In copertina Alessandro Tiranno, 12 anni,
Il Natale al tempo del Covid
Il (pranzo di) Natale al tempo del Covid di Giuseppe Savagnone
Sommario: Qual è il vero Natale - 2.La voce del silenzio - 3.Oltre il narcisismo - 4. Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri.
1.Qual è il vero Natale.
Anche se un antico detto recita «Natale con i tuoi», nessuno poteva immaginare che quest’anno il cenone natalizio si sarebbe svolto nella ristretta cerchia di quelli di casa, con la partecipazione di due soli ospiti, presumibilmente scelti anche loro tra i familiari più stretti. Niente famiglie allargate, niente amici, niente allegre brigate. Bella festa!
La delusione è generale. Sono delusi quelli che speravano, anche quest’anno, in una chiassosa riunione di parenti, intorno a una bella tavola imbandita, mangiando cose buone e bevendo a crepapelle. Delusi quelli che passano le settimane prima del 25 dicembre a fare shopping, acquistando regali costosi che si sarebbero voluti scambiare, ai piedi dell’albero, con figli, nipoti e amici. Delusi quelli che questa nottata erano abituati a trascorrerla giocando. Delusi i gestori di alberghi, ristoranti, pub, che si aspettavano come sempre il pienone di clienti. Insomma, a caratterizzare quest’anno la ricorrenza, un tempo lieta, è la costernazione. Che Natale è?
Se un marziano arrivasse in questi giorni in una delle nostre città e rilevasse questo diffuso disincanto, ne concluderebbe che l’incantesimo del Natale per noi era costituito dalle luci delle vetrine, dagli oggetti, dai cibi e che questa, per la cui dissacrazione siamo a lutto, è la festa nazionale del consumismo. Si farebbe molta fatica a convincerlo che c’è dell’altro, sì, un’antica tradizione religiosa, forse una leggenda, che parla di una nascita – altrimenti perché diamine si chiamerebbe Natale? - , della nascita di un bambino diverso dagli altri…
Probabilmente il marziano obietterebbe, stupito, che di questo non parla nessuno, mentre i rimpianti, le recriminazioni, le proteste, si sono concentrati, piuttosto, sul vuoto determinato dal venir meno di quelle altre cose (luci, oggetti, cibi…). Se poi qualcuno gli spiegasse che la nascita di quel bambino, in realtà, è stata considerata così importante da far dividere in due il tempo della storia umana - inducendo, ancora oggi, buona parte dell’umanità a distribuire gli avvenimenti di questa storia a seconda che si siano verificati prima o dopo di essa, e datandoli in rapporto all’anno in cui è avvenuta - , il suo stupore sarebbe ancora più grande.
E non avrebbe torto. Perché, in effetti, la percezione, diffusa nell’immaginario collettivo, che questo non è un vero Natale, dimostra che i valori intorno a cui ormai da molto tempo ruota questa festa – forse la più significativa dell’anno, sicuramente la più sentita e amata - non hanno più quasi nulla a che fare col suo significato originario. Nella migliore delle ipotesi, questi valori parlano di una generica bontà – a Natale, si dice, siamo tutti più buoni - , di famiglia, di volti di bambini sorridenti per i doni che ricevono. Babbo Natale ha sostituito Cristo.
Forse sono più vicini alla cultura reale quei Paesi del Nord Europa dove ormai anche la tradizionale denominazione di origine cristiana tende ad essere sostituita con quella di “Festa d’inverno”, recuperando la sua coincidenza con la festa pagana del solstizio d’inverno. Un passaggio che da molti è auspicato anche in nome del rispetto per le minoranze religiose, soprattutto quella islamica. Su questa linea del resto si pone la sempre più frequente sostituzione – anche da noi - del presepe con l’albero di Natale, che neutralizza il riferimento alla nascita di Gesù e quindi – si sottolinea – non offende nessuno.
A dire il vero i primi a sorprendersi di questo “atto di delicatezza” sono i musulmani, perché il Corano, nell’unica sura (capitolo) dedicata a una donna, precisamente a Maria, parla esplicitamente dell’annuncio dell’angelo Gabriele alla Madonna e della nascita verginale di Gesù (anche se come grande profeta e non come Figlio di Dio). Ma forse a non avere più il senso di questi eventi non sono i seguaci dell’Islam, bensì gli eredi, formalmente “cristiani”, di una tradizione in cui non si riconoscono più.
2.La voce del silenzio
Se il Natale come solennità di una religione dei consumi e, se mai, di Babbo Natale, ha soppiantato quello di cui parlano i vangeli, è in fondo perché quest’ultimo non sembra aver più nulla da dire agli uomini e alle donne del nostro tempo. Il massimo che ne trae è un vago sentimento di benevolenza e di pace che rientra nei canoni di un certo “buonismo” di cui anche il sistema neocapitalistico ha bisogno, una volta l’anno, per rendere sopportabile la cinica legge dell’efficienza e del profitto negli altri 364 giorni.
Quest’anno, però, le cose stanno andando diversamente dal solito. Venendo a turbare questo quadro consolante, il covid ha messo spietatamente a nudo la sua dipendenza dalle logiche della società opulenta e ci costringe a cercare, dietro di esso, che cosa rimane del Natale quando le luci restano spente e i regali inutilizzati. Nel vuoto che si è aperto, diventa plausibile chiederci se è proprio vero che nel Natale di Gesù Cristo non ci sia nulla che possa interessarci.
Una prima risposta riguarda proprio il vuoto che stiamo sperimentando e che non riguarda solo il mancato cenone, ma l’interruzione o almeno la rarefazione, a causa della pandemia, del ritmo frenetico di attività e di incontri che riempiva la nostra vita e le dava un senso. Anche quando esso in qualche modo si prolunga attraverso lo smart working, rivelandosi anzi, per certi versi, più invadente di prima, un vuoto rimane. Non è più il flusso della vita reale. Lo schermo ci rende inesorabilmente spettatori.
Si può reagire a questo con la depressione, oppure litigando con chi abita con noi, o in mille altre forme che riguardano la sfera psichica. Ma è possibile anche riscoprire una dimensione alternativa, quella spirituale (che non vuol dire necessariamente religiosa), a cui proprio il Natale ci introduce, se prendiamo sul serio il suo originario messaggio. La soglia per entrarvi è quella del silenzio.
«La liturgia natalizia contiene questi due versetti del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte giungeva a metà del suo rapido corso, l’onnipotente tua Parola si lanciò dal cielo, dal tuo trono regale”. Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio (…). Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono».
Questa riflessione di Romano Guardini sul senso del Natale suona oggi assolutamente inattuale. Essa è una sfida alla mentalità e al costume diffusi nella nostra società, in cui quello che conta non è ascoltare - meno che mai il silenzio! - , ma “farsi sentire” e comunque chiacchierare. Del silenzio abbiamo paura e lo sfuggiamo accuratamente. Anche a questo serve il chiasso delle feste”
Eppure percepiamo tutti che le parole – come già aveva avvertito Martin Heidegger – , nell’uso indiscriminato che ne facciamo, perdono il loro significato. Come i vuoti auguri che in questi giorni ci scambiamo, senza bene sapere perché.
Il silenzio notturno del Natale può, allora, aiutarci a riscoprirne uno dentro di noi, che ci renda capaci di fermarci, per ascoltare le voci della realtà, andando anche solo per un momento al di là del rumoroso groviglio delle nostre rabbie e delle nostre nevrosi.
Non è detto che in questo silenzio nasca per noi Gesù, come una piena immedesimazione nel Natale cristiano richiederebbe. Ma forse possiamo ritrovare, e in un certo senso “nascere”, almeno noi stessi. Non nel buonismo sentimentale, che ci può coinvolgere un giorno l’anno, ma nella verità di uno sguardo onesto sulla nostra vita.
3.Oltre il narcisismo
Può darsi, allora, che un altro frammento del mistero natalizio si riveli significativo ai nostri occhi. Esso parla di un Dio che esce dalla sua beata perfezione per condividere la storia degli uomini, soprattutto dei più poveri ed emarginati. Ne è un segno, già la notte di Natale, il fatto che l’annunzio si astato dato per primo ai pastori, una categoria che, nel mondo ebraico di quel tempo, era guardata con profondo disprezzo e assimilata a quella degli animali. Del resto, anche più tardi, nella sua vita pubblica, Gesù si mescolerà volentieri con la feccia della società di allora – pubblicani, prostitute, malati afflitti dalla patologie peggiori - , senza ombra di imbarazzo, anzi compiacendosi di trovare, anche in mezzo a questi rottami umani, dei discepoli.
Quello che caratterizza la cultura in cui siamo immersi fin dalla nascita e da cui siamo plasmati è un individualismo narcisistico e possessivo che porta a considerarci il centro del mondo, guardando gli altri come semplici comparse, nella grande rappresentazione di cui noi siamo i soli veri protagonisti, e il mondo intorno a noi come qualcosa da possedere e sfruttare a nostro uso e consumo.
Nella sua recente enciclica «Fratelli tutti», papa Francesco ha denunziato il paradosso di un mondo globalizzato, in cui tutti siamo in larga misura omologati dalle mode e dagli stili di vita comuni, ma che non ci ha reso fratelli, anzi esaspera la concorrenza e la tendenza dei più forti ad abbandonare i più deboli al loro destino.
Non c’è bisogno della fede per capire che il messaggio del Natale va nella direzione opposta a quella dominante innanzi tutto dentro di noi e, conseguentemente, nelle dinamiche sociali di cui siamo protagonisti. Si tratta di un tacito appello rivolto non soltanto ai credenti, ma ad ogni essere umano ancora capace di vigilanza (come i pastori nella notte) e perciò in grado di prendere coscienza del problema e di fare delle scelte conseguenti.
Questa società ha bisogno di persone che sappiano uscire da sé stesse e guardare in faccia gli altri come persone La cultura dei diritti ha indubbiamente contribuito a liberare gli individui da mille forme di schiavitù, ma rischia di essere unilateralmente enfatizzata e di far dimenticare i doveri. E, ancora al di là dei doveri, c’è la gratuità del supererogatorio che non è neppure dovuto, ma che si offre all’altro in dono. Come Dio ha fatto facendosi uomo.
4.Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri
Un terzo frammento del Natale perduto riguarda il valore che l’incarnazione di Dio attribuisce all’umano in quanto tale. Non i suoi valori più sublimi. Quando il vangelo di Giovanni, per raccontare la vicenda della nascita di Gesù, la sintetizza nell’espressione solenne «E il Verbo si fece carne» , usa una parola, “carne”, non intende parlare del corpo. Nel linguaggio biblico “carne” indica l’essere umano nella sua interezza, ma sottolineandone la fragilità, la vulnerabilità, la pericolosa inclinazione al male.
È questo che è accaduto, secondo la tradizione cristiana, a Natale: Dio ha voluto far suo il nostro destino, con le sue luci e le sue ombre e con questo ci ha chiesto di accettarci e amarci per quello che siamo. Non è facile amarsi. Georges Bernanos ha messo in bocca ad un suo personaggio un’affermazione tremendamente vera: «Odiarsi è più facile di quanto non sembri».
Il vero problema per la grande maggioranza delle persone è che hanno un pessimo rapporto con sé stesse. Non accettano i loro limiti, non si perdonano i loro errori, non hanno fiducia nelle loro potenzialità. Per questo hanno anche un rapporto sbagliato con gli altri. Non a caso il vangelo ci chiede, per poter amare loro, di cominciare con l’amare noi stessi: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Ma per amarsi bisogna sapersi amati da qualcuno. Da soli non ce la facciamo. Il Natale ci parla di un Dio che ci ama al punto da voler condividere Lui stesso la nostra umanità e ci chiede di accettare e accogliere l’umano negli altri come Lui lo accetta e lo accoglie in noi, con tutto il carico delle sue miserie.
Sono solo frammenti di una festa “superata”, che però forse intercettano ancora la nostra vita, anche quella di chi ha preferito fare l’albero piuttosto che il presepe. Il cenone di Natale quest’anno non servirà a distrarci da questi problemi con la sua chiassosa, ma forse superficiale, allegria. Naturalmente, ciò non vuol dire che saremo costretti ad affrontarli. Invece di riflettere, potremo sempre optare per la rabbia e la depressione. Ma sarebbe un bel regalo di Natale da fare a noi stessi provare a guardare le cose, per una volta, da un punto di vista diverso.