Recensione di Umberto Apice a "ALLA FINE, BALORDI". Gli uomini non illustri di Massimo Ferro.
Perché Massimo Ferro, magistrato notissimo in ambito forense e negli ambienti della dottrina giuridica, non è anche un autore celebre?
Questo suo ultimo libro (Alla fine, Balordi può essere definito un romanzo, anche se tecnicamente è una raccolta di racconti, che sono però accomunati da un’identica atmosfera ) è il suo terzo di narrativa: il primo fu Misericordiae ( 8.38 ), Novecento editore, 2013, vincitore della VII edizione del Premio letterario RIPDICO - Scrittori della Giustizia; il secondo fu Non avrai le mie parole, Novecento editore, 2014. E con esso Ferro si conferma uno scrittore vero, di quelli che nascono scrittori. Da che cosa si capisce? Basta leggere una pagina a caso ( una qualsiasi: è sicuro che presenterà le sue perle e nello stesso tempo il suo elevato tasso di complessità ). Da quella pagina balzerà fuori la caratteristica fondamentale della sua scrittura e del suo mondo morale: Ferro è tormentato prima di tutto dalla voglia di scoprire qualcosa di più sulla vita e sugli uomini, su noi stessi, lui compreso; e poi dalla voglia di implicare il lettore, di scuoterlo, di farlo partecipare e soffrire. E’ chiaro che quando un libro si presenta con queste credenziali al lettore capiterà di spazientirsi, ma non può piantarla lì ( almeno, se è un lettore serio ): non mollerà, anche quando vorrebbe che un personaggio si decidesse e facesse sapere che cosa ha deciso di fare, senza tenerci ancora col fiato sospeso. Lo stesso linguaggio è spiazzante, sincopato, spesso paratattico, ma non privo di complicate ipotassi, in una tensione stilistica tra narratore e personaggio; tensione che arriva all’estremo che in ogni situazione il lettore si trova davanti l’aggettivo più insolito o addirittura l’alternanza del punto di vista ( che ora è espresso con un io e ora con la terza persona ).
E allora torniamo all’interrogativo con cui abbiamo iniziato: può essere celebre uno scrittore che, come segno particolare, presenta questo rigore morale? E in un panorama culturale nel quale i lettori premiano gli scrittori della serialità più sciatta e più sconfortante? No: la risposta, che non può essere più ovvia, va tutta ad onore di Ferro.
I dodici personaggi del libro ( dodici quante sono le località che contraddistinguono i dodici capitoli: luoghi immaginari, che vengono a costituire un faulkneriano universo disperso ) vivono o hanno vissuto esistenze prive di grandi avvenimenti o, per loro sfortuna, si sono trovati a subire una sola tragica esperienza, che è diventata l’ossessione della loro vita. Non possono mai illudersi di aver trovato una piattaforma dove regna la tranquillità. No. Tutti sono condannati a portarsi appresso i loro demoni, le loro nevrosi, grandi o piccole. In qualche modo sono i parenti stretti di quegli “ uomini non illustri ” resi immortali dalla narrativa di Giuseppe Pontiggia: anche loro attanagliati da una trama segreta, personale o familiare, di ricordi ed angosce.
Qualche esempio sarà più illuminante di tante parole.
Oreste Bertani. Un professore sulla soglia del pensionamento e in ansia per l’attesa di un responso di biopsia ritorna in un ristorante dove era stato in gioventù e rievoca come si fece adescare da una sguattera del locale. Una ragazzina. Una vergogna che gli ha lasciato il segno.
Gemma Albinati. Un amore tra i banchi di scuola. Amore incompiuto fino a cinquant’anni dopo, quando i due ragazzi di allora si incontrano e subentra l’angoscia di svelarsi l’una all’altro: “ Ci stavamo immaginando, i capelli già bianchi e radi di lui, le pelli intrise di vita e stagioni entrambi, anch’io segnata attorno agli occhi. E più giù. Quei teli puliti e messi a festa servirono a nasconderci, impedendo alla vista di sapere chi fossimo.”
Silvia Perletti, una dirigente di azienda con trentadue anni e sei mesi di anzianità. La sua pena segreta è il ricordo di un figlio vissuto soltanto trentotto ore e otto minuti, così che lei in giro diceva “ di essere stata almeno per un po’ madre ”. Il suicidio arriverà - naturale e inaspettato, secondo la formula di Henry James - al termine di un meeting di lavoro e con un salto nel vuoto dalla stanza di albergo all’estero: “ Qui ho finito. E anche il settimo piano, da quassù, sarà abbastanza alto. [...] Indosso, ora porto le mutande arrivate in regalo da mia sorella. Appena messe. Così almeno, quando mi ritroveranno laggiù, si consoleranno per i miei pensieri alla famiglia.”
Amedeo Saviotti. Un ragazzo che dal paese di nascita si trasferisce in città per studiare e diventare ingegnere. Ci ritorna per i funerali di un compagno di scuola, che era stato manesco e intrattabile. Commentano i vecchi compagni: “ Se n’è andato così, perdendo le forze come un serbatoio vuoto. Non riusciva a spingere nemmeno la leva del trattore. Né a salirvi.” Mentre l’ingegnere, vedendo le mani giunte del morto, e il rosario arrotolato alle dita grosse, se ne sta distante, “ almeno un passo, come a temere che se si alza m’arriva una manata in faccia ”.
Agostina Montero. Storia di un padre - padrone e di violenze in famiglia rievocate dalla figlia il giorno in cui l’aguzzino muore e quando la vittima già da molti anni è lontana dal suo giogo. Fermo e deciso il suo rifiuto di ritornare al paese per partecipare ai funerali. Realismo e oggettività agghiaccianti, pur nel distacco e nell’assenza di giudizio. “ Restai coricata, chiudendo gli occhi mentre le mani, le mie, cooperavano a togliere i vestiti. Riposti sotto la schiena. “ Così non ti salgono le formiche ” mi fu bisbigliato insieme a un bacio che mi portò via ogni secchezza dalla bocca. Annuii all’ordine condiviso.” L’iniziazione all’oscena consuetudine non poteva essere espressa con maggiore laconicità: alla pari, quasi, con la manzoniana risposta della “ sventurata ”.
Dodici microromanzi. Viene da dire che il mondo di questi uomini e di queste donne è un mondo mediocre, sgualcito ( rubando la definizione a Geno Pampaloni che l’applicò ai “ non illustri ” di Pontiggia ): manie, desideri innaturali, adulteri, matrimoni sbagliati, ambizioni male apposte. E spesso questi personaggi hanno una vita parallela, sotterranea, fatta di sentimenti, ricordi e desideri, che sono segreti, e perciò si tratta di una vita clandestina. Il narratore - sembra che dica Ferro - deve preoccuparsi di una sola cosa: andare alla ricerca di quel pathos, di quel sordido, di quella violenza, che si trovano nella vita clandestina. E non importa se in questa ricerca gli capiterà di entrare in un tunnel di ambiguità. La vera letteratura si manifesta soprattutto nell’ambiguità: perlomeno, la letteratura che non vuole essere solo testimonianza (che sarebbe un ruolo riduttivo), ma ambisce a un ruolo preminente sul terreno cognitivo.