministrativo. La Corte di giustizia, 19 dicembre 1968, 13-68, Salgoil, ECLI:EU:C:1968:54, osserva, precisamente, che le norme comunitarie “obbligano le autorità e in particolare i giudici competenti degli Stati membri a proteggere gli interessi dei singoli contro eventuali violazioni di dette disposizioni, garantendo loro la tutela diretta e immediata dei loro interessi, e ciò indipendentemente dal rapporto intercorrente, secondo il diritto nazionale, fra detti interessi e l’interesse pubblico a cui si riferisce la questione”, sottolineando quindi che “Spetta all’ordinamento giuridico nazionale lo stabilire quale sia il giudice competente a garantire detta tutela e, a tale effetto, il decidere come debba qualificarsi la posizione individuale in tal modo tutelata”.
[45] Cfr. il punto 5 della sentenza Rewe del 16 dicembre 1976, cit. infra.
[46]Sentenze del 16 dicembre 1976, rispettivamente 33-76, ECLI:EU:C:1976:188 e 45-76, ECLI:EU:C:1976:191.
[47] Sentenza del 27 febbraio 2003, C-327/00, Santex SpA e Unità Socio Sanitaria Locale n. 42 di Pavia, ECLI:EU:C:2003:109, punto 66, nonché più recentemente, a proposito della “saga” delle specializzazioni mediche, 19 maggio 2011, Iaia e altri, C-452/09, ECLI: EU: C: 2011: 323.
[48] In questi termini, S. Fantini, H. Simonetti, Le basi del diritto dei contratti pubblici, 2° ed., Milano,2019, pp. 153-154.
[49] Cfr. il punto 41.1 dell’ordinanza in esame.
[50] Nella giurisprudenza successiva, il principio di effettività è emerso come il limite preponderante, idoneo sia a sindacare efficacemente termini eccessivamente brevi (sentenza Grundig Italiana Spa di cui poco oltre), sia a creare veri e propri nuovi rimedi processuali (sentenze del 19 giugno 1990, Factortame, C-213/89, ECLI:EU:C:1990:257 e del 19 settembre 1996, Commissione c. Repubblica ellenica, C-236/95, ECLI:EU:C:1996:341).
[51] Sentenza del 24 settembre 2002, C-255/00, Grundig Italiana S.p.A. ECLI:EU:C:2002:525,punto 42, in cui la Corte ha osservato che “il diritto comunitario osta all'applicazione retroattiva di un termine di decadenza più breve e, eventualmente, più restrittivo per l'attore del termine di ricorso precedentemente applicabile alle domande di rimborso di imposte nazionali incompatibili con il diritto comunitario, quando non è garantito un periodo transitorio sufficiente durante il quale le domande vertenti su importi versati prima dell'entrata in vigore del testo che introduce questo nuovo termine possono ancora essere presentate in osservanza del vecchio termine. Nell’ipotesi di sostituzione di un termine di decadenza triennale a un termine di prescrizione quinquennale, un periodo transitorio di 90 giorni dev'essere considerato insufficiente e il periodo transitorio minimo tale da non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto a un siffatto rimborso dev'essere valutato pari a sei mesi”.
[52] Sentenza del 29 luglio 2019, Hochtief Solutions, C-620/17, ECLI:EU:C:2019:630,punto 49.
[53] Cfr. J. Mertens De Wilmars, L’efficacité des différentes techniques nationales de protection juridique contre les violations du droit communautaire par les autorités nationales et les particuliers, Cah. Dr. Eur. ,1982, pp. 401 ss.
[54] Questa particolare espressione, “problèmes de la seconde géneration”, è di J. Mertens de Wilmars (già giudice e presidente della Corte di giustizia), come ricorda Th. Koopmans, Problemen van de tweede generatie, in Liber Amicorum J. Mertens de Wilmars, Antwerpen, 1982, pp. 121 ss.
[55] Conclusioni dell’avvocato generale Kokott del 9 gennaio 2008, C-268/06, Impact, ECLI:EU:C:2008:2,punto 50. Cfr. anche la sentenza della Corte del 15 aprile 2008, Impact, C-268/06, ECLI:EU:C:2008:223. È significativo, tra l’altro, come nella medesima pronuncia, con riguardo alle norme interne sulla competenza, si precisi altresì che “tali esigenze di equivalenza e di effettività, espresse attraverso l’obbligo generale per gli Stati membri di garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza del diritto comunitario, valgono anche quanto alla designazione dei giudici competenti a conoscere delle azioni fondate su tale diritto. Infatti, il mancato rispetto delle suddette esigenze sotto tale profilo è, al pari di un inadempimento delle medesime sotto il profilo della definizione delle modalità procedurali, tale da ledere il principio di tutela giurisdizionale effettiva” (punti 47-48).
[56] In questi termini, fra le altre, Cass. S.U., 21 marzo 2017, n. 7157.
[57] Cfr., fra le altre, le sentenze Transportes Urbanos cit., nonchè Hochtief Solutions cit., e del 6 ottobre 2015, Orizzonte Salute, C- 61/14, ECLI:EU:C:2015:655.
[58] Cfr. il par. 58 dell’ordinanza.
[59] Cfr. i punti 69-71 delle conclusioni dell’11 ottobre 2005, ECLI:EU:C:2005:602.
[60] Cfr. il par. 52 dell’ordinanza.
[61] Cfr. il punto 35 della sentenza Köbler cit.
[62] Sentenza del 5 febbraio 1963, 26/62, ECLI:EU:C:1963:1.
[63] Sentenza del 9 marzo 1978, C-106/77, ECLI:EU:C:1978:49.
[64] Sentenza del 19 giugno 1190 cit.
[65] Punto 33 della sentenza Köbler cit.
[66] Per alcuni rilievi sul principio primato, ed effetti, cfr. G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea cit., pp. 231 ss., nonché pp. 263 ss.; R. Adam, A. Tizzano, Manuale cit., pp. 370 ss.
[67] Cfr. sentenza Köbler cit., punto 55. Precisa la Corte che si deve prendere in considerazione, in particolare, “ il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE”.
[68] Cfr. i rifer. alla nota 10.
[69] Cfr. la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 21 luglio 2015, Schipani e altri c. Italia. Sul tema si veda, recentemente, F. Ferraro, Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro , C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 139 ss. Sulla giurisprudenza della Corte EDU in argomento, con particolare riferimento al nostro Paese, cfr. B. Nascimbene, Le renvoi préjudiciel de l’article 267 TFUE et le renvoi prévu par la protocole no. 16 à la CEDH, in Annuaire de droit de l’Union Européenne, 2019, pp. 127 ss.
[70] Sentenza Hochtief Solutions cit., punto 43.
[71] Cfr. la sentenza del 5 ottobre 2010, Elchinov, C‑173/09, EU:C:2010:581, punto 29.
[72] In questi termini la sentenza del 5 marzo 1996, Brasserie du Pêcheur e Factortame, C-46/93 e C-48/93, ECLI:EU:C:1996:79, punto 57.
[73] Si veda la sentenza Traghetti del Mediterraneo cit., punto 35.
[74] Cfr. l’ordinanza in esame, par. 55, con i riferimenti alla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario.
(nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 13 novembre 2020 n. 11814)
Enrico Zampetti
1. La vicenda in esame trae origine dalla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che ha dichiarato cessato dalla carica di consigliere uno dei membri togati del Consiglio in ragione del suo sopravvenuto collocamento a riposo. Il Consigliere dichiarato cessato ha così proposto ricorso avverso la suddetta delibera contestandola sotto vari profili e, in particolare, per il fatto che la cessazione sia stata dichiarata prima del decorso del termine quadriennale di durata della carica[i], pur in assenza di una previsione che includa espressamente tra le cause di cessazione il sopravvenuto collocamento a riposo del magistrato.
2. Con la sentenza in esame, il T.A.R. del Lazio dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo il ricorso proposto dal consigliere togato, assumendo che sulla controversia abbia giurisdizione il giudice ordinario. A sostegno della conclusione, la decisione richiama il consolidato orientamento in materia di elezioni amministrative, secondo il quale al giudice ordinario sarebbero devolute le controversie “afferenti questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati” in quanto relative a “diritti soggettivi di elettorato”, mentre al giudice amministrativo sarebbero devolute quelle “afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali” in quanto relative a “posizioni di interesse legittimo”[ii]. Più esattamente, una volta esauritasi la fase elettorale, all’amministrazione spetterebbe soltanto il compito di verificare la sussistenza o meno di eventuali cause d’incompatibilità, ineleggibilità o decadenza, senza alcun esercizio di poteri autoritativo-discrezionali, sicché la pretesa ad essere dichiarato eletto, ovvero a mantenere la carica, afferirebbe pacificamente ad una posizione di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Tuttavia, nel richiamare il citato orientamento, la stessa sentenza sottolinea che nel caso di specie le operazioni elettorali riguarderebbero la costituzione di un organo amministrativo di rilevanza costituzionale e non di un organo politico, e che, sempre nel caso di specie, non verrebbe propriamente in rilievo un’ipotesi di ineleggibilità, incompatibilità o decadenza, ma soltanto un caso di “cessazione dalla carica” per il venir meno di un requisito per la conservazione dell’ufficio[iii]. Cionondimeno, il T.A.R. ritiene che i principi di riparto affermati per l’elezione degli organi politici siano applicabili anche all’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura, in quanto, pur non venendo in considerazione un’ipotesi di ineleggibilità, incompatibilità o decadenza, i poteri concretamente esercitati nei confronti del ricorrente non “possono definirsi di natura autoritativa”, ma devono “ricondursi nell’ambito delle attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica”, con la conseguenza che “il petitum sostanziale del giudizio attiene sempre alla tutela di un diritto soggettivo, poiché la verifica svolta dal CSM non è idonea a far degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato”[iv].
Ad ogni modo, la decisione non chiarisce esattamente su quale norma o principio si fondi il requisito che, nell’ottica del provvedimento impugnato, andrebbe necessariamente a correlare il mantenimento della carica allo status di magistrato in servizio. Deve, pertanto, desumersi che, ai fini della questione di giurisdizione, il T.A.R. ritenga di poter prescindere dall’esatta individuazione del fondamento giuridico del requisito in esame, sul presupposto che l’esistenza o meno di un’esplicita previsione che lo contempli potrebbe soltanto implicare una diversa conformazione (dei contenuti) del diritto al mantenimento della carica, ma non mutarne la natura da diritto soggettivo a interesse legittimo.
3. Sotto altro profilo, la sentenza esclude che la sussistenza della giurisdizione amministrativa possa desumersi dall’articolo 135 del codice del processo amministrativo, il quale, nel prevedere le ipotesi di competenza funzionale del TAR Lazio, alla lettera a) vi include espressamente le “controversie relative ai provvedimenti riguardanti i magistrati ordinari adottati ai sensi dell’articolo 17, primo comma, della legge 24 marzo 1958 n. 195”[v]. La decisione sottolinea al riguardo che tutte le ipotesi di competenza funzionale individuate dalla norma sono previste “nel presupposto che la relativa controversia sia comunque sottoposta, in base agli ordinari criteri, alla giurisdizione di questo giudice”. Poiché si limita a contemplare un’ipotesi di competenza inderogabile senza al contempo introdurre un caso di giurisdizione esclusiva, la norma radicherebbe la giurisdizione amministrativa solo al cospetto di provvedimenti correlati a posizioni d’interesse legittimo, con esclusione dei casi, come quello in esame, in cui il provvedimento del C.S.M. venga a incidere su un diritto soggettivo.
4. Al di là della sua incidenza o meno sul profilo della giurisdizione, l’assenza di una norma che richieda espressamente lo status di magistrato in servizio tra i requisiti per mantenere la carica di consigliere costituisce, invero, l’aspetto centrale della questione di merito sulla quale dovrà pronunciarsi il giudice provvisto di giurisdizione. Non è certamente questa la sede per affrontare una questione così rilevante e complessa, ma può osservarsi che la sua soluzione richiede essenzialmente di chiarire se, in assenza di un’apposita norma che disciplini compiutamente la fattispecie, il collegamento tra status di magistrato in servizio e mandato consiliare debba mantenersi per tutta la durata dell’incarico, alla stregua di un principio generale desumibile dall’ordinamento nel suo complesso; o se, invece, sia necessaria un’espressa previsione normativa che prescriva l’attualità del rapporto di servizio per l’intero svolgimento dell’incarico e non solo al momento dell’elezione, sul presupposto che non sia possibile desumere aliunde un principio generale che correli la cessazione della carica al collocamento a riposo. Nel merito della questione l’ulteriore aspetto rilevante riguarda l’esatta qualificazione del C.S.M., a fronte dei diversi inquadramenti che ora tendono a valorizzarne la funzione di “autogoverno” della magistratura, ora a porne in risalto quella di garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura stessa[vi].
[i] È appena il caso di sottolineare che, ai sensi dell’art. 104, co.6, Cost., “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili” (cfr. anche art. 32 l. 24 marzo 1958 n. 195).
[ii] Ex multis, Cons. St., sez. V, 15 luglio 2013 n. 3826; Cons. St., sez. V, 11 giugno 2013 n. 3211; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 7 novembre 2018 n. 10756.
[iii] Come noto, la legge 24 marzo 1958 n. 195 “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura” prevede le cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza dalla carica di consigliere. Nel recare la disciplina dell’elettorato attivo e passivo, l’articolo 24 stabilisce che non sono eleggibili i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni non esercitino funzioni giudiziarie o siano sospesi dalle medesime”, gli uditori giudiziari e i magistrati di tribunale che “al momento della convocazione delle elezioni non abbiano compiuto almeno tre anni di anzianità nella qualifica”; i magistrati che “al momento della convocazione delle elezioni abbiano subito sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento, salvo che si tratti della sanzione della censura e che dalla data del relativo provvedimento siano trascorsi almeno dieci anni senza che sia seguita alcun’altra sanzione disciplinare”; i magistrati che abbiano prestato servizio “presso l’Ufficio studi o presso la Segreteria del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”; i magistrati che “abbiano fatto parte del Consiglio superiore della magistratura per la cui rinnovazione vengono convocate le elezioni”. A sua volta, nel prevedere le ipotesi di incompatibilità, l’articolo 33 sancisce che i componenti del Consiglio “non possono far parte del Parlamento, dei consigli regionali, provinciali e comunali, della Corte costituzionale e del governo”; che i componenti eletti dal Parlamento, finché sono in carica, “non possono essere iscritti negli albi professionali. Non possono essere titolari di imprese commerciali né far parte di consigli di amministrazione di società commerciali. Non possono altresì far parte di organi di gestione di unità sanitarie locali, di comunità montane o di consorzi, nonché di consigli di amministrazione o di collegi sindacali di enti pubblici, di società commerciali e di banche (…)”. Con specifico riferimento ai casi di decadenza dalla carica, l’articolo 34 prevede che “i componenti del Consiglio superiore decadono di diritto dalla carica se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo” e che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento”.
[iv] Più precisamente, la sentenza osserva che, nonostante la veste provvedimentale assunta dall’impugnata delibera del CSM, la relativa controversia deve essere comunque conosciuta dal giudice ordinario, in quanto, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, devono ritenersi “devolute al giudice ordinario le controversie concernenti l'ineleggibilità, la decadenza e l'incompatibilità, in quanto volte alla tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato passivo” anche nei casi in cui “la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche in tale ipotesi la decisione verte non sull'annullamento dell'atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all'elettorato attivo o passivo” (Cass. civ., sez. un., ord. 6 aprile 2012 n. 5574).
[v]Ai sensi dell’articolo 17, primo comma, l. n. 195 del 1958, come richiamato dall’articolo 135, lettera a), c.p.a., “tutti i provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della Repubblica controfirmato dal Ministro, ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per la grazia e giustizia”.
[vi] Sui termini della questione, R. Russo, L’affaire Davigo. Semel iudex semper iudex? e S. Amore, Collocamento in quiescenza del magistrato ordinario e cessazione del mandato elettivo al C.S.M., entrambi in questa Rivista (12 ottobre 2020); N. Rossi, Sta per nascere al CSM un caso Davigo?, in questionegiustizia.it (31 luglio 2020).
Digital package: verso la regolamentazione delle piattaforme online
di Elisa Arbia
sommario: 1. Introduzione. – 2. I mercati digitali. – 3. Attuale quadro normativo. – 4. Verso una regolamentazione dei gatekeeper: il Digital Package – 4.1. Piattaforme come canali per la diffusione di contenuti, beni e servizi illeciti – 4.2. Regolamentazione ex ante – 5. Considerazioni finali
1. Introduzione
A partire dall’inizio del XXI secolo abbiamo assistito allo sviluppo e diffusione delle grandi piattaforme online quali potenti mezzi per sfruttare appieno la tecnologia internet. Attualmente più di un milione di imprese europee raggiunge i propri clienti attraverso tali piattaforme , e si stima che circa il 60% dei consumi privati e il 30% dei consumi pubblici di beni e servizi legati all'economia digitale complessiva siano processati attraverso intermediari online[1].
Se da una parte, come accade sempre nelle economie di mercato, le imprese pioniere sono state premiate con l'acquisizione di un solido potere di mercato e dei relativi profitti, dall’altra il mondo digitale presenta delle specificità che rendono tale potere difficile da contrastare. In generale, la principale peculiarità di queste piattaforme è quella di creare, a partire dalle proprie competenze di base, interi ecosistemi in cui sono in grado di controllare l’accesso e la permanenza sul mercato delle imprese e indirizzare le scelte dei consumatori.
La crescente intermediazione nelle transazioni commerciali da parte di queste piattaforme, come si vedrà nel proseguo, combinata con forti effetti indiretti di rete, e alimentata dai vantaggi competitivi estratti dallo sfruttamento dei dati, porta ad una sempre maggiore dipendenza delle imprese dalle piattaforme online, che finiscono per operare quasi come "guardiani"(c.d. gatekeepers) dei mercati e dei consumatori.
Non a caso, in dottrina, si è parlato delle piattaforme online non solo come gatekeepers ma anche di veri e propri “stati nazionali”[2]:“ Nella complessità dei problemi di governance che devono affrontare, le grandi piattaforme assomigliano agli stati nazionali. Con oltre 1,5 miliardi di utenti, Facebook supervisiona una "popolazione" più grande di quella cinese. Google gestisce il 64% delle ricerche online negli Stati Uniti e il 90% di quelle in Europa, mentre Alibaba gestisce più di 1 trilione di yuan (162 miliardi di dollari) di transazioni all'anno e rappresenta il 70% di tutte le spedizioni commerciali in Cina. Le piattaforme online di queste dimensioni controllano sistemi economici più grandi di molte economie nazionali (…)”.
È evidente, allora, come la pressione sulle autorità di concorrenza e sui legislatori europei sia sempre più forte, e i tempi potrebbero essere maturi per una prima vera regolamentazione dei mercati digitali, in linea, peraltro, con le priorità europee individuate dalle linee guida politiche tracciate dal presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen[3].
Il Digital Service Act Package[4], atteso per i primi di dicembre, è rivolto proprio a questo obbiettivo, nel tentativo di rafforzare il mercato unico per i servizi digitali e innalzare il livello di innovazione e concorrenza nell’orizzonte europeo online.
Dopo una breve disamina delle caratteristiche dei mercati digitali (paragrafo 2) il presente contributo intende fornire un quadro generale dell’attuale normativa europea (paragrafo 3), per poi illustrare la proposta al momento al vaglio della Commissione Europea (paragrafo 4).
2. I mercati digitali
I mercati digitali presentano una serie di caratteristiche comuni[5], destinate ad avere un impatto positivo su consumatori e imprese. Permettono una maggiore scelta e una più facile comparazione per i consumatori, che possono godere di prodotti innovativi; aiutano le imprese agevolando il commercio intra e transfrontaliero; facilitano l’accesso sul mercato di nuovi operatori. Senonché sono proprio queste caratteristiche a sollevare perplessità sotto un profilo concorrenziale e di tutela dei consumatori.
Si tratta, infatti, di mercati molto concentrati e trasparenti in cui è più facile monitorare le condotte dei concorrenti pervenendo a collusioni tacite e altre forme di coordinamento, facilitate altresì da un ampio uso di algoritmi che permettono l’adattamento alle condotte dei concorrenti anche attraverso meccanismi di riadeguamento automatico di prezzi.
Allo stesso tempo gli operatori dei mercati digitali possono godere di forti economie di scala ed effetti di rete alimentati dallo sfruttamento dei dati raccolti per mezzo di servizi per così dire “gratuiti”. Questi meccanismi, che in questa sede non è possibile approfondire, sono alla base di scenari c.d. “winner takes it all” o “winner takes the most”, in cui una volta acquisito il potere di mercato o, spesso, la dominanza, tale posizione è molto difficile da contrastare per gli altri operatori.
Il loop positivo è ben noto. Le piattaforme digitali collegano molte aziende con molti consumatori attraverso i loro servizi. A loro volta questi servizi permettono alla piattaforma di accedere a grandi quantità di dati, che possono essere sfruttati per migliorare ulteriormente i propri servizi o sviluppare nuovi servizi nei mercati adiacenti.
In questo scenario il successo di qualsiasi tentativo di sfidare un operatore consolidato nel mercato, c.d. incubent, dipenderà dalla capacità di un potenziale rivale di attrarre una massa critica di utenti e quindi di generare i propri effetti positivi di rete.
Alla luce del quadro sinora delineato pare lecito domandarsi in che modo sia possibile depurare le piattaforme online dei richiamati effetti distorsivi sul mercato, assicurando il corretto dipanarsi del gioco della concorrenza sia per i mercati digitali (al fine di assicurare che le piattaforme dominanti competano nel merito) che nel mercato digitale (al fine di assicurare che all’interno di queste piattaforme gli operatori non subiscano discriminazioni o limitazioni).
3. Attuale quadro normativo
Il quadro normativo attualmente in vigore è connotato da un approccio fortemente settoriale e viene lasciato agli ordinari strumenti in materia di tutela della concorrenza il compito di adattarsi ai nuovi scenari digitali.
Più nello specifico, la disciplina dei c.d. “information society service” i.e., internet service providers e intermediari online, ruota intorno alla c.d. Direttiva E-Commerce[6], adottata nel 2001 con lo scopo di rafforzare il mercato interno ponendo le basi per l’innovazione tecnologica attraverso una rafforzamento della fiducia dei consumatori nei confronti dei servizi digitali, migliorando la trasparenza e delineando i limiti alla responsabilità in capo agli information society service provider per quanto riguarda eventuali contenuti illeciti. Inoltre, la direttiva risponde alla finalità di armonizzare i principi che regolano la fornitura di servizi transfrontalieri.
Il quadro normativo è, poi, completato da una serie di strumenti legislativi, soft law non vincolanti, e forme di cooperazione facoltativa, che si rivolgono non solo alla tutela dei consumatori ma anche a profili inerenti all’utilizzo dei mercati digitali come nuovi canali per la Commissione di condotte illecite e, in particolare la diffusione di contenuti, beni e servizi illeciti[7].
Importante aggiornamento è rappresentato dal Regolamento sulla correttezza trasparenza nelle relazioni tra piattaforme online e imprese, c.d. P2B Regulation[8] in vigore da luglio 2019. Il regolamento contribuisce al corretto funzionamento del mercato interno stabilendo norme intese a garantire che gli utenti commerciali di servizi di intermediazione online e gli utenti titolari di siti web aziendali che siano in relazione con motori di ricerca online dispongano di un adeguata trasparenza, di equità e di efficaci possibilità di ricorso.
In particolare, l’ambito soggettivo del regolamento è lo stesso della richiamata Direttiva E-Commerce, essendo riferito ai servizi di intermediazione online e ai motori di ricerca online. Sono invece esclusi dall’ambito di applicazione le piattaforme che gestiscono servizi di pagamento online, strumenti di pubblicità online o scambi pubblicitari online dal momento che non perseguono l’obiettivo di agevolare l’avvio di transazioni dirette e che non implicano una relazione contrattuale con i consumatori.
La P2B Regulation fornisce obblighi di trasparenza e di informazione agli utenti, con particolare riferimento, tra l’altro, alla modalità di accesso ai dati, che deve essere descritto nei termini e nelle condizioni contrattuali, ad eventuali trattamenti differenziati applicati o applicabili, e alla formulazione di condizioni in maniera trasparente e comprensibile.
La Direttiva su una migliore applicazione e modernizzazione delle norme UE a tutela dei consumatori ha, inoltre, aggiunto requisiti di trasparenza nell’ambito dei mercati online nei confronti dei consumatori, che dovrebbero diventare applicabili nel maggio 2022[9].
Tra gli strumenti di soft law meritano invece di essere richiamati la comunicazione e la raccomandazione del 2018 della Commissione Europea destinate a piattaforme online e Stati membri per la lotta ai contenuti illegali online [10].
Diversi sono i documenti di analisi e monitoraggio della “platform economy” su iniziativa della Commissione Europea. Si tratta, in particolare, del gruppo di Esperti dell’Osservatorio sulle Piattaforme Online[11]; la Comunicazione della Commissione Europea sulle piattaforme online nel mercato unico: opportunità e sfide[12]; la consultazione pubblica lanciata sugli scenari regolatori delle piattaforme online, intermediari online, cloud computing e collaborative economy[13]; e lo Staff Working Document sulle piattaforme online[14].
Infine, su richiesta del Parlamento europeo, la Commissione sta svolgendo un'analisi approfondita della trasparenza algoritmica e della connessa responsabilità. Il progetto pilota fornirà uno studio approfondito sul ruolo degli algoritmi nell'economia e nella società digitale. In particolare, come modellano, filtrano o personalizzano i flussi di informazioni[15].
A fianco al delineato quadro normativo si pongono le prassi decisionali delle autorità europee garanti della concorrenza e della Direzione per la Concorrenza della Commissione Europea nonchè la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e delle corti nazionali che si trovano a dover adattare gli attuali strumenti a tutela della concorrenza alle mutate esigenze dei mercati digitali.
Uno degli aspetti di maggior problematicità con il quale i public enforcers si trovano a dover fare i conti è proprio quello dominanza di queste piattaforme e della responsabilità sociale da essa derivante. Responsabilità sociale che, come proposto a più riprese a livello accademico, potrebbe sostanziarsi in veri e propri obblighi di autoregolazione all’interno del proprio microsistema, così come accade per esempio per le leghe sportive[16].
4. Verso una regolamentazione dei gatekeeper: il Digital Package
In questo contesto si inserisce il c.d. Digital Package[17] volto a rafforzare il mercato unico per i servizi digitali e innalzare il livello di innovazione concorrenza nell’orizzonte europeo online. Si tratta di un ambizioso pacchetto normativo previsto per i primi di dicembre.
Due sono i capisaldi dell’intervento, come si vedrà in maggior dettaglio nel proseguo.
Un primo focus è quello di regolare le piattaforme sotto il profilo della diffusione di beni/contenuti/servizi illeciti. In questo senso la proposta normativa si pone in continuità con l’esistente apparato normativo, fissando come obbiettivo una maggiore chiarezza nell’allocazione della responsabilità nell’ambito dei servizi digitali, nonché l’introduzione di un meccanismo che possa assicurare una migliore applicazione delle regole riguardanti i contenuti illeciti. Lo scopo è quello di proteggere in maniera più pregnante i diritti fondamentali degli utenti e limitare la diffusione di beni/contenuti e servizi illegali.
Un secondo focus, del tutto innovativo rispetto all’attuale quadro normativo, è quello volto all’individuazione di una prima regolamentazione sull’operato dei gatekeeper ai fini della tutela della concorrenza.
4.1. Piattaforme come canali per la diffusione di contenuti, beni e servizi illeciti
Sotto il primo profilo le soluzioni prese in considerazioni sono quelle di aggiornare la Direttiva E-Commerce e rendere vincolanti le richiamate Raccomandazioni 2018 sui contenuti illeciti presenti sul web, o, in alternativa, adottare un sistema efficace di supervisione, applicazione e cooperazione normativa tra gli Stati membri, supportato a livello UE.
Scopo è quello di risolvere alcune lacune della Direttiva E-Commerce. In particolare la proposta si rivolgerebbe a problematiche che, sebbene esistenti già al momento di adozione della Direttiva E-Commerce, si stanno diffondendo oggi in scala maggiore. Un esempio è rappresentato dalla maggiore diffusione di fenomeni di hate speech, ed in generale dall’utilizzo delle piattaforme per diffusione di contenuti e prodotti illegali. A fianco a queste si aprono poi nuove problematiche emergenti, sconosciute in fase di redazione della Direttiva E-Commerce. Primo fra tutti è il problema dell’accesso alle informazioni, e la diffusione di informazioni dannose e non veritiere sfruttando algoritmi per amplificare la diffusione del messaggio. La scala di impatto di questi problemi è particolarmente importante se solo si considera la portata di audience delle piattaforme online, veri e propri spazi pubblici nel mondo digitale.
Sotto questo profilo, nonostante le regolazioni di settore, alcuni aspetti rimangono scoperti, permanendo una certa frammentazione del mercato unico dal punto di vista della disciplina applicabile alle piattaforme online che evidenzia la necessità di una maggior cooperazione, e una più uniforme protezione dei diritti fondamentali online degli utenti, attraverso un aggiornamento della disciplina in vigore in materia di sicurezza dei prodotti, di profili giuslavoristici, e dei codici di condotta per il contrasto alla disinformazione e alle fake news.
4.2. Regolamentazione ex ante[18]
Come anticipato è la regolazione ex ante a rappresentare l’elemento di maggior novità della proposta della Commissione, che nei documenti di “impact assessment” allegati ha valutato una serie di opzioni configurabili per una possibile regolazione delle piattaforme gatekeepers.
L’introduzione di una regolazione sovranazionale è a maggior ragione necessaria se solo si considera che alcuni paesi europei hanno iniziato a formulare una disciplina nazionale, con un conseguente rischio di frammentazione normativa. L’articolo 114 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) potrebbe dunque rappresentare la base giuridica su cui fondare un intervento sovranazionale volto ad affrontare in maniera armonizzata il problema della regolamentazione di servizi di intermediazione online di natura intrinsecamene e sistematicamente transnazionale, al contempo salvaguardando la contendibilità del mercato per imprese innovative e nuovi operatori del mercato2.
In particolare, questo pilastro d’azione si rivolge a problematiche quali: (i) eccessiva dipendenza delle imprese da un numero limitato di piattaforme online, con conseguente perdita del potere di contrattazione nei confronti di concorrenti e utenti; (ii) difficoltà di innovare con conseguente riduzione della concorrenza e della scelta per i consumatori; (iii) capacità da parte delle piattaforme di estendere all’infinito la propria dominanza a macchia d’olio su mercati adiacenti.
Come evidente, le strade percorribili sono di due tipi. Optare per una regolazione di dettaglio volta ad un maggior controllo delle grandi aziende tecnologiche, richiedendo, la separazione delle loro linea di business principale dalle altre attività. In questo scenario si potrebbero vietare le pratiche di c.d. self-preferencing, e Amazon non potrebbe più vendere prodotti con i suoi marchi sul suo mercato, dove presumibilmente si concede un trattamento preferenziale, ivi compreso un migliore posizionamento nei risultati di ricerca. Oppure rinunciare ad un eccessivo interventismo e limitarsi ad una modifica delle leggi antitrust esistenti, che permetterebbe di riadattare un meccanismo di controllo ex post e trasversale.
Sotto il primo profilo, per essere efficacie, una scelta regolataria deve prevedere strumenti sufficientemente elastici da potersi adattare a mercati in rapida evoluzione e cambiamento. Anche nel caso di adozione di una black-list di pratiche proibite l’approccio sarebbe dunque quello di formulare proibizioni di principio, es. divieto di pratiche di self-preferencing o il rifiuto di contrarre con imprese concorrenti, adattabili a mercati e piattaforme anche diverse tra loro.
Cionondimeno la Commissione sta valutando anche l’opportunità di adottare, caso per caso, le misure regolatorie più idonee alla luce delle specificità delle singole piattaforme. Una volta mappati i rischi potrebbero essere valutate soluzioni ad hoc. Il rischio di una simile soluzione potrebbe essere, però, quello di un’eccessiva frammentazione regolatoria – che è proprio quella che vuole evitarsi – oltre al rischio di approcci non sempre uniformi da parte dei public enforcers, che potrebbero lasciare spazio a trattamenti diversificati a seconda della classificazione della piattaforma. Nelle loro peculiarità è infatti difficile individuare canoni univoci di classificazione delle piattaforme online, e il rischio è quello di lasciare vuoti normativi.
Sotto il secondo profilo, nella proposta della Commissione emerge anche una possibile revisione delle regole di concorrenza con lo scopo di affrontare i problemi strutturali derivanti dall’ assenza o distorsione della concorrenza.
Le soluzioni prese in considerazione in questa fase iniziale sono di due tipi. Un primo strumento potrebbe essere rivolto esclusivamente ai mercati particolarmente inclini a distorsione della concorrenza; un secondo tipo di strumento sarebbe invece volto a tutti i mercati, esattamente come accade oggi per gli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Altresì discusso è se lo strumento debba affrontare solo le problematiche di abuso di dominanza, o piuttosto identificare e affrontare tutti i problemi strutturali legati alla concorrenza.
Particolarmente interessante è poi l’opzione vagliata in sede di proposta di attribuire a specifiche autorità di regolazione la facoltà di raccogliere informazioni dai gatekeeper, relativamente a determinate pratiche commerciali e il loro impatto su consumatori e utenti, al fine di assicurare una più approfondita esamina delle dinamiche competitive ad esse associate.
5. Considerazioni finali
Se si osserva la questione in prospettiva politica pare che i tempi siano maturi per provare a seguire l’impervia strada di una regolazione ex ante [19]. In questa direzione sembrano andare gli USA, dove, il 6 ottobre 2020, una Commissione del Congresso Americano ha pubblicato un rapporto su come l'America dovrebbe aggiornare la sua legge sulla concorrenza[20].
Un primo nodo che i paesi che vorranno seguire la via della regolazione dovranno sciogliere è allora quello di identificare una definizione di gatekeeper che possa essere univocamente applicabile, e che possa affiancarsi alla tradizionale categoria di “posizione dominante”. In questo senso l’introduzione di un parametro quantitativo sicuramente potrebbe aiutare a tracciare una chiara linea di demarcazione nello scopo soggettivo della riforma, sebbene diversi potrebbero essere i valori presi in considerazione quali ad esempio il numero di utenti, le entrate, i dati accumulati (di più difficile misurazione).
Dall’altra parte, come a più riprese sollevato dai tech giants nelle loro osservazioni al progetto di regolazione europeo, il rischio da scongiurare è quello di intrappolare i gatekeeper in “una camicia di forza legale”, che potrebbe, in ultima istanza, limitare l’incentivo all’innovazione. È del resto questo il dilemma della regolazione.
Quel che è certo è che i mercati tecnologici in rapida evoluzione richiedono strumenti altrettanto rapidi ed elastici e l’elaborazione di regole efficaci richiederà tempo. Forse non meno tempo dei procedimenti antitrust. Ma come è stato correttamente osservato a più riprese sarebbe un'anomalia storica se la tecnologia non venisse regolata, come lo erano prima altri settori di importanza sistemica[21].
[1] Si veda Proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council on promoting fairness and transparency for business users of online intermediation services COM/2018/238, consultabile online https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/soteu2018-preventing-terrorist-content-onlineregulation-640_en.pdf.
[2] Parker, Van Alstyne e Choudary, Platform Revolution, richiamato in Crémer Yves, Montjoye, Schweitzer, Competition policy for the digital era, pagina 60 consultabile online https://ec.europa.eu/competition/publications/reports/kd0419345enn.pdf
[3]Ursula von der Leyen, Political guidelines, A Union that strives for more - My agenda for Europe, consultabile online https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/political-guidelines-next-commission_en_0.pdf, pagina 13
[4]Shaping Europe’s digital future - The Digital Services Act package consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-services-act-package
[5] Per un’analisi approfondita delle caratteristiche delle piattaforme online si rinvia a Commissione Europea, Staff Working Document on Online Platforms, accompanying the document "Communication on Online Platforms and the Digital Single Market" (COM(2016) 288) consultabile online: https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/commission-staff-working-document-online-platforms
[6] Direttiva (Ue) 2000/31/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») consultabile online: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32000L0031&from=EN
[7] Ne è un esempio la legislazione relativa a beni e contenuti illegali che comprende ad esempio il regolamento sulla sorveglianza del mercato; la direttiva sui servizi di media audiovisivi; la direttiva sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale; la direttiva sul diritto d'autore nel mercato unico digitale; il regolamento sulla sorveglianza del mercato e la conformità dei prodotti; la proposta di regolamento sulla prevenzione della diffusione di contenuti terroristici online; la direttiva sulla lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia infantile; il regolamento sulla commercializzazione e l'uso di precursori di esplosivi.
[8] Regolamento (Ue) 2019/1150 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online consultabile online: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019R1150&from=EN
[9] Direttiva (Ue) 2019/2161 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 Novembre 2019 che modifica la Direttiva 93/13/Cee del consiglio e le Direttive 98/6/Ce, 2005/29/Ce E 2011/83/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori consultabile online: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019L2161&from=EL
[10] Recommendation on measures to effectively tackle illegal content online; Communication on stepping up efforts to tackle illegal content online, Settembre 2017, consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/commission-recommendation-measures-effectively-tackle-illegal-content-online
[11] Decision on setting up the group of experts for the Observatory on the Online Platform Economy (Aprile 2018) consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/commission-decision-group-experts-observatory-online-platform-economy
[12] Communication on online platforms and the Digital Single Market opportunities and challenges for Europe (Maggio 2016) consultabile online http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1466514160026&uri=CELEX:52016DC0288
[13] Public consultation on the regulatory environment for platforms, online intermediaries, data and cloud computing and the collaborative economy, Settembre 2015 - Gennaio 2016, consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/public-consultation-regulatory-environment-platforms-online-intermediaries-data-and-cloud
[14] Commissione Europea, Staff Working Document on Online Platforms (Maggio 2016) consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/news-redirect/31576
[15] Commissione Europea , Algorithmic Awareness-Building, consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/algorithmic-awareness-building
[16] Inter alia si veda Commissione Europea, Caso AT.39740 — Google Search (Shopping), 27.6.2017, Gazzetta Ufficiale 2018/C-9/08, del 12.1.2018, p. 1; Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato caso A542 - Aperta istruttoria nei confronti di Google per abuso di posizione dominante nel mercato italiano del display advertising press release del 28 ottobre 2020
[17]Shaping Europe’s digital future - The Digital Services Act package, consultabile online https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-services-act-package
[18] Digital Services Act package: Ex ante regulatory instrument for large online platforms with significant network effects acting as gate-keepers in the European Union’s internal market, Giugno 2020
[19] Si rinvia a numerosi studi prodotti da diversi Paesi negli ultimi anni. Inter alia, UN IGF Dynamic Coalition on Platform Responsibility, United Nations Internet Governance Forum, Platform Regulations How Platforms are Regulated and How They Regulate Us Official Outcome, Ginevra 2017 consultabile online: https://juliareda.eu/wp-content/uploads/2019/09/Reda2017_Platform-regulations-how-platforms-are-regulated-and-how-they-regulate-us3.pdf; Australian Competition and Consumer Commission, Digital platforms inquiry, 2019, consultabile online https://www.accc.gov.au/focus-areas/inquiries-ongoing/digital-platforms-inquiry; French Competition Authority, Contribution to the debate on competition policy and digital challenges, 2020 consultabile online https://www.autoritedelaconcurrence.fr/sites/default/files/2020- 03/2020.03.02_contribution_adlc_enjeux_numeriques_vf_en_0.pdf; German Commission ‘Competition Law 4.0’, A new competition framework for the digital economy, 2019, consultabile online https://www.bmwi.de/Redaktion/EN/Publikationen/Wirtschaft/a-new-competition-framework-for-the-digital- economy.pdf?__blob=publicationFile&v=3; Stigler Committee for the Study of Digital Platforms, Market Structure and Antitrust Subcommittee 2019 consultabile online https://research.chicagobooth.edu/stigler/events/single-events/antitrust-competition-conference/digital- platforms-committee .
[20] Online Platforms and Market Power: Part 6: Examining the Dominance of Amazon, Apple, Facebook, and Google, 29 luglio 2020,
consultabile online https://judiciary.house.gov/uploadedfiles/competition_in_digital_markets.pdf .
[21] Sul punto interessante è l’articolo di approfondimento sulla situazione politica americana del The Economist, Ex-antics Google, antitrust and how best to regulate big tech, 7 ottobre 2020
La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 (*)
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Premesse di metodo - 2. La rilevanza della genitorialità di intenzione nel diritto effettivo: diritto o status? - 3. L'interesse del minore alla genitorialità di intenzione. Valutazione in astratto e in concreto - 4. Il rinvio al legislatore.
1. Premesse di metodo
Con la decisione in commento, la Corte Costituzionale aggiunge un altro importante tassello alla problematica della c.d. genitorialità di intenzione, definendo e rendendo più nitido il diritto vivente in questa materia, quale risultato del dialogo della giurisprudenza interna ed europea. La delicata problematica della rilevanza della “intenzione” di diventare genitori, a prescindere dall'assenza di un legame biologico con il nato, chiama l'interprete ad una valutazione complessiva delle norme giuridiche alla luce di quella che è la loro applicazione da parte della giurisprudenza, secondo il principio di effettività, da intendersi quale strumento che consente di verificare il grado di conformità di un complesso di norme alla realtà sociale di un determinato momento storico[1]. Le riflessioni che saranno approfondite nel corso di questa indagine impongono di considerare questa decisione non isolatamente ma alla luce del complesso delle decisioni della giurisprudenza interna ed europea e delle disposizioni vigenti, al fine di indagare quello che è il diritto vivente in materia di genitorialità di intenzione. L'adozione di questo metodo costituisce la premessa per ogni riflessione in una materia così delicata che chiama l'interprete a spogliarsi di ogni convinzione e presupposto ideologico, che inevitabilmente inquinerebbe la purezza dell'argomentazione. Allo stesso tempo l'adozione di questo metodo è la premessa per una corretta interpretazione delle ragioni poste a fondamento della decisione della Corte Costituzionale che qui si commenta.
Prima di iniziare questa indagine appare utile per il lettore indicare sia pure sinteticamente la vicenda che ha dato origine alla decisione e i principali passaggi argomentativi. Una coppia di due donne, unite civilmente, si reca all'estero per coronare il desiderio di avere un figlio. Una delle due, con il consenso dell'altra, si sottopone alla pratica di fecondazione artificiale eterologa dalla quale nasce un bambino. Il problema, come per altri casi, emerge quando la coppia ritorna in Italia e al fine di rettificare l'atto di nascita chiede all'ufficiale dello stato civile di indicare il minore come figlio di entrambe e non della sola partoriente. Giova sottolineare che la donna non partoriente che reclama lo stato di genitore del bambino non ha con lui alcun legame genetico, ma è unita civilmente alla partoriente, con la quale ha condiviso la scelta di andare all'estero per usufruire della pratica di fecondazione eterologa. Di fronte al rifiuto dell'ufficiale dello stato civile, il Tribunale di Venezia[2] solleva giudizio di legittimità costituzionale della legge n. 76 del 2016e del Regolamento sullo stato civile (D.p.R. n. 396 del 2000)[3].
Con riferimento alla presunta violazione dell'art. 2 Cost. del 'combinato disposto' delle due citate norme[4], il rimettente afferma che l'inapplicabilità delle regole sulla genitorialità di intenzione alle coppie di donne unite civilmente “non realizza il diritto fondamentale alla genitorialità dell'individuo, sia come soggetto singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”[5] . Inoltre con riferimento alla presunta violazione dell'art. 30 Cost., oltre a rilevarsi il non rispetto “del principio di tutela della filiazione” viene sottolineata l'esigenza di adottare una 'concezione progressista' che porti ad “affrancarne la realizzazione dalla tradizionale dimensione naturalistico-fattuale, tutelandola come diritto pretensivo che, ove il progresso scientifico lo consenta, non può essere escluso o limitato, se non in funzione di interessi che il legislatore consideri, legittimamente pari-ordinati”[6]. Con riferimento alla violazione dell'art. 117 Cost in relazione alla normativa europea si afferma che è “principio internazionale definitivamente acquisito quello per cui il matrimonio non costituisce più il discrimine nei rapporti tra genitori e figli, né per gli uni (i genitori) che hanno visto riconosciuto il diritto non solo a formarsi una famiglia, ma altresì a diventare genitori …. oltre i limiti imposti dalla natura, né per gli altri (i figli) che debbono godere della medesima tutela indipendentemente dalla forma di legame tra coloro che ne assumono la genitorialità “. Infine, con riferimento alla presunta violazione dell'art. 3 Cost., si ribadisce la disparità di trattamento sia con riferimento alla coppia “sulla base del sesso e del reddito”, che al nato “in considerazione delle caratteristiche della relazione tra i genitori e in particolare se questa sia omosessuale”.
La Corte costituzionale ha respinto tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate e ha rilevato che la delicatezza della materia richiede un intervento del legislatore[7].
Le pagine che seguono saranno dedicate ad affrontare le due principali tematiche che emergono dalla questione oggetto della decisione e che risultano tra loro strettamente collegate: 1) l'esistenza di un diritto alla genitorialità che dovrebbe essere assicurato a tutti e quindi anche alle coppie dello stesso sesso; 2) la tutela del soggetto nato e l'esigenza di assicurargli un pari trattamento.
Può anticiparsi che le argomentazioni della Corte non possono ritenersi isolate ma completano e integrano lo stato dell'arte in materia di rilevanza della genitorialità di intenzione, contribuendo a tracciare quello che ad oggi può essere considerato il diritto effettivo.
2. La rilevanza della genitorialità di intenzione nel diritto effettivo: diritto o status?
Con riferimento alla prima problematica, ovvero la presunta esistenza di un diritto alla genitorialità, occorre in primo luogo verificare se la nozione di “famiglia” implichi necessariamente la presenza dei figli. Una volta risolto questo primo problema, occorre poi verificare se nel diritto effettivo la genitorialità si iscriva nel novero dei diritti fondamentali e quindi delle pretese di cui il soggetto è titolare, indipendentemente dal sesso, dalla nascita e dal modello familiare che ha scelto. Quanto al primo problema la Corte ha risposto che “l'art. 30 Cost non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli”[8]. Quanto al secondo problema, al primo intimamente collegato, la Corte, nel negare l'esistenza di un 'diritto alla genitorialità”, attraverso la distinzione tra 'aspirazione' e 'diritto'[9], ha ribadito che “la libertà e volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori non implica che possa esplicarsi senza limiti”[10]. Quanto alla prima affermazione in ordine alla sufficienza della famiglia senza figli, essa mi trova concorde. L'evoluzione del diritto di famiglia dell'ultimo cinquantennio ha dimostrato che al modello tradizionale fondato sul matrimonio si sono via via affiancati altri modelli, tutti a vocazione familiare, se pure con alcune differenze. Tali modelli sono stati riconosciuti in sé come “familiari” a prescindere dalla presenza di figli, in quanto l'elevazione al rango di modello familiare è stata argomentata sulla base di elementi tutti riguardanti la relazione di coppia. Per le convivenze, tale elemento è stato rinvenuto nella stabilità e durata della relazione affettiva. Per le unioni civili, la qualifica di 'famiglia' si desume dal riconoscimento normativo di un complesso di diritti e doveri, che emula lo statuto dei coniugi (v. L. n. 76 del 2016). Inoltre il diritto della filiazione, con l'ultima riforma del 2012 e 2013, attraverso il riconoscimento dei diritti in capo a tutti i figli, ha contribuito a sganciare le riflessioni in ordine alle relazioni di coppia da quelle in ordine allo status dei figli, status che si compone di un complesso di diritti fondamentali (che sono quelli elencati all'art. 315-bis del codice civile) a prescindere dall'esistenza o meno di una famiglia, dato che per esempio un figlio può nascere anche da una relazione occasionale, ma non per questo perde i suoi diritti. In questo modo si è assistito ad una divaricazione delle regole che governano il diritto di famiglia in regole riservate alla relazione di coppia e in regole riservate alla famiglia con prole. Esempio emblematico di queste ultime è dato dalla applicazione giurisprudenziale dell'assegnazione della casa familiare in caso di crisi della famiglia, soluzione che è dettata al solo fine di tutelare la famiglia con prole[11]. La presenza di figli non è quindi elemento decisivo al fine di classificare un modello come familiare.
Con riferimento all'altro problema, concordo con quanto affermato dalla Corte in ordine alla inesistenza del diritto alla genitorialità[12]. Aggiungo alle argomentazioni della Corte che il problema non è solamente quello di porre dei limiti alla volontarietà e libertà dell'atto che consente di diventare genitori, ma di verificare quale è nel diritto effettivo il ruolo della volontà e della libertà nell'instaurazione del rapporto di genitorialità[13]. In definitiva occorre chiedersi se la genitorialità e quindi la filiazione appartengono ancora al mondo degli status ovvero se essi siano passati a far parte della categoria dei diritti, dei quali il soggetto può disporre liberamente e che siano a lui garantiti. Occorre in definitiva accertare se la cd genitorialità di 'intenzione' descriva un nuovo modello di genitorialità basato su un atto di volontà, o al contrario sia esclusivamente una categoria che assegna all'intenzione un valore meramente lessicale e descrittivo di una genitorialità che è individuata in negativo quale genitorialità non biologica.
La presunta individuazione di 'un diritto alla genitorialità' annoverabile tra gli altri diritti fondamentali della persona ai sensi del dettato costituzionale (art. 2) impone poi una riflessione preliminare sul rapporto che necessariamente corre tra diritti e status in materia di filiazione, nonché sull'esatta interpretazione e applicazione delle norme vigenti.
Il tradizionale impianto normativo delle azioni di stato, che disegna il perimetro delle regole che governano l'instaurazione e la cancellazione della genitorialità, benché abbia ricevuto una significativa evoluzione a seguito della riforma della filiazione, ha nella sostanza conservato l'idea che il procedimento per diventare genitori o per perdere tale qualifica è affidato alle regole che governano gli status ed è sottratta all'arbitrio dell'autonomia negoziale e della autodeterminazione. La riforma della filiazione, nel modificare i termini di prescrizione per le azioni di stato, non ha infatti intaccato il modello dello status ma ha consentito, a certe condizioni, che la regola della primazia del sangue possa essere temperata dalla regola degli affetti e della tutela dell'affidamento del figlio in ipotesi di mancanza del formale legame di sangue con colui che ha ritenuto essere il proprio (genitore)[14]. Tale evoluzione, lungi dal modificare il fatto che la filiazione e la genitorialità siano status, ha solo modificato le regole della prescrizione al fine di far prevalere la sostanza sulla forma, a vantaggio del figlio[15]. La necessità di far prevalere la continuità delle relazioni affettive a prescindere da un formale titolo di genitorialità, risponde peraltro al diritto effettivo in quanto è stata stigmatizzata nella legge sulla continuità affettiva (L. n. 173 del 2015). Che la genitorialità sia uno status e non un diritto si evince anche dall'analisi delle disposizioni della legge n. 40 del 2004 che sembrano fondate esclusivamente sul 'consenso' di coloro che si sottopongono alla tecnica di fecondazione, sia omologa che eterologa. Non è infatti la volontà e quindi il consenso prestato ai sensi dell'art. 8 della citata legge l'elemento che costituisce l'effetto della genitorialità, in quanto il consenso è solo coelemento di una fattispecie complessa, comprensiva di altri elementi che tutti concorrono a produrre l'effetto della instaurazione della genitorialità. Tra questi, rilievo particolare assume la condizione della presenza di uno stato di infertilità assoluta ed accertata. Tale elemento rappresenta la ratio sulla quale è costruita la legge n. 40 del 2004. Già l'art. 1, 1° comma, fa emergere la finalità primaria della legge che è quella “di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana”. Il 2° comma del medesimo articolo prevede espressamente che “il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”. Anche l'art. 2, specificamente dedicato ad interventi dello Stato contro la sterilità e l'infertilità, contribuisce a definire un quadro in cui l'infertilità è il presupposto per fare ricorso alla procreazione medicalmente. Infine è proprio l'art. 4, 1° comma, che esprime in termini inequivoci che lo scopo della legge è quello di risolvere il problema della infertilità, quando afferma che “il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è circoscritto ai casi di sterilità o infertilità inspiegate o documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico”. Correttamente quindi la Corte Costituzionale ha costruito il mancato accesso alla procreazione medicalmente assistita da parte delle coppie dello stesso sesso non come un problema di discriminazione ma come mancanza di un presupposto indicato dalla legge, ovvero l'infertilità patologica[16]. Oltre a queste riflessioni, che basterebbero a risolvere il problema dell'accesso alla procreazione assistita da parte delle coppie dello stesso sesso al di fuori degli schemi della discriminazione, devono aggiungersi altri rilievi che contribuiscono a negare che la procreazione medicalmente assistita determini l'instaurazione di una filiazione basata sul solo elemento della volontà, a prescindere da ogni questione inerente il sesso delle coppie. Nel difficile caso Pertini riguardante lo scambio di embrioni, al fine di affermare la genitorialità dei gemelli in capo alla donna partoriente e al marito di lei, oltre ad applicarsi la regola codicistica che “è madre colei che partorisce” (art. 269. 3° co), si è sottolineato che non basta il consenso alla fecondazione (prestato ai sensi dell'art. 8 della legge n. 40), ma è necessario che l'embrione venga impiantato nell'utero perchè è solo da tale momento che si instaura il rapporto di genitorialità[17]. In base a questa lettura dell'art. 8 della legge n. 40 del 2004, si è quindi superata la primazia del sangue e della genetica e si è ribadita l'insufficienza del solo elemento volontaristico, che diversamente opinando, avrebbe consentito ai genitori genetici di essere considerati tali già al momento della prestazione del consenso. Alla luce delle disposizioni vigenti e di come esse sono applicate nel diritto vivente, deve quindi osservarsi che la procreazione medicalmente assistita non può essere intesa quale strumento per soddisfare la volontà di avere un figlio, ma come terapia riservata a chi sia affetto da infertilità accertata e patologica. La mancata estensione alle coppie dello stesso sesso non involge un problema di pari trattamento, in quanto il presupposto della infertilità patologica vale sia per le coppie dello stesso sesso che per le coppie di sesso diverso. In questo senso appare significativo che a tale tecnica possono accedere solo le coppie in età potenzialmente fertile (art. 5) in quanto solo per le coppie in età fertile è possibile parlare di infertilità patologica e non fisiologica, legata all'età. Rimane poi sullo sfondo la questione del divieto della maternità surrogata, in questo caso non evocata in quanto la coppia di donne unite civilmente non aveva fatto ricorso a tale pratica ma alla fecondazione eterologa. Detto divieto trova fondamento in un principio di ordine pubblico[18] che riguarda indistintamente tutte le coppie, sia eterosessuali che dello stesso sesso. Semmai deve rilevarsi che, ove si accogliesse l'idea di consentire la fecondazione eterologa alle coppie dello stesso sesso, si porrebbe inevitabilmente un problema di discriminazione all'interno delle coppie omosessuali, dato che la maternità surrogata diventa tappa obbligata per le sole coppie omosessuali maschili. Tale discriminazione potrebbe essere evitata solo attraverso l'abolizione del divieto. Il problema sarebbe tuttavia difficilmente risolvibile in quanto è la coscienza sociale che reputa illecita tale pratica in quanto lesiva della dignità della donna[19], e tale dato sociale è confermato dal fatto che la maggioranza dei Paesi dell'Europa ne prevedono il divieto[20].
Se si volge lo sguardo all'altro modello di genitorialità non biologica, l'adozione, si ha la conferma della irrilevanza della volontà e quindi la conferma della inesistenza di un preteso diritto alla genitorialità.
L'adozione, sia legittimante che in casi particolari, non è affidata al mero consenso o alla 'intenzione' di diventare genitori ma ad una fattispecie complessa che prevede vari elementi, la cui presenza è verificata dal giudice[21]. Nell'adozione legittimante questi elementi sono la differenza d'età tra adottanti e adottato, l'idoneità affettiva degli adottanti e l'accertamento dello stato di abbandono materiale o morale del minore, elemento quest'ultimo che consente di derogare alla regola che il minore debba, ove possibile, crescere nella propria famiglia[22]. Nell'adozione in casi particolari, pur prescindendosi dallo stato di abbandono materiale e morale, sono richiesti altri elementi, quale l'impossibilità di affidamento preadottivo. Ma è proprio l'elemento dell'abbandono materiale e morale nell'adozione legittimante che avvalora e conferma la tesi della natura solidaristica dell'adozione[23] e che ne fa un modello a statuto speciale di filiazione non biologica. Con la procreazione medicalmente assistita si programma la nascita di un bambino[24]; con l'adozione si dona famiglia ad un bambino già nato che ne è privo[25]. Emerge quindi in tutta la sua evidenza la distinzione tra status nascente, che richiede una valutazione in astratto e status acquisito che richiede una valutazione in concreto[26]. La distinzione tra questi due piani, come dirò a breve, oltre a delineare le diverse rationes sottese ai due modelli di instaurazione della genitorialità, individua una diversa rilevanza dell'interesse del minore. Nella procreazione medicalmente assistita l'interesse del minore è valutato necessariamente in astratto in quanto il bambino non è ancora nato, ma si discute se e chi può diventarne genitore. Nell'adozione, sia legittimante che in casi particolari, al contrario, la valutazione sull'interesse del minore è necessariamente condotta in concreto, in quanto occorre valutare se rispetto a quel determinato bambino, da considerare in carne e ossa, sia adeguata quella specifica famiglia o quella singola persona. Se si accoglie la distinzione tra questi due diversi piani, deve condividersi l'dea della Corte Costituzionale che nella decisione che si commenta reputa “non arbitrario e irrazionale che una famiglia composta da due genitori di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile, rappresenti in linea di principio il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”[27]. Si tratta infatti di una valutazione astratta che non esclude, anzi presuppone che in concreto possa valutarsi l'esistenza di una relazione affettiva che giustifichi e legittimi una scelta diversa. Tuttavia, tale valutazione non può mai essere automatica ma deve essere condotta caso per caso nell'esclusivo interesse del minore[28]. La previsione di strumenti, come la Stepchild Adoption[29], che possono consentire di soddisfare l'interesse del minore a conservare le relazioni affettive di cui ha bisogno esclude la sussistenza della discriminazione, ma al contempo sottrae la scelta della genitorialità ad un automatismo, in linea con il diritto effettivo in materia. Spesso invece il richiamo al migliore interesse del minore diventa quasi una formula di stile per legittimare ex post scelte degli adulti relative alla programmazione della nascita, che impongono un riconoscimento automatico di genitorialità intenzionali, al di fuori e in contrasto con il diritto vivente. La stagione che stiamo vivendo, che pone principalmente il problema della identità del minore nato a seguito di maternità surrogata praticata all'estero, ci ha proiettato tristemente in un mondo di vicende giudiziarie[30] che vedono il bambino sospeso in un limbo di incertezza identitaria, solo al fine di soddisfare un presunto diritto alla genitorialità degli adulti.
3. L'interesse del minore alla genitorialità di intenzione. Valutazione in astratto e in concreto
Queste ultime riflessioni aprono il tema del vulnus che si assume arrecato all'interesse del minore, nel caso oggetto della decisione. Al riguardo il giudice rimettente, rileva la presunta violazione dell'art. 3 Cost, perchè si attuerebbe una discriminazione del nato “sul piano della sua tutela sia morale che materiale in considerazione delle caratteristiche della relazione tra i genitori ed in particolare se questa sia omosessuale”[31]. Al riguardo la Corte Costituzionale, come già aveva affermato la Corte di Cassazione a sezioni unite[32], ha risposto che la previsione dell'adozione in casi particolari da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore evita tale vulnus. L'adozione in casi particolari, se pure non legittimante, condivide con l'impianto dell'adozione il controllo in ordine all'esistenza di una valida relazione affettiva, sottraendo la cd genitorialità di intenzione ad ogni automatismo[33]. Allo stesso modo, la previsione dello strumento dell'adozione in casi particolari, come già accennato, porta ad escludere la discriminazione in base al sesso, facendo riemergere proprio quella necessaria valutazione in concreto dell'interesse del minore. Questa valutazione, oltre a trovare conferma in tutta la giurisprudenza interna, è poi confermata anche dalla giurisprudenza europea[34]. Il parere consultivo della Corte europea dei diritti dell'uomo[35], oltre a ribadire la discrezionalità degli Stati membri nella scelta degli strumenti più idonei a dare rilevanza alla genitorialità di intenzione, con il solo limite della celerità e della efficienza[36], ha confermato che il genitore di intenzione non diviene tale solo perchè partner del genitore biologico, ma in quanto sia concretamente accertata una relazione affettiva con il figlio del partner[37]. Anche nell'adozione in casi particolari prevista dall'art. 44 lett. b) della legge n. 183 del 1984, l'adozione del figlio del coniuge non si fonda sul mero status di coniuge, ma sull'accertamento in concreto di una accertata relazione affettiva[38]. La legge sulla continuità affettiva si basa sulla medesima ratio in quanto consente di accedere all'adozione se e in quanto sia accertata una relazione affettiva con il minore. Il quadro interno ed europeo mostra di aver dato una progressiva rilevanza alla famiglia degli affetti che spesso supera la famiglia di sangue, ma le modalità di instaurazione di questa nuova famiglia sono tutte rivolte ad accertare la relazione affettiva e l'interesse del minore a mantenerla. Nè sembrano al riguardo cogliere nel segno quelle riflessioni che, richiamando la recente riforma della filiazione, sottolineano una violazione del principio di uguaglianza tra i figli, adducendo che la soluzione dell'adozione in casi particolari per il genitore di intenzione pregiudicherebbe i figli, in quanto darebbe loro meno tutele[39]. Deve al riguardo sottolinearsi che si tratta di situazioni che non possono essere poste sullo stesso piano al fine di invocare una presunta violazione del principio di uguaglianza e di unicità dello stato di figlio. Nel caso della riforma della filiazione, i figli nati da parenti, se pure figli biologici e quindi di sangue non potevano essere riconosciuti da nessuno dei genitori (art. 251 vecchio testo prima della riforma della filiazione) in quanto su di loro gravava il peso della colpa, come prima della riforma del diritto di famiglia dl 1975, per i figli adulterini. Nel caso del riconoscimento del genitore di intenzione, si tratta di bambini che hanno già un genitore biologico e si tratta di aggiungerne un altro. La situazione è parallela a quella del minore orfano di padre che viene adottato dal nuovo marito della madre, situazione che non a caso integra anch'essa un'ipotesi di Stepchild adoption che trova apposita regolamentazione (v. art. 44 lett. b) della le. n. 183 del 1984). La nuova figura genitoriale non può essere acquisita automaticamente solo perchè si tratta di persona legata affettivamente al genitore, ma solo se ciò realizzi l'effettivo interesse del minore. Una diversa soluzione porterebbe al risultato di creare uno statuto speciale privilegiato del nato da fecondazione che è il rischio che autorevole dottrina aveva prospettato già prima dell'approvazione della legge n. 40 del 2004[40]. Peraltro proprio in tema di riforma della filiazione, il nuovo art. 251 del codice civile, pur avendo rimosso il previo divieto di riconoscimento dei figli nati da parenti, subordina il riconoscimento alla “previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”[41]. Si tratta quindi di cambiare prospettiva e di partire dall'interesse del minore per poi analizzare l'interesse degli adulti. Tale cambiamento risulta dal complesso delle disposizioni vigenti in tema di filiazione e di azioni di stato[42] e non solo nel contesto interno[43]. La legittima aspirazione alla genitorialità non è quindi un diritto ma un'opportunità che tuttavia deve misurarsi con la realizzazione dell'interesse del minore[44].
A conclusione di questa indagine sul diritto effettivo in materia di genitorialità non biologica, può rilevarsi che la negazione dell'esistenza di un diritto alla genitorialità, più che fondarsi su un mero presupposto ideologico, è il risultato di un complesso di norme che, così come sono applicate dalla giurisprudenza interna ed europea, evidenziano che la genitorialità non biologica non può fondarsi sul mero elemento volontaristico, né può essere instaurata in modo automatico in mancanza di elementi che ne giustificano a priori l'esistenza. L'impostazione adultocentrica[45] che rivendica l'esistenza di un diritto alla genitorialità deve essere ridimensionata da una prospettiva che fonda ogni decisione sull'instaurazione di modelli di genitorialità non biologica solo dopo un attento controllo di quello che è in concreto l'interesse del minore.
La distinzione tra interesse in astratto e interesse in concreto del minore, insieme alla riflessione in ordine agli status, consente di riportare questa difficile e delicata problematica su un piano diverso rispetto a quello della discriminazione basata sul sesso. La complessità del diritto effettivo che ho cercato di sintetizzare in queste pagine evidenzia che i modelli di filiazione non biologica sono fattispecie complesse in cui la volontà è solo un coelemento, che non è tale autonomamente a costituire l'effetto della genitorialità. E ciò vale tanto per le coppie eterosessuali che per le coppie dello stesso sesso. In particolare la genitorialità di intenzione, quale sottospecie della genitorialità non biologica, non individua una genitorialità fondata sulla intenzione e quindi sulla volontà, ma sull'accertamento in concreto di una relazione affettiva che viene considerata rilevante per realizzare l'interesse del minore[46].
4. Il rinvio al legislatore
Quanto alla scelta della Corte Costituzionale di rinviare al legislatore, mi sembra scelta da condividere. Si tratta, come correttamente ha già indicato la Corte in più di una decisione di “temi eticamente sensibili”[47], che richiedono l'intervento del legislatore in quanto “interprete della volontà della collettività e chiamato a tradurre sul piano normativo il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”[48]. Si dà in questo modo piena voce e applicazione al principio di effettività che nel pensiero di chi l'ha formulato[49] non significa confusione tra potere legislativo e potere giudiziario[50] ma realizzazione di un virtuoso cerchio di reciprocità e di competenze. In questo caso il compito del legislatore dovrebbe condurre a verificare se il diritto effettivo che ho sinteticamente descritto sia contrario alla coscienza sociale e se quindi vada interamente riscritto. Al riguardo voglio solo sottolineare che la complessità del diritto effettivo in materia richiederebbe una riforma complessa. Non si tratterebbe di singoli od autonomi interventi legislativi ma di una riforma sia delle azioni di stato che delle regole che governano la procreazione medicalmente assistita e l'adozione. Si tratterebbe in definitiva di riscrivere la disciplina che governa le azioni di stato e dei diversi modelli di filiazione non biologica, lasciando pieno spazio al principio di libertà e di autodeterminazione di decidere quando e perchè si diventi genitori, e quando e perchè si perda tale qualifica. Essendo questa una scelta che deve essere lasciata alla piena discrezionalità del legislatore, ritengo tuttavia che una così complessa problematica non possa esaurirsi nella evocazione del solo principio di non discriminazione, ma andrebbe affrontata in maniera completa e più approfondita, alla luce di quelli che sono attualmente i principi del diritto effettivo che governano la materia. Un singolo intervento legislativo che per esempio consentisse l'accesso a tutti alla fecondazione eterologa porrebbe il problema della discriminazione all'interno delle coppie dello stesso sesso, in quanto il mantenimento della surrogazione di maternità porterebbe di fatto a discriminare le coppie omosessuali maschili. Allo stesso modo l'apertura alla procreazione anche alle coppie dello stesso sesso porrebbe il problema di estendere l'accesso anche ad altre ipotesi di infertilità fisiologica, pena una discriminazione a contrario fondata sul sesso. L'insieme di queste riflessioni, oltre a confermare la lungimiranza e l'importanza dell'applicazione del principio di effettività, anche e soprattutto in tematiche eticamente sensibili come questa, dimostra come non siano possibili prospettive parziali che affrontano una tematica così delicata solo da un determinato ambito prospettico. Occorre al contrario addivenire ad una visione di insieme che, accanto al problema dell'esistenza o meno di un diritto alla genitorialità, quale diritto degli adulti, affronti e ricomprenda la necessità che ogni scelta, anche quella del legislatore, sia orientata alla realizzazione del migliore interesse del minore. Solo così e, forse, potrà riempirsi di contenuto la tanto declamata formula del best interest of the child, che altrimenti rischia di restare una formula di stile.
*Dedico questo scritto all'indelebile ricordo di mio Padre, fine giurista dalle grandi doti umane che ha illuminato le riflessioni dell'interprete sull'importanza del principio di effettività.
[1] V. al riguardo C.M. BIANCA, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, pubblicato prima in Estudios de derecho civil en honor del Prof. Castan Tobeñas, Vol. II, Pamplona 1969, 61 e ss e poi in CM. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma, Vol I, Milano, 2002, 35 e ss., spec. 42: “...il principio di effettività inteso non come astratto criterio di validità della norma ma come espressione dell'esigenza che l'indagine di diritto assuma la norma così come essa si presenta nella realtà dell'esperienza di un determinato tempo e di un determinato luogo”; 43-4: “Anche con riguardo all'ordinamento statale deve dunque ammettersi che il giurista positivo proceda alla ricerca della norma giuridica vigente – cioè alla conoscenza della realtà normativa del suo tempo – come primo momento della sua indagine...Per il giurista continentale l'indice concreto di questa operatività è offerto fondamentalmente dagli orientamenti giurisprudenziali ...la giurisdizione è il momento in cui l'ordinamento statale esprime la sua garanzia ultima di ricorso alla norma. E' quindi in tale momento che si presta ad essere verificata l'efficacia della regola giuridica: nel significato e nel contenuto in cui essa può essere fatta concretamente valere”. Altre riflessioni sul principio di effettività sono contenute in C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in Riv dir civ 1995, I, 787 e ss. poi in Realtà sociale ed effettività della norma, Vol I, cit., 189 e ss.
[2] V. T. Venezia, 3 aprile 2019.
[3] In particolare viene sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 20 della legge 20 maggio 2016, n. 76, (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) “nella parte in cui limita la tutela … delle coppie omosessuali unite civilmente ai soli diritti e doveri nascenti dall'unione civile” e dell'art. 29, comma 2 del d. p. R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), come modificato dall'art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione), nella parte in cui “limita la possibilità di indicare il solo genitore 'legittimo', nonché di quelli che rendono … o hanno dato il il consenso ad essere nominati” e non anche alle donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso (all'estero) a procreazione medicalmente assistita. Il giudizio di legittimità di entrambe le norme viene sollevato con riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117 della Costituzione, primo comma (quest'ultimo in relazione all'art. 24, paragrafo 3 della Carta fondamentale dell'Unione Europea, agli artt. 8 e 14 della CEDU e alla Convenzione sui diritti del fanciullo di New York.
[4] V. al riguardo la nota 4 del testo.
[5] Così testualmente T. Venezia, 3 aprile 2019.
[6] Così testualmente T. Venezia, 3 aprile 2019.
[7] V. il § 4 del testo.
[8] Così testualmente la decisione della Corte costituzionale che qui si commenta.
[9] Così testualmente in motivazione: “...l'aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”. Conforme C. 22 aprile 2020, n. 8029.
[10] La Corte conferma quanto già espresso nella decisione n. 162 del 2014
[11] E' infatti orientamento costante della giurisprudenza di legittimità subordinare l'assegnazione della casa familiare alla presenza dei figli, v. solo a titolo esemplificativo, Cass. 6 agosto 2020, n. 16740; 17 giugno 2019, n. 16134; 13 dicembre 2018, n. 32231; 4 ottobre 2018, n. 24254; 6 agosto 2018, n. 16740.
[12] Sulla inesistenza del diritto alla genitorialità v. A. MORACE PINELLI, Verso una riforma delle adozioni, in Fam e dir., 2016, 719 e ss.
[13] Per questi importanti interrogativi si rinvia a P. MALAURIE – H. FULCHIRON, Droit de la famille, 7° ed., 2020, 455 e ss.
[14] V. opportunamente C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, 6° ed., Milano, 2017, 434 che richiama il principio di apparenza conosciuto in ambito contrattuale.
[15] Sulla necessità che la disciplina delle azioni di stato sia letta alla luce della realizzazione dell'interesse del minore, v. Corte Cost. n. 272 del 2017.
[16] La Corte conferma quanto aveva già affermato nella decisione n. 221 del 2019, in cui si era operata la distinzione tra infertilità patologica e infertilità fisiologica (delle coppie dello stesso sesso), escludendosi il diverso profilo della discriminazione. Su questa distinzione v. anche C. 22 aprile 2020, n. 8029.
[17] V. T. Roma, 2 Ottobre 2015. Riflessioni sempre molto interessanti sulla tutela dell'embrione anche prima dell'impianto si rinvengono in J. RAMON DE VERDA Y BEAMONTE, Persona e comunità familiare, in via di pubblicazione con la casa editrice Giuffré.
[18] V. C. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193.
[19] La lesione della dignità della donna è stata affermata sia dalla giurisprudenza di legittmità (C. n. 24001 del 2014; C. S.U. n. 12193 del 2019; C. n. 7668 del 2020) che dalla Corte Costituzionale (decisione n. 272 del 2017). Riflessioni molto suggestive sono dedicate al tema da G. LUCCIOLI, Qualche riflessione sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019 in materia di maternità surrogata, in GenIUS, n. 1/2020: “...la surrogacy è una pratica che riduce la persona a corpo, ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata per contratto a non appartenere mai a chi la porta in grembo, che priva la maternità del suo senso umano e la fa divenire bruta materialità biologica, mera tecnica riproduttiva”; ID., Risposte all'intervista in materia di maternità surrogata fatta da G. Russo e pubblicate sul sito della Rivista Giustiziainsieme.
[20] V. al riguardo C.S.U. n. 12193 del 2019.
[21] Solo in tale prospettiva può intendersi il significato della “lesione dell'istituto dell'adozione”, termine utilizzato dalla Corte di di Cassazione a sezioni unite nella citata decisione n. 12193 del 2019. Con tale espressione si intendeva sottolineare che la maternità surrogata determinerebbe l'instaurazione di un titolo genitorialità su semplice accordo delle parti, in violazione delle regole poste dall'adozione in ordine al controllo del giudice.
[22] V. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, cit., 453-4: “Diritto fondamentale del minore è quello di crescere nella propria famiglia, ma quando la famiglia risulta irrimediabilmente inidonea a prendersi cura del figlio, la permanenza in essa non risponde più al suo interesse. In tal caso prevale l'esigenza del minore di ricevere in un nuovo nucleo familiare l'assistenza materiale e soprattutto l'affetto di cui egli ha essenziale bisogno per la sua crescita armoniosa”. Nel diritto vivente l'adozione viene infatti considerata come extrema ratio: C. 13 febbraio 2020, n. 3643: “L'adozione legittimante è l'extrema ratio a cui si deve pervenire quando non si ravvisa alcun interesse del minore di conservare una relazione con i genitori biologici, attesa la condizione di abbandono materiale e morale nella quale si verrebbe a trovare e a vivere”.
[23] Così mi ero espressa nel corso dell'Audizione alla Camera dei deputati sulla riforma delle adozioni tenutasi il giorno 16 maggio 2016.
[24] Proprio la distinzione tra soggetto non ancora nato e soggetto nato ha consentito alla Corte costituzionale nella recente decisione del 25 giugno 2020, n. 127 di ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 263 del codice civile nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità e a contestare la violazione dell'art. 3 Cost con riferimento alla diversa disciplina dettata dall'art. 9 della legge n. 40 del 2004 in tema di procreazione medicalmente assistita. Significativo al riguardo un passaggio argomentativo della Corte: “...Non possono essere equiparate la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di riconoscere un figlio altrui: nel primo caso la volontà porta alla nascita di una persona che altrimenti non sarebbe nata; nel secondo caso la volontà del dichiarante si esprime rispetto ad una persona già nata”.
[25] V. Corte cost. n. 221 del 2019, cit: “Vi è infatti una differenza essenziale tra l'adozione e la PMA. L'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando; essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo....La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza ad una coppia (o a un singolo) realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino quindi deve ancora nascere”.
[26] Tale distinzione tra PMA e procedimento di adozione si pone nella stessa direttiva della distinzione tra status nascente e status acquisito all'estero, v. al riguardo T.Roma, 11 febbraio 2020 n. 3017 e 11 febbraio 2020, n. 2991 e C. 3 aprile 2020, n. 7668. Sul problema del riconoscimento in Italia di un titolo di genitorialità conseguito attraverso un procedimento di adozione all'estero, v. C. 11 novembre 2019, n. 29071, che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
[27] La Corte conferma quanto aveva già affermato nella decisione n. 221 del 2019.
[28] Come detto, tale valutazione è alla base di tutti i procedimenti di adozione in casi particolari e di adozione legittimante.
[29] Tale termine anglosassone viene da noi tradotto come “l'adozione del figlio biologico del coniuge o del partner” (Enciclopedia Treccani) o “l'adozione del configlio” (termine preferito dal Sabatini). Nella nostra legge sull'adozione tale istituto è stato previsto solo per il 'coniuge' (ai sensi dell'art. 44 lett. b) della legge n. 183 del 1984.) La mancanza di una analoga previsione per il 'convivente' o per l'unito civile ha portato la nostra giurisprudenza a prevederlo in applicazione dell'art. 44 lett.d) della legge sull'adozione, presupponendo che l'impedimento dell'affidamento preadottivo debba essere inteso non solo in senso materiale ma anche in senso giuridico.
[30] Basti far riferimento alla lunga vicenda del caso Paradiso e Campanelli c. Italia che si è concluso dopo tanti anni con la decisione della Grande Camera della Cedu, 24 gennaio 2017.
[31] V. T. Venezia, 3 aprile 2019, cit.
[32] V. la già citata C. S.U. n. 12193 del 2019.
[33] Per queste considerazioni si rinvia a M. BIANCA, La tanto attesa decisione delle Sezioni unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?, in Familia, 2019, 371 e ss.
[34] Significativamente al riguardo una recente decisione della Corte di Cassazione francese (del 24 giugno 2020, n. 365) che ha escluso il riconoscimento del diritto di visita dell'anziana compagna della madre in quanto ritenuto pregiudizievole per l'interesse superiore del minore che deve avere “considération primordiale”.
[35] V. Cedu, sezione Grande Camera, 10 aprile 2019, n.16.
[36] V. al riguardo la mia nota critica all'ordinanza interlocutoria n. 8325 del 2020: Il Revirement della Cassazione dopo la decisione a Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato, pubblicato sulla Rivista Giudicedonna.it n. 2 del 2020.
[37] All'interesse concreto del minore all'accertamento del rapporto genitoriale è fatto riferimento in tutte le decisioni in tema di Stepchild Adoption, V. a titolo esemplificativo v. Cass. 26 giugno 2019, n. 1700: “L'art. 44 lett d) della legge n. 184 del 1983 integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l'adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando (e non certo tra quest'ultimo ed i genitori naturali), come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura”.
[38] V. a solo titolo esemplificativo C. 19 ottobre 2011, n. 21651.
[39] V. al riguardo S. STEFANELLI, Risposte all'intervista in materia di maternità surrogata fatta da G. Russo e pubblicate sul sito della Rivista Giustiziainsieme; G. SPADARO – M. TUDISCO, Il destino dei figli della coppia omogenitoriale: quali diritti? In Giustiziacivile.com del 1° Ottobre 2020.
[40] V. C.M. BIANCA, Nuove tecniche genetiche, regole giuridiche e tutela dell'essere umano, in Dir fam. 1987, e ripubblicato in Suo ricordo in Nomos n. 2 del 2020.
[41] V. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1. La famiglia, cit., 408: “La disposizione che rende ora riconoscibili anche i figli nati da parenti, previo accertamento del tribunale che nessun pregiudio ne derivi loro, è improntata all'idea che il riconoscimento dev'essere precluso quando contrasta con l'interesse del figlio e che pertanto la preclusione non ha ragione d'essere quando sia accertato che il riconoscimento è per lui favorevole”
[42] Oltre alla già menzionata evoluzione della disciplina delle azioni di stato nel senso di privilegiare l'interesse del figlio, v. la giurisprudenza di legittimità che per esempio spiega l'impedimento ad esercitare l'azione di disconoscimento della paternità in caso di fecondazione eterologa proprio in ragione della realizzazione dell'interesse del minore: C. 18 dicembre 2017, n. 30294.
[43] V. la recente decisione della Cedu del 13 ottobre 2020, Affaire Koychev c. Bulgarie che, affrontando il caso della contestazione della paternità da parte del genitore biologico, rileva l'esigenza di valutazione di tutti gli interessi, con particolare riferimento al superiore interesse del minore.
[44] V. Corte cost. n. 221 del 2019: “Si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l'uso delle tecnologie meriti si essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato “. (il carattere sottolineato è da me inserito per evidenziare l'attenzione posta dalla Corte all'interesse del minore).
[45] Critico nei confronti di questa impostazione con riflessioni tutte condivisibili, v. G. RECINTO, La Consulta e la legittimità del divieto per coppie dello stesso sesso di ricorrere alla PMA: non sussiste “un diritto assoluto alla genitorialità”, in Giustiziacivile.com del 6 novembre 2019.
[46] Per questo motivo ho rilevato che la cd genitorialità di intenzione è irrilevante per il diritto se non si traduce anche in genitorialità sociale: M. BIANCA, La tanto attesa decisione delle Sezioni unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?, cit., 384.
[47] V. Corte cost. n. 162 del 2014 e n. 221 del 2019.
[48] V. già Corte cost. n. 84 del 2016, principio poi riprodotto nella decisione che si commenta e nella citata decisione n. 221 del 2019.
[49] V. C.M. BIANCA, le opere sul principio di effettività citate alla nota 2 del testo.
[50] V. C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit, 203 e ss., il quale così obiettava a chi contestava il principio di effettività asserendo che tale principio porterebbe ad attribuire autorità normativa ai giudici: “Prendere atto del principio di effettività non vuol dire tuttavia conferire né riconoscere un potere normativo ai giudici né dare ingresso alla 'consuetudine giurisprudenziale' come fonte del diritto....Il diritto effettivo non può dunque essere ricercato nella vincolatività delle sentenze o nell'autorità normativa del giudice. Esso deve essere piuttosto colto nel fatto obiettivo che la norma viene socialmente accettata come norma giuridica secondo determinati significati e contenuti, cioè nel fatto della sua reale operatività. L'accettazione sociale della norma è il fatto dal quale scaturisce il diritto”.
Le misure di allerta interna ed esterna nel nuovo codice della crisi di impresa*
di Lucia De Bernardin
Sommario: 1. Le misure di allerta – 2. La c.d. allerta interna: gli indici della crisi – 3. (segue): il ruolo degli amministratori – 4. (segue): il ruolo degli organi di controllo – 5. La c.d. allerta esterna – 6. Allerta e legislazione di emergenza.
1. Le misure di allerta
Uno dei principali obiettivi che si prefigge il d.lgs.14 del 2019 (di seguito: Codice) è dichiaratamente quello di dare attuazione in Italia alle indicazioni rinvenienti dalla raccomandazione n. 2014/135/UE, ossia consentire alle imprese sane in difficoltà finanziaria di ristrutturarsi in una fase precoce, per evitare l’insolvenza e proseguire l’attività[1].
Si legge nella relazione illustrativa che: “l’importanza di questo obiettivo è molto evidente poiché le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento risanatore, mentre il ritardo nel percepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile”.
Nel perseguire questo proposito viene operata una precisa scelta ideologica, quella secondo cui è necessario rilevare precocemente l’eventuale stato di crisi dell’impresa per poter procedere con tempestività alla sua eliminazione e consentire la prosecuzione dell’attività d’impresa. Scelta che si contrappone ad altra impostazione dogmatica, secondo cui l’ordinamento deve limitarsi a garantire che l’impresa insolvente esca dal mercato e non, invece, positivamente adoperarsi per il superamento della crisi[2].
La scelta del legislatore italiano è in linea con quella del legislatore europeo che da anni si propone l’obiettivo di una rilevazione tempestiva della crisi, nella prospettiva del mantenimento della continuità aziendale per il perseguimento del triplice fine: consentire all’imprenditore di superare lo stato di crisi e di proseguire l’attività imprenditoriale; garantire ai creditori l’ottenimento di un (seppur spesso parziale) soddisfacimento del proprio credito; evitare alla collettività le esternalità negative connesse alla fuoriuscita dal mercato di un’impresa, segnatamente in termini di perdita di posti di lavoro.
Nel codice si trova quindi, innanzitutto, per la prima volta la definizione di: “crisi”, ossia quello: “stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”[3].
L’ambizioso fine di consentire all’imprenditore di individuare tempestivamente l’insorgere di uno stato di crisi per enucleare una soluzione che gli consenta di superarla è stato, poi, attuato tramite un’articolata serie di strumenti che vanno: dall’individuazione di indici rivelatori della crisi, all’imposizione di precisi obblighi in capo all’organo amministrativo e all’organo di controllo di rilevare suddetti indici, alla delineazione di un modello operativo che conduce –in caso di rilevazione degli indici della crisi- o all’individuazione di una soluzione adeguata alla ragione della crisi nell’ambito delle dinamiche interne all’impresa ovvero all’attivazione di un procedimento innanzi a soggetto esterno all’impresa (OCRI) che dovrebbe favorire l’individuazione di tale soluzione[4]. Obblighi di rilevamento e di segnalazione (cd. allerta esterna) sono stati poi posti a carico anche di soggetti pubblici cd. qualificati (Agenzia delle entrate, Inps e Agente per la riscossione).
In attuazione del principio fissato dall’art.14 co.1 lett.a) della legge delega n.155/2017, il sistema dell’allerta trova applicazione a tutti gli imprenditori commerciali costituiti in forma societaria, con l’esclusione di categorie di soggetti che svolgono particolari attività in relazione a cui già esistono specifici regimi di vigilanza[5].
2. La c.d. allerta interna: gli indici della crisi
Per perseguire il proposito di indurre il sistema economico a rilevare tempestivamente la crisi dell’impresa, il legislatore ha dovuto cimentarsi con l’individuazione degli indicatori della crisi, compito non semplice tenuto conto della difficoltà di fissare con definizioni normative -per vocazione destinate all’applicazione nei confronti di tutti i consociati in maniera indiscriminata- caratteristiche per loro natura mutevoli e articolate –quali sono le peculiarità dell’attività d’impresa[6].
Proprio nella prospettiva del mantenimento dell’impresa sul mercato, il legislatore individua gli indici della crisi in quei dati che –in via prospettica- precludono la continuità aziendale[7], ossia quell’attitudine: “dell’impresa a generare flussi economico-finanziari idonei a dare compimento al ciclo produttivo e, dunque, a far fronte regolarmente alle obbligazioni aziendali in un arco temporale di almeno dodici mesi dalla chiusura dell’esercizio”[8].
La non facile missione del legislatore delegato sul punto è stata accompagnata da diverse riflessioni degli aziendalisti che, nel corso dell’iter legis, non hanno mancato di rimarcare le criticità connesse ai diversi criteri di volta in volta individuati, partendo dall’indicazione della legge delega (in cui si venivano in rilievo quali indici: il rapporto fra i mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidità, art.4 lett. h l.155/2017)[9], passando dallo schema di decreto legislativo presentato dal Governo (rapporto fra flusso di cassa e attivo, tra patrimonio netto e passivo, tra oneri finanziari e ricavi, art.13)[10], sino all’attuale formulazione che recepisce le osservazioni della commissione giustizia della Camera volte a: “sostituire il riferimento esplicito ad indicatori specifici con l’indicazione di aree di verifica più rilevanti, alle quali possono ascriversi i rapporti indicati” [11].
Attualmente, quindi, il primo comma dell’articolo sugli indicatori della crisi impone una valutazione circa la possibilità dell’impresa di onorare regolarmente i propri debiti su un termine di medio-breve periodo di sei mesi e nella prospettiva della continuità aziendale, tenuto anche conto: da un lato, dalla sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare; dall’altro dall’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi[12].
Pur a fronte dello sforzo profuso nell’enucleare in via normativa degli indici della crisi aziendale, il legislatore delegato ha, tuttavia, previsto che sia il Consiglio dell’ordine dei dottori commercialisti a individuare -con cadenza triennale- in ragione delle peculiarità delle diverse tipologia di attività imprenditoriale, quali siano gli indici –fra quelli di cui al comma 1- che in concreto consentano di presumere lo stato di crisi[13].
La scelta è stata, quindi, quella di affidare a soggetto diverso dall’organo legislativo -sebbene istituzionale- il compito di individuare gli indici che siano atti a disvelare lo stato di crisi e ciò sulla scorta della comprensibile preoccupazione degli operatori circa la difficoltà di individuare in maniera: “standardizzata” indici effettivamente sintomatici dello stato di crisi, considerate le (anche rilevanti) differenze che possono caratterizzare l’attività d’impresa, vuoi per le sue dimensioni, vuoi per il settore merceologico, vuoi ancora per la zona geografica ove l’attività è sita[14].
La medesima preoccupazione ha, poi, condotto alla formulazione del terzo comma dell’art.13 cci, ossia la possibilità per l’imprenditore di stimare l’inadeguatezza degli indici come sopra individuati in relazione alle caratteristica della propria attività e di indicare quelli che –di contro- considera adeguati, dandone conto nella nota integrativa e previa attestazione da parte di professionista qualificato[15].
Accanto a questo meccanismo di rilevazione degli indici della crisi di carattere più prettamente aziendalistico, sono poi fissati come indicatori della crisi i ritardi reiterati e significativi nei pagamenti, anche sulla base dell’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni e dell’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni, per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti.
Come già osservato, sarà importante verificare come –in concreto- si atteggeranno gli operatori del diritto nell’interpretazione del rapporto fra queste due tipologie di indici di allerta di natura, all’evidenza, non omogenea[16].
3. (segue): il ruolo degli amministratori
Lo strumento dell’allerta interna -ossia l’individuazione dei segnali della crisi all’interno dell’assetto organizzativo dell’impresa- è stato attuato dal legislatore della riforma tramite un duplice canale: da un lato, con la previsione dell’obbligo –in capo all’organo amministrativo- di approntare strutture organizzative in grado di rilevare tempestivamente gli indici della crisi, attivandosi –in caso di rilevazione di tali indici- per il loro superamento[17]; dall’altro, con l’introduzione di obblighi –in capo agli organi di controllo e di revisione delle società- di monitoraggio e di attivazione di un procedimento in prima battuta interno, volto al superamento della situazione di crisi eventualmente rilevata.
Raccogliendo anche spunti di carattere sovranazionale[18], il primo dei citati propositi è stato realizzato con l’introduzione di obblighi organizzativi a carico dell'imprenditore[19].
È stato quindi formulato il secondo comma all'art.2086 cc ai termini del quale: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”[20].
Il medesimo obbligo è stato espressamente esteso alle società di persone (modifica dell’art.2257 cc), alle s.p.a. (modifica degli artt.2380 bis c.c. e 2409 novies cc) e alle s.r.l. (modifica dell’art. 2475 c.c.)[21]. Stante il rimando generale di cui all’art.2519 cc, deve considerarsi sussistente anche in capo alle società cooperative.
L’organo amministrativo dovrà quindi dotare la struttura imprenditoriale di strumenti atti a rilevare l’esistenza di indici della crisi[22] e, ovviamente, la tipologia e le modalità operative di tali strumenti varieranno a seconda della minore o maggiore complessità dell’organizzazione aziendale[23].
Una volta intercettati sintomi di crisi, l’imprenditore deve –inoltre- attivarsi tempestivamente per la sua rimozione con l’adozione di: “uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”, immaginandosi che –a seconda della gravità della crisi rilevata- venga alternativamente adottato un rimedio di carattere interno –nelle ipotesi meno gravi- ovvero l’attivazione del procedimento innanzi all’OCRI ai sensi degli artt.18 e ss. cci[24].
Il codice della crisi estende poi agli amministratori di s.r.l. –nei limiti della compatibilità- gli obblighi già previsti dall’art.2381 cc nell’ambito delle società per azioni e, segnatamente, l’obbligo di curare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile in relazione alla natura e alle dimensioni dell'impresa e quello di relazionare con periodicità almeno semestrale sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione[25].
In altre parole, le società di capitali debbono ora dotarsi di strutture la cui adeguatezza non sarà più valutabile in relazione a parametri quantitativi o qualitativi, bensì (anche) in ragione del dato finalistico costituito dalla loro capacità di rilevare i sintomi della crisi e di attivare meccanismi per il recupero della continuità[26].
Pur con quelle che saranno le invitabili diversità dovute alle caratteristiche dimensionali, strutturali e dell’attività espletata da ciascun imprenditore, le modifiche del codice civile appaiono inesorabilmente destinate a incidere sul modo in cui –tradizionalmente- è stato considerato il cd. “merito imprenditoriale”[27].
Le scelte della strategia d’impresa sono, infatti, tendenzialmente considerate sottratte a censure (anche) in sede giurisdizionale e ciò in estrinsecazione della dedotta insindacabilità del business judgement rule[28]. La responsabilità dell’amministratore per i danni cagionati nell’ambito dell’attività d’impresa viene, infatti, usualmente individuata in condotte di mala gestio consistenti non in scelte imprenditoriali, bensì in violazioni di disposizioni di legge ovvero nell’adozione di scelte palesemente e conclamatamente irragionevoli. Viene ora introdotto un nuovo obbligo che apre un potenziale fronte sconosciuto di sindacato delle scelte operate dall’imprenditore in relazione all’adeguatezza dell’assetto organizzativo approntato[29].
Se alla superiore constatazione si aggiunge che il codice della crisi ha anche introdotto: tanto l’obbligo per l’imprenditore di assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della procedura anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori, oltre che di gestire il patrimonio o l’impresa durante la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza nell’interesse prioritario dei creditori[30]; quanto un’espressa previsione di responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale[31], non appare più dubitabile il recepimento nel nostro ordinamento di quelle che sono le riflessioni della dottrina aziendalistica anglosassone secondo cui, in coincidenza con la twilight zone (ossia coll’insorgenza di sintomi della crisi), la libertà che connota l’attività d’impresa usualmente orientata al perseguimento del massimo profitto nell’interesse dell’imprenditore, deve essere –invece- improntata al diverso fine di tutela dell’aspettativa dei creditori di ottenere il soddisfacimento dei propri crediti[32].
La conseguenza che si intravede è che mentre sinora nell’ambito delle azioni di responsabilità è stata prestata scarsa attenzione all’operato dell’imprenditore (o del suo organo gestorio) quanto al comportamento tenuto nella twilight zone ravvisandosi sul tema scarna riflessione dogmatica e altrettanto rara giurisprudenza appuntandosi gli addebiti al più sull’esecuzione di comportamenti pregiudizievoli di carattere commissivo (quali ad esempio rimborso finanziamenti in violazione dell’art.2467 cc ovvero prosecuzione dell’attività d’impresa in situazioni di liquidazione di fatto che imporrebbero la ricapitalizzazione ovvero una gestione conservativa), d’ora innanzi suddetto operato sarà soggetto a vaglio critico a posteriori e ciò, si ritiene, non soltanto con riferimento all’an dell’attivarsi dell’imprenditore quanto (soprattutto) al quomodo e, quindi, all’adeguatezza della scelta in concreto operata e delle attività compiute[33].
Quasi a contrappeso delle accresciute responsabilità, il legislatore delegante aveva dettato fra i criteri direttivi quello relativo alla previsione di misure premiali per i soggetti che attivano tempestivamente i meccanismi di allerta innanzi illustrati[34].
Ne è conseguita l’introduzione di misure premiali di natura civile che attengono –in via generale- alla riduzione di interessi e sanzioni su tributi nel corso dell’espletamento della procedura innanzi all’OCRI ovvero di agevolazioni in caso di opzione per lo strumento del concordato preventivo quale modalità di superamento della crisi[35].
Sempre in favore dell’imprenditore in caso di accesso alla procedura innanzi all’OCRI sono poi previste cause di non punibilità per le ipotesi in cui i reati connessi all’esercizio dell’attività d’impresa abbiano cagionato un danno di particolare tenuità ovvero attenuanti ad effetto speciale, con riduzione della pena sino alla metà[36].
4. (segue): il ruolo degli organi di controllo
Come accennato, il secondo dei menzionati propositi è stato realizzato introducendo nuovi oneri di vigilanza in capo agli organi di controllo societari, al revisore contabile e alla società di revisione, già nella fase fisiologica dell’attività d’impresa[37], a integrazione di quelli esistenti[38].
Un siffatto controllo deve immaginarsi possibile anche grazie allo scambio di informazioni ex art.2409 septies cc ed è agevolato dall’introduzione di un obbligo di segnalazione anche all’organo di controllo societario delle eventuali variazioni di variazioni, revisioni o revoche di affidamenti da parte degli istituti di credito[39].
Ancor prima che nell’ambito di un eventuale contezioso civile, l’adeguatezza delle scelte imprenditoriali volte alla rilevazione degli indici della crisi sarà quindi oggetto di vaglio da parte dell’organo di controllo, con quella che è stata stigmatizzata come una profonda innovazione del ruolo di quest’ultimo che -sinora tendenzialmente confinato in un ruolo di verifica di legittimità formale a posteriori dell’operato dell’organo amministrativo- ne diventa un necessario interlocutore nella fase di definizione degli accorgimenti volti all’individuazione dei segnali di crisi[40].
La verifica dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo durante tutto il corso dell’attività d’impresa si accompagna poi all’introduzione di un preciso obbligo di attivazione a carico dei medesimi soggetti nell’ipotesi di rilevazione di: “fondati indizi di crisi”.
Anche a prescindere da approfondimenti in questa sede circa l’esatta portata di questa locuzione, ciò nondimeno non può non rilevarsi come, anche in questa ipotesi, il ruolo degli organi di controllo si atteggia quale vero e proprio complemento dell’agire dell’amministratore, sopperendo alla sua eventuale inerzia e attivando il procedimento introdotto dall’art.14 co.2 cci che prevede in prima battuta la sollecitazione all’organo amministrativo di adozione di soluzioni adeguate al superamento della crisi, contempla poi un potere di valutazione dell’adeguatezza delle misure adottate e, in caso di insuccesso, ne disciplina la segnalazione della situazione all’OCRI[41].
La portata innovativa di queste disposizioni è amplificata da ulteriori modifiche al codice civile volte ad ampliare il novero delle società tenute a dotarsi di collegio sindacale[42]. Si tratta di disposizioni le cui ricadute concrete non sono ancora state vagliate stante il differimento al bilancio di esercizio 2021 dell’obbligo di nomina e adeguamento degli statuti societari[43], con la particolarità che la legge ha espressamente indicato nel Conservatore del registro delle imprese quale soggetto tenuto alla segnalazione al Tribunale dell’omesso adeguamento da parte delle società[44].
Proiezioni sulla scorta dei dati disponibili hanno già denunciato un aumento importante del numero di società a responsabilità limitata che saranno tenute a dotarsi collegio sindacale che dovrebbero passare dall’attuale 3% circa a una percentuale variabile fra il 28,5% al 35%[45], e ciò segnatamente in ragione dell’introduzione del (nuovo) parametro relativo al numero dei dipendenti, dato che –secondo i primi interpreti che si sono occupati del tema- potrebbe comportare ripercussioni sul versante occupazionale per l’assunto anelito delle società a rimanere sottratte all’obbligo di dotarsi di collegio sindacale[46].
Così come per l’organo amministrativo, anche per l’organo di controllo le modifiche apportate al codice civile dal codice della crisi paiono in grado di impattare in maniera significativa e sistematica sul ruolo tradizionalmente riconosciutogli dal diritto societario, non solo durante l’eventuale fase dell’insorgenza e della gestione della crisi, ma –più in radice- sull’ordinario assetto dei rapporti fra soggetti che partecipano alla realtà dell’impresa.
In primo luogo, infatti, la circostanza che gli organi di controllo siano chiamati a verificare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo approntato dall’organo gestorio ai fini della rilevazione tempestiva dei segnali di crisi comporterà inevitabilmente –a monte- un confronto fra i due organi che sarà necessario mantenere tale e non trasformarlo in un’opera di supplenza dei primi rispetto all’eventuale inerzia o incapacità del secondo[47].
In secondo luogo, già da più parti è stato palesato il timore che questo nuovo ruolo degli organi di controllo possa condurre a situazioni di tensione, vuoi con la proprietà vuoi con l’organo gestorio, tensione per il rischio che i primi indulgano in un eccesso di cautela nelle segnalazioni all’OCRI per beneficiare delle esenzioni da responsabilità connesse alle misure premiali[48], rivelando in via eccessivamente anticipata i profili di crisi aziendale.
Per garantire che –pur con gli inevitabili assestamenti dovuti alla nuova disciplina- gli assetti societari mantengano il loro equilibrio, le segnalazioni degli organi di controllo dovranno quindi essere gestite con estrema cautela e professionalità, tenuto anche conto che –in sede di segnalazione all’OCRI- la legge li esonera espressamente dal dovere di segretezza ex art.2407 cc sui fatti conosciuti per le ragioni del loro ufficio[49].
5. La c.d. allerta esterna
Un fronte del tutto originale aperto dal codice della crisi e dell’insolvenza è poi quello della cd. allerta esterna.
Sempre al deliberato fine di sollecitare l’imprenditore a prendere consapevolezza del proprio stato di crisi il legislatore italiano ha previsto che determinati enti pubblici qualificati (Agenzia delle entrate, INPS e Agente per la riscossione) segnalino al debitore il superamento di determinate soglie di indebitamento[50], diversamente individuate in ragione del soggetto segnalante[51].
La disposizione appare solo parzialmente ispirata alle prescrizioni della direttiva (UE) 2019/1023 (cd. direttiva Insolvency) che immagina –quale strumento di allerta- la rilevazione dell’indebitamento da parte di soggetti qualificati, ma ciò nella prospettiva della sola segnalazione di tale circostanza all’imprenditore[52]. Nello scenario previsto dal legislatore italiano, invece, l’eventuale mancato riscontro da parte del debitore –nella forma di prova: vuoi dell’estinzione del debito, vuoi della presentazione di istanza di composizione assistita della crisi o di domanda per l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza- comporta l’onere per i soggetti pubblici qualificati di procedere con la segnalazione all’OCRI perché venga attivato il procedimento di cui agli artt.17 e ss. cci[53].
Su altro versante, verosimilmente consapevole dell’usuale inerzia o comunque ritardo con cui i creditori pubblici qualificati tutelano in sede giurisdizionale il proprio credito -come attestato: da un lato, dagli importi milionari dei crediti per i quali questi si insinuano nei passivi dei fallimenti; dall’altro, dalla (quasi) assenza di istanze di fallimento proposte da tali soggetti che pur hanno tutti gli strumenti per rilevare il crescere del debito e l’avviarsi verso lo stato di crisi dell’imprenditore- il legislatore ha introdotto misure sanzionatorie ove i suddetti enti non si attivino nei termini imposti dalla legge, consistenti per gli enti impositori nella perdita del privilegio e per l’agente per la riscossione nella perdita dei diritti per l’attività di riscossione[54].
La previsione appare un sicuro deterrente per il protrarsi di simili comportamenti da parte dei creditori qualificati, stante la notoria tendenziale incapienza degli attivi fallimentari rispetto ai crediti chirografari.
6. Allerta e legislazione di emergenza
A causa del dilagare della pandemia del COVID19, l’entrata in vigore dell’intero codice della crisi è stata posticipata al 21 settembre 2021[55].
Pur nella consapevolezza della quantità di profili problematici che la legislazione dell’emergenza pone contemporaneamente su una pluralità di fronti (dal diritto societario al diritto fallimentare, passando da questioni di natura contabile e aziendalistica, con ineludibili problematiche di natura civilistica) ci si permette di chiudere la presente riflessione sull’allerta societaria con due considerazioni su come l’allerta sia non solo non accantonabile, ma anche –forse- possa essere uno strumento per traghettare le imprese in crisi (non solo) da COVID19 verso un rinnovato recupero della continuità aziendale.
In primo luogo, deve rimarcarsi che se è vero che gli obblighi di segnalazione all’OCCRI di cui agli artt.14 e 15 cci e il conseguente procedimento (ossia la parte più innovativa del codice per via del coinvolgimento di un soggetto esterno all’impresa nell’individuazione di una soluzione alla crisi) saranno legge a partire dal prossimo autunno, comunque è rimasta e rimane vigente la disposizione che impone all’imprenditore collettivo l’adozione di assetti organizzativi adeguati e di attivarsi senza indugio per l’adozione degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e per il recupero della continuità aziendale.
Non pare potersi affermare che tali obblighi siano venuti meno per via delle disposizioni della legislazione emergenziale che ha –fra le altre cose- sospeso gli obblighi di ricapitalizzazione[56] e fissato una presunzione di continuità aziendale nella redazione del bilancio di esercizio 2020[57] trattandosi di disposizioni volte a sospendere con una fictio iuris l’automaticità di alcune previsioni di legge a fronte di situazioni sintomatiche ed emblematiche di una situazione di crisi[58], che non sembrano –tuttavia- esonerare l’imprenditore dal potere (se non dovere) di attivarsi per ricercare una soluzione alla crisi insorgente[59], disvelata dalla perdita di continuità aziendale: “di fatto”.
In altri termini, pur a fronte della difficoltà di individuare una scelta strategica atta a consentire il superamento della crisi stante l’aleatorietà dei dati economici che rendono difficoltosa l’elaborazione di un piano industriale di ampio respiro, non pare che sia venuto meno l’obbligo per l’amministratore di individuare e monitorare tutti gli elementi che –a valle della causa di tutta la legislazione emergenziale, ossia la diffusione della pandemia da COVID19- costituiscono de facto la ragione della crisi (es. arresto dei flussi di cassa per via dell’obbligo di tenere chiuso l’esercizio commerciale ovvero per via del mancato pagamento da parte dei debitori, arresto della produzione per via della mancata ricezione delle forniture dall’estero, ecc…).
Così come non pare che la sospensione degli obblighi civilistici indicati esoneri dall’obbligo di ricerca di una soluzione della crisi, pur a fronte dell’assenza di strumenti ad hoc che tengano conto delle peculiarità delle ragioni della crisi, segnatamente con riferimento alla problematica relativa alla difficoltà di effettuare previsioni economiche di medio respiro, con le conseguenti ripercussioni in ordine alla difficoltà di immaginare e attestare piani di risanamento o di ristrutturazione aziendali.
La seconda riflessione –strettamente legata a quella che precede, ma non a questa perfettamente sovrapponibile- attiene all’attività degli amministratori durante il periodo della sospensione degli obblighi civilistici indicati, se si considera la mancata introduzione di un’esenzione dalle azioni revocatorie o da responsabilità penali in capo all’amministratore[60].
Questo significa che –a maggior ragione- può essere importante per l’imprenditore disporre di un assetto organizzativo che gli consenta di operare scelte razionali e consapevoli che –anche in mancanza di un piano di ristrutturazione- possa fornire una giustificazione e una spiegazione alle scelte operate sia in termini civilisti, che penalistici.
*Relazione di sintesi dell’intervento svolto al corso “Doveri e responsabilità dell’imprenditore nella gestione dell’impresa in forma collettiva, alla lice dell’art. 2086 c.c. riformato”, organizzato, da remoto, dal 11 al 13 novembre 2020, dalla Scuola Superiore della Magistratura, in collaborazione con la formazione decentrata di Perugia
[1] La relazione illustrativa al codice osserva peraltro che: “la necessità dell'ingresso anticipato in procedura dell'imprenditore in crisi è principio riconosciuto da tutti gli ordinamenti e fa parte dei principi elaborati dall'UNCITRAL e dalla Banca Mondiale per la corretta gestione della crisi d'impresa”, Parte prima. Titolo II. Capi I, II, III e IV
[2] Si tratta della medesima scelta ideologica che si pone alla base della normativa comunitaria, segnatamente della Raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014 (2014/135/UE) e della Proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio, Strasburgo, 22.11.2016, COM (2016) 723 Final in cui viene dato grande risalto anche agli effetti positivi che la continuità aziendale garantisce al sistema bancario (cui viene consentito il recupero di, almeno parte, dei crediti –altrimenti- deteriorati) e alla libera circolazione delle imprese (che non saranno impedite dall’avvio di rapporti economici con imprese di altri paesi né si asterranno dall’avviare attività economiche negli altri paesi in ragione del timore di non poter ottenere utili certi).
[3] Art.2, co.1 lett.a Codice della crisi e dell’insolvenza. Secondo la scienza aziendalistica la crisi dell’impresa si articola, usualmente, su cinque fasi: Fase 1 - Incubazione della crisi e allerta interna “informale”; Fase 2 - Maturazione della crisi e allerta interna “formale”; Fase 3 - Crisi conclamata reversibile, allerta interna “verso l’esterno” e allerta esterna; Fase 4 - Insolvenza reversibile e ricorso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza; Fase 5 - Insolvenza conclamata e istanza di liquidazione giudiziaria (cfr. sul punto: A. Danovi, P. Riva, Le cinque fasi della crisi e dell’allerta, in www.ilfallimentarista.it). Gli Autori rilevano anche come: “Nel suo normale ciclo di vita, l’impresa può incorrere in periodi di crisi. Individuare per tempo quelli che possono esserne i segnali è una necessità: se la crisi è monitorata tempestivamente e con gli opportuni provvedimenti può essere risolta e, a volte, rappresentare anche una opportunità di crescita. Il concetto di crisi, per gli imprenditori, è complesso da affrontare; molti di essi mostrano un atteggiamento di rigetto nei confronti di questa eventualità e hanno una sostanziale difficoltà ad ammettere il declino, almeno fintanto che non assuma una rilevanza tale che la crisi non può più essere occultata. Le crisi, infatti, sono in genere precedute da fasi di declino che, se tempestivamente diagnosticate ed affrontate, consentono di fermare il processo degenerativo ed innescare una inversione di rotta (turnaround). Spesso le crisi si manifestano non perché siano inevitabili, ma perché le imprese non riescono a cogliere i segnali di allarme, non sono in grado di limitare gli effetti dannosi e soprattutto di monitorare le minacce per prevenirle”.
[4] L’art.12 cci co.1: “costituiscono strumenti di allerta gli obblighi di segnalazione posti a carico dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15, finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione”.
[5] Art.12 co.4 e 5: “4. Gli strumenti di allerta si applicano ai debitori che svolgono attività imprenditoriale, esclusi le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione, le società con azioni quotate in mercati regolamentati, o diffuse fra il pubblico in misura rilevante secondo i criteri stabiliti dal Regolamento della Commissione Nazionale per le società e la borsa - CONSOB concernente la disciplina degli emittenti. 5. Sono altresì escluse dall’applicazione degli strumenti di allerta: a) le banche, le società capogruppo di banche e le società componenti il gruppo bancario; b) gli intermediari finanziari iscritti nell’albo di cui all’articolo 106 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n.385; c) gli istituti di moneta elettronica e gli istituti di pagamento; d) le società di intermediazione mobiliare, le società di gestione del risparmio, le società di investimento a capitale variabile e fisso, le società capogruppo di società di intermediazione mobiliare e le società componenti il gruppo; e) i fondi comuni di investimento, le succursali di imprese di investimento e di gestori esteri di fondi di investimento alternativi; i depositari centrali; f) le fondazioni bancarie di cui al decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153; g) la Cassa depositi e prestiti di cui al decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n.326; h) i fondi pensione; i) le imprese di assicurazione e riassicurazione di cui al codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209. l) le società fiduciarie di cui all’articolo 199 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; le società fiduciarie, le società fiduciarie e di revisione e gli enti di gestione fiduciaria disciplinati dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966; le società di cui all’articolo 2 del decreto legge 5 giugno 1986, n. 233, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 agosto 1986, n. 430; le società fiduciarie di cui all’articolo 60, comma 4, del decreto legislativo 23 luglio 1996, n. 412”.
[6] Secondo gli aziendalisti: “la crisi rappresenta una fase di squilibrio economico – finanziario, che è in grado, se non affrontata, di mettere a repentaglio la continuità aziendale. Le tre condizioni di equilibrio aziendale: i) economica, ii) finanziaria e iii) patrimoniale, vanno tenute nella massima considerazione da parte degli organi di governance e di controllo, i quali dovranno considerare l’unitarietà delle oscillazioni, come se fossero aggregate in un unico contenitore. La perdita di marginalità che origina il disequilibrio economico nel tempo, falcidia il capitale netto ed intacca la solidità patrimoniale dell’azienda. Inizia in tal modo a disgregarsi l’equilibrio patrimoniale, con un conseguente incremento dell’indebitamento. Il disequilibrio finanziario e patrimoniale, originato solitamente dal disequilibrio economico, provoca indirettamente un ulteriore aggravamento del conto economico, mediante l’incremento degli oneri finanziari. La patologia è rappresentata dai seguenti valori apicali negativi: i) il patrimonio netto azzerato ii) il cash flow azzerato. Insomma per definirla semplicemente, per i giuristi, è l’insolvenza prospettica o futura” (A. Ferri, La procedura di allerta tra il D.L. n. 83/2015, la legge delega di riforma e le bozze di decreti attuativi, in www.ilfallimentarista.it).
[7] Sul nuovo ruolo del concetto di continuità aziendale nell’ambito della sfera gestoria dell’impresa e non più meramente contabile cfr., da ultimo: F. Foglietta, La continuità aziendale nel nuovo CCII tra scansione temporale e obblighi degli amministratori, in Le società, 8-9/2020, 821 e ss.
[8] L. GAMBI, Continuità aziendale e responsabilità degli amministratori, www.ilfallimentarista.it.
[9] Cfr. per un commento alle criticità insite in questi indici: R. Ranalli, Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi: insidie ed opportunità, in www.ilfallimentarista.it.
[10] R. Ranallli, Il codice della crisi gli “indicatori significativi”: la pericolosa conseguenza di un equivoco al quale occorre porre rimedio, in www.ilcaso.it in cui si stigmatizza il rischio che tali indici comporti il verificarsi di: “falsi positivi”.
[11] Cfr. commento all’art.13 della relazione illustrativa. Per alcune di queste riflessioni: Cfr. R. Ranallli, Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi: insidie e opportunità, in www.ilfallimentarista; P. Bastia, Soluzioni per l’accertamento precoce della crisi, in www.osservatorio-oci.org.
[12] Art.13: “1. Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto nell’articolo 24”.
[13] Art.13: “2. Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, tenuto conto delle migliori prassi nazionali ed internazionali, elabora con cadenza almeno triennale, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica secondo le classificazioni I.S.T.A.T., gli indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa. Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili elabora indici specifici con riferimento alle start-up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n.179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n.221, alle PMI innovative di cui al decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, alle società in liquidazione, alle imprese costituite da meno di due anni. Gli indici elaborati sono approvati con decreto del Ministero dello Sviluppo economico”. La prima elaborazione di: “Crisi d’impresa. Gli indici dell’allerta” è stato pubblicato il 20 ottobre 2019 ed è reperibile su: https://commercialisti.it/documents/20182/1236821/codice+crisi_definizioni+indici+(ott+2019).pdf/2072f95c-22a2-41e1-bd2f-7e7c7153ed84.
[14] Cfr. per uno dei primi commenti alla disposizione: C. Sottoriva – A. Cerri, Sulle modalità di conteggio del requisito dimensionale dei dieci dipendenti: Le modifiche alla disciplina civilistica in tema di governance nel nuovo Codice della crisi, in www.ilsocietario.it.
[15] Art.13: “3. L’impresa che non ritenga adeguati, in considerazione delle proprie caratteristiche, gli indici elaborati a norma del comma 2 ne specifica le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio e indica, nella medesima nota, gli indici idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in rapporto alla specificità dell’impresa. L’attestazione è allegata alla nota integrativa al bilancio di esercizio e ne costituisce parte integrante. La dichiarazione, attestata in conformità al secondo periodo, produce effetti per l’esercizio successivo”. Il Decreto legislativo del 26 ottobre 2020, n. 147: “Disposizioni integrative e correttive a norma dell'articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155” (di seguito: decreto correttivo) chiarisce che gli effetti si producono: “a partire dall’esercizio successivo” e non: “per l’esercizio successivo”.
[16] Stigmatizza il rischio che si venga così a creare: “uno scenario in cui la crisi diviene definita come tale al verificarsi almeno di una delle tre condizioni per godere delle misure premiali e quindi l’imprenditore non misura più tanto la propria crisi con la costante rilevazione della inadeguatezza dei flussi di cassa, quanto invece con l’osservazione dei tre indici di tempestività”, di F. Diomeda, Continuità aziendale: capitale di funzionamento e procedure di allerta, in www.ilsocietario.it.
[17] Art.14 lett.b della legge delega n.155/2017 aveva disposto che venisse introdotto sia a carico dell’imprenditore che degli organi amministrativi l’obbligo di: a) di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale; b) di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale
[18] Considerando 16 della proposta di direttiva: "Tra i possibili meccanismi di allerta dovrebbero figurare obblighi di contabilità e monitoraggio in capo al debitore o ai dirigenti del debitore e obblighi di segnalazione nell’ambito dei contratti di prestito".
[19] La relazione di accompagnamento ai decreti legislativi presentati dalla cd. Commissione Rordorf indica gli obblighi organizzativi quali misure di allerta, così come l’art.12 del Codice chiarisce che: “Costituiscono strumenti di allerta gli obblighi di segnalazione posti a carico dei soggetti di cui agli artt.14 e 15, finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione”.
[20] Art.375 cci, disposizione entrata in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione del d.lgs.14/2019 in Gazzetta ufficiale (art.389 co.2 cci), avvenuta il 14 febbraio 2019.
[21] Art.377 co.1-4 cci.
[22] A riguardo, vale la pena segnalare che al fine di fugare i dubbi sollevati in relazione all’apparente contraddizione tra le disposizioni del codice civile che consentono di affidare ai soci competenza gestorie (es. art.2479 cc) ovvero particolari diritti riguardanti l’amministrazione delle società (es. art.2468 co.3 cc) il decreto correttivo è nuovamente intervenuto sul codice civile precisando che –ferme restando le regole generali sulle competenze gestorie- l’istituzione degli assetti organizzativi spetta in via esclusiva agli amministratori (cfr. art.40 decreto correttivo cit. e relativa relazione illustrativa).
[23] Stigmatizza le difficoltà di immaginare modelli unitari di rilevazione dello stato di crisi in ragione delle crescenti dimensioni dell’organizzazione imprenditoriale: P. Bastia, Soluzioni, cit.
[24] Per un’illustrazione dei diversi strumenti cui può ricorrere l’amministratore per fronteggiare l’insorgenza della crisi: A. Nigro – D. Vattermoli, Disciplina delle crisi dell’impresa societaria, doveri degli amministratori e strumenti di pianificazione: l’esperienza italiana, in www.ilcaso.it.
[25] Art.377 co.5 cci: “5. All’articolo 2475 del codice civile, dopo il quinto comma è aggiunto il seguente: “Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 2381.”
[26] Cfr. in tema: V. De Sensi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Rivista delle società, 2017, 311 e ss.
[27] Sottolinea la necessità di tenere distinti la responsabilità per difetto di istituzione di adeguati assetti organizzativi e la responsabilità per mancata tempestiva reazione a fronte del manifestarsi della crisi: R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli organi di società alla luce del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. società, 2019, 929 e ss.
[28] Sul tema si segnala la ricostruzione sistematica che si legge in: Business judgement rule e mercati finanziari, S. Alvaro, E. Cappariello, V. Gentile, E.R. Iannaccone, G. Mollo, S. Nocella, M. Ventoruzzo; con prefazione a cura di P. Marchetti, Quaderni CONSOB, 11 novembre 2016.
[29] Cfr. sul tema: L. A. Bottai, “Le modifiche al codice civile dettate dalla L. n. 155/2017 e l’affermazione del diritto concorsuale societario”, in www.ilfallimentarista.it che rileva come: “le scelte imprenditoriali degli amministratori non siano più insindacabili (secondo la business judgement rule) ogni qualvolta le conseguenze negative siano riconducibili, almeno in parte, al difetto di organizzazione dell’impresa stessa; pregiudizio per la società e i creditori in termini di aggravamento del dissesto o di peggioramento delle condizioni patrimoniali, si configurerà piena responsabilità di entrambi gli organi”.
[30] Art.4 co.1 lett. b e c.
[31] Cfr. art.378 co.1 cci che aggiunge il comma 5 all’art.2476 cc del seguente tenore: “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi.”
[32] Significativo di questo nuovo modo di intendere il ruolo degli imprenditori (amministratori) è il Considerando 70 della Direttiva (Ue) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza): "Per promuovere ulteriormente la ristrutturazione preventiva è importante garantire che i dirigenti non siano dissuasi dal prendere decisioni commerciali ragionevoli o dal correre rischi commerciali ragionevoli, in particolare ove potrebbero migliorare le probabilità di successo della ristrutturazione di un'impresa potenzialmente economicamente sostenibile. Qualora l’impresa versi in difficoltà finanziarie, i dirigenti dovrebbero prendere le misure opportune, quali: richiedere consulenza professionale, anche sulla ristrutturazione e sull'insolvenza, ad esempio facendo ricorso a strumenti di allerta, se del caso; proteggere gli attivi della società in modo da massimizzarne il valore ed evitare perdite di attivi fondamentali; esaminare la struttura e le funzioni dell'impresa per valutarne la sostenibilità economica e ridurre le spese; non impegnare l'impresa in tipi di operazioni che potrebbero essere oggetto di azioni revocatorie, a meno che sussista un’adeguata giustificazione commerciale; proseguire gli scambi commerciali nelle circostanze in cui è opportuno per massimizzare il valore della continuità aziendale e avviare trattative con i creditori e procedure di ristrutturazione preventiva”.
Nella stessa prospettiva di tutela del ceto creditorio è il Considerando 71 della direttiva secondo cui: “Se il debitore è prossimo all'insolvenza, è inoltre importante proteggere i legittimi interessi dei creditori da decisioni di gestione che potrebbero ripercuotersi sulla costituzione della massa fallimentare, in particolare se tali decisioni possono avere l'effetto di diminuire ulteriormente il valore della massa disponibile per la ristrutturazione o la distribuzione ai creditori. È pertanto necessario assicurarsi che, in tali circostanze, i dirigenti evitino condotte che, deliberatamente o per grave negligenza, determinino l'arricchimento personale a spese dei portatori di interessi, evitare che accettino operazioni sotto il valore di mercato o intraprendano azioni che possano portare a ingiusta preferenza di uno o più portatori di interessi. Gli Stati membri dovrebbero poter attuare le corrispondenti disposizioni della presente direttiva provvedendo affinché l'autorità giudiziaria o amministrativa, nel valutare se un dirigente debba esser ritenuto colpevole di violazioni del dovere di diligenza, tenga conto delle norme in materia di obblighi dei dirigenti di cui alla presente direttiva. La presente direttiva non intende stabilire alcuna gerarchia tra le varie parti i cui interessi devono essere tenuti in debita considerazione. Ciononostante, gli Stati membri dovrebbero poter decidere sulla definizione di una tale gerarchia. La presente direttiva dovrebbe lasciare impregiudicate le norme nazionali degli Stati membri relative ai processi decisionali all'interno di una società".
Nell’ordinamento interno, si segnala che il tema del comportamento dell’amministratore nella fase: “crepuscolare” dell’impresa è stato recentemente oggetto di riflessione in relazione ai pagamenti dei creditori: Cassazione civ., sez. III, 15 gennaio 2020, n.521, annotata da M. Fabiani, in Il Fallimento, 2020, 333 e ss: “La regola della par condicio creditorum all’esterno della procedura di concorso”.
[33] Nell’ordinamento interno, si segnala che il tema del comportamento dell’amministratore nella fase: “crepuscolare” dell’impresa è stato recentemente oggetto di riflessione in relazione ai pagamenti dei crediti che dovrebbero –anche in questa fase- seguire l’ordine delle cause legittime di prelazione (Cassazione civ., sez. III, 15 gennaio 2020, n.521, annotata da M. Fabiani, in Il Fallimento, 2020, 333 e ss: “La regola della par condicio creditorum all’esterno della procedura di concorso”).
[34] Cfr. art.4 lett h legge delega n.155/2017 che prevedeva l’introduzione di: “misure premiali, sia di natura patrimoniale sia in termini di responsabilità personale in favore dell’imprenditore che ha tempestivamente proposto istanza di cui alla lettera b”, ossia il ricorso all’OCRI.
[35] Art.25: “1. All’imprenditore che ha presentato all’OCRI istanza tempestiva a norma dell’articolo 24 e che ne ha seguito in buona fede le indicazioni, ovvero ha proposto tempestivamente ai sensi del medesimo articolo domanda di accesso a una delle procedure regolatrici della crisi o dell’insolvenza di cui al presente codice che non sia stata in seguito dichiarata inammissibile, sono riconosciuti i seguenti benefici, cumulabili tra loro: a) durante la procedura di composizione assistita della crisi e sino alla sua conclusione gli interessi che maturano sui debiti tributari dell’impresa sono ridotti alla misura legale; b) le sanzioni tributarie per le quali è prevista l’applicazione in misura ridotta in caso di pagamento entro un determinato termine dalla comunicazione dell’ufficio che le irroga sono ridotte alla misura minima se il termine per il pagamento scade dopo la presentazione dell’istanza di cui all’articolo19, comma 1, o della domanda di accesso ad una procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza; c) le sanzioni e gli interessi sui debiti tributari oggetto della procedura di composizione assistita della crisi sono ridotti della metà nella eventuale procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza successivamente aperta; d) la proroga del termine fissato dal giudice ai sensi dell’articolo 44 per il deposito della proposta di concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti è pari al doppio di quella che ordinariamente il giudice può concedere, se l’organismo di composizione della crisi non ha dato notizia di insolvenza al pubblico ministero ai sensi dell’articolo 22; e) la proposta di concordato preventivo in continuità aziendale concorrente con quella da lui presentata non è ammissibile se il professionista incaricato attesta che la proposta del debitore assicura il soddisfacimento dei creditori chirografari in misura non inferiore al 20% dell’ammontare complessivo dei crediti”.
[36] Art.25: “2. Quando, nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b), limitatamente alle condotte poste in essere prima dell’apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l’istanza all’organismo di composizione assistita della crisi d’impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell’insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti. Fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità, per chi ha presentato l’istanza o la domanda la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza, il valore dell’attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell’ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l’importo di 2.000.000 euro”.
[37] Art. 14 (Obbligo di segnalazione degli organi di controllo societari): “1.Gli organi di controllo societari, il revisore contabile e la società di revisione, ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni, hanno l’obbligo di verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l’assetto organizzativo dell’impresa è adeguato, se sussiste l’equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi”.
[38] Cfr. sul punto, da ultimo: C. Cengia, Collegio sindacale di s.p.a.: poteri, doveri e responsabilità, in www.ilsocietario.it.
[39] Art.14 co.4: “4. Le banche e gli altri intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del testo unico bancario, nel momento in cui comunicano al cliente variazioni o revisioni o revoche degli affidamenti, ne danno notizia anche agli organi di controllo societari, se esistenti.”
[40] Cfr. sul tema: A. Luciano, Le “procedure di allerta” previste dalla c.d. riforma Rordorf: un nuovo ruolo per amministratori e sindaci?, in www.ilsocietario.it che osserva come: “la Riforma delinei un “nuovo” ruolo per l’organo di controllo (e, per gli aspetti di sua competenza, per il revisore dei conti), il quale – per mezzo delle valutazioni di cui sopra e nei limiti delle stesse – diviene “parte attiva” nel processo non solo di rilevazione, ma anche di gestione della crisi dell’impresa societaria. Resta inteso che anche qualora le previsioni disposte dalla “Riforma” entrino in vigore, la funzione gestoria continuerà formalmente a spettare in via esclusiva agli amministratori (cfr., con riguardo alle s.p.a., il disposto dell’art. 2380-bis c.c.). Può facilmente immaginarsi, però, come le regole esposte in precedenza siano idonee perlomeno a generare una dialettica tra l’organo amministrativo e i sindaci, funzionale a individuare le decisioni maggiormente “adeguate” e “necessarie” in rapporto alla crisi”.
[41] Art.14: “2.La segnalazione deve essere motivata, fatta per iscritto, a mezzo posta elettronica certificata o comunque con mezzi che assicurino la prova dell’avvenuta ricezione, e deve contenere la fissazione di un congruo termine, non superiore a trenta giorni, entro il quale l’organo amministrativo deve riferire in ordine alle soluzioni individuate e alle iniziative intraprese. In caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, i soggetti di cui al comma 1 informano senza indugio l’OCRI, fornendo ogni elemento utile per le relative determinazioni, anche in deroga al disposto dell’articolo 2407, primo comma, del codice civile quanto all’obbligo di segretezza”.
Pare utile ricordare che l’art.11 del d.l. 2 marzo 2020 n.9 ha previsto –in via generale- che l’obbligo di segnalazione di cui agli artt.14 co.2 e 15 del cci decorra a partire dal 15 febbraio 2021. L’art.42 del Decreto correttivo pospone –tuttavia- l’entrata in vigore di tutte le disposizioni (all’eccezione di quelle che riguardano l’iscrizione all’albo) all’entrata in vigore del Codice della crisi, attualmente fissata al 01 settembre 2021 dall’art.5 del d.l. 23 del 2020.
[42] Art.379: “1.All’articolo 2477 del codice civile il terzo e il quarto comma sono sostituiti dai seguenti: “La nomina dell’organo di controllo o del revisore è obbligatoria se la società: a) è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; b) controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti; c) ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 2 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 2 milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 10 unità. L’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore di cui alla lettera c) del terzo comma cessa quando, per tre esercizi consecutivi, non è superato alcuno dei predetti limiti.”
[43] Art.379: “3. Le società a responsabilità limitata e le società cooperative costituite alla data di entrata in vigore del presente articolo, quando ricorrono i requisiti di cui al comma 1, devono provvedere a nominare gli organi di controllo o il revisore e, se necessario, ad uniformare l'atto costitutivo e lo statuto alle disposizioni di cui al predetto comma entro la data di approvazione dei bilanci relativi all'esercizio 2021, stabilita ai sensi dell'articolo 2364, secondo comma, del codice civile. Fino alla scadenza del termine, le previgenti disposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto conservano la loro efficacia anche se non sono conformi alle inderogabili disposizioni di cui al comma 1. Ai fini della prima applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 2477 del codice civile, commi secondo e terzo, come sostituiti dal comma 1, si ha riguardo ai due esercizi antecedenti la scadenza indicata nel primo periodo” (comma modificato dall'articolo 8, comma 6-sexies, del D.L. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla Legge 28 febbraio 2020, n. 8 e successivamente dall'articolo 51-bis, comma 1, del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77).
[44] Art.379: “2. All’articolo 2477, sesto comma, del codice civile, dopo le parole “qualsiasi soggetto interessato” sono aggiunte le seguenti: “o su segnalazione del conservatore del registro delle imprese”.
[45] Nella memoria della Banca d’Italia sullo Schema di decreto legislativo recante Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155 presentata al Senato della Repubblica il 26 novembre 2018 si legge sul punto: “l’universo delle imprese potenzialmente interessate dall’applicazione delle procedure è costituito dalle società obbligate alla costituzione dell’organo di controllo (per le s.r.l. debbono essere considerati i nuovi parametri di cui all’art. 2477, comma 3, lett. c) c.c.), ad esclusione delle “grandi imprese”. Sulla base dei dati di bilancio relativi agli anni 2015 e 2016 forniti da Cerved – associati ai dati INPS sugli addetti – si stima che il numero di società assoggettabili alla procedura sia pari a circa 180.000, corrispondenti a circa il 35 per cento delle società di capitali del campione considerato (cfr. allegato 1). Peraltro, in ragione dei dati disponibili, si tratta di valori sottostimati”.
[46] E. Brodi -T. Orlando, Nomina dell’organo di controllo nelle s.r.l.: un esercizio di quantificazione alla luce dei nuovi parametri dimensionali, in www.ilcaso.it.
[47] Cfr. con riferimento al rapporto fra i due organi: V. De Sensi, Adeguati assetti, cit.
[48] Art.14: “3. La tempestiva segnalazione all’organo amministrativo ai sensi del comma 1 costituisce causa di esonero dalla responsabilità solidale per le conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o azioni successivamente poste in essere dal predetto organo, che non siano conseguenza diretta di decisioni assunte prima della segnalazione, a condizione che, nei casi previsti dal secondo periodo del comma 2, sia stata effettuata tempestiva segnalazione all’OCRI. Non costituisce giusta causa di revoca dall’incarico la segnalazione effettuata a norma del presente articolo”.
[49] Art.14 co.2 cci. Deve segnalarsi che in sede di correttivo analoga esenzione dall’obbligo di riservatezza è stata introdotta per l’organo di revisione di cui all’art.9 bis co.1 e 2 del dl.gs.27 gennaio 2010 n.39.
[50] V. Zanichelli, La segnalazione dei creditori pubblici qualificati: quod sine die debetur numquam debetur?, in www.ilcaso.it, 26 marzo 2019, osserva come: “Se il legislatore ha puntato innanzitutto sulla collaborazione degli organi di controllo per l’emersione della crisi, non ha tuttavia rinunciato a ricercare anche fuori dell’impresa soggetti de-tentori di dati che, se non necessariamente univoci, fossero probabili indici di crisi”.
[51] La disposizione dell’art.14 co.2 cci che fissa i suddetti limiti è stata oggetto di intervento da parte dell’art.3 co.4 del decreto correttivo cit., con riferimento alla segnalazione dell’Agenzia delle entrate tanto in relazione alla soglia di indebitamento, tanto con riferimento al termine a quo da cui comincia a decorrere il termine per la segnalazione.
[52] Art.3 Allerta precoce e accesso alle informazioni: “1.Gli Stati membri provvedono affinché i debitori abbiano accesso a uno o più strumenti di allerta precoce chiari e trasparenti in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio. Ai fini di cui al primo comma, gli Stati membri possono avvalersi di tecnologie informatiche aggiornate per le notifiche e per le comunicazioni online. 2. Gli strumenti di allerta precoce possono includere quanto segue: a) meccanismi di allerta nel momento in cui il debitore non abbia effettuato determinati tipi di pagamento; b) servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche o private; c) incentivi a norma del diritto nazionale rivolti a terzi in possesso di informazioni rilevanti sul debitore, come i contabili e le autorità fiscali e di sicurezza sociale, affinché segnalino al debitore gli andamenti negativi”.
[53] In relazione all’entrata in vigore delle disposizioni relative agli obblighi di segnalazione si vedano le considerazioni svolte in relazione agli obblighi di segnalazione gravano sugli organi di controllo.
[54] Art. 15 cci: “1. L’Agenzia delle entrate, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’agente della riscossione hanno l’obbligo, per i primi due soggetti a pena di inefficacia del titolo di prelazione spettante sui crediti dei quali sono titolari, per il terzo a pena di inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione, di dare avviso al debitore, all’indirizzo di posta elettronica certificata di cui siano in possesso, o, in mancanza, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento inviata all’indirizzo risultante dall’anagrafe tributaria, che la sua esposizione debitoria ha superato l’importo rilevante di cui al comma 2 e che, se entro novanta giorni dalla ricezione dell’avviso egli non avrà estinto o altrimenti regolarizzato per intero il proprio debito con le modalità previste dalla legge o se, per l’Agenzia delle entrate, non risulterà in regola con il pagamento rateale del debito previsto dall’articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n.462 o non avrà presentato istanza di composizione assistita della crisi o domanda per l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi e dell’insolvenza, essi ne faranno segnalazione all’OCRI, anche per la segnalazione agli organi di controllo della società”.
[55] Art.5 Decreto Legge del 08/04/2020 - N. 23 (come modificato dall'articolo 1, comma 1, della Legge 5 giugno 2020, n. 40, in sede di conversione) che ha modificato il termine indicato nell’art.389 cci.
[56] Art. 6 d.l. 23/2020 convertito dalle legge n.40/2020: “1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 per le fattispecie verificatesi nel corso degli esercizi chiusi entro la predetta data non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quattro, quinto e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile.
[57] Art.7 d.l.23/2020 come modificato in sede di conversione dalla legge n.40/2020: “1. Nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci nella prospettiva della continuazione dell'attività di cui all'articolo 2423-bis, comma primo, n. 1), del codice civile può comunque essere operata se risulta sussistente nell'ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020, fatta salva la previsione di cui all'articolo 106 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, di seguito citato anche come "decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18". Il criterio di valutazione è specificamente illustrato nella nota informativa anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente”. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche ai bilanci chiusi entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati. 2-bis. All'articolo 106, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: "E' facoltà delle società cooperative che applicano l'articolo 2540 del codice civile di convocare l'assemblea generale dei soci delegati entro il 30 settembre 2020". Da evidenziarsi anche il più recente: Decreto Legge del 19/05/2020 - N. 34 Art. 38 quater: “Disposizioni transitorie in materia di principi di redazione del bilancio” che recita: “1. Nella predisposizione dei bilanci il cui esercizio è stato chiuso entro il 23 febbraio 2020 e non ancora approvati, la valutazione delle voci e della prospettiva della continuazione dell'attività di cui all'articolo 2423-bis, primo comma, numero 1), del codice civile è effettuata non tenendo conto delle incertezze e degli effetti derivanti dai fatti successivi alla data di chiusura del bilancio. Le informazioni relative al presupposto della continuità aziendale sono fornite nelle politiche contabili di cui all'articolo 2427, primo comma, numero 1), del codice civile. Restano ferme tutte le altre disposizioni relative alle informazioni da fornire nella nota integrativa e alla relazione sulla gestione, comprese quelle relative ai rischi e alle incertezze concernenti gli eventi successivi, nonchè alla capacità dell'azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito. 2. Nella predisposizione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci e della prospettiva della continuazione dell'attività di cui all'articolo 2423-bis, primo comma, numero 1), del codice civile può comunque essere effettuata sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio di esercizio chiuso entro il 23 febbraio 2020. Le informazioni relative al presupposto della continuità aziendale sono fornite nelle politiche contabili di cui all'articolo 2427, primo comma, numero 1), del codice civile anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente. Restano ferme tutte le altre disposizioni relative alle informazioni da fornire nella nota integrativa e alla relazione sulla gestione, comprese quelle relative ai rischi e alle incertezze derivanti dagli eventi successivi, nonchè alla capacità dell'azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito. 3. L'efficacia delle disposizioni del presente articolo è limitata ai soli fini civilistici” (Articolo inserito dall'articolo 1, comma 1, della Legge 17 luglio 2020, n. 77, in sede di conversione).
[58] Cfr.: “Crisi d’impresa. Gli indici dell’allerta”, cit. punto 3.1.1. in cui il patrimonio netto negativo è stimato indice di crisi in tutte le imprese
[59] Valorizza tale preciso dovere dell’amministratore: Tribunale di Catania, Sez. fall., 28 maggio 2020, in Le società, 8-9/2020, 845 e ss.
[60] Cfr. in tema: G. Strampelli: La preservazione (?) della continuità aziendale nella crisi da Covid-19: capitale sociale e bilanci nei decreti “Liquidità” e “Rilancio”, in Rivista delle Societa', fasc.2, 2020, secondo cui le citate previsioni: “delineano un safe harbour dall'incerta portata. Pur trattandosi di una scelta particolarmente delicata, il legislatore potrebbe valutare l'opportunità di introdurre un esonero da responsabilità, eventualmente escludendo la responsabilità per colpa grave, per il compimento di eventuali atti, non conformi ad una condotta conservativa, pregiudizievoli per i creditori. Una simile misura, analoga a quella adottata nel Regno Unito ed in altri Paesi, sebbene possa aprire il varco ad eventuali abusi, non parrebbe del tutto ingiustificata in considerazione del fatto che per molte imprese il superamento della crisi impone l'effettuazione di investimenti e di scelte gestionali di natura non conservative per adottare i necessari presidi di sicurezza per il contenimento e la prevenzione del contagio o, in molti, casi per un più radicale adattamento del modello di business al contesto economico e sociale determinatosi a seguito della pandemia. In conclusione, indipendentemente dalla misure che a tal fine si ritengano più opportune, è prioritario evitare che le misure di emergenza volte a ritardare o nascondere l'emersione della crisi come quelle degli articoli 6 e 7 del Decreto Liquidità, pur necessarie per fronteggiare gli effetti immediati della crisi dovuti all'inattività durante il periodo di lockdown, non si tramutino, nel medio termine, nello strumento per coprire l'inefficacia — ovvero la mancata adozione — di provvedimenti diretti a favorire l'afflusso di risorse finanziarie alle numerosissime imprese in crisi sì da porle in condizione di superare gli effetti, prevedibilmente di non breve durata, della pandemia”; nonché: N. Abriani - P. Rinaldi, Emergenza sanitaria e tutela proporzionata delle imprese: oltre la domanda “tricolore”, 2020, in www.ilcaso.it, 5. Invoca un’esenzione di responsabilità in capo a coloro che si: “trovano ad assumere decisioni in scenari oggettivamente imprevedibili” anche: L. Stanghellini, La legislazione d’emergenza in materia di crisi d’impresa, in Rivista delle societàfasc.2, 2020, 353 3 e ss.
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