ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il rider lavoratore dipendente, operaio 2.0 del nuovo millennio. Primo commento alla nuova sentenza del Tribunale di Palermo su una questiona annosa
di Gabriele Allieri
La sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Palermo, n. 3570 del 24 novembre 2020, si inserisce all’interno del dibattito giurisprudenziale in tema di qualificazione del rapporto di lavoro dei rider, facendo leva, nel proprio iter motivazionale, su aspetti di carattere storico-culturale che, abbinati alla valorizzazione della dimensione globale del fenomeno oggetto d’esame, la conducono ad abbracciare un’interpretazione evolutiva degli stilemi tipici della subordinazione.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. Le soluzioni giuridiche - 4. Osservazioni.
1. Introduzione
“…la piattaforma non è un terzo, dovendosi con essa identificare il datore di lavoro che ne ha la disponibilità e che programma gli algoritmi…che regolano l’organizzazione del lavoro…e di fatto sovrastano il lavoratore con il subdolo esercizio di un potere di totale controllo sul medesimo, ai fini dell’esecuzione della prestazione lavorativa”.
Con queste parole, degne di un romanzo distopico in cui l’intelligenza artificiale ha preso il sopravvento sull’uomo, il Tribunale di Palermo ha sintetizzato le caratteristiche del rapporto instaurato tra un rider e una nota società operante nel settore del food delivery, adottando una sentenza che, per esiti ed approccio, rappresenta un innovativo spartiacque in tema di qualificazione giuridica dei rapporti in cui sia dedotta l’esecuzione di una prestazione lavorativa.
La sentenza in commento, infatti, presenta spunti d’interesse non solo per il fatto di inserirsi all’interno del dibattito giurisprudenziale, di cui dà ampio conto, in tema di qualificazione del rapporto dei rider, ma anche perché fa leva, nel proprio iter motivazionale, su aspetti di carattere storico-culturale che, abbinati alla valorizzazione della dimensione globale del fenomeno oggetto d’esame, la conducono ad abbracciare un’interpretazione evolutiva degli stilemi tipici della subordinazione.
2. Il caso
Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato il 29 luglio 2020, il ricorrente – premesso di aver lavorato come rider in favore della convenuta dal 28 settembre 2018 al 3 marzo 2020, data in cui venne disconnesso dalla piattaforma della stessa convenuta - ha agito in giudizio nei confronti di quest’ultima rivendicando, in via principale, la natura subordinata del rapporto con essa instaurato; su quest’assunto, ha dunque chiesto la condanna al versamento delle differenze retributive legate sia all’insufficienza dei compensi corrisposti per la prestazione svolta che all’omessa retribuzione del tempo in cui, seppure di fatto inattivo, era stato a disposizione della società in attesa dell’assegnazione di un incarico di consegna. Inoltre, riqualificato il rapporto, ha chiesto di accertare che la predetta disconnessione dalla piattaforma integra un’ipotesi di licenziamento orale.
In via subordinata, ha chiesto di giungere alle medesime conclusioni previa sussunzione della relazione negoziale dedotta in giudizio entro lo schema delle c.d. collaborazioni eterorganizzate di cui all’art. 2 d. lgs. 81/2015.
A sostegno della sua pretesa, ha descritto il modello organizzativo utilizzato dalla società e ha sostenuto che esso fosse tale da escludere qualsivoglia tipo di autonomia in capo all’addetto alle consegne, tenuto ad aderire pedissequamente a quel modello in sede di ritiro/consegna dei prodotti e determinazione del corrispettivo, e sottoposto, in caso di scostamenti dallo stesso, a sanzioni e penalizzazioni atipiche; esse, in particolare, sarebbero consistite nella diminuzione del punteggio destinato ad identificarlo all’interno di una sorta di graduatoria utile a determinare la priorità con cui ciascun rider può prenotare le proprie sessioni lavorative.
Pur non contestando le circostanze di fatto con cui il ricorrente ha descritto il modello de quo, la società convenuta ha resistito in giudizio sostenendo che, diversamente da quanto opinato dalla controparte, il quadro descritto avrebbe confermato la natura autonoma del rapporto e la sua estraneità tanto alla subordinazione quanto alle collaborazioni eteroorganizzate, atteso che al ricorrente era integralmente rimessa la scelta degli orari in cui lavorare e che l’influenza esercitata sulla predetta scelta dal punteggio conseguito in base alle consegne precedenti aveva carattere premiale ma mai penalizzante. Disattese dunque le deduzioni del ricorrente, ha chiesto l’integrale rigetto del ricorso introduttivo.
3. Le soluzioni giuridiche
Prima di procedere all’esame della questione cruciale sottoposta dalle difese delle parti sopra sintetizzate, il Tribunale di Palermo ha ritenuto ad esso prodromica la valutazione della natura giuridica delle piattaforme digitali del tipo di quella utilizzata dalla convenuta e attraverso la quale il ricorrente svolgeva la propria prestazione di lavoro.
Invero, secondo il Tribunale di Palermo, stabilire se detta piattaforma svolga una mera attività di intermediazione tra gli utenti o una vera e propria attività di distribuzione di prodotti alimentari risulterebbe funzionale a comprendere la natura del rapporto tra le parti, in quanto, nel primo caso, il rider potrebbe agire semplicemente in nome dell’organizzazione, ma con un’organizzazione d’impresa a sé imputabile, mentre, nel secondo caso, egli sarebbe senz’altro inserito in un’organizzazione di mezzi materiali ed immateriali nella proprietà e nella disponibilità altrui.
Nello sciogliere la predetta alternativa in favore della seconda soluzione, il Tribunale di Palermo ha ritenuto di condividere le indicazioni provenienti, oltre che da precedenti interni, anche dalla giurisprudenza eurounitaria e da decisioni estere – si fa in particolare espresso riferimento a pronunce della Cour d’Appel de Paris francese e del Juizado Especial Civel brasiliano – che avevano individuato nel servizio offerto da piattaforme utilizzate per organizzare il trasporto di persone – del tutto affine al trasporto di beni - un servizio pienamente rientrante nel settore dei trasporti, interamente ideato e operato dal titolare della piattaforma, entro la quale il conducente non assume la veste di partner commerciale della stessa ma di soggetto che, previa adesione alle condizioni prestabilite, svolge la propria attività senza alcuna possibilità di sviluppare una propria clientela o determinare proprie tariffe.
Su queste premesse, il Tribunale ha dunque affrontato il problema della natura del rapporto dedotto in giudizio. Nel far ciò, ha inquadrato la fattispecie con una prospettiva innovativa, valorizzando tanto “la natura internazionale delle piattaforme e del lavoro svolto mediante le stesse” quanto l’opportunità di assicurare un’interpretazione evolutiva dell’art. 2094 c.c., in modo tale che esso, “scritto per la prima Rivoluzione Industriale, in cui il modello di lavoro subordinato era quello dell’operaio della fabbrica del fordismo”, possa rivelare la propria vitalità anche in presenza di modelli negoziali affatto differenti da quelli presenti all’epoca della sua redazione. In quest’ottica, la pronuncia si è posta nel solco tracciato da una recente decisione adottata, in un caso affine, dalla Corte suprema spagnola, nella quale è stato osservato che “nella società postindustriale il concetto di dipendenza è diventato più flessibile. Le innovazioni tecnologiche hanno favorito la nascita di sistemi di controllo digitalizzati per la prestazione dei servizi. L’esistenza di una nuova realtà produttiva obbliga ad adattare i concetti di dipendenza e alienità alla realtà sociale del tempo in cui le norme devono essere applicate”.
Discostandosi quindi dalle interpretazioni fornite in fattispecie analoghe da precedenti di merito interni[1], che, a dire della pronuncia in esame, scontavano il limite di valorizzare la sola fase genetica del rapporto, entro cui si esprimerebbe la libertà dell’operatore di decidere in autonomia l’an e il quando della propria prestazione, il Tribunale di Palermo ha puntato l’attenzione sulla fase esecutiva del rapporto, connotata dal fatto che entro la stessa “l’azienda stabilisce delle fasce orarie (slot nel gergo maggiormente ricorrente tra le piattaforme di consegna di pasti e bevande) all’interno delle quali si inseriscono i riders e i drivers in base a meccanismi di auto assegnazione, influenzati tuttavia (almeno nel caso di specie) anche da scelte dell’impresa, mediante l’applicazione di algoritmi”.
Dato conto del fatto che in altri contesti ordinamentali – Brasile, Spagna e Cina – i rapporti coinvolgenti i rider erano stati qualificati come subordinati e della recente giurisprudenza di legittimità in materia[2], secondo cui, una volta accertata la sussistenza di un’eterorganizzazione, risulta del tutto sfumata l’importanza di una classificazione del rapporto entro lo schema della subordinazione o dell’autonomia, posto che esso rientra nell’ambito d’applicazione dell’art. 2 d. lgs. 81/2015 e viene regolato, pertanto, dalle norme sul rapporto di lavoro subordinato, il Tribunale di Palermo ha tuttavia valorizzato, da un lato, l’indicazione della stessa Corte di cassazione secondo cui l’introduzione della norma de qua non osta a che, rivendicata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il giudice valuti le modalità effettive di svolgimento del rapporto e accerti la ricorrenza del tipo contrattuale testé menzionato e, dall’altro lato, il fatto che, secondo la Corte di giustizia[3], la libertà di decidere “se e quando” lavorare osta al riconoscimento della subordinazione solo qualora detta libertà sia effettiva e non fittizia.
Tracciato in questi termini il perimetro metodologico, il Tribunale di Palermo ha ricostruito la dinamica del rapporto – pacifica tra le parti – e ha concluso per la natura subordinata del rapporto.
Nel far ciò, ha in primo luogo osservato che la circostanza per cui il ricorrente avesse lavorato con cadenza pressoché quotidiana e per un numero di ore crescente, in linea con il meccanismo della piattaforma che tende a selezionare il rider con una frequenza direttamente proporzionale all’anzianità acquisita, induce ad attribuire alla collaborazione così instaurata “natura continuativa, non invece occasionale né costituita dall’insieme di singoli innumerevoli contratti, come dedotto dalla società convenuta”.
In secondo luogo, il giudice ha rilevato la sicura eteroorganizzazione dell’attività del rider, interamente gestita e organizzata dalla piattaforma, nonché la connotazione meramente fittizia della sua libertà di scegliere “se e quando” lavorare.
In quest’ottica è stato innanzitutto posto in evidenza che il rider, lungi dal poter prenotare il proprio slot sulla base delle proprie esigenze personali, vede il proprio ventaglio d’opzioni progressivamente ridotto dalla priorità nella scelta assicurata ad altri rider contrassegnati da un punteggio maggiore, con la conseguenza che in tal modo egli potrebbe vedersi totalmente preclusa la possibilità di selezionare i turni per lui più convenienti e preferibili.
È stato inoltre considerato che, all’interno dello slot prescelto, l’assegnazione della consegna al rider è ulteriormente influenzata da fattori estranei alle sue preferenze in quanto l’algoritmo utilizzato dalla piattaforma seleziona l’operatore sul presupposto che egli abbia fatto accesso all’applicazione nel periodo di tempo che precede l’assegnazione della consegna, abbia il cellulare carico in misura almeno pari al 20% e si trovi nelle vicinanze del locale presso cui la merce dev’essere ritirata, poiché altrimenti l’algoritmo non lo selezionerà, benché egli avesse prenotato e non disdetto lo slot.
Inoltre, il Tribunale ha ritenuto che il meccanismo volto all’assegnazione del punteggio a ciascun rider, sulla base di parametri quali a) lo svolgimento dell’attività in momenti di “alta domanda”, b) la sua efficienza, c) i feedback degli utenti e dei partner e d) la sua esperienza, esprimesse non solo un potere organizzativo-direttivo della società, ma anche l’esercizio del suo potere disciplinare. È stato infatti sottolineato che l’aumento del punteggio in modo premiale in dipendenza di quei fattori corrispondesse, all’opposto, ad un mancato aumento o ad una riduzione dello stesso punteggio in base ad un supposto rendimento del lavoratore inferiore alle sue potenzialità, ciò che, influendo in senso negativo sulla possibilità di scelta dello slot, e dunque di lavorare in condizioni vantaggiose, integra l’adozione di sanzioni disciplinari atipiche.
In relazione a tali circostanza, il Tribunale ha dunque concluso affermando che “le modalità … di assegnazione degli incarichi di consegna da parte dell’algoritmo (e quindi del datore di lavoro) costringono il lavoratore a essere a disposizione del datore di lavoro nel periodo di tempo antecedente l’assegnazione dello stesso, mediante la connessione all’app con il cellulare carico e la presenza fisica in luogo vicino quanto più possibile ai locali partner di parte datoriale, realizzando così una condotta tipica della subordinazione. In sostanza, quindi, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eteroorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.” e che integrano il concetto di subordinazione anche laddove essa venga configurata, secondo le indicazioni della Corte costituzionale[4], come “doppia alienità”, ossia destinazione esclusiva ad altri del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata ed estraneità del prestatore all’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce (c.d. etero-organizzazione).
Così qualificato il rapporto, il percorso motivazionale del Tribunale si è concentrato quindi sull’episodio che ha visto la società disconnettere dalla piattaforma l’account del ricorrente a causa del mancato versamento del saldo a sue mani, e, una volta eseguito il bonifico richiesto, omettere la riattivazione dello stesso account per alcuni mesi.
Il Giudice, nell’esaminare la condotta societaria, ha valutato che, pressoché contestualmente al distacco del suo account, il ricorrente aveva formulato talune rivendicazioni sindacali e partecipato ad una trasmissione televisiva nel corso della quale aveva denunciato la mancanza di garanzie per la categoria cui apparteneva; considerata l’inverosimiglianza della deduzione della convenuta secondo cui la mancata riattivazione del profilo - avvenuta solo un mese e mezzo dopo che il ricorrente aveva censurato la condotta datoriale qualificandola come un licenziamento e inviando la relativa impugnazione – era dipesa da un problema tecnico, ha ritenuto che “se non il distacco, certamente la mancata riattivazione dell’account …. sia riconducibile alla volontà della società di reagire in tal modo alle provate rivendicazioni di natura sindacale operate dal ricorrente” con la conclusione che “la sequenza temporale dei fatti – contrariamente a quanto asserito dalla convenuta – è tanto diretta ed immediata da portare a ritenere assai verosimile l’intento punitivo datoriale”.
Dunque, considerata la natura subordinata del rapporto e la dinamica della sua cessazione per come sopra ricostruita, il Tribunale ha concluso affermando che il definitivo distacco dell’account non può che qualificarsi come licenziamento, “attesa la pacifica impossibilità per il ricorrente di rendere la prestazione lavorativa al di fuori della piattaforma”, intimato in forma orale e dunque inidoneo a produrre la risoluzione del rapporto; ne è conseguita la condanna alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e al versamento in suo favore delle differenze retributive dovute sia in ragione dell’insufficienza dei compensi corrisposti per la prestazione svolta che della mancanza di ogni retribuzione per il tempo in cui egli era stato a disposizione della società in attesa dell’assegnazione di un incarico di consegna.
4. Osservazioni
La pronuncia in commento, intervenendo nell’ampio dibattito relativo alla figura dei rider, ha fornito una qualificazione del rapporto controverso differente, tanto rispetto a quella operata dai precedenti di merito in materia, quanto rispetto a quella cui era approdata a gennaio di quest’anno la Corte di cassazione.
Invero, mentre nei precedenti di primo grado era stata esclusa tanto la natura subordinata del rapporto, quanto l’applicabilità dell’art. 2 d. lgs. 81/2015, è noto che, sebbene con iter argomentativi di carattere diverso, quest’ultima disposizione era stata individuata come atta a governare la fattispecie tanto dalla Corte d’appello di Torino, quanto dalla Corte di cassazione.
Collocandosi però su un versante opposto rispetto ai primi interventi in materia, ed operando un apprezzamento in concreto contemplato dallo stesso precedente di legittimità, il Tribunale di Palermo è giunto, come si è evidenziato, ad un esito differente, raggiunto al termine di un percorso motivazionale pregevole con cui la rassicurante e piana soluzione che avrebbe condotto all’applicazione dell’enigmatico art. 2 d. lgs. 81/2015 è stata scartata in favore di una logica tesa a ribadire la centralità del lavoro subordinato, il suo “diritto di esistere” e la sua perdurante adeguatezza a descrivere le vicende anche dell’attuale mondo del lavoro, mutato rispetto a quello del secolo scorso.
Del resto, che nell’ottica del Tribunale di Palermo la figura del rapporto del lavoro subordinato sia naturalmente in grado di offrire una risposta tassonomica alla soggezione del singolo all’organizzazione datoriale, trova un’acuta dimostrazione nel parallelismo introdotto nella pronuncia in commento tra la figura del rider e quella dell’operaio del secolo scorso, laddove il primo viene descritto come “impotente avverso l’ignota modalità di funzionamento della piattaforma” esattamente come lo era il secondo “rispetto al funzionamento della catena di montaggio”.
Quest’ultima prospettiva culturale ed evolutiva, con cui il rapporto controverso è stato condotto oltre l’orizzonte delle c.d. collaborazioni eteroorganizzate al quale pareva destinato ad arrestarsi, viene abbinata, nella motivazione, a solidi riscontri di fatto che, apprezzati alla luce del contesto disciplinare di riferimento, giustificano l’esito della decisione in commento.
In questo senso, deve osservarsi che, nel tentativo di tracciare la distinzione tra le collaborazioni coordinate di cui all’art. 409 n. 3) c.p.c. e le collaborazioni eterodirette di cui all’art. 2 d. lgs. 81/2015, è stato posto in evidenza che, mentre nel primo caso il coordinamento che connota il rapporto si fonda su un comune accordo delle parti, nel secondo caso il potere di coordinamento prescinde da quest’ultimo, ciò che si risolve nella possibilità, per il destinatario della prestazione, di definirne unilateralmente modalità estrinseche quali l’obbligo del prestatore di presenza in un certo luogo ed orario e l’obbligo di operare secondo procedure e modalità prestabilite[5].
Il limite “esterno” della collaborazione eteroorganizzata pare allora doversi individuare nel fatto che essa consente un adeguamento funzionale della prestazione all’organizzazione del committente che, tuttavia, non sfoci in una vera e propria sottoposizione del prestatore al suo potere gerarchico, mercé il quale si assisterebbe ad un indebito esercizio del potere di conformazione della prestazione, del potere di controllo e del potere disciplinare[6].
Calando tali indicazioni nel contesto del rapporto tra i rider e la piattaforma, a parere di chi scrive, può dunque affermarsi che la sua estraneità al modello di cui all’art. 2094 c.c. risulta smentita non già dal fatto che l’operatore sia tenuto ad osservare determinati comportamenti prodromici all’esecuzione della prestazione – esecuzione del log-in, collocazione topografica e cronologica adeguata – ma dalla presenza di fattori ulteriori che, incidendo non sul quomodo ma sull’an e sul quando della prestazione, rendono fittizia quella libertà di scelta che, come evidenziato, si pone a fondamento della natura autonoma del rapporto.
Della presenza di detti fattori, del resto, sembrano essere state consapevoli anche le parti sociali che, nell’esercizio del potere di deroga alla disciplina dell’art. 2 d. lgs. 81/2015 che la stessa norma conferisce alle organizzazioni sindacali, il 15.09.2020 hanno sottoscritto il “Contratto collettivo nazionale per la disciplina dell’attività di consegna di beni per conto altrui, svolta da lavoratori autonomi, c.d. rider”.
Infatti, il relativo testo – destinatario di un’accoglienza, invero, piuttosto tiepida[7] - dopo essersi fatto carico di precisare che taluni profili tipicamente caratterizzanti le modalità d’esecuzione dei rapporti disciplinati non costituiscono altrettanti indici di subordinazione, stabilisce, all’art. 20, titolato “Divieto di discriminazione, diritto alla disconnessione e ranking”, che “Il rider può liberamente decidere quali proposte di consegna accettare o rifiutare e le Piattaforme non riducono le occasioni di consegna in ragione della mancata accettazione delle proposte offerte, anche con riferimento ai sistemi di ranking”.
È dunque tangibile la consapevolezza che il sistema di graduatoria adottato dalla piattaforma, in quanto in grado di alterare, e rendere fittizia, la libertà del rider sia in grado di “spostare” gli equilibri qualificatori del rapporto, rappresentando uno strumento atipico d’esercizio del potere gerarchico in grado di ricondurre la relazione contrattuale entro lo schema della subordinazione.
In tal senso, la piena valorizzazione degli effetti prodotti dal sistema di punteggio cui era assoggettato il ricorrente integra un riscontro fattuale che vede il rapporto deragliare dal binario tracciato anche nell’accordo collettivo testé menzionato e giustifica pienamente tanto l’esito della pronuncia, quanto la sostenibilità della prospettiva culturale da cui essa ha preso le mosse.
[1] Tribunale di Torino, sent. n. 778/2018; Tribunale di Milano, sent. n. 1853/2018.
[2] Cass. n. 1663/2020.
[3] Corte di giustizia, C 692/19.
[4] Corte costituzionale, sent. n. 30/1996.
[5] Così M. Marazza, In difesa del lavoro autonomo (dopo la legge n. 128 del 2019), in Riv. It. Dir. Lav., fasc. 1, 2020, pp. 62 ss..
[6] Così A. Maresca, Brevi cenni sulle collaborazioni eterorganizzate, in Riv. It. Dir. Lav., fasc. 1, 2020, pp. 73 ss..
[7] Per l’esame del testo del Ccnl si rinvia a P. Staropoli, Il contratto collettivo dei Riders: le nuove tutele e le critiche ingenerose del Ministero del lavoro, in www.il giuslavorista.it.
Per una riforma ordinamentale “possibile” della giustizia tributaria [*]
di Enrico Manzon
Sommario: 1.Premessa. - 2.Le criticità dell’esistente. - 3. Le “resistenze” alla riforma. - 4. I timidi passi della politica nella presente legislatura. - 5.La riforma ordinamentale “possibile”, la necessaria ricerca di un “compromesso riformatore”. 6 Considerazioni finali.
1. Premessa
E’ mia convinzione che non si possa parlare –utilmente- di riforma del diritto tributario, se non si affronta contestualmente la questione della riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria.
Sono altrettanto convinto che tale questione possa essere –utilmente- analizzata ed –adeguatamente- risolta solo se si parte dall’idea che lo status quo debba essere –significativamente- modificato.
In queste brevi note cercherò di evidenziare in quali termini la questione, nei suoi aspetti fondamentali, possa essere posta e di indicare quindi le soluzioni possibili.
2. Le criticità dell’esistente
Come noto, l’attuale sistema di giustizia tributaria “nazionale” -perciò al netto del ruolo, sempre più rilevante, della Corte di giustizia dell’UE- è di tipo “misto”, essendo il giudizio di merito attribuito alla competenza di un giudice speciale (le Commissioni tributarie istituite e regolate dal d.lgs. 545/1992) e disciplinato da una normativa anch’essa “mista”, speciale/ordinaria (d.lgs. 546/1992 e cod. proc. civ.), mentre il giudizio di legittimità è devoluto alla Corte Suprema di cassazione, secondo le previsioni ordinamentali di cui al R.D. 12/1941 (e successive modificazioni) e processuali comuni di cui agli artt. 360 ss., cod. proc. civ.
Tale assetto vige dal 1 aprile 1996 ed ha evidenziato alcuni pregi e molti difetti, vediamo di metterne in fila almeno quelli essenziali.
a) rapidità dei giudizi vs. qualità delle decisioni
Per i, non pochi, fautori dello status quo forse il vanto principale sono i tempi rapidi di definizione delle liti fiscali nei gradi di merito, confrontati con quelli più lunghi del giudizio tributario di legittimità e degli omologhi gradi di merito delle liti civili ed amministrative.
E’ tuttavia piuttosto diffusa negli operatori e si rende abbastanza evidente nel giudizio di legittimità che -con frequenza non affatto desiderabile- tale “velocità” non si coniughi con la “qualità media” sostanziale e formale delle decisioni.
In questo senso vi è un indicatore assai significativo: il trend, da tempo consolidato, che il 50% circa delle sentenze di appello impugnate avanti alla Suprema Corte vengono cassate ed in percentuale rilevante, pure essa prossima al 50%, per vizi della motivazione, nonostante la più restrittiva nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. Queste sono percentuali doppie di quelle delle altre sezioni civili della Corte e della sezione lavoro.
Insomma, per le Commissioni tributarie presto non significa –altrettanto- bene.
L’aspetto peggiore di tale realtà fattuale è non solo che la “qualità media” delle decisioni è dunque più bassa dello standard di quelle civili ordinarie, ma soprattutto che se ne evidenzia una disomogeneità del “prodotto decisionale” del giudice tributario di appello, non affatto rassicurante dal punto di vista dell’attuazione in concreto dei principi costituzionali di eguaglianza, di azione e di difesa processuali, di capacità contributiva (rispettivamente, artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, 53, primo comma, Cost.).
I sidera delle lites tributarie sono dunque piuttosto, per così dire, “incerti”, un po’ come le vaghe stelle dell’Orsa di leopardiana memoria.
b) onorarietà e part time
Quello evidenziato al punto che precede può senz’altro considerarsi il principale effetto della “carenza strutturale” dell’attuale assetto della giurisdizione speciale di merito ossia del suo difetto genetico.
Non sembra dubbio che, prima ancora che dall’assenza di una verifica concorsuale
–qualunque essa sia- della “competenza”, anche specialistica, dei giudici, tale deficienza del sistema consista nell’ “assenza del tempo pieno”.
Anche nella migliore delle ipotesi, che pure non mancano affatto tra i ranghi del componenti delle Commissioni (togati e non togati che siano), un magistrato che si dedica part time ad una funzione giudiziaria che sovente è delicata e tecnicamente complessa, non può avere le medesime chances operative concrete di un magistrato che vi sia dedicato, se non full time, almeno in via prevalente.
Ciò per una banale evidenza, che è appunto rappresentata dal fattore tempo e chiunque si occupi professionalmente di attività giudiziaria non può negare –in buona fede-
che esso non sia del tutto fondamentale quale presupposto indefettibile per garantire la “qualità” alle decisioni.
c) debolezza dei controlli organizzativi interni ed effetti per la deontologia e la legalità
Le motivazioni strampalate o inesistenti delle Commissioni, purtroppo non così rare, sono materia per l’aneddotica; i tempi di deposito dei provvedimenti non hanno un controllo effettivo. Le une e le altre rendono la produzione decisionale di questi organi di giustizia un vestito di Arlecchino, con tante tinte belle ed almento altrettante (forse un po’ di più) che non lo sono molto.
I controlli ispettivi del CPGT sono devoluti ad una struttura interna al medesimo che definire “esile” è forse eccessivamente prudente e latamente eufemistico.
La carenza di azione preventiva e di –effettivi- controlli periodici di professionalità rende dunque latente il pericolo dell’ abbassamento della deontologia professionale.
Ma non solo. Tale debolezza oggettiva, strutturale dell’autogoverno e dello status dei giudici tributari, non possono all’evidenza costituire una “barriera” adeguata al ripetersi, secondo una frequenza purtroppo per nulla rara, di scandali che vedono componenti di Commissioni tributarie implicati in reati gravi commessi nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali ed a causa delle stesse.
Ne deriva uno scadimento dell’immagine di questa Istituzione nell’opinione pubblica, anche generale
3. Le “resistenze” alla riforma
Basterebbero i rilievi fatti a mettere in chiaro l’urgenza di una, vera, radicale riforma dell’ordinamento della giurisdizione tributaria speciale; anzi siccome si tratta di situazioni affatto risalenti, non si comprende nemmeno il perché ciò non sia già avvenuto da tempo.
Ma se così è stato, ciò non può che voler dire che, in realtà, le “cause ostative” ci sono e sono forti, tanto che è davvero difficile essere ottimisti sulle possibilità che tale riforma venga alla luce nel breve/medio periodo.
Le principali si possono così sintetizzare:
a) opposizioni macro e micro corporative;
L’ ODCEC nazionale è sempre stato –di fatto- fortemente avverso alla riforma delle Commissioni tributarie a causa di una preoccupazione riguardante la prerogativa, peraltro
tutt’affatto esclusiva, della difesa tecnica. Il timore evidente è quello di esserne esclusi ovvero limitati.
I componenti delle Commissioni, togati o meno, sono in larga parte anch’essi contrari ad una prospettiva di cambio radicale, per ragioni varie e peraltro autoevidenti. Si tratta di una “corporazione” tutto sommato abbastanza piccola (oggi meno di 3.000 soggetti), ma effettivamente molto più forte della sua consistenza numerica.
Di fatto, gli interessi/le preoccupazioni della macro corporazione dei commercialisti e della grande maggioranza dei giudici tributari di merito, si sono storicamente saldati e sono una delle cause principali dello stallo perdurante.
b) interesse e disinteresse, culturale ed istituzionale
L’ accademia tributaria si divide tra fautori dell’esistente (non moltissimi) e preconizzatori di ambiziosi nuovi assetti; ma tutto e sempre su di un piano appunto molto “accademico” e mai veramente da “gruppo di pressione”.
Il CNF e le altre organizzazioni dell’avvocatura (a parte l’UNCAT, che tuttavia non ha grande rappresentatività categoriale) hanno preso sempre posizioni molto “di principio”, ma non si sono mai mosse con decisione nel senso di una riforma.
Pare di comprendere che il MEF non abbia o almeno non abbia avuto una grande “simpatia” per un cambio di sistema, mentre il Ministero della giustizia non ha mai “battuto un colpo” in questa direzione, verosimilmente ritenendosi che non si tratta di una competenza diretta e che comunque sia una questione molto aggrovigliata e problematica dalla quale è prudente “stare alla larga”.
E’ quindi evidente che in questo contesto, tra spinte conservatrici (molto solide) e spinte riformatrici (evanescenti), nessun risultato concreto sia fin qui avvenuto ed è altrettanto evidente che vincere le prime sia una “battaglia” molto difficile.
E tuttavia la “questione” si è posta e si pone in modo sempre più forte all’attenzione dell’opinione pubblica, anche non specialistica.
4. I timidi passi della politica nella presente legislatura
Infatti se ne sono “accorti” anche i partiti politici presenti in questo Parlamento che, per iniziative singole o di gruppo, hanno presentato svariati disegni legislativi di riforma della giustizia tributaria, non solo di merito, ma anche di legittimità, quindi dell’intero plesso giurisdizionale.
Non è la “prima ondata”, ce ne sono state altre, cicliche, tutte regolarmente infrante sugli “scogli” di cui si è detto. E, come detto, non vi è alcun ragionevole motivo di essere certi che questa sia “la volta buona”. Anche perché, come noto, se non si muove il Governo e quindi la maggioranza in modo concordato, le possibilità di successo di qualsiasi iniziativa legislativa di un minimo rilievo, soprattutto nella materia de qua (tributaria e giurisdizionale), sono minime, per non dire inesistenti.
Ciò, al lordo di un ragionevole pessimismo, rende comunque opportuno prendere –
ancora una volta- in esame la questione di una riforma auspicabile e possibile degli ordinamenti di giustizia tributaria, individuandone i principi e le linee guida.
5. La riforma ordinamentale “possibile”, la necessaria ricerca di un “compromesso riformatore”
Le attuali iniziative parlamentari, con un’unica eccezione, mirano essenzialmente ad
istituire la c.d. “quinta magistratura” ossia prevedono che, in sostituzione delle attuali Commissioni, vi siano Tribunali e Corti di appello tributarie, alle quali vengono assegnati giudici professionali, a tempo pieno, reclutati per concorso; tutte prevedono anche una disciplina ad hoc della Sezione tributaria della Corte di Cassazione ed, ovviamente, una disciplina transitoria che mantiene le Commissioni attuali in funzione di smaltimento della pendenza all’atto dell’entrata in vigore della riforma (sul modello della cessata Commissione tributaria centrale, dopo l’inizio dell’ attività delle Commissioni “riformate”).
Vi è un unico disegno di legge che di contro prevede l’attribuzione delle liti tributarie nei gradi di merito ai Tribunali ed alle Corti d’appello ordinari.
A mio avviso, nessuna di queste proposte può essere considerata in termini favorevoli.
Le prime, anzitutto per serissimi dubbi di compatibilità con l’art. 102, secondo comma, prima parte, e con la Sesta disposizione transitoria finale della Costituzione (divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali; limiti della revisione delle giurisdizioni speciali precostituzionali). In ogni caso, perché i meccanismi che tali proposte prevedono sono di attuazione non semplice, costosa e comunque lunga. Come dire, cose che non si faranno mai, perché, in realtà, non si possono, realisticamente, fare.
E che, più semplicemente, non si vogliono veramente fare.
Quella “sparuta” che, “fuori dal coro”, collocherebbe la giustizia tributaria di merito nell’alveo della giurisdizione ordinaria appare egualmente velleitaria, poiché non tiene, realisticamente, conto di quella che è la situazione concreta degli uffici ordinari di giustizia in Italia ed ha quindi tutta l’apparenza, ma anche la sostanza, di una mera “petizione di principio”, ragionevolmente priva di sbocchi concreti possibili.
In questo, non rassicurante quadro, appare allora necessario aguzzare l’ingegno e pensare ad una “riforma (vera, ma) possibile” della giurisdizione speciale di merito.
Un’idea siffatta, realisticamente riformatrice, anzitutto non può astrarre dalle “resistenze”, non tutte infondate, di cui si è detto e, al fondo, dalla realtà operativa in cui deve, concretamente, calarsi.
Insomma, se si vuole davvero fare una riforma bisogna tenere saldamente “i piedi per terra” ed allo stesso tempo certamente guardare avanti, ben oltre lo status quo.
Rovesciando la prospettiva e considerando la questione “dall’alto in basso”, bisogna dunque anzitutto chiedersi se l’attuale modello costituzionale di controllo della legittimità delle sentenze e quindi di garanzia dell’uguaglianza davanti alla legge (artt. 111, settimo comma e 3, primo comma, Cost.) debba essere mantenuto ed anzi meglio preservato oppure no.
Personalmente ritengo di dare una risposta -fermamente- positiva al quesito e quindi affermo che se così deve continuare ad essere, anzi se l’assetto ordinamentale attuale deve essere migliorato, se quindi deve essere fortemente potenziata la funzione della nomofilachia tributaria, allora il percorso riformatore è uno solo: attribuire alle Corti di appello ordinarie il giudizio di secondo grado.
Ciò era già previsto dalla previgente normativa processuale speciale, sia pure come alternativa al ricorso alla CTC (dPR 636/1972, art. 40) e prima ancora dal cod. proc. civ. nella formulazione originaria (per effetto automatico della competenza di primo grado del tribunale ex art. 9, secondo comma, del codice).
In questo senso -innovativamente, ma in attuazione dell’art. 102, secondo comma,
seconda parte, Cost.- si potrebbero istituire sezioni specializzate delle Corti territoriali, aumentandone adeguatamente (ma non smisuratamente) l’organico di magistrati “togati” e prevedendo magistrati “onorari” di nuova istituzione, sul modello, che mi risulta ben funzionare, dei giudici ausiliari di appello. Per questa seconda componente organica – nell’immediato- si potrebbe utilmente attingere dagli attuali giudici delle Commissioni tributarie, mediante un concorso per titoli di non complessa e lunga attuazione pratica.
Due numeri per anticipare e riscontrare la, peraltro scontata e pienamente legittima, “eccezione di non fattibilità”:
- nel 2019 le Corti d’appello hanno ricevuto circa 116.000 nuovi procedimenti civili, le Commissioni tributarie regionali circa 46.000 appelli tributari;
- prima del recente aumento, le Corti di appello avevano assegnati 1.242 magistrati in organico.
Basandosi su di un rapporto “spannometrico” tra queste grandezze, si può
pensare che con l’aumento di un terzo dell’organico (circa 400 magistrati), le Corti territoriali potrebbero assorbire la nuova competenza senza danni particolari. Attuando la citata previsione costituzionale, si tratterebbe peraltro di fissare un rapporto tra “togati” ed “onorari”, con tutte le conseguenze anche in termini di tempistica attuativa e di onere finanziario.
Con questa precisazione pratica, almeno in astratto, l’ipotesi non sembra manifestamente irrealistica/irrealizzabile e lo è comunque assai meno che quelle, attualmente in campo, di un grado di appello anch’esso devoluto ad un giudice speciale professionale.
Costi e tempi di questa operazione, per così dire, di “ordinarizzazione parziale” della giurisdizione tributaria di merito dovrebbero essere dunque sostenibili.
I benefici sarebbero di grande portata, spiccando tra essi quello del sicuro miglioramento dello standard produttivo medio del giudizio di appello e, ancor più, della creazione di un “serbatoio” di magistrati ordinari per la giurisdizione tributaria di legittimità, così come è per il penale ed il civile da quando la Cassazione esiste ed ancor più da quando è diventata un’Istituzione frequentata da magistrati provenienti da tutto il Paese.
Il doppio beneficio che ne deriverebbe alla Corte -migliore materiale di cognizione e flusso di specialisti “preformati”- non credo necessiti di particolare illustrazione.
Vi è poi un beneficio di ordine generale che deriva dall’inclusione automatica nell’ordine giudiziario di tutti questi magistrati, professionali ed onorari, con la conseguente applicazione del modulo costituzionale principale di governo autonomo della magistratura, verifiche di professionalità e sistemi disciplinari inclusi.
Peraltro, su di un piano per così dire più “tattico”, la possibilità di partecipazione alle sezioni specializzate di CA contribuirebbe a “sgonfiare” la resistenza degli attuali componenti “laici” delle Commissioni tributarie, mentre la “preoccupazione” dell’OGDEC (commercialisti) per il patrocinio potrebbe essere semplicemente eliminata con una norma speciale ad hoc, che l’avvocatura non dovrebbe avere particolare difficoltà a
metabolizzare, non trattandosi di un settore di contenzioso per il quale storicamente ha manifestato un interesse “di massa”.
Infine, sul punto si può osservare che non dovrebbero mancare le “vocazioni” per questa transizione negli organici delle Corti territoriali: attualmente nelle CTR ci sono 408 “togati” (in prevalenza magistrati ordinari) e 300 “non togati”; nelle CTP ci sono 1016 “togati” (in prevalenza magistrati ordinari); fonte: relazione del CPGT 2020.
Il che, all’evidenza, dimostra che nella magistratura ordinaria questa specifica funzione giudiziaria desta un interesse tutt’affatto secondario e ciò può appunto far ragionevolmente presumere che questi magistrati possano in numero più che congruo optare per un impegno nella stessa full time, in luogo del part time attuale; che dunque la massa critica per questa riforma, dal lato del personale di magistratura, già esista.
Ed il primo grado ?
Ecco qui credo che sia davvero necessario esercitare il massimo realismo possibile ed allora la soluzione, a mio avviso – qui ed ora - non può essere che una: mantenere l’esistente, con alcuni sensibili aggiustamenti (che non si ha lo spazio utile per illustrare in questa limitata sede dissertativa).
Ma con quali benefici ?
Nell’ordine: nessuna “resistenza” da parte dei controinteressati della riforma; ordinamento invariato (CPGT compreso); nessuna spesa aggiuntiva; nessuna procedura concorsuale di costo e durata consistenti, salvo qualche rettifica collegata all’intervento sul grado di appello.
Inoltre così la gran parte del contenzioso avrebbe comunque un filtro di accesso, magari accentuando con opportune norme processuali la funzione “arbitrale” delle Commissioni tributarie provinciali, perciò rendendo meno “pressante” l’esigenza di strutturarle in modo più robusto di quanto lo siano attualmente. Comunque sempre ferma la loro funzione di garanzia giurisdizionale secondo i principi costituzionali (artt. 24, 101, 111, Cost. in particolare) e secondo l’attuale disciplina processuale speciale.
Del resto sarebbe questo un parziale ritorno alle origini paragiudiziarie, di amministrazione contenziosa, delle Commissioni stesse - già valutato illo tempore come costituzionalmente compatibile dalla prima, più risalente giurisprudenza del giudice delle leggi - secondo una phrónesis della lite tributaria che è ben presente nella legislazione fiscale di altri Paesi della UE (ad es. Spagna, Francia, Germania) e che in essi produce risultati visibilmente migliori che l’attuale, claudicante e paradossalmente pletorico, assetto normativo ordinamentale italiano.
6. Considerazioni finali
Quanto fin qui osservato non è null’altro che un tentativo minimo di esposizione dei tratti essenziali di un problema tanto urgente, quanto complesso, sul quale si riflette, tra gli “addetti ai lavori” (meno nella politica) ormai da molti anni.
Nell’affrontare questa tematica, bisogna avere la consapevolezza che nella giurisdizione tributaria si mette in gioco uno degli aspetti fondamentali della cittadinanza in senso lato ossia intendendola non formalmente, ma sostanzialmente, come “partecipazione attiva” ad una comunità nazionale.
Si tratta quindi di una “partita” che riguarda i principi fondamentali della convivenza sociale, i principi degli artt. 2-3, della Costituzione, di cui quelli dell’art. 53 della stessa (compartecipazione alle spese pubbliche secondo “capacità contributiva” e progressività del sistema tributario) sono nient’altro che una specificazione.
Lo scopo di questa partita –al fondo- è la determinazione della giusta imposta ed è dunque una partita per “arbitri professionali/professionisti”, che conoscono a fondo le regole del gioco e –soprattutto- sono attrezzati per consentire il raggiungimento del suo scopo.
La magistratura ordinaria, con il suo assetto ordinamentale costituzionale e con le sue risorse personali, è senz’altro in grado di occuparsi in misura molto più ampia che attualmente di questo settore giurisdizionale strategico per la comunità nazionale.
E perciò ritengo che non possa più rimanere confinata al solo giudizio di legittimità.
[*] L’articolo riproduce, con alcune limitate modifiche, il testo dell’intervento scritto allegato agli atti del webinar organizzato da Area democratica per la giustizia, tenutosi in data 27 novembre 2020 sul tema La riforma che verrà. Quale giustizia tributaria ?
Il tempo dell’usura (nota a Cons Stato Sez. Terza, 2.11.2020 n. 6755)
di Simone Francario
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Il risarcimento del danno da ritardo: note introduttive e orientamenti giurisprudenziali a confronto - 3. Il danno da ritardo nella concessione di un mutuo nell’ambito del coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura.
1.La fattispecie.
Un imprenditore, ritenendo che il precedente mutuo concessogli dalla banca fosse usuraio, si rivolgeva al Commissario Straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura chiedendo la concessione di un ulteriore mutuo al fine di recuperare liquidità per portare avanti la propria attività.
Dopo più di un anno dalla presentazione dell’istanza, il commissario straordinario la respingeva affermando, in particolare, che ai fini dell’accesso al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, così come disciplinato dal relativo DPR 19 febbraio 2014, n. 60, era necessario l’accertamento del reato di usura, la cui sussistenza, tuttavia, nel caso di specie era stata esclusa al termine di un procedimento penale attivato parallelamente.
Il privato, allora, decideva di impugnare tale provvedimento di rigetto chiedendo in particolare il risarcimento del danno da ritardo essendosi la PA pronunciata ben oltre i termini previsti dalla legge, ma il giudice amministrativo, in primo grado e in secondo grado, respingeva il ricorso.
A conclusione della vicenda, la sentenza del Consiglio di Stato offre spunti interessanti per esaminare un tema di stretta attualità e da tempo dibattuto in dottrina e giurisprudenza, ossia: il risarcimento del danno da ritardo.
2. Il risarcimento del danno da ritardo: note introduttive e orientamenti giurisprudenziali a confronto.
Al fine dell’analisi del risarcimento del danno da ritardo, è opportuno, innanzitutto, ricostruire brevemente la normativa di riferimento[1].
In primo luogo, la legge sul procedimento amministrativo (art. 2 della l. 241/1990) pone in capo alla PA l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro un determinato termine.
In tale contesto l’apposizione di un termine, da un lato, costituisce diretta applicazione dei principi fondamentali regolanti l’attività amministrativa, come il principio di legalità, efficienza, buon andamento e imparzialità, dall’altro, svolge una funzione acceleratoria dell’attività stessa e di certezza dei rapporti tra amministrati e amministranti[2].
Nello specifico, è noto che ai sensi dell’art. 2 della l. 241/1990 il procedimento amministrativo si deve concludere entro un termine non superiore a novanta giorni, decorrente dalla presentazione dell’istanza del privato o dall’inizio del procedimento d’ufficio e, qualora manchi una apposita previsione legislativa o regolamentare in tal senso, il termine si intende fissato in trenta giorni[3].
Per far fronte ad eventuali ipotesi di ritardo nella conclusione del procedimento da parte della PA, l’ordinamento prevede rimedi preventivi[4] e successivi[5].
Ai fini che qui interessano è opportuno porre l’accento su questi ultimi, nei quali rientra, affianco al potere sostitutivo e al ricorso avverso il silenzio inadempimento, l’azione per il risarcimento del danno da ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento, di cui all’art. 2-bis della l. 241/1990[6].
Tale norma prevede che, nei casi in cui il silenzio della PA non abbia valore significativo e corrisponda ad una ipotesi di silenzio-inadempimento, “le pubbliche amministrazioni […] sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.”[7]
Dalla lettura della disposizione, come confermato anche da costante giurisprudenza, pare che il legislatore abbia voluto ricondurre tale comportamento dell’amministrazione nel più ampio genere della responsabilità extracontrattuale, la quale, come è noto, ai sensi dell’art. 2043 c.c. richiede la verifica positiva di alcuni elementi: la colpa o il dolo del danneggiante; il nesso causale tra il comportamento del danneggiante e l’evento di danno; e infine l’ingiustizia del danno[8].
Così inquadrata la cornice normativa di riferimento, è necessario analizzare la posizione della giurisprudenza, nella quale, facendo leva sull’elemento della ingiustizia del danno, si sono registrati due distinti orientamenti: un primo orientamento (ad oggi maggioritario) in base al quale, ai fini della risarcibilità del danno da ritardo, è necessario accertare la spettanza del bene della vita finale in capo al privato, ed un secondo orientamento (minoritario) per cui sarebbe risarcibile anche il solo danno da mero ritardo[9].
Quest’ultimo orientamento si basa sulla concezione che il tempo dell’azione amministrativa, seppur costituisca dal punto di vista giuridico un interesse procedimentale, stante la risarcibilità degli interessi legittimi già affermata con la nota sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione[10], rientra nel novero degli interessi meritevoli di tutela e la sua lesione, pertanto, configurerebbe la presenza di un danno ingiusto, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. al pari del bene della vita finale[11].
In altre parole, come affermato anche in recenti sentenze del Consiglio di Stato, “l’ingiustizia del danno […] può derivare dalla lesione al bene della vita costituito dal tempo e cioè dalla lesione all’affidamento sui tempi di svolgimento dell’attività amministrativa ed alla certezza della programmazione delle proprie attività personali e dei propri interventi finanziari” in quanto, prosegue il giudice amministrativo, “la ritardata conclusione del procedimento e, quindi, l’incertezza sul legittimo svolgimento dell’attività richiesta, può incidere negativamente sull’impegno di risorse, così come può comportare la rinuncia ad altre opportunità o avvalersi di altre circostanze favorevoli che non abbiano durata indefinita.”[12]
In questo senso, quindi, il tempo costituisce un bene della vita autonomo e la sua mera lesione fa sorgere in capo alla PA un’ipotesi di responsabilità aquiliana, indipendentemente da un giudizio prognostico circa la spettanza in capo al privato dell’utilità finale ambita.[13]
Invece, secondo l’opposto orientamento giurisprudenziale il danno da mero ritardo non è risarcibile, in quanto il fattore tempo non è mai stato considerato dal legislatore come bene della vita suscettibile di autonoma protezione.[14]
Ciò significa che la sua mera lesione non integrerebbe un danno ingiusto e non si potrebbe configurare alcuna ipotesi di responsabilità aquiliana in capo alla PA.
Secondo il giudice amministrativo, infatti, affinché si possa utilmente esperire azione di risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell’art. 2-bis della l. 241/1990, non si può in alcun caso prescindere “dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto dalla sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile. L’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stato adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente, ovvero avrebbe dovuto essere adottato sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata, in esito al procedimento.”[15]
Ebbene, si ritiene che l’elemento dell’ingiustizia del danno ricorra solo laddove, oltre al fattore tempo, sia leso anche il bene della vita finale cui tende il privato; in altre parole, il privato deve poter dimostrare in giudizio che sussistevano tutti i presupposti per il rilascio di un provvedimento a lui favorevole (bene della vita) di cui non ha potuto godere per tutto il periodo di inerzia della PA (lasso di tempo cui si riferisce il danno da ritardo).
L’adesione all’uno o all’altro orientamento non è questione di poco conto e ciò si percepisce soprattutto in tema di determinazione del danno: nel caso in cui si aderisca alla tesi che riconosce tutelabile il danno da mero ritardo, sarebbe risarcibile il solo interesse negativo, ossia il danno emergente; nell’altro caso, invece, oltre al danno emergente sarebbe risarcibile anche il lucro cessante.[16]
3. Il danno da ritardo nella concessione di un mutuo nell’ambito del coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura
Alla luce di quanto esposto la sentenza n. 6755 del 2020 del Consiglio di Stato si inserisce nell’orientamento giurisprudenziale, più restrittivo, che non ritiene risarcibile, ex se, il danno da mero ritardo.
Con apposito motivo di ricorso l’appellante illustrava che la pubblica amministrazione aveva emesso il provvedimento finale (di rigetto della sua istanza di concessione di un mutuo) dopo più di un anno dal deposito dell’istanza, in assenza di adeguate ragioni istruttorie che giustificassero la dilazione del termine a provvedere.
Sosteneva, altresì, che la mancata corresponsione della cifra richiesta, se comunicata tempestivamente, avrebbe sicuramente indotto l’istante a rivolgersi altrove per recuperare liquidità al fine di proseguire la sua attività imprenditoriale.
Il Collegio non ha ritenuto meritevole di accoglimento la tesi sostenuta dal ricorrente in quanto “il tempo dell’azione amministrativa non è un bene in sé” e deve pertanto trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale sopra citato secondo cui “l’espresso riferimento al danno ingiusto […] induce a ritenere che per poter riconoscere la tutela risarcitoria in tali fattispecie, come in quelle in cui la lesione nasce da un provvedimento espresso, non possa in alcun caso prescindersi dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest’ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante tanto dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’amministrazione quanto della sua colpevole inerzia e lo rende risarcibile.”
Ciò significa che, per potersi verificare una ipotesi di responsabilità aquiliana, “l’ingiustizia del danno e, quindi, la sua risarcibilità per il ritardo dell’azione amministrativa, pertanto, è configurabile solo ove il provvedimento favorevole sia stato adottato, sia pure in ritardo, dall’autorità competente ovvero sarebbe dovuto essere adottato, sulla base di un giudizio prognostico effettuabile sia in caso di adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata.”
Nel caso di specie si trattava di effettuare, dunque, un giudizio prognostico (che costituisce declinazione particolare del nesso di causalità tra evento danno e danno conseguenza nell’ambito della responsabilità civile) sulla spettanza in capo al ricorrente del bene della vita finale costituito, in questo caso, dalla concessione del mutuo.
Volendo utilizzare altri termini, più incisivi, il giudice amministrativo doveva effettuare un giudizio prognostico, secondo il canone del “più probabile che non”, al fine di stabilire se il privato possedeva tutti i requisiti necessari per poter accedere alle somme messe a disposizione dal Commissario Straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura[17].
Nella fattispecie in esame, tuttavia, tale giudizio ha dato esito negativo in quanto è stato accertato che il procedimento penale parallelamente attivato aveva escluso l’esistenza del reato di usura a danno dell’istante.
La sussistenza di tale reato, infatti, ai sensi dell’art. 20 del DPR 19 febbraio 2014, n. 60 (ossia, il Regolamento recante la disciplina del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura), costituiva un presupposto necessario per ottenere il mutuo richiesto alla PA[18].
Pertanto, siccome il ricorrente non avrebbe mai potuto ottenere la concessione del mutuo richiesto, la violazione, seppur notevole, del termine di provvedere non faceva sorgere in capo alla PA alcuna ipotesi di responsabilità civile ex 2043 c.c. per mancanza dell’ingiustizia del danno.
Anche sulla base di tali motivazioni, l’appello veniva respinto.
La sentenza sembra pertanto aderire alla corrente maggioritaria che si è formata in seno alla giurisprudenza amministrativa che ritiene che il tempo non costituisca un bene della vita autonomo ma, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana in capo alla PA per violazione colposa o dolosa del termine di provvedere ex art. 2-bis della l. 241/1990, ritiene non sufficiente la sua mera violazione, ma reputa necessario un giudizio prognostico che attesti, secondo il parametro del “più probabile che non”, la spettanza in capo al privato dell’utilità finale ambita; assumendo che, solo in questo caso, se risulta lesa anche l’utilità finale, si verificherebbe il danno ingiusto richiesto dall’art. 2043 c.c.
[1] In generale, sui rapporti tra tempo e diritto, si veda in dottrina M.A. SANDULLI, Il tempo del processo come bene della vita, in Federalismi.it, dove si legge che: “Ancora di più, come insegniamo ai nostri studenti, il diritto amministrativo è tradizionalmente condizionato dall’evoluzione della società e dal passaggio del tempo e ha nella sua essenza la necessità di seguirlo, finalizzando l’esercizio del potere, che, appunto per questo, non si consuma mai al miglior raggiungimento del pubblico interesse, come essi si viene man mano configurando nel contesto sociale, politico ed economico, anche in rapporto agli altri interessi, tanto privati che pubblici, in gioco. E in ciò sta, non solo il fondamento di istituti come l’annullamento d’ufficio e la revoca, ma la stessa distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, che, diversamente dal primo, non ha una forza di resistenza assoluta, ma resta sempre recessivo rispetto alla necessità dell’amministrazione di rivedere le proprie scelte in ragione dell’interesse pubblico, come progressivamente configurato dall’indirizzo politico espresso dal legislatore.”
[2] In dottrina, tra tutti, si veda M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 244 e ss. dove l’A. afferma che: “In definitiva, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 l. 241/1990 dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita dell’interesse pubblico di cui è portatrice, sia a quella dei soggetti privati che devono poter programmare le proprie attività facendo affidamento sulla tempestività nell’adozione degli atti amministrativi necessari per intraprenderla.”
[3] Ex multis, sull’obbligo di provvedere della PA si rinvia a A. CIOFFI, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Giuffre, Milano, 2005.
[4] Tra i rimedi preventivi previsti dall’ordinamento si fa riferimento in primo luogo alle ipotesi di silenzio qualificato della pubblica amministrazione che, a seconda dei casi, può assumere la duplice forma di silenzio-assenso o silenzio-diniego. L’art. 20 della l. 241/1990 prevede che trovi applicazione generalizzata l’istituto del silenzio assenso, ad eccezione dei procedimenti (ivi indicati) dove si fanno valere interessi sensibili o primari, e dei casi in cui è la legge stessa che qualifica il silenzio serbato dall’amministrazione come rigetto.
[5] I rimedi successivi previsti dalla legge sul procedimento amministrativo sono costituiti, in particolare, dal c.d. potere sostitutivo (per cui, il privato, in caso di inerzia dell’amministrazione, può rivolgersi al titolare del potere sostitutivo il quale deve concludere il procedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, avvalendosi o delle strutture competenti o di un commissario ad acta) e dal ricorso avverso il silenzio (con tale azione, il privato può chiedere, innanzitutto, l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere della PA, e in particolari circostanze -art. 31, co. 3, cpa- può anche chiedere al giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio).
[6] L’art. 2-bis della l. 241 del 1990 è stato introdotto dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e per la sua azionabilità in giudizio va letto in combinato disposto con gli artt. 30 e 34 del codice del processo amministrativo (di cui al D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) disciplinanti l’azione di condanna, la quale ha un carattere “atipico” in quanto il giudice, su richiesta della parte, può ordinare alla pubblica amministrazione non solo il pagamento di determinate somme di denaro (nelle quali rientra l’esaminando danno da ritardo) ma anche “l’adozione di misure idonee a soddisfare la situazione giuridico soggettiva dedotta in giudizio.”
Sul punto si veda F. PIGNATIELLO – O. TORIELLO, L’azione di condanna, in Manuale del processo amministrativo, a cura di F. CARINGELLA e M. GIUSTINIANI, II ed., Dike, 2017, p. 187, dove si legge che: “La disciplina dell’azione di condanna si rinviene nel combinato disposto degli artt. 30 e 34 cpa. L’azione di condanna si configura, innanzitutto, come condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante, nei casi di giurisdizione esclusiva, dalla lesione sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi; nei casi di giurisdizione di legittimità, dalla lesione dei soli interessi legittimi, conseguente all’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o al mancato esercizio di quella obbligatoria (art. 30, comma 2, cpa). Può essere, altresì, chiesta la condanna al risarcimento del c.d. danno da ritardo, ossia il danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa da parte della PA del termine di conclusione del procedimento (art. 30, comma 4, cpa).” Nel proseguo si sottolinea anche il carattere atipico dell’azione di condanna, in virtù del quale “il giudice può condannare l’Amministrazione, non solo al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno (per equivalente o in forma specifica ex art. 2058 c.c.), ma altresì ‘all’adozione delle misure idonee a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio’ (condanna ad un facere).”
[7] Il rimedio ora in esame non va confuso con l’indennizzo da mero ritardo stabilito nel seguente comma 1-bis dell’art. 2-bis, l. 241/1990 in base al quale, fatto salvo l’eventuale risarcimento del danno di cui al comma 1 e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di violazione del termine di provvedere su procedimenti iniziati ad istanza di parte, al privato spetta un indennizzo forfettario determinato dalla legge.
[8] Considerata l’ampiezza del tema, per quanto qui di interesse è opportuno soffermarsi brevemente sul solo concetto di “danno ingiusto” nell’ambito della responsabilità aquiliana. Utilizzando le parole della nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1999, di cui infra in nota, “ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità.”
In dottrina, ex multis, si veda A. ZITO, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. SCOCA, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp. 89 e ss., dove l’A., commentando la sentenza n. 500/1999 delle S.U. afferma a riguardo che: “la locuzione danno ingiusto non va correlata ad una situazione giuridico soggettiva tipizzata in altra norma: essa va invece interpretata come una clausola generale che offre protezione nei confronti dei danni arrecati anche ad interessi che, pur non essendo riconosciuti da altra norma in termini di situazione giuridica soggettiva, tuttavia appaiono meritevoli di tutela e protezione da parte dell’ordinamento giuridico, la cui selezione spetta al giudice attraverso ‘un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto e cioè dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del gatto è volto a perseguire’, così da ‘accertare se il sacrificio del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza’.”
Cfr. anche F. PIGNATIELLO – O. TORIELLO, L’azione di condanna, op. cit., pp. 188 e ss.
[9] Sulla ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali succedutisi nel tempo in materia del danno da ritardo, si veda, ex multis, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, XIII ed., G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, pp. 82 e ss., dove l’A. ribadisce che il danno da ritardo “assume rilievo pratico soprattutto quando il procedimento amministrativo comporti un’immobilizzazione di risorse economiche che il cittadino avrebbe ragionevolmente potuto destinare diversamente, se l’amministrazione gli avesse risposto subito con un provvedimento negativo. In questo caso il danno è provocato non da un provvedimento illegittimo, ma dalla condotta illegittima dell’amministrazione che non rispetta i termini per la conclusione del procedimento. Una parte della giurisprudenza ammise anche in queste ipotesi un risarcimento del danno, riconoscendo che l’interesse legittimo può essere leso non solo da un provvedimento illegittimo ma anche da ogni altro svolgimento del potere amministrativo che non sia conforme alla legge.” In origine, tuttavia, Il Consiglio di Stato, aderendo alla tesi più restrittiva, sosteneva che “se non fosse spettato al cittadino un provvedimento favorevole non sarebbe stata neppure configurabile una lesione a un suo ‘bene della vita’ e senza una lesione al ‘bene della vita’ non vi sarebbe spazio per un risarcimento.” Tale conclusione, prosegue l’A., non è cambiata neanche con l’introduzione dell’art. 2-bis nella l. 241/1990 tanto che il Consiglio di Stato “ha confermato in genere il proprio indirizzo precedente e la posizione prevalente non sembra scalfita neppure da Cons. Stato, ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5, che ha dichiarato (ma solo incidentalmente) di condividere la tesi meno restrittiva.”
[10] In via di estrema sintesi, con la sentenza 22 luglio 1999, n. 500, la Suprema Corte a Sezioni Unite, tramite argomentazioni evolutive di carattere sostanziale e processuale, ha invertito il precedente orientamento per cui la tutela risarcitoria ex 2043 c.c. riguardava i soli diritti soggettivi ed ha espanso la sua applicabilità anche agli interessi legittimi, facendo altresì venir meno la c.d. pregiudiziale amministrativa. Con tale pronuncia, infatti, la Cassazione conclude che: “La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra infatti nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della PA abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento. In altri termini, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della PA, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.”
Sul punto, cfr anche A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, op. cit., pp. 77 e ss.
[11] Tra le varie pronunce che si inseriscono in questo orientamento si segnalano, ex multis: Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 ottobre 2019, n. 6740; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 4 maggio 2018, n. 5; Consiglio di Stato, Sez. IV, 1 luglio 2015, n. 3258; Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; Consiglio di Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271.
[12] Cfr. Consiglio di Stato del 7 ottobre 2019, n. 6740, dove il giudice amministrativo, dopo aver preso atto della presenza del diverso orientamento giurisprudenziale che subordina il risarcimento del danno da ritardo alla spettanza del bene della vita finale, ritiene superata tale concezione anche a seguito di successivi interventi legislativi. Si legge in sentenza che: “In altri termini, il riferimento, per la risarcibilità del danno, al concetto di danno ingiusto, ove l’unica posizione considerata e tutelata sia quella avente ad oggetto il bene della vita richiesto con l’istanza che ha dato origine al procedimento, non potrebbe che postulare la subordinazione dell’accoglimento della domanda risarcitoria all’accertamento della fondatezza della pretesa avanzata, altrimenti si perverrebbe alla conclusione paradossale e contra legem di risarcire un danno non ingiusto. Viceversa, la novità della novella legislativa del 2009 sembra individuabile nel fatto che l’ingiustizia del danno risarcibile deriva dalla lesione di un bene della vita differente rispetto a quello, vale a dire della lesione del tempo come bene della vita. Ne consegue che, con la presentazione di un’istanza all’amministrazione, ove la stessa sia fonte di un obbligo di provvedere, il cittadino (o l’impresa) farebbe valere non solo una posizione di interesse legittimo pretensivo ad ottenere il bene della vita richiesto con l’istanza, ma anche una autonoma pretesa ad ottenere nei termini stabiliti dalla legge una risposta conclusiva circa l’attribuzione o meno di quel bene.”
[13] Cfr. G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi ai silenzi provvedimentali e procedimentali della PA, in Principi e Regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2020, p. 215, dove l’A. afferma che: “In ordine alla rilevanza del fattore tempo come bene della vita autonomo, la dottrina, quindi, nel tratteggiare la trasformazione del modello di amministrazione verificatasi negli ultimi decenni -sintetizzabile nella formula “dalla funzione al servizio”-, ha evidenziato come essa abbia contribuito a modificare l’approccio alla tematica della responsabilità, in quanto il cittadino, dismessi i panni di spettatore passivo, diventa “destinatario” dell’esercizio, garantito e spesso anche partecipato, di una potestà. La trasformazione rende doveroso individuare strumenti di responsabilizzazione dell’attività amministrativa, tra cui viene compresa la responsabilità civile in relazione alle ipotesi di malfunzionamento, di cui il danno da omessa o ritardata emanazione di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei cittadini costituisce una delle manifestazioni. Il bene tutelato è individuato nella certezza dei tempi procedimentali o nella certezza, sotto il profilo temporale, del rapporto giuridico tra amministrazione e cittadino.”
[14] Tra le pronunce giurisprudenziali che, sostenendo la tesi più restrittiva, non ritengono risarcibile il danno da mero ritardo, si segnalano le più recenti decisioni: Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 luglio 2020, n. 4669; Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437; Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2019; Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4951.
Nello stesso senso, ma più risalenti, si vedano: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 3 dicembre 2008, n. 13; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15 settembre 2005, n. 7.
[15] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 luglio 2020, n. 4669.
[16] Cfr. M.L. MADDALENA, Il danno da ritardo: profili sostanziali e processuali, in L’azione Amministrativa, a cura di A. ROMANO, G. Giappichelli Editore, Torino, 2016, pp. 189 e ss., dove l’A. a proposito del danno risarcibile specifica che: “Nel caso risarcimento del danno da ritardo previo accertamento della spettanza, ciò che si risarcisce -come si è visto- è sia la perdita subita che il mancato guadagno in relazione al bene della vita. Che cosa deve essere risarcito invece nel caso del danno da ritardo mero? […] Secondo una seconda tesi, che la recente giurisprudenza sembra condividere, l’oggetto della tutela risarcitoria, in caso di danno da ritardo mero, non è la perdita di tempo in sé, ma sono gli altri beni della vita lesi in conseguenza del mancato rispetto del termine procedimentale. Il parametro di riferimento è dunque quello della responsabilità da atto illecito o meglio della responsabilità precontrattuale, nella quale l’entità del risarcimento è limitata all’interesse negativo, mentre l’oggetto di tutela risarcitoria sono tutti i danni conseguenza, di natura patrimoniale e non.”
[17] Sul punto, prosegue il Collegio specificando che: “In questa prospettiva, deve qui aggiungersi, il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita si presenta come un’applicazione particolare dei principi generali in tema di nesso di causalità materiale e mira a stabilire quale sarebbe stato il corso delle cose se il fatto antigiuridico non si fosse prodotto e, cioè, se l’amministrazione avesse agito correttamente. […]
Ciò si ricollega – declinando il principio nella dimensione del danno da ritardo – al giudizio sulla spettanza del bene della vita e, cioè, al nesso fra l’inerzia della pubblica amministrazione e la frustrazione di una situazione giuridica o di un interesse a carattere preventivo vantato dal privato.”
[18] L’art. 20 del DPR 60/2014 disciplina il contenuto e la documentazione da allegare alla domanda di concessione del mutuo a favore dei soggetti che si ritengono lesi dal reato di usura e al comma 1 prevede che: “La domanda per la concessione del mutuo, sottoscritta dall’interessato, contiene: a) la dichiarazione dell’interessato di essere vittima del reato di usura […].”
Valéry Giscard d’Estaing: l’europeista “visto da vicino”
di Pier Virgilio Dastoli
Parafrasando gli scritti di Giulio Andreotti potrei dire di Valéry Giscard d’Estaing: “visto da vicino”.
Sono stato eletto segretario generale del Movimento europeo internazionale – una rete di organizzazioni europee e di sezioni nazionali nata all’Aja nel 1948 come casa comune dell’europeismo tradizionale – nell’aprile 1995 come candidato dei federalisti vincendo a sorpresa nel segreto dell’urna contro l’inglese Peter Luff che partiva avvantaggiato dal ruolo di segretario generale aggiunto.
Da sei anni, il Movimento europeo internazionale era presieduto da Valéry Giscard d’Estaing, eletto parlamentare europeo nel 1989 e presidente del Gruppo Liberale dal 1989 al 1991.
Dopo la scomparsa di Altiero Spinelli, di cui ero stato l’assistente parlamentare dal 1977 al 1986, avevo promosso e coordinato un “intergruppo federalista per l’Unione europea” nutrendo l’illusione che il Parlamento europeo fosse disponibile a riprendere l’azione costituente che si era concretizzata nell’approvazione del “Progetto Spinelli” il 14 febbraio 1984.
Notoriamente lontano dalla cultura gollista in materia europea che caratterizzava la posizione della grande maggioranza delle forze politiche francesi a cominciare dai socialisti ma estraneo alle logiche interne del Parlamento europeo, Giscard d’Estaing avrebbe voluto collocare i liberali europei al centro dell’azione parlamentare approfittando della paralizzante grande coalizione fra popolari e socialisti e creando intorno al suo ben più piccolo gruppo un’alleanza per una “Europa sovrana”.
Fui convocato a Parigi da un suo collaboratore per un colloquio con Monsieur le Président nel corso del quale Giscard d’Estaing mi propose di lasciare il Gruppo Comunista e Apparentati in cui ero entrato nel 1988 come consigliere per le questioni istituzionali e diventare suo capo di gabinetto nel Gruppo Liberale scegliendo un italiano, vicino ai comunisti e federalista.
Nella convinzione che nel passaggio al Gruppo Liberale avrei perso una buona parte della mia posizione di libero pensatore federalista, non accettai la sua proposta.
A metà legislatura Giscard d’Estaing lasciò a sorpresa i liberali entrando nel Gruppo dei popolari europei e mi felicitai con me stesso per non aver accettato la sua proposta.
Ciononostante continuai a “vederlo da vicino” nel Parlamento europeo e nel Movimento europeo che avevo iniziato a frequentare più assiduamente in rappresentanza della sezione italiana.
Da buon francese, Giscard d’Estaing non amava molto gli inglesi e tantomeno chi all’interno del Movimento europeo aveva rappresentato la logica dell’europeismo tradizionale acritico nei confronti del metodo comunitario.
Mi ritrovai così alla segreteria generale del Movimento europeo ancora più vicino a Giscard d’Estaing valutando in incontri settimanali le sue convinzioni europeiste.
Capii che non poteva essere iscritto fra i seguaci di Jean Monnet che aveva messo il metodo funzionalista (e cioè l’evoluzione graduale dell’integrazione europea affidata ad una amministrazione formalmente indipendente dagli Stati nazionali ma di fatto prigioniera del potere preponderante dei governi) al centro della costruzione comunitaria.
Avendo contribuito - durante un settennato (1974-1981) pieno di luci come la modernizzazione laica dello Stato francese e di ombre come l’ affaire dei diamanti del dittatore centro-africano Bokassa spodestato dallo stesso Giscard nel 1979 - da presidente della Repubblica a iniettare nelle Comunità europee tre innovazioni di peso rappresentate dalla perennizzazione del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo con un ruolo politico di indirizzo e non di decisione, dalla creazione del Sistema Monetario Europeo come embrione della futura unione monetaria e dall’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, Giscard era convinto che il sistema europeo dovesse essere razionalizzato in un insieme più equilibrato che evitasse i rischi di paralisi insiti in un evidente squilibrio istituzionale e nel diritto di veto permanete nel Consiglio.
A suo avviso, l’Unione europea nata a Maastricht nel 1992 doveva essere inquadrata in una futura costituzione europea per evolvere verso gli Stati Uniti d’Europa, gli Stati avrebbero dovuto attribuire al livello sopranazionale un insieme di competenze ampie ma non modificabili secondo il modello federale della Legge Fondamentale tedesca e il passaggio dall’Unione agli Stati Uniti d’Europa avrebbe dovuto avvenire nel quadro di un’Europa a due velocità.
Nella sua visione degli Stati Uniti d’Europa, equidistante dal funzionalismo di Monnet e dal federalismo di Spinelli, non c’era posto tuttavia per un governo federale di origine parlamentare (nella Convenzione sul futuro dell’Europa propose una sorta di Congresso di Versailles composto da parlamentari europei e deputati nazionali, n.d.r.) ma era prevalente l’idea di una repubblica europea semipresidenziale necessaria per gettare le basi di un’Europa sovrana a livello internazionale.
Da Spinelli lo allontanava infine l’idea che gli Stati Uniti d’Europa dovessero essere il frutto di un’azione costituente del Parlamento europeo perché a suo avviso si doveva passare dalle forche caudine dell’accordo dei governi a condizione che tale accordo non dovesse essere sottoposto alla condizione della unanimità e perché non aveva trovato o non aveva cercato nel Parlamento europeo una spinta propulsiva verso un ruolo costituente.
“Visto da vicino” nel ruolo di presidente del Movimento europeo internazionale, la sua equidistanza fra Monnet e Spinelli era compensata dal desiderio di passare alla storia come il padre della futura costituzione europea e, con questo obiettivo, convinse il Movimento ad agire in due direzioni: una di carattere accademico con la creazione di una Agora accademica sul futuro dell’Europa che elaborò un corposo rapporto significativamente intitolato Verso una costituzione europea ed una – accettata a dire il vero obtorto collo in una agitata riunione al Bundestag dove le reticenze di Giscard d’Estaing furono superate dal sostegno della presidente del Bundestag e presidente del Movimento europeo tedesco Rita Suessmuth e dal presidente del Movimento europeo italiano Giorgio Napolitano – della creazione della prima rete europea della società civile (il Forum Permanente) che fu poi all’origine della Carta dei diritti dell’Unione europea e dell’embrione di democrazia partecipativa inserito nell’art. 11 del Trattato di Lisbona.
Come sappiamo – e se mi è consentito un paragone storico azzardato – e come avvenne al tempo della rivoluzione francese è nata prima la Carta dei diritti, elaborata su proposta del governo SPD-Verdi di Gerhard Schroeder da un organo sui generis che si battezzò Convenzione, che fu proclamata solennemente a Nizza nel dicembre 2000 e poi il Trattato costituzionale nel 2003.
L’idea della costituzione fu approvata dal Congresso d’Europa all’Aja nel maggio 1998 quando Giscard aveva lasciato a Mario Soares la presidenza del Movimento e, in quanto presidente di regione, era stato eletto alla presidenza del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa.
Il tema della costituzione entrò così nell’agenda europea prima con il discorso di Joschka Fischer a Berlino il 12 maggio 2000 tuttavia pieno di caveat confederali e quindi nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa concepita al Vertice di Laeken nel dicembre 2001 su iniziativa del primo ministro belga Guy Verhofstadt e alla cui presidenza Jacques Chirac impose lo stesso Giscard d’Estaing affiancato da Giuliano Amato.
Per elaborare la costituzione si decise infatti di ricorrere al metodo sui generis della Convenzione considerando l’efficacia e il successo di quella che aveva elaborato la Carta.
Condizionato dalla presenza ingombrante dei governi e frenata dall’incapacità del Parlamento europeo di assumere un ruolo di leadership e di creare un’alleanza innovatrice con i parlamenti nazionali, il testo di “Trattato che istituisce una costituzione europea” elaborato e approvato dalla Convenzione fu il frutto di un minimo comun denominatore reso inevitabile dalla regola secondo cui i convenzionali dovevano decidere secondo il principio del consenso sapendo che il testo sarebbe poi passato per le mani di un negoziato diplomatico, di una conferenza intergovernativa e delle ratifiche nazionali frammentate fra consultazioni popolari e adozioni parlamentari.
Prigioniero del proprio ego, Giscard d’Estaing ha lavorato sull’ipotesi di una apparente costituzione condivisa dai governi nella speranza o nell’illusione che essa sarebbe passata indenne dalle forche caudine delle ratifiche nazionali, che sarebbe stata accettata anche dal Regno Unito a cui aveva concesso l’art. 50 sull’uscita volontaria e che avrebbe comunque aperto la strada ad un salto verso l’unità politica grazie ai suoi anticorpi costituzionali (il primato del diritto dell’Unione una lista di valori comuni costituzionalmente vincolanti, i limiti ai poteri del Consiglio europeo e il ruolo accresciuto del Parlamento europeo nei confronti della Commissione, la legge europea, una clausola per il passaggio dall’unanimità alla maggioranza….).
Sappiamo che così non è stato perché i governi hanno irresponsabilmente deciso di mettere del piombo nelle deboli ali della breve costituzione europea associando ad un testo di diritto primario la massa di oltre trecentocinquanta articoli del diritto secondario dei trattati esistenti ed hanno eliminato tutti gli anticorpi costituzionali aprendo la strada ad un dibattito confuso e a quelle che oggi avremmo chiamato fakenews.
Prima dei britannici e nonostante il voto favorevole di tredici paesi europei (di cui i referendum in Spagna e Lussemburgo) la Francia di Giscard d’Estaing e i Paesi Bassi incamminati sulla via dell’euroscetticismo hanno affossato nella primavera del 2005 il cosiddetto Trattato costituzionale e, come avrebbe detto Spinelli, dalla sua montagna è nato il topolino del Trattato di Lisbona.
Speriamo che la storia della sfortunata costituzione europea ammaestri coloro che dovranno guidare il prossimo dibattito sul futuro dell’Unione sulla via degli Stati Uniti d’Europa ed in particolare il Parlamento europeo.
Interdittiva antimafia e ius ritentionis (nota ad Adunanza Plenaria 26 10 2020 n. 23).
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Premessa.– 2. Lo ius ritentionis da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva. – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza sulla “utilità conseguita” e la certezza dei rapporti. – 4. La posizione della Plenaria
1. Premessa
L’Adunanza Plenaria si pronuncia sul tema delle conseguenze connesse all’adozione di un’interdittiva antimafia sulla pregressa percezione di contributi pubblici diretti all’incentivazione di un’iniziativa imprenditoriale ormai interamente realizzata.
Il tema delle interdittive è molto dibattuto sotto molteplici profili e, in particolare sui limiti prefettizi (le c.d. interdittive generiche) e sui poteri di cognizione del giudice amministrativo (in particolare il ruolo della Sezione III del Consiglio di Stato). La dottrina è molto attenta e critica sul punto palesando in recenti interventi “un’ennesima, incondizionata, presa di posizione a favore delle misure interdittive antimafia”[1]. Per converso la giurisprudenza è granitica nel ritenere che l'informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell'autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa[2]. La complessità dell’informazione interdittiva è in costante ricerca di un punto di bilanciamento tra lotta alla mafia e diritto di difesa[3]. In effetti, come nota attenta dottrina vi è un “continuo confronto tra Stato e anti-Stato” il quale “richiede un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini”[4].
L’aspetto economico ne è un ulteriore aspetto imprescindibile che attesta l’effettività delle misure.
Oggetto del quesito deferito dalla Sezione III del Consiglio di Stato (Cons. St., Sez. III, 23 dicembre 2019, n. 8672 sentenza non definitiva) alla Adunanza Plenaria sono gli artt. 92, comma 4, e 94, comma 2 d.lgs. n.159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. Testualmente prevedono che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”; l’art. 94, comma 3, dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.
Contenuto del quesito deferito alla Plenaria, e da questa rimodulato, riguarda la questione se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all’inciso finale contenuto sia nell’art. 92, comma 3, che nell’art. 94, comma 2, d.l.gs. n. 159 del 2011, sia da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo.
All’esito di un complesso ragionamento la Plenaria ha stabilito il seguente principio di diritto che: “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”.
Vanno altresì posti all’attenzione due ulteriori aspetti che sono emersi.
Il primo aspetto, squisitamente di natura processuale, riguarda la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi. Nel caso è stato esperito l’intervento ad opponendum di un terzo imprenditore (estraneo al merito della vicenda processuale) rispetto all’appello proposto dall’appellante sul presupposto che il giudizio dell’interveniente vertente sul medesimo principio di diritto (ma non connesso) è stato sospeso ai sensi degli articoli 79, comma 1, c.p.a e 295 c.p.c. e conseguentemente rinviato per la decisione in attesa della pronuncia della Plenaria. Quest’ultima ha giudicato l’intervento ad opponendum inammissibile in quanto: “non è sufficiente a consentire l’istanza di intervento ad opponendum la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio”. La Plenaria esclude che la sua attesa pronuncia possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica e non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 99, comma 3 cpa.
Il secondo aspetto, di tecnica redazionale dei quesiti, desta interesse, poiché la questione deferita all’esame della Plenaria dalla Sezione abbisognava di una diversa e più ampia formulazione. In effetti, il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte della Plenaria) “riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico”. In questi termini la Plenaria ha riformulato il quesito, poiché è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente”.
2. Lo ius ritentionis da parte dell’operatore attinto da informativa interdittiva
La vicenda fattuale da cui trae origine la pronuncia in commento riguarda la richiesta di ripetizione di un contributo pubblico concesso ad un’azienda agricola per l’acquisto di attrezzature e macchinari necessari alla costruzione e all’ampliamento di una cantina.
L’A.G.E.A., a seguito di positiva istruttoria, ammetteva la richiedente al contributo regionale ed erogava lo stesso in sei diverse tranche nel periodo 2013-2016. In previsione dell’erogazione del contributo la Regione Basilicata richiedeva il rilascio dell’informativa antimafia una prima volta nel 2012 e una seconda volta nel 2014, senza tuttavia ricevere alcuna risposta da parte della Prefettura competente. Solo nel 2017 la Regione riceveva la comunicazione che l’azienda finanziata era stata attinta da una informativa antimafia positiva, emessa dalla Prefettura nel febbraio del 2016.
L’amministrazione regionale informava di un tanto l’A.G.E.A. che, in applicazione del disposto dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, disponeva la revoca dei contributi erogati richiedendone la restituzione. Alla prima interdittiva del 2006, poi, ne seguivano altre due, una nel 2017 e una nel 2018.
L’azienda agricola impugnava con due distinti ricorsi le prime due interdittive, mentre con motivi aggiunti la terza. Infine, un terzo giudizio veniva instaurato avverso gli atti di revoca dei finanziamenti.
Il contenzioso risultante dalla riunione dei succitati tre giudizi è stato definito nel merito dal T.A.R. Basilicata (T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 23 ottobre 2018, n. 707). Il Collegio adito ha rigettato i ricorsi riguardanti la legittimità dei provvedimenti di interdittiva, mentre ha accolto il ricorso avente ad oggetto la ripetizione delle somme ricevute, con il consequenziale annullamento dei provvedimenti con cui provvedimenti con cui l’A.G.E.A. aveva revocato i finanziamenti erogati alla società ricorrente.
Lasciando in disparte i motivi sulla base dei quali sono stati respinti i ricorsi avverso la legittimità delle interdittive antimafia che non rilevano sulla questione rimessa all’Adunanza plenaria in commento, pare opportuno, invece, evidenziare le motivazioni che hanno portato all’accoglimento del ricorso avverso la richiesta restitutoria dei finanziamenti percepiti. A tal riguardo il T.A.R. ha fatto proprio quell’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla ricorrente (cfr. T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 15 febbraio 2013, n. 119;T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 13 giugno 2017, n. 3237; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 3 gennaio 2018, n. 3237, n. 52) secondo il quale gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui fanno “salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite ed il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, vanno applicati, oltre che alle revoche dei contratti di appalto pubblico, anche alle revoche dei finanziamenti e dei contributi pubblici, che vengono corrisposti per finalità di interesse collettivo, tenuto conto del bilanciamento tra l’interesse pubblico (di impedire l’erogazione di denaro pubblico in favore di soggetti economici privati, condizionati dall’infiltrazione mafiosa) ed il principio di affidamento dei soggetti privati (trattandosi di soggetti che non sono indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata, ma solo sottoposte al rischio dell’infiltrazione mafiosa). La finalità delle norme sarebbe quella di non erogare il pubblico denaro, ma non di restituire quello già speso come, nella specie, il contributo concesso per l’ammodernamento dell’azienda agricola ricorrente mediante l’acquisto di attrezzature e macchinari per la cantina.
Avverso tale sentenza di primo grado è stato proposto appello da parte dell’A.G.E.A.che, dopo aver contestato la ricostruzione motivazionale del giudice di prime cure poiché in contrasto con la corretta applicazione della normativa vigente, ha pure evidenziato che sul punto in giurisprudenza sussistono due opposte soluzioni interpretative, avanzando istanza di deferimento del ricorso all’Adunanza plenaria, onde addivenire alla composizione di tale contrasto giurisprudenziale.
L’adita Sezione III del Consiglio di Stato, in accoglimento a tale richiesta e previa reiezione dell’appello incidentale dell’appellata avente ad oggetto l’asserita illegittimità dei provvedimenti prefettizi di interdittiva, ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione interpretativa in ordine all’esatta portata della clausola di salvaguardia di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. 159/2011.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza sulla “utilità conseguita” e la certezza dei rapporti
La lettura della clausola di salvaguardia di cui all’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011, è stata oggetto di due opposti orientamenti giurisprudenziali, uno estensivo e l’altro restrittivo. Si dibatteva sulla portata della disposizione nel senso se fosse limitata al solo caso della revoca del contratto, escludendo la diversa ipotesi della revoca del finanziamento oppure se lo ius ritentionis fosse ammesso oltre che per i contratti di appalto caratterizzati da un nesso di corrispettività anche per i provvedimenti unilaterali di concessione o autorizzazione di finanziamenti o contributi pubblici con un nesso di corrispettività attenuato.
Secondo l’interpretazione estensiva del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia nelle sentenze n. 3 e n. 19 del 2019 si propone una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di “utilità conseguite”. In tal modo si slega il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente come nel caso dei contratti di appalto e si estende a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall’amministrazione.
Per contro invece secondo l’interpretazione restrittiva del Consiglio di Stato, Sez. III, nelle sentenze n.1108 e n. 5578 del 2018, la nozione di “utilità conseguite” di cui all’art. 92 comma 3 “non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l’ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l’integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l’interesse pubblico risulterebbe essere soltanto indiretto”.
I due orientamenti si sono incentrati sull’interpretazione della nozione di utilità assumendo la distinzione tra utilità dirette e indirette ovvero tra quelle “direttamente ritraibili dall’amministrazione concedente come nel caso dei contratti di appalto” e quei vantaggi che soddisfatto, anche in via indiretta, l’interesse generale sotteso all’erogazione ma che non di rado rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di “utilità su scala collettiva” che lo stesso è in grado di generare”.
Altro nodo da sciogliere riguarda l’ordine pubblico economico degli effetti dell’interdittiva – cioè l’incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all’operatore attinto da un’informativa interdittiva - sui rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo ma che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione a causa di ritardi nella richiesta o comunicazione di fatti ostativi. In tale ambito la sentenza n. 3/2019 del Consiglio di Giustizia Amministrativa si era, infatti, posta la questione della certezza e sicurezza nei traffici giuridici ponendo in risalto il legittimo affidamento in capo all’operatore privato.
4. La posizione della Plenaria
Secondo la Plenaria l’esame ermeneutico degli articoli 92, comma 3 e 94, comma 2, risponde alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione. Gli articoli richiamati sono norme di eccezione e precisa scelta del legislatore che derogano all’ordinario procedimento il quale prevede che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti (v. art. 91), da parte dei soggetti pubblici deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione dell’informazione antimafia. La deroga invece consente nel caso di mancata comunicazione dell’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, comma 2, ovvero nei casi di urgenza (art. 94, comma 2) di procedere anche in assenza dell’informazione sulla capacità a intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione.
In tale contesto di lettura delle norme la Plenaria, in continuità con la sua precedente n. 3/2018, ribadisce che l’interdittiva antimafia non costituisce un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto. L’interdittiva consiste nell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione: “quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti”. Infatti, giova ribadire che l’atto di revoca non rappresenta un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma “un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”. Del pari si ha in caso di recesso che si contraddistingue in differenti varie tipologie non tutte riconducibili alle figure che ineriscono ad un diritto potestativo privato di ripensamento, come il recesso ordinario civilistico ovvero a quello previsto dall’articolo 109 del Codice dei contratti, ma si identificano in quelle che scaturiscono da una verifica postuma negativa sui requisiti generali ovvero nell’accertamento autoritativo postumo di una causa di esclusione (Tar Lazio, sez. II, 28 maggio 2020, n. 5700). In un caso il rapporto è da considerasi consolidato nell’altro caso è invece contraddistinto dalla precarietà degli effetti dei rapporti espressamente enunciata nelle norme. In quest’ultima ipotesi non è ravvisabile l’insorgere di un affidamento in capo al soggetto privato o di un suo diritto di ritenzione delle somme beneficiate.
L’ambito di applicazione della norma di eccezione relativa alla salvezza dei pagamenti è secondo la Plenaria strettamente circoscritto ai contratti di appalto in quanto “anche il dato letterale della disposizione” si oppone “ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti”. Del pari anche il riferimento alle “utilità conseguite” contribuisce ad escludere che la norma possa estendersi anche ai finanziamenti ed ai contributi.
Nell’ipotesi in cui ricorrono i presupposti di eccezione alla procedura ordinaria la Plenaria, in correzione del quesito, afferma che, intanto potrà procedersi alla verifica della “utilità conseguita”, in quanto si ritenga ammissibile la salvezza del pagamento delle “opere già eseguite” ovvero del “rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, poichè il riferimento “nei limiti delle utilità conseguite” va inteso come misura del “quantum” dovuto dall’amministrazione al privato colpito da interdittiva.
Sulla base di queste premesse, e aderendo alla posizione restrittiva, la Plenaria indica quando non sia possibile ricondurre alla “utilità conseguita” anche più generali interessi pubblici. E precisamente non è possibile quando: (i) l’accertamento appare non rispondere (o non rispondere sempre) a parametri giuridici, bensì a parametri macroeconomici, proporzionati alla tipologia, all’estesa latitudine degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo; e (ii) (per altro verso) essi stessi prescindono da una vera e propria possibilità di “misurazione” in senso giuridico o economico, afferendo alla migliore esplicazione di diritti politici o economici, ovvero ad aspetti di sviluppo sociale o culturale.
In tale contesto la Plenaria ha tracciato l’ambito operativo delle norme riconducendo a sistema anche l’aspetto delle conseguenze economiche delle interdittive. La legislazione antimafia indubbiamente presenta caratteristiche di eccezionalità che si declinano nel diritto della prevenzione palesando le criticità nell’individuazione “del punto di equilibrio tra prevenzione antimafia e interessi pubblici concorrenti o diritti di libertà”[5]. In effetti, non sono mancate critiche alla giurisprudenza amministrativa per aver operato uno spostamento e aggravamento dell’asse fissato dal Legislatore modificando perfino “l’architettura del sistema”[6]. Per converso va però notato che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, in particolare sul fronte degli elementi indicativi dell’infiltrazione mafiosa già a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consente ragionevolmente di prevedere l’applicazione e le conseguenze della misura interdittiva nel rispetto del principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale. Del resto la Corte Costituzionale n. 24 del 27 febbraio 2019 che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, (sebbene con riferimento alle misure di prevenzione personali), ha evidenziato l’esigenza di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, le essenziali garanzie di tassatività sostanziale e processuale (Consiglio di Stato, Sez. III, 6 novembre 2019, n. 7575)[7].
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[1] G. Amarelli, Interdittive antimafia e «valori fondanti della democrazia»: il pericoloso equivoco da evitare, in Questa Rivista.
[2] R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’ 8 giugno 2020) in Questa Rivista e; V.Di Iorio, Informative interdittive antimafia, in l’Amministrativista – Il Portale sugli appalti e i contratti pubblici, 10 gennaio 2017.
[3] R. Rolli e M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (Nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in Questa Rivista.
[4] C. Felicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (Nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945), in Questa Rivista.
[5] M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’indefinita pervasività del sottosistema antimafia delle grandi opere e il caso emblematico della “filiera”, in Dir. econ., 2013, 624.
[6] F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in https://www.giustamm.it/, 6, 2018.
[7] A. M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in https://www.giustizia-amministrativa.it/, 2020.
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