Il difficile equilibrio tra attività economica e tutela dell’ambiente salubre: suggerimenti per sciogliere un nodo gordiano (nota a CGUE 25 giugno 2024 C-626/22)
di Giulia Torta
Sommario: 1. Introduzione – 2. La sentenza della Corte di Giustizia del 25 giugno 2024 nella causa C-626/22, C.Z. e altri contro Ilva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria e altri – 2.1. Le ragioni del rinvio pregiudiziale e i dubbi del giudice nazionale – 2.2. Sulla ricevibilità della domanda di rinvio pregiudiziale – 2.3. Sulla corretta interpretazione della direttiva 2010/75/UE – 2.3.1. La prima questione – 2.3.2. La seconda questione – 2.3.3. La terza questione - 3. Riflessioni conclusive
1. Introduzione
Lo sviluppo sostenibile, nelle sue tre dimensioni - sociale, economica e ambientale - costituisce il fondamento indispensabile per il benessere umano e per il pieno godimento dei diritti, tanto per le generazioni presenti quanto per quelle future[1].
Al cuore di questa impostazione risiede l’affermazione del diritto fondamentale a un ambiente salubre, un principio ulteriormente consolidato, a livello nazionale, dalla recente modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana[2]. Questa riforma, infatti, non solo sottolinea l'importanza della tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, ma stabilisce anche che l'iniziativa economica privata deve rispettare tali principi, evitando di arrecare danno alla salute e all'ambiente. Il diritto a un ambiente sano, peraltro, va oltre la semplice aspirazione a vivere in un contesto non inquinato; esso impone agli Stati l'obbligo di adottare misure concrete per prevenire il degrado ambientale e proteggere le risorse naturali. Gli Stati, di conseguenza, sono tenuti ad implementare misure concrete per garantire un equilibrio ecologico che supporti la vita umana, promuovendo una concezione di salute più ampia, che includa il benessere fisico, mentale e sociale, e non si limiti solo all'assenza di malattie o infermità[3].
In un contesto di crescente consapevolezza e preoccupazione per le sfide ambientali globali, perciò, lo sforzo incessante dei legislatori e della giurisprudenza[4] per promuovere l’implementazione del diritto ad un ambiente salubre quale principio giuridico universale è un passo decisivo verso un futuro in cui il benessere umano e la tutela dell'ambiente siano concettualmente inseparabili, giacché il secondo rappresenta una condizione essenziale per garantire una vita dignitosa e una società equa.
Ciò, peraltro, assume particolare rilevanza in contesti delicati, dove l'equilibrio tra attività economiche, protezione ambientale e tutela della salute è spesso precario, come spesso avviene in presenza di importanti impianti di produzione industriale[5]. Quando vengono messi in funzione impianti simili, destinati al trattamento di sostanze potenzialmente nocive, infatti, gli Stati devono confrontarsi con la necessità di bilanciare tre interessi fondamentali e spesso in conflitto tra loro: promuovere lo sviluppo economico nazionale e locale; tutelare l’ambiente dalle immissioni di inquinanti; garantire il diritto dei singoli a vivere in un ambiente salubre, proteggendo la loro salute e la loro vita privata e familiare dall'invasività di attività industriali potenzialmente pericolose.
Questo bilanciamento non è solo una questione di opportunità politica, ma anche un obbligo giuridico che impone alle autorità competenti di adottare tutte le misure necessarie al fine di prevenire conseguenze negative sulla salute e sulla qualità della vita di chi risiede nelle aree interessate. L’omessa adozione, da parte delle autorità nazionali, di adottare misure efficaci per proteggere questi diritti costituisce una grave mancanza ed un ostacolo alla tutela della vita di coloro che risiedono nei pressi di questi siti, con particolare riguardo alle fasce di maggiore vulnerabilità.
2. La sentenza della Corte di Giustizia del 25 giugno 2024 nella causa C-626/22, C.Z. e altri contro Iva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria e altri
Il contrasto all’inquinamento industriale rappresenta uno dei filoni più significativi della giurisprudenza ambientale e, tra i casi che hanno segnato profondamente questo settore, pochi sono stati così complessi e controversi come quello dell'acciaieria Ilva di Taranto.
L'Ilva, infatti, nasce e si sviluppa come uno dei più grandi impianti siderurgici d'Europa ed ha una storia complessa[6], che intreccia questioni economiche, sociali e ambientali: queste sono le ragioni per le quali dottrina e giurisprudenza hanno dedicato all’Ilva grande attenzione negli anni e ne hanno indubbiamente fatto un caso studio emblematico, plasticamente rappresentativo delle difficoltà nel bilanciare sviluppo industriale, tutela dell'ambiente e tutela della salute.
È passato ormai più di un decennio dal 2012, data in cui il giudice penale ha disposto il sequestro dell’impianto, ma la vicenda, invece di trovare una sua conclusione, è stata caratterizzata da un vorticoso alternarsi di decreti governativi che hanno cercato di mantenere in attività l'impianto attraverso l’introduzione di norme ad hoc[7] e di decisioni giudiziarie che hanno tentato di arginare la situazione[8]. Dal punto di vista giuridico, quindi, il caso Ilva continua a rappresentare un terreno di scontro aperto che sollecita continuamente gli interpreti del diritto a confrontarsi sulla difficoltà di trovare un giusto bilanciamento tra esigenze contrapposte, promuovendo nuove interpretazioni delle norme nazionali italiane ed europee in grado di rafforzare sul piano teorico e su quello pratico l’affermazione del diritto ad un ambiente salubre.
Questo è il contesto di fatto in cui si inserisce l’azione collettiva avviata, di recente, per la protezione di diritti omogenei di circa 300.000 residenti di Taranto e comuni limitrofi contro Ilva S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, Acciaierie d’Italia S.p.A. e Acciaierie d’Italia Holding S.p.A. che ha portato all’instaurazione di una controversia innanzi al Tribunale di Milano[9].
In particolare, i ricorrenti nel procedimento principale fondano le loro allegazioni su valutazioni di danno sanitario (VDS) redatte negli anni 2017, 2018 e 2021 dagli organi tecnici della Regione Puglia, nell’ambito delle quali viene affermata l’esistenza di una relazione causale tra l’alterato stato di salute dei residenti nell’area di Taranto e le emissioni dello stabilimento Ilva, specie con riferimento alle frazioni di particolato con diametro aerodinamico inferiore a 10 micron (PM10) e all’anidride solforosa di origine industriale.
Queste VDS, e le forti preoccupazioni che facevano nascere in capo ai residenti, avevano spinto il sindaco di Taranto a chiedere, con istanza del 21 maggio 2019, il riesame ai sensi del decreto legislativo n. 152/2006 dell’autorizzazione integrata ambientale rilasciata allo stabilimento nel 2017; il procedimento in questione era effettivamente stato avviato nello stesso mese dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Tuttavia, nessuna conseguenza pratica ne era seguita poiché, dall’istruttoria svolta, era emerso che il controllo delle emissioni dello stabilimento Ilva che aveva portato alle preoccupanti VDS era stato stilato prendendo in considerazione numerosi inquinanti che non facevano parte dell’elenco di inquinanti inizialmente incluso negli elementi da valutare per il rilascio dell’autorizzazione. Un dettaglio che si rivelava cruciale dal momento che, in applicazione delle norme speciali previste per l’Ilva, era ben possibile lasciare da parte, nel riesame dell’autorizzazione, questo “set integrativo” di inquinanti per procedere ad una valutazione focalizzata solo su quell’elenco di sostanze inquinanti e potenzialmente dannose per la salute umana che era stato predisposto in origine. Il tentativo del sindaco di Taranto, quindi, non aveva sortito l’effetto desiderato.
Sempre alla normativa speciale doveva ricondursi, inoltre, anche la proroga del termine di attuazione delle prescrizioni per il risanamento ambientale che, con il decreto legge n. 207/2012, era stato inizialmente esteso per un termine di 36 mesi dalla data di rilascio dell’AIA del 2012, e che, per effetto dei decreti successivi, era stato progressivamente spostato fino al 23 agosto 2023[10]. Un ritardo di ben undici anni nell’attuazione di queste prescrizioni che non lasciava ben sperare per il futuro, mentre la grave preoccupazione per le condizioni ambientali e sanitarie della zona del polo siderurgico tarantino riecheggiava anche nel Rapporto del Relatore Speciale sulla questione degli obblighi relativi ai diritti umani a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite[11]. In questo Rapporto, infatti, il Relatore Speciale non si limitava ad affermare, in linea teorica, che vivere in un ambiente non tossico è uno dei contenuti imprescindibili del diritto ad un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile, ma faceva diretto riferimento alla questione dell’Ilva di Taranto identificandola come caso emblematico. Il Relatore Speciale, infatti, affermava senza mezzi termini che la distruzione dell’ambiente, legata all’immissione massiccia di sostanze tossiche da parte dell’impianto siderurgico tarantino, è causa diretta di gravi ingiustizie ambientali tanto da rendere l’area di Taranto indubitabilmente ascrivibile nel novero delle "zone di sacrificio"[12]: un’area estremamente contaminata dove i gruppi vulnerabili ed emarginati subiscono in modo sproporzionato le conseguenze negative sulla salute, sui diritti umani e sull’ambiente dovute all’esposizione a inquinamento e sostanze pericolose.
Con la propria azione legale, dunque, i ricorrenti si sono rivolti al giudice ordinario per ottenere la tutela del loro diritto alla salute, del diritto alla serenità e tranquillità nello svolgimento della loro vita, nonché del loro diritto al clima. Secondo la ricostruzione da essi offerta, infatti, tali diritti sono lesi, in via permanente dal 2012, a causa di comportamenti dolosi che provocano un inquinamento causato dalle emissioni provenienti dallo stabilimento Ilva, le quali esporrebbero tali residenti ad eventi di morte e malattie aggiuntive.
2.1. Le ragioni del rinvio pregiudiziale e i dubbi del giudice nazionale
La normativa pertinente, che regola appunto le emissioni industriali nel contesto giuridico italiano, è essenzialmente quella stabilita a livello europeo dalla direttiva 2010/75/UE[13] e dagli altri atti giuridici sulle migliori tecniche disponibili, ossia le cosiddette conclusioni sulle Best Available Techniques (BAT), che la Commissione ha elaborato insieme ai rappresentanti dei settori interessati e ai rappresentanti degli Stati membri.
Per risolvere la controversia instaurata innanzi al suo ufficio, dunque, il giudice di Milano è stato chiamato ad applicare la normativa italiana nel rispetto di quella europea.
Effettuata l’apposita ricognizione delle norme in vigore e della disciplina straordinaria disposta per l’Ilva, tuttavia, il giudice nazionale ha rilevato, innanzitutto, come, nel diritto italiano, non sia previsto che la valutazione del danno sanitario venga redatta all’interno del procedimento di rilascio o riesame dell’autorizzazione integrata ambientale. Non è neppure previsto, riconosce il giudice, che, quando una tale valutazione dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per la popolazione interessata da emissioni inquinanti, l’autorizzazione dell’impianto debba essere rivista entro tempi brevi e certi. Secondo il diritto nazionale, in altri termini, la valutazione del danno sanitario andrebbe realizzata a posteriori, e solo eventualmente potrebbe essere collegata al riesame dell’autorizzazione integrata ambientale.
Il giudice di prime cure, peraltro, ha riconosciuto anche che, per effetto della normativa speciale predisposta per l’Ilva, sono stati finora avallati nel panorama giuridico nazionale tanto la scelta di non integrare l’elenco originario degli inquinanti da valutare nell’ambito del procedimento di riesame dell’autorizzazione, quanto il perdurare di una situazione gravemente rischiosa per la salute umana e per l’ambiente per oltre undici anni. La gravità di queste circostanze appare evidente al giudice, il quale, dunque, si interroga sulla possibilità che questa situazione sia in contrasto con la normativa europea vigente e con i principi cui essa si ispira.
Al ricorrere delle segnalate incongruenze tra il diritto nazionale e la normativa europea, che il giudice nazionale valuta significative e che reputa necessario risolvere per poter procedere alla risoluzione della controversia di cui è stato investito, questi decide di attivare il meccanismo del rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[14]: richiedere un’interpretazione della normativa europea direttamente alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In concreto, dunque, il giudice di Milano formula tre quesiti, la cui risposta avrà una ricaduta immediata e puntuale sulla vicenda oggetto del ricorso principale:
1) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 18, 34, 28 e 29 e gli articoli 3, punto2, 11, 12 e 23), ed il principio di precauzione e protezione della salute umana di cui all’articolo 191 TFUE, possono essere interpretati nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, è concessa a tale Stato membro la possibilità di prevedere che la valutazione di danno sanitario costituisca atto estraneo alla procedura di rilascio e riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) – come appunto è previsto dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 2017 - dunque, se essa sia priva di effetti automatici nell’ambito di un procedimento di riesame dell’AIA in termini di tempestiva ed effettiva considerazione da parte dell’autorità competente, specialmente quando dia risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per la popolazione interessata dalle emissioni inquinanti. In alternativa a questa ricostruzione, se la direttiva deve essere interpretata nel senso che: i) il rischio tollerabile per la salute umana può essere apprezzato mediante analisi scientifica di natura epidemiologica; ii) la VDS deve costituire atto interno al procedimento di rilascio e riesame dell’AIA, ed anzi un suo necessario presupposto, in particolare oggetto di necessaria, effettiva e tempestiva considerazione da parte dell’autorità competente al rilascio e riesame dell’AIA.
2) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 1[5], 18, 21, 34, 28 e 29 e gli articoli 3, punto 2, 11, 14, 15, 18 e 21), può essere interpretata nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, tale Stato membro debba prevedere che l’AIA consideri sempre tutte le sostanze oggetto di emissioni che siano scientificamente note come nocive; ovvero se la direttiva possa essere interpretata nel senso che il provvedimento amministrativo autorizzativo deve includere soltanto sostanze inquinanti previste a priori in ragione della natura e tipologia dell’attività industriale svolta.
3) Se la direttiva 2010/75/UE (in particolare i considerando 4, 18, 21, 22, 28, 29, 34, 43 e gli articoli 3, punti 2 e 25, 11, 14, 16 e 21), può essere interpretata nel senso che, in applicazione di una legge nazionale di uno Stato membro, tale Stato membro, in presenza di un’attività industriale recante pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana, può differire il termine concesso al gestore per adeguare l’attività industriale all’autorizzazione concessa, mancando di realizzare le misure e le attività di tutela ambientale e sanitaria ivi previste, per circa sette anni e mezzo dal termine fissato inizialmente e per una durata complessiva di oltre undici anni.
2.2. Sulla ricevibilità della domanda di rinvio pregiudiziale
Alla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale sono dedicati i paragrafi da 44 a 65 della sentenza.
In ottemperanza di quanto previsto dall’articolo 94, lettere da a) a c) del regolamento di procedura della Corte di Giustizia, la richiesta del giudice nazionale è strutturata in modo preciso e contestualizzato. In essa, infatti, il giudice fornisce ampiamente le spiegazioni necessarie sui motivi della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione, nonché sul collegamento diretto esistente tra la corretta interpretazione di tali disposizioni e l’esito alla controversia di cui è investito.
Per queste ragioni, l’obiezione dei rappresentanti dell’Ilva e del governo italiano, relativa alla non conformità della domanda di pronuncia pregiudiziale rispetto ai requisiti posti dall’articolo 94 del regolamento di procedura viene respinta con decisione ed a poco vale anche l’obiezione dei resistenti secondo cui la compatibilità tra il nuovo termine previsto per garantire la conformità dell’esercizio dello stabilimento alle misure nazionali di tutela ambientale e sanitaria sia compatibile con la direttiva 2010/75 perché così è stato accertato con parere del Consiglio di Stato che ha acquisito autorità di cosa giudicata. La giurisprudenza della Corte di Giustizia, infatti, è storicamente granitica nel ribadire che un giudice nazionale non può validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità d’interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che tale disposizione sia stata interpretata da altri giudici nazionali in un senso che risulterebbe incompatibile con tale diritto[15]. In altri termini, il giudice nazionale non può farsi guidare, nel verificare l’aderenza delle norme nazionali alle norme europee, dalla valutazione operata da un altro giudice nazionale: la competenza a garantire un’interpretazione e un’applicazione uniformi del diritto europeo, con effetti vincolanti per i giudici nazionali ai quali venga sottoposta un'identica questione, è propria solo della Corte di Giustizia.
Viene superata, poi, anche l’obiezione relativa alla circostanza che, qualora la Corte interpretasse la direttiva 2010/75 nel senso che una VDS sull’attività di un’installazione deve essere realizzata preventivamente al rilascio di un’autorizzazione all’esercizio di tale installazione o in occasione del riesame di tale autorizzazione, spetterebbe al legislatore nazionale adottare un atto di trasposizione per definire il contenuto di detta valutazione, mentre non avrebbero nessun ruolo i privati. Su questi profili la Corte, infatti, richiamando le conclusioni dell’Avvocato Generale (A.G.), ricorda che “devono essere assimilati a uno Stato membro e ai suoi organi amministrativi gli organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico e che, a tal fine, dispongono di poteri eccezionali rispetto a quelli derivanti dalle norme applicabili nei rapporti tra privati”[16]. Ebbene, l’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 207/2012 definisce lo stabilimento Ilva uno stabilimento di interesse strategico nazionale e i singoli, qualora siano in grado di far valere una direttiva non nei confronti di un privato, ma di uno Stato membro, possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce. Come afferma la Corte, infatti, “è opportuno evitare che lo Stato membro possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione” utilizzando come scudo la circostanza che la controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio contrapponga privati.
È indubitabile, infine, secondo la Corte, che le norme speciali dedicate all’Ilva rientrino nel campo di applicazione della direttiva 2010/75 sia per la materia da esse disciplinata, sia per il loro carattere di lex specialis rispetto al decreto legislativo n. 152/2006.
2.3 Sulla corretta interpretazione della direttiva 2010/75/UE
Superate tutte le obiezioni sulla ricevibilità del ricorso avanzate dai resistenti, le questioni poste con rinvio pregiudiziale, ritenute meritevoli di discussione tanto dall’A.G. investito della causa[17] quanto dalla Corte, sono approfondite e risolte in modo meticoloso.
2.3.1 La prima questione
La prima domanda pregiudiziale presentata dal giudice nazionale chiedeva alla Corte di chiarire, alla luce della normativa europea, quale ruolo debba essere attribuito alla VDS nelle procedure di rilascio e riesame dell'AIA. Per fornire una risposta, la Corte ha preliminarmente ricostruito la ratio sottostante alla direttiva sulle emissioni industriali, collocandola nel contesto politico e giuridico dell'Unione.
Nella cornice stabilita dall’articolo 11 TFUE[18], gli articoli che pongono le basi giuridiche su cui si regge la politica ambientale dell’Unione sono quelli contenuti nel Titolo XX del TFUE[19]. Ai sensi dell’art. 191, paragrafo 1, la politica ambientale europea deve essere orientata al perseguimento degli obiettivi di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, nonché di protezione della salute umana. Al secondo paragrafo dello stesso articolo, inoltre, sono individuati, come i principi ispiratori di questa azione politica, il principio di precauzione e dell'azione preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, e il principio "chi inquina paga". Inoltre, rappresentano un punto di riferimento sul tema anche gli articoli 35[20] e 37[21] della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rispettivamente dedicati alla protezione della salute e alla tutela dell’ambiente.
Da tali disposizioni emerge chiaramente come la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente, nonché la protezione della salute umana, siano componenti strettamente collegate tra loro nella politica dell’Unione in materia ambientale, nell’ottica di promuovere uno sviluppo sostenibile. Proprio per questo, non v’è dubbio che la direttiva 2010/75 abbia un ruolo importante nel garantire il successo di questo approccio, salvaguardando il diritto di ciascun individuo di vivere in un ambiente atto a garantire la sua salute ed il suo benessere[22].
Ciò premesso, per uno stabilimento come l’Ilva, che, rileva il giudice, “indiscutibilmente dev’essere considerato un’installazione, ai sensi dell’articolo 3, punto 3, della direttiva 2010/75”, il rilascio dell'autorizzazione è un presupposto indispensabile per lo svolgimento delle attività industriali di produzione e trasformazione dei metalli. L’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva, prevede che il rilascio dell’autorizzazione sia direttamente subordinato al rispetto di requisiti stringenti, tra cui rientra l’adozione, da parte del gestore dell’impianto, di tutte le opportune misure di prevenzione dell’inquinamento[23]. Inoltre, è anche previsto che la domanda di autorizzazione contenga la descrizione del tipo e dell’entità delle prevedibili emissioni dell’installazione in ogni comparto ambientale, l’identificazione degli effetti significativi delle emissioni sull’ambiente, nonché la descrizione dettagliata delle misure previste per controllare le emissioni nell’ambiente[24].
La nozione di inquinamento utilizzata, in questo caso, dunque, è quella chiarita all’articolo 3, punto 2, della direttiva, e riguarda, tra l’altro, l’introduzione nelle matrici ambientali (aria, acqua o terreno) di sostanze che potrebbero nuocere tanto alla salute umana quanto alla qualità dell’ambiente[25].
Sul riesame dell’autorizzazione, poi, l’articolo 21, paragrafo 5, lettera a), dispone che le condizioni dell’autorizzazione siano riesaminate quando l’inquinamento provocato dall’installazione interessata è tale da rendere necessaria la revisione dei valori limite di emissione previsti nell’autorizzazione all’esercizio già concesso o l’inserimento in quest’ultima di nuovi valori limite. La frequenza di tale riesame dipende, peraltro, dalla portata e dalla natura dell’installazione industriale, tenuto conto delle specifiche caratteristiche locali del sito in cui si svolge l’attività industriale. Sottolinea la Corte che “ciò vale, in particolare, se quest’ultima ha luogo in prossimità di abitazioni”[26].
In ogni caso, comunque, la valutazione sistematica degli impatti potenziali e reali delle installazioni interessate sulla salute umana e sull’ambiente è uno degli aspetti che dev’essere tenuto presente nell’ambito delle ispezioni ambientali delle installazioni, da effettuarsi periodicamente secondo quanto previsto dall’art. 23.
All’esito di questa ricognizione normativa, perciò, il giudice europeo è lapidario nell’affermare che, contrariamente a quanto sostenuto dal governo italiano, il gestore di un’installazione industriale del tipo rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva 2010/75 deve, nella sua domanda di autorizzazione, fornire informazioni adeguate riguardanti le emissioni provenienti dalla sua installazione e, durante tutto il periodo di esercizio di tale installazione, deve avere cura di valutare continuamente gli impatti delle attività tanto sull’ambiente quanto sulla salute umana. Analogamente, gli Stati membri e le loro autorità competenti devono prevedere che una tale valutazione costituisca atto interno ai procedimenti di rilascio e riesame di un’autorizzazione[27].
Applicando questa interpretazione al caso dell'Ilva, emerge una discrepanza con il regime speciale introdotto dall’articolo 1 bis, comma 1, del decreto legge n. 207/2012. Questa norma, infatti, stabilisce che le autorità sanitarie[28]redigono congiuntamente, con aggiornamento almeno annuale, un rapporto sulla VDS[29] basato su dati epidemiologici, ma non stabilisce che tale valutazione sia un presupposto per il rilascio o il riesame dell'autorizzazione o che costituisca un atto interno a questi procedimenti.
Le parti resistenti e il governo italiano sostengono che riconoscere un ruolo più vincolante alla VDS contrasterebbe con l’intrinseca dinamicità delle attività industriali, senza garantire un intervento tempestivo per ridurre i rischi per la salute.
Questa ricostruzione, tuttavia, non viene accolta dalla Corte che, riunita nella Grande Camera, afferma con fermezza che, nel rispetto di quanto prescritto dalla normativa europea, la VDS deve essere parte integrante dei procedimenti di autorizzazione, e deve essere oggetto di effettiva e tempestiva considerazione, a maggior ragione quando da questa emergano allarmanti risultati in termini di inaccettabilità del rischio sanitario per una popolazione interessata da emissioni inquinanti.
In linea con l’argomentazione della Corte, peraltro, un ulteriore livello di criticità della disciplina della VDS che è il caso di segnalare è la scelta del legislatore del 2012 di strutturare la valutazione del danno su tre livelli progressivi a seconda della gravità dei problemi riscontrati. Si tratta di un aspetto non direttamente collegato alle domande formulate dal giudice di Milano e sul quale, perciò, la Corte non si sofferma, ma che merita attenzione.
Infatti, se da un lato è comprensibile che in un contesto industriale complesso come quello dell’Ilva sia oggettivamente complicato bilanciare la tutela ambientale con le esigenze economiche implementando una gestione del rischio improntata al principio del minimo rischio possibile[30], dall’altro lato è inaccettabile che un rischio sanitario comprovato, basato su dati scientifici ed epidemiologici, non comporti un’immediata obbligatoria reazione da parte dell’amministrazione. Ciò causa un abbassamento vertiginoso del livello di tutela in nome delle esigenze economiche, violando apertamente i principi ambientali di precauzione e prevenzione.
La Corte ha, giustamente, escluso che la VDS possa essere considerata una semplice valutazione dichiarativa e ha affermato che essa deve avere un impatto reale e concreto sulle decisioni di rilascio e riesame delle autorizzazioni. Tuttavia, ammettere che solo il terzo livello di gravità della VDS possa legittimare una richiesta di riesame dell’autorizzazione significherebbe privare i residenti esposti agli effetti delle emissioni di uno strumento fondamentale per la tutela del loro diritto alla salute, costringendoli a subire passivamente le conseguenze di una ponderazione degli interessi che sembra favorire le esigenze industriali rispetto ai diritti fondamentali della persona.
2.3.2 La seconda questione
La seconda domanda pregiudiziale presentata dal giudice nazionale chiedeva alla Corte di chiarire, alla luce della normativa europea, se l'autorità competente debba, nel riesame dell'autorizzazione, considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili al momento della richiesta (definibile come "set iniziale"), in base alla natura e tipologia dell'attività industriale, ma anche tutte le sostanze potenzialmente capaci di provocare emissioni nocive, note scientificamente e derivanti dall'installazione, che non siano state valutate durante il procedimento di autorizzazione iniziale (da qualificarsi come "set integrativo").
Pertanto, la questione centrale è se l'elenco delle sostanze inquinanti, necessario per un'adeguata valutazione nell'ambito dell’AIA, possa essere aggiornato e integrato nel tempo o se, una volta stilato, debba considerarsi definitivo e immodificabile.
La direttiva 2010/75 prevede che, nella fase di richiesta, il gestore descriva il tipo e l'entità delle emissioni prevedibili dell'impianto in ogni comparto ambientale nonché gli effetti significativi delle emissioni sull’ambiente[31].
Tuttavia, una volta concessa l'autorizzazione, ai sensi dell'articolo 14, paragrafo 1, della direttiva, gli Stati membri devono garantire che essa includa tutte le misure necessarie per soddisfare le condizioni previste dagli articoli 11 e 18. Ciò comporta che l'autorizzazione debba stabilire i valori limite di emissione non solo per le sostanze elencate nell'allegato II della direttiva, ma anche per quelle che, pur non incluse, potrebbero essere emesse in quantità significative dall'installazione, in base alla loro natura e alla potenzialità di trasferimento dell'inquinamento tra i diversi comparti ambientali[32]. L'autorizzazione include, inoltre, disposizioni per il monitoraggio delle emissioni, con l'obbligo per il gestore di comunicare periodicamente, almeno una volta l'anno, informazioni all’autorità competente, garantendo la conformità alle condizioni autorizzative.
A supporto della possibilità che l'elenco degli inquinanti non sia immutabile, ma debba essere costantemente aggiornato sulla base dell'evoluzione scientifica, intervengono, inoltre, anche altre norme.
L’articolo 11 della direttiva 2010/75, ad esempio, gioca un ruolo centrale: le lettere a) e b), stabiliscono che grava sugli Stati membri l’obbligo di adottare tutte le disposizioni necessarie affinché, nell’ambito della gestione di un’installazione, siano applicate le BAT, intese come quelle più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso e che siano disponibili a condizioni economicamente e tecnicamente attuabili nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi[33]. Poiché, tuttavia, l’impatto sulla salute deve essere preso in considerazione nell’individuazione delle BAT, la lettera c) dello stesso articolo prevede che, laddove l’impianto sia causa di fenomeni di inquinamento significativi nonostante l’applicazione delle migliori tecniche disponibili, debbano essere adottate misure protettive ulteriori per prevenire tale inquinamento. In proposito, in mancanza di un’apposita definizione, vale quella proposta dall’A.G. nelle sue conclusioni, ove identifica come significativo qualsiasi fenomeno di inquinamento che, tenuto conto di eventuali eccezioni, determini una condizione incompatibile con una qualsiasi normativa applicabile in materia di tutela dell’ambiente e, compromettendo la salute umana, violi i diritti fondamentali delle persone interessate. In questo senso, rileva sempre l’A.G., le misure protettive sono da considerarsi appropriate ai sensi dell’articolo 11, paragrafo a), dal momento che l’esistenza di fenomeni di inquinamento significativi pone un limite assoluto all’esercizio degli impianti: se non è possibile adottare misure di protezione idonee, l’impianto non può essere autorizzato.[34]
Questa interpretazione è pienamente coerente con il principio di prevenzione che informa la politica europea in materia ambientale e sanitaria. Tale principio, del resto, impone una valutazione rigorosa della quantità di sostanze inquinanti la cui emissione può essere autorizzata, collegandola strettamente al grado di nocività rilevato alla luce delle evidenze scientifiche.
A queste argomentazioni si allineano, infine, sia l’articolo 18 sia l’articolo 21 della direttiva. Il primo, dedicato alle norme di qualità ambientale, garantisce la coerenza del sistema di protezione ambientale a livello europeo stabilendo che, qualora una norma di qualità ambientale richieda condizioni più rigorose rispetto a quelle ottenibili attraverso l’applicazione delle BAT, l'autorizzazione deve includere misure supplementari. Nel caso di specie, ciò impone al giudice di procedere sempre ad una valutazione globale, che tenga conto di tutte le fonti di inquinanti e del loro effetto cumulativo, in modo da garantire che la somma delle emissioni non possa comportare alcun superamento, oltre che dei valori limite fissati nell’autorizzazione, anche dei valori limite per la qualità dell’aria definiti dalla direttiva 2008/50/CE[35], che rappresentano vere e proprie norme di qualità ambientale. Con l’articolo 21, paragrafo 5, lettera a), poi, si impone che le condizioni di autorizzazione siano riesaminate qualora l’inquinamento provocato da un’installazione sia tale da rendere necessaria la revisione dei valori limite di emissione esistenti nell’autorizzazione o l’inserimento, in quest’ultima, di nuovi valori limite.
Alla luce di questa ricostruzione, dunque, la Corte rileva che la posizione sostenuta dai ricorrenti e dal governo italiano non è in linea con la normativa europea. La direttiva stabilisce chiaramente che l'identificazione degli inquinanti e la fissazione dei valori limite debbano basarsi sul principio di prevenzione e su dati scientifici aggiornati. Pertanto, per il rilascio o il riesame di un’autorizzazione all’esercizio di un’installazione ai sensi della direttiva 2010/75, l’autorità competente è tenuta a considerare non solo le sostanze inquinanti prevedibili in base alla natura ed alla tipologia dell’attività industriale, ma anche tutte quelle scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, integrando, ove necessario, il “set iniziale”[36].
2.3.3 La terza questione
La terza questione pregiudiziale, infine, riguarda la compatibilità con la direttiva 2010/75 di un ritardo complessivamente pari a oltre undici anni nell’implementazione delle misure di adeguamento agli standard di tutela ambientale per un’attività industriale, nonostante i gravi e comprovati rischi per l'ambiente e la salute pubblica delle comunità residenti nei pressi dello stabilimento.
Come ha messo in evidenza il giudice nazionale, infatti, le norme speciali applicabili all’Ilva hanno permesso di concedere allo stabilimento industriale numerose proroghe, non sempre collegate ad effettivi riesami e aggiornamenti delle condizioni di esercizio dell’attività di tale stabilimento, mentre continuava a svolgersi l’attività industriale. Un tale ritardo, senza una giustificazione convincente, appare in evidente conflitto con il principio di effettività della tutela ambientale sancito dal diritto dell'Unione Europea.
In sede di udienza dinanzi alla Corte di Giustizia, il governo italiano ha tentato di difendere tale regime derogatorio, sostenendo che un adeguamento immediato ai requisiti previsti dall’AIA del 2011 avrebbe comportato un’interruzione pluriennale dell’attività dello stabilimento, con conseguenti ricadute socioeconomiche insostenibili, vista l’importanza strategica dell’impianto per l'occupazione locale e per l’economia locale e nazionale. Secondo il governo, dunque, sarebbe stato necessario procedere ad una ponderazione tra gli interessi in gioco, favorendo, nel bilanciamento, l’aspetto economico e sociale.
Il tentativo del governo italiano di giustificare l'inerzia e il ritardo nell'attuazione delle misure ambientali, in nome di esigenze occupazionali, appare, tuttavia, in aperto contrasto con i principi stessi su cui si fonda la normativa ambientale europea.
La disciplina europea, infatti, è chiara anche su questo punto e, per quanto sia lunga la storia dell’Ilva, lo è parimenti quella delle violazioni dei termini imposti per il rispetto degli standard ambientali.
Già gli articoli 5, paragrafo 1, e 21, paragrafo 1, della direttiva 96/61/CE[37] (poi confluiti nella direttiva 2008/1/CE[38]), imponevano alle autorità competenti di vigilare, mediante autorizzazioni e periodico riesame delle condizioni, affinché entro il 30 ottobre 2007, ossia entro undici anni dall’entrata in vigore della direttiva (termine più che ragionevole, sottolinea l’A.G., per tutelare l’affidamento di gestori degli impianti), lo stabilimento Ilva, in quanto impianto già esistente ai sensi dell’articolo 2, punto 4, funzionasse conformemente a tale direttiva, applicando le migliori tecniche disponibili individuate all’epoca. Come risulta dagli elementi a disposizione della Corte, però, questo termine non è stato rispettato e l’Ilva è stata oggetto di un’autorizzazione ambientale solo il 4 agosto 2011.
La direttiva 2010/75/UE, poi, ha ulteriormente rafforzato gli obblighi di adeguamento. L’articolo 82, paragrafo 1, ha fissato al 7 gennaio 2014 la data in cui, per gli stabilimenti come l’Ilva, gli Stati membri avrebbero dovuto applicare le disposizioni adottate a livello nazionale al fine di recepire la direttiva. L’articolo 21, paragrafo 3, inoltre, ha concesso un termine di quattro anni (dunque fino al 28 febbraio 2016) dalla data di pubblicazione delle decisioni sulle conclusioni sulle BAT per l’adeguamento delle condizioni di autorizzazione alle nuove tecniche. Infine, l’articolo 8, paragrafi 1 e 2, lettere a) e b), ha imposto agli Stati di adottare tutte le misure necessarie a far sì che le condizioni di autorizzazione siano rispettate e, in caso di violazione delle condizioni di autorizzazione, ha disposto che il gestore, informata senza ritardo l’autorità competente, provveda immediatamente a adottare tutte le misure necessarie per garantire il ripristino della conformità nel più breve tempo possibile.
Emerge chiaramente, quindi, che il legislatore europeo ha previsto un periodo transitorio per consentire agli impianti esistenti di adeguarsi alle nuove prescrizioni tecniche. Tuttavia, tale periodo di adattamento non può essere considerato una giustificazione per proroghe indefinite. Quanto al bilanciamento degli interessi coinvolti, peraltro, il quadro normativo europeo è chiaro: le esigenze economiche, per quanto importanti, non possono prevalere sugli imperativi della tutela ambientale e della salute pubblica. Nessuna argomentazione basata sulla riduzione della produzione o sulla tutela dei livelli occupazionali può giustificare il rinvio dell'attuazione delle misure ambientali prescritte.
Alla luce di queste considerazioni, e dal momento che gli obblighi imposti dalle direttive dell’Unione devono essere applicati in modo rigoroso, senza ammettere deroghe ingiustificate[39], la Corte ritiene che la direttiva 2010/75/UE sia incompatibile con qualsiasi normativa nazionale che consenta proroghe ripetute dei termini concessi al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione, specialmente quando sussistono pericoli gravi e rilevanti per l'ambiente e la salute umana. In tali circostanze, afferma la Corte, l’articolo 8, paragrafo 2, impone che le attività dell’installazione siano sospese fino al ripristino della conformità[40].
3. Riflessioni conclusive
Lo sviluppo sostenibile, concepito come l’equilibrio tra esigenze economiche, protezione ambientale e giustizia sociale, può essere considerato un autentico "nodo gordiano" nel contesto giuridico e politico attuale. Questo modello di sviluppo implica non solo l’esigenza di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le risorse delle generazioni future, ma anche quella di gestire in modo equilibrato tre dimensioni interconnesse: crescita economica, tutela ambientale e benessere sociale. La sfida cruciale per le politiche pubbliche, dunque, è quella di armonizzare questi elementi complessi.
La recente sentenza della Corte di Giustizia, riguardante l'Ilva, affronta tre questioni fondamentali che illustrano chiaramente le difficoltà nel bilanciare questi interessi e segna un passaggio significativo per l’evoluzione del diritto ambientale sia in Italia sia in tutta l’Unione Europea[41].
In particolare, la pronuncia smantella due narrative giuridico-politiche che, per oltre un decennio, hanno giustificato il perdurare di deroghe e proroghe nella gestione dell’Ilva: la definizione di “strategicità nazionale” dell’impianto, che legittimava eccezioni normative su scala domestica, e l’invocazione di un bilanciamento “a tutti i costi” tra la tutela della salute e dell’ambiente e la prosecuzione dell’attività produttiva che, tuttavia, aveva l’effetto di avvantaggiare i portatori degli interessi economici[42] e ritardare gli interventi per un effettivo risanamento dell’area industriale.
Sotto un primo profilo, infatti, la Corte mette in evidenza come il concetto della "strategicità" dell'impianto produttivo nazionale perda di significato di fronte a gravi rischi per la salute pubblica e per l’integrità ambientale attestate dalla VDS. Di fronte a circostanze simili, invero, il bilanciamento non può essere utilizzato come strumento per alterare l’equilibrio delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, sacrificando indefinitamente diritti fondamentali in favore di interessi economici.
In questo senso, nel contesto italiano, sarebbe auspicabile una maggiore cura nell’implementazione pratica delle linee guida per la Valutazione d’Impatto Sanitario (VIS)[43] di specifici impianti industriali, redatte dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2018 su richiesta del Ministero della Salute[44]. Queste linee guida, infatti, prevedono una valutazione ex antedei potenziali impatti sulla salute dei singoli impianti, attraverso l’identificazione di scenari di esposizione e dei rischi correlati, con un approccio integrato di tipo tossicologico e/o epidemiologico. Esse, peraltro, forniscono un metodo uniforme e rigoroso, applicabile a livello nazionale, utile a colmare le lacune lasciate dalla direttiva europea 2014/52/UE[45].
Parallelamente, emerge come l’aggiornamento dell’elenco degli inquinanti sia una necessità ineludibile, date le connessioni tra progresso scientifico e diritto ambientale. Questo corpus normativo dinamico deve essere in continua evoluzione per rispondere alle sfide poste dall’inquinamento e dai progressi scientifici e tecnologici.
Da ultimo, la Corte pone un freno alla pratica del rinvio perpetuo dell’attuazione delle misure di risanamento ambientale poiché essa crea un disequilibrio insostenibile, che deve essere rigettato con fermezza[46].
In sintesi, la sentenza offre uno spunto interessante per sciogliere il “nodo gordiano” dello sviluppo sostenibile. Come nel mito, la Corte propone una soluzione che non consiste in compromessi o proroghe, ma richiede un intervento risolutivo e integrato, capace di riportare in equilibrio le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile.
L’approccio della Corte è indubbiamente solido, condivisibile e riflette una corretta e rigorosa applicazione del quadro normativo comunitario tendente all’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri nell’ottica di promuovere una tutela uniforme e avanzata dei diritti ambientali e della salute.
Nel caso dell’Ilva, del resto, non poteva che auspicarsi una presa di posizione così risoluta. Le implicazioni di questa sentenza, però, hanno una portata ben più ampia, vincolando tutti gli Stati membri a conformarsi ai rigorosi standard imposti dalle direttive europee, senza ulteriori rinvii o compromessi che mettano a rischio la salute delle comunità e l’integrità ambientale.
Per questa ragione è importante ricordare che le implicazioni sociali ed economiche della chiusura dello stabilimento industriale inquinante non sono direttamente trattate dalla sentenza; tuttavia, esse giocano un ruolo essenziale per garantire l’attuabilità pratica della tutela dell’ambiente e della salute dall’inquinamento.
La chiusura degli impianti produttivi e la conseguente perdita di posti di lavoro rappresentano, infatti, problemi reali che, se non adeguatamente gestiti, potrebbero aggravare le disuguaglianze e generare tensioni sociali. Perciò, rimane imprescindibile predisporre una strategia integrata che, oltre a predisporre rigorosi standard di tutela ambientale e sanitaria, includa sempre anche un sistema di ammortizzatori sociali e di riconversione industriale capace di tutelare i lavoratori e garantire la transizione verso un modello produttivo più sostenibile.
Tutto ciò mette in evidenza come, nell’implementazione del principio dello sviluppo sostenibile, il bilanciamento tra le diverse esigenze rappresenti ancora oggi un metodo fondamentale. Solo attraverso un bilanciamento continuo e flessibile, difatti, è possibile ambire a raggiungere un esercizio del potere amministrativo equilibrato, capace di riconoscere la giusta considerazione alle diverse esigenze di tutela connesse alla sfera ambientale, sociale e politica. Non è ammissibile alcuna soluzione drastica che tenti di "sciogliere" il "nodo", semplificando in modo inadeguato il percorso verso lo sviluppo sostenibile. Allo stesso tempo, però, la complessità insita nel bilanciamento non deve fungere da giustificazione per continui rinvii o compromessi.
La Corte ha tracciato una rotta chiara verso un futuro in cui lo sviluppo economico non può più prescindere dalla tutela dell’ambiente e della salute pubblica. Il principio di precauzione, integrato con un costante aggiornamento normativo basato sulle conoscenze scientifiche più avanzate, emerge come lo strumento giuridico chiave per affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile e sciogliere definitivamente il "nodo gordiano" che lo caratterizza.
[1] Questa affermazione si basa sulla concettualizzazione di sviluppo sostenibile offerta dal Report “Our common future” (altrimenti noto come “Rapporto Brundtland”), elaborato dalla World Commission on Environment and Development nel 1987. Sul principio dello sviluppo sostenibile esiste una bibliografia quasi sterminata: valga qui richiamare, a titolo esemplificativo, i contributi di F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in Diritto dell’ambiente a cura di G. Rossi, Giappichelli, Torino, 2021, 181 ss.; F. Fracchia, Principi di diritto ambientale e sviluppo sostenibile, in Trattato di diritto dell’ambiente a cura di P. Dell’Anno, E. Picozza, vol. I, Cedam, Padova, 2012, 559 ss; F. Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, in Rivista giuridica dell’ambiente, 1998, 235 ss.
[2] Per un approfondimento dell’effetto della riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 del 2022 sul bilanciamento degli interessi si veda M. Monteduro, Riflessioni sulla “primazia ecologica” nel moto del diritto europeo (anche alla luce della riforma costituzionale italiana in materia ambientale), in AA.VV., La riforma costituzionale in materia di tutela dell’ambiente. Atti del Convegno (28 gennaio 2022), Napoli, Editoriale Scientifica, 2022, p. 221 ss.; A. Morrone, L' "ambiente" nella Costituzione. Premesse di un nuovo "contratto sociale", Ivi, 91 ss.; M. Cecchetti, Emergenze e tutela dell’ambiente: dalla “straordinarietà” delle situazioni di fatto alla “ordinarietà” di un diritto radicalmente nuovo, in federalismi.it, n. 17/2024, 24 luglio 2024.
[3] Statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 1946. Come messo in evidenza dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute del 1986, peraltro, la salute deve essere intesa come una risorsa per la vita quotidiana poiché rappresenta un concetto positivo e poliedrico.
[4] Uno degli strumenti internazionali più recenti e più incisivi è senza dubbio la Risoluzione 76/300 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2022 a mezzo della quale è stata affermata, senza mezzi termini, l’esistenza di un diritto umano fondamentale ad un ambiente pulito, salubre e sostenibile. Per un commento a questa Risoluzione, che mette in evidenza come essa si inserisca nel solco di un percorso da lungo tempo avviato e ormai ben consolidato nel panorama internazionale, si rinvia a D. Pauciulo, Il diritto umano a un ambiente salubre nella Risoluzione 76/300 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in Rivista di diritto internazionale, n. 4/2022, 1118 ss.
[5] Il contrasto all’inquinamento industriale e la progressiva affermazione della necessità di tutelare il diritto all’ambiente salubre sono evidenti nell’evoluzione che ha caratterizzato le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a far data dalla sentenza Lopez Ostra c. Spagna (n. 16798/1990).
[6] L'Ilva di Taranto nasce negli anni '60 come parte di un grande progetto industriale voluto dallo Stato italiano. Viene inaugurata nel 1965, con l'obiettivo di trasformare Taranto in uno dei poli siderurgici più importanti d'Europa. In breve tempo, l'impianto diventa il più grande d'Europa e uno dei più grandi al mondo, capace di produrre milioni di tonnellate di acciaio l'anno. Durante i decenni successivi, l'impianto si espande ulteriormente, diventando una parte fondamentale dell'economia locale e nazionale, ma anche iniziando a causare significativi problemi ambientali, dovuti principalmente alle emissioni di polveri, diossine e altre sostanze nocive. Già nei primi anni 2000 le preoccupazioni per l'inquinamento causato dallo stabilimento, divenute pressanti, culminano nella pubblicazione di numerosi studi scientifici che collegano le emissioni dell'impianto a gravi problemi di salute della popolazione di Taranto e delle aree circostanti, ma è nel 2012 che la situazione esplode dal punto di vista giuridico, con l'intervento della magistratura. La procura di Taranto, infatti, ordina il sequestro di parte degli impianti dell'Ilva per disastro ambientale, accusando i dirigenti di aver violato le normative ambientali e di aver messo a rischio la salute dei lavoratori e dei residenti. Per una ricostruzione della vicenda si rinvia, tra i numerosissimi contributi dedicati al tema, a R. Leopizzi, M. Turco, Il ruolo delle istituzioni pubbliche nel perseguimento dello sviluppo sostenibile. Il caso Ilva di Taranto, in Dalla crisi allo sviluppo sostenibile: principi e soluzioni nella prospettiva economico-aziendale, a cura di V. Dell'Atti, A.L. Muserra, S. Marasca, R. Lombardi, Franco Angeli, Milano, 2022, 223 ss.; P. Bricco, Ilva, Taranto: un caso paradigrmatico, in Il Mulino¸n. 1/2016, 72 ss.; S. Romeo, L'acciaio in fumo: L'Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Donzelli Editore, Roma, 2019; A. Morelli, Un caso di ordinaria emergenza. Salute vs. lavoro nella vicenda dell'Ilva di Taranto, in Tutela dell’ambiente e principio “chi inquina paga” a cura di G. Moschella e A.M. Citrigno, Giuffrè, Milano, 2014, 591 ss.
[7] Nel luglio 2012, il Tribunale di Taranto ha disposto il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’«area a caldo» dello stabilimento Ilva e dei parchi di materiale dell’Ilva. Con decreto del 26 ottobre 2012, recante l’autorizzazione integrata ambientale del 2012, il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare ha riesaminato l’autorizzazione integrata ambientale rilasciata il 4 agosto 2011 in favore dell’Ilva. Da quel momento, e fino alla data della presentazione del ricorso, la continuità della produzione è stata garantita in virtù di specifiche norme derogatorie: il decreto-legge del 3 dicembre 2012, n. 207 – Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale (GURI n. 282 del 3 dicembre 2012), convertito con modificazioni dalla legge del 24 dicembre 2012, n. 231 (GURI n. 2 del 3 gennaio 2013); il decreto-legge del 4 giugno 2013, n. 61 – Nuove disposizioni urgenti a tutela dell’ambiente, della salute e del lavoro nell’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale (GURI n. 129 del 4 giugno 2013), convertito con modificazioni dalla legge del 3 agosto 2013, n. 89 (GURI n. 181 del 3 agosto 2013); il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 2014 – Approvazione del piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria, a norma dell’articolo 1, commi 5 e 7, del decreto-legge 4 giugno 2013, n. 61, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2013, n. 89 (GURI n. 105 dell’8 maggio 2014); il decreto-legge del 5 gennaio 2015, n. 1 – Disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di Taranto (GURI n. 3 del 5 gennaio 2015), convertito con modificazioni dalla legge del 4 marzo 2015, n. 20(GURI n. 53 del 5 marzo 2015); il decreto-legge del 9 giugno 2016, n. 98 – Disposizioni urgenti per il completamento della procedura di cessione dei complessi aziendali del Gruppo ILVA (GURI n. 133 del 9 giugno 2016), convertito con modificazioni dalla legge del 1° agosto 2016, n. 151 (GURI n. 182 del 5 agosto 2016); il decreto-legge del 30 dicembre 2016, n. 244 – Proroga e definizione di termini (GURI n. 304 del 30dicembre 2016), convertito con modificazioni dalla legge del 27 febbraio 2017, n. 19 (supplemento ordinario alla GURI n. 49 del 28 febbraio 2017); il decreto-legge 18 gennaio 2024, n. 4 - Disposizioni urgenti in materia di amministrazione straordinaria delle imprese di carattere strategico (GURI n. 14 del 18 gennaio 2024), coordinato con la legge di conversione 15 marzo 2024, n. 28 (GURI n. 65 del 18.03.2024). Per una ricostruzione teorica delle prospettive connesse all’eccessivo ricorso allo strumento del decreto legge si rinvia a R. Dickmann, Gli eccessi della decretazione d’urgenza tra forma di governo e sistema delle fonti. (Osservazioni a margine di Corte cost., 25 luglio 2024, n. 146), in federalismi.it, n. 22/2024, 11 settembre 2024.
[8] Tra le più significative, si segnalano, senza dubbio, le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 gennaio 2019 sul caso Cordella e altri c. Italia e del 5 maggio 2022 sui casi A.A. e altri c. Italia, Ardimento e altri c. Italia, Briganti e altri c. Italia e Perelli e altri c. Italia. In tutti questi casi, la questione portata a giudizio riguardava le emissioni inquinanti prodotte dagli impianti industriali dell’acciaieria. Per un commento su queste sentenze si rinvia a T. Scovazzi, Altre condanne dell'Italia per l'acciaieria Ilva di Taranto, in Rivista giuridica dell'ambiente, n. 2/2022, 575 ss.; C. Luzzi, Il “caso ILVA” nel dialogo tra le corti (osservazioni a margine della sentenza Cordella e altri c. Italia della Corte EDU, in consulta online¸ n. 2/2019, 336 ss.; A. Consiglio, Ardimento e altri c. Italia: il caso Ilva di Taranto, un «infinite jest», in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, n. 1/2023, 45 ss.; S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso ILVA, nota a C. Eur. Dir. Uomo, sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri, in Diritto penale contemporaneo, n.3/2019, 135 ss. Per una riflessione di livello più ampio sul carattere multilivello della tutela dell’ambiente e della salute si rinvia a V. Cavanna, Tutela multilivello di ambiente e salute: il ruolo di Cedu e Unione Europea alla luce del caso dell’Ilva di Taranto, in Ambientediritto.it, 4/2020, 1 ss. Inoltre, sul fronte della giurisprudenza nazionale si segnalano: la sentenza del 4 luglio 2017 n. 182 della Corte Costituzionale (cfr. E. Verdolini, Il caso ILVA Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali: commento alla sentenza 182 del 2017 della Corte Costituzionale, in Forum di quaderni costituzionali rassegna, n. 2/2018, 1 ss.) e la sentenza del 23 giugno 2021 n. 4802 della IV Sezione del Consiglio di Stato (cfr. G. Iacovone, A. Iacopino, Precauzione e prevenzione: nel dedalo delle competenze comunali, regionali e statali si attenua la tutela dei (diritti fondamentali dei) cittadini, in Giustiziainsieme.it, 9 settembre 2021).
[9] L’Ilva è stata privatizzata nel 1995 e, nel momento in cui si è instaurata la controversia, risultava detenuta al 62% da un gruppo siderurgico internazionale (è gestita da Acciaierie d’Italia S.p.A., a sua volta controllata da Acciaierie d’Italia Holding S.p.A.). Le azioni restanti erano detenute dallo Stato italiano.
[10] La legge n. 20/2015 prevedeva, infatti, la proroga di quattordici mesi dell’attuazione del 20% delle prescrizioni dal 03.08.2016 al 20.09.2017. Il decreto legge n. 244/2016, poi, aveva posticipato di ben otto anni il termine degli interventi di risanamento ambientale. In totale, dunque, il ritardo accumulato nell’implementazione delle misure di risanamento ambientale ammontava a undici anni dalla data del sequestro penale all’origine dell’adozione delle norme speciali applicabili all’Ilva.
[11] The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment. Report of the Special Rapporteur on the issue of human rights obligations relating to the enjoyment of a safe, clean, healthy and sustainable environment. Nazioni Unite, Assemblea Generale, A/HRC/49/53, 12 gennaio 2022. Nel Rapporto in questione, il Relatore Speciale sui diritti umani in relazione al godimento di un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile, David R. Boyd, con la collaborazione del Relatore Speciale sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e dello smaltimento ecologicamente sostenibile di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos Orellana, identifica un ambiente non tossico come uno degli elementi fondamentali del diritto a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile. Sull’impianto siderurgico tarantino, il Relatore Speciale si esprime in questi termini: “45. The Ilva steel plant in Taranto, Italy, has compromised people’s health and violated human rights for decades by discharging vast volumes of toxic air pollution. Nearby residents suffer from elevated levels of respiratory illnesses, heart disease, cancer, debilitating neurological ailments and premature mortality. Clean-up and remediation activities that were supposed to commence in 2012 have been delayed to 2023, with the Government introducing special legislative decrees allowing the plant to continue operating. In 2019, the European Court of Human Rights concluded that environmental pollution was continuing, endangering the health of the applicants and, more generally, that of the entire population living in the areas at risk. 46. The foregoing examples of sacrifice zones represent some of the most polluted and hazardous places in the world, illustrating egregious human rights violations, particularly of poor, vulnerable and marginalized populations. Sacrifice zones represent the worst imaginable dereliction of a State’s obligation to respect, protect and fulfil the right to a clean, healthy and sustainable environment.” Cit. pagina 11, paragrafi 45 e 46.
[12] Cfr. S. Lerner, Sacrifices zones: the front lines of toxic chemical exposure in the United States, Cambridge (MA), The MIT Press, 2010; R. Juskus, Sacrifice zones: a genealogy and analysis of an environmental justice concept, in Environmental Humanities, n. 1/2023, 3 ss.; D.N. Scott, A.A. Smith, “Sacrifice zones” in the green energy economy: toward an environmental justice framework, in McGill Law Journal, n. 3/2017, 861 ss.
[13] Il recepimento della direttiva 75/2010/UE è avvenuto in Italia con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 46 (GU Serie Generale n.72 del 27-03-2014 - Suppl. Ordinario n. 27) che ha introdotto le opportune modifiche al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni.
[14] Il rinvio pregiudiziale è stato disposto con ordinanza del 16 settembre 2022 del Tribunale di Milano. Attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE la Corte di Giustizia opera in collaborazione con tutti gli organi giurisdizionali degli Stati membri, che sono i giudici di diritto comune in materia di diritto dell'Unione, per garantire un'applicazione effettiva ed omogenea della normativa dell'Unione ed evitare interpretazioni divergenti. Come rileva la Corte nella sentenza in oggetto, per giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, “spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumere la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, ove le questioni poste vertono sull’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in linea di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 21 dicembre 2023, Infraestruturas de Portugal e Futrifer Indústrias Ferroviárias, C‑66/22, EU:C:2023:1016, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).” Cit. par. 46. Per un approfondimento teorico sul rinvio pregiudiziale si vedano i contributi di G. Montedoro, Il rinvio pregiudiziale nel dialogo fra le Corti, in giustizia-amministrativa.it, 2024; D. Satullo, Condizioni di ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, in giustizia-amministrativa.it, 2024; F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Giappichelli, Torino, 2020; A. Adinolfi, I fondamenti del diritto dell’UE nella giurisprudenza della Corte di giustizia: il rinvio pregiudiziale, in Diritto dell’Unione Europea,n.3/2019, 441 ss.
[15] Si veda, in tal senso, la sentenza del 7 aprile 2022, Avio Lucos, C‑116/20, punti da 97 a 104.
[16] Il richiamo è alla sentenza del 22 dicembre 2022, Sambre & Biesme e Commune de Farciennes, C‑383/21 e C‑384/21, punto 38 e giurisprudenza ivi citata.
[17] Conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott, presentate il 14 dicembre 2023.
[18] Ai sensi dell'articolo 11 del TFUE: " Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile".
[19] Per un commento sul contenuto degli articoli 191 e seguenti del TFUE si rinvia a F. Ferraro, I grandi principi del diritto dell’Unione europea in materia ambientale, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, sp-2/2023, 41 ss.; F. Rolando, L’attuazione del principio di integrazione ambientale nel diritto dell’Unione europea, in Diritto pubblico comparato ed europeo online, sp-2/2023, 561 ss.
[20] Ai sensi dell’art. 35 “Ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana.”
[21] Ai sensi dell’art. 37 “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.”
[22] Come risulta dall’articolo 1 di tale direttiva, del resto, lo scopo che muove il legislatore europeo è proprio quello di fissare “norme intese a evitare oppure, qualora non sia possibile, ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel terreno e ad impedire la produzione di rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente nel suo complesso”.
[23] Articolo 11, lettera a) e c).
[24] Articolo 12, paragrafo 1, lettera f) e j). L’articolo 14, relativo alle condizioni di autorizzazione, fa inoltre riferimento, al paragrafo 1, lettera a), ai valori limite di emissione fissati per le sostanze inquinanti elencate nell’allegato II di detta direttiva e per le altre sostanze inquinanti che possono essere emesse dall’installazione interessata in quantità significativa, in considerazione della loro natura e delle loro potenzialità di trasferimento dell’«inquinamento» da un elemento ambientale all’altro.
[25] A conferma del fatto che, nell’impostazione della direttiva 2010/75, la correlazione tra questi due concetti è un elemento essenziale, rilevano tanto l’articolo 8, paragrafo 2, secondo comma, quanto l’articolo 23, paragrafo 4, quarto comma, lettera a. Il primo dispone che, laddove la violazione delle condizioni di autorizzazione presenti un pericolo immediato per la salute umana, o minacci di provocare ripercussioni serie ed immediate sull’ambiente l’esercizio delle attività dell’installazione interessata deve essere sospeso fino a che non venga ripristinata la conformità alle prescrizioni contenute nell’autorizzazione concessa. Il secondo, dedicato alle ispezioni ambientali, stabilisce che la valutazione sistematica dei rischi ambientali deve basarsi, tra l’altro, sugli impatti potenziali e reali delle installazioni interessate sulla salute umana e sull’ambiente.
[26] Punto 86 della sentenza.
[27] Punti 94 e 95 della sentenza.
[28] L'Azienda Sanitaria Locale e l'Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente competente per territorio.
[29] Per redigere la VDS, le autorità sanitarie si basano, oltre che sui rilevamenti degli inquinanti presenti, anche sul registro tumori regionale e sulle mappe epidemiologiche sulle principali malattie di carattere ambientale.
[30] Si tratta di un principio in base al quale, alla salute pubblica ed alla tutela dell’ambiente, è riconosciuta la precedenza su qualsiasi considerazione di ordine economico; dunque, l’esposizione dell’uomo a rischi per la salute e per l’ambiente dovrebbe essere ridotta al livello più basso possibile. Per un approfondimento sul tema della valutazione del rischio si rinvia a G. Corso, Capitolo IV, La valutazione del rischio ambientale, in Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Giappichelli, Torino, 2012, 171 ss.
[31] Articolo 12, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2010/75.
[32] L’articolo 15 della direttiva riconosce alle autorità nazionali competenti un margine di discrezionalità nell’ambito della valutazione che esse sono chiamate a realizzare per determinare il “set iniziale” delle sostanze inquinanti la cui dispersione deve essere limitata attraverso la previsione di valori limite di emissione nell’autorizzazione, ma non è possibile che questa discrezionalità sia utilizzata per aggirare le prescrizioni del diritto europeo.
[33] Le Best Available Techniques (BAT), definite dall’articolo 3, punto 10, della direttiva 2020/75 come “la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire la base dei valori limite di emissione e delle altre condizioni di autorizzazione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impraticabile, a ridurre le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso”. All’interpretazione dell’articolo 11, lettere a), b) e c) è dedicato molto spazio nelle conclusioni dell’A.G. Kokott e a queste si rimanda per una disamina approfondita sul tema.
[34] Paragrafo 98 delle conclusioni dell’A.G. Kokott.
[35] Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa (GU 2008, L 152), come modificata dalla direttiva (UE) 2015/1480 della Commissione, del 28 agosto 2015 (GU 2015, L 226).
[36] Punto 122 della sentenza.
[37] Direttiva 96/61/CE del Consiglio del 24 settembre 1996 sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (GU L 257 del 10.10.1996).
[38] Direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2008, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento (GU L 24 del 29.1.2008).
[39] Paragrafo 143 delle conclusioni dell’A.G. Kokott.
[40] Punto 132 della sentenza.
[41] F. Bianchi, Sulla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 25 giugno 2024 in merito all’Ilva di Taranto, in Epidemiologia&Prevenzione, luglio-ottobre 2024.
[42] Cfr. M. Carducci, La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana, in lacostizuone.info, 1° luglio 2024.
[43] Cfr. F. Bianchi, V. Cavanna, State of the art and perspectives on HIA in Italy, in Epidemiologia&Prevenzione, marzo - giugno 2019; F. Bianchi, C. Ancona, L. Bisceglia, A. Ranzi, For a more effective health impact assessment (HIA), in Epidemiologia&Prevenzione, marzo – aprile 2024.
[44] La VIS può essere definita come una combinazione di procedure, metodi e strumenti che consentono di valutare i potenziali e, talvolta, non intenzionali effetti di una politica, piano, programma o progetto sulla salute di una popolazione e la distribuzione di tali effetti all’interno della popolazione esposta, individuando le azioni appropriate per la loro gestione (Cfr. World Health Organization. Health impact assessment: main concepts and suggested approach. Gothenburg consensus paper, European Centre for Health Policy, WHO Regional Office for Europe, Brussels, 1999). “La VIS si colloca quindi a fianco della VIA, in un’ottica prospettica, con l’obiettivo di integrare gli effetti sulla salute nelle attività di valutazione degli impatti ambientali dell’opera sul territorio. È quindi uno strumento a supporto dei processi decisionali e interviene prima che questi siano realizzati.” Cit. da E. Dogliotti, L. Achene, E. Beccaloni, M. Carere, P. Comba, R. Crebelli, I. Lacchetti, R. Pasetto, M. E. Soggiu, E. Testai, Linee guida per la valutazione di impatto sanitario (DL.vo 104/2017), Rapporti ISTISAN, 2019, 1.
[45] Direttiva europea 2014/52/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014 che modifica la direttiva 2011/92/UE concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (GU L 124 del 25.4.2014). In Italia la direttiva è stata recepita con il decreto legislativo n. 104 del 16 giugno 2017, che integra e modifica il decreto legislativo 152/2006 e s.m.i., per le parti relative alla procedura di VIA).
[46] Come sottolineato in proposito “a mettere una pietra tombale alle “deroghe” all’italiana è stata pure la Costituzione, con i riformati artt. 9 e 41, la cui applicazione concreta, come chiarito dalla recente sentenza della Corte n. 105/2024, dovrà d’ora in poi tener conto anche dell’interesse delle generazioni future, al fine sempre di non recare danno alla salute e all’ambiente”. Cit. da M. Carducci, La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana, op. cit.