Gli effetti delle “valutazioni” di merito e delle prove raccolte in un giudizio successivamente definito in rito per inammissibilità del ricorso (Nota a Consiglio di Stato, sentenza n. 8466 del 22 settembre 2023)
di Enrico Roveroni
Sommario: 1. Il giudizio e la questione oggetto di commento – 2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito – 3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio – 4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato – 5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
1. Il giudizio e la questione oggetto di commento
La sentenza in commento conclude una complessa vicenda relativa alla realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti in località Cantalupa (Milano). In estrema sintesi, la società istante propone ricorso avverso il provvedimento con cui il Comune di Milano ha negato l’autorizzazione alla realizzazione del distributore. La domanda viene rigettata dal T.A.R. Lombardia.
La società modifica il progetto originario dell’impianto e presenta dunque una nuova istanza, ma il Comune di Milano nega il rilascio dell’autorizzazione richiesta, in ragione del fatto che il distributore ricadrebbe nella cd. “fascia di rispetto autostradale” (cfr. art. 18, d.lgs., 30 aprile 1992, n. 285, nonché art. 26 e 28, d.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495). La circostanza trova riscontro anche nel parere negativo reso dalla società concessionaria del tratto automobilistico.
La medesima società istante impugna il provvedimento di diniego, ma il ricorso viene dichiarato inammissibile dal T.A.R. Lombardia ai sensi dell’art. 41, co. 2, c.p.a.[1], per la mancata notifica al controinteressato concessionario (T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664)[2]. La pronuncia precisa, tuttavia, che il ricorso appare “infondato anche nel merito, essendo chiaramente emerso dall’esperimento della verificazione effettuata che l’impianto che l’istante vorrebbe realizzare sarebbe situato nella fascia di rispetto autostradale”.
Successivamente, la richiedente presenta una nuova istanza di autorizzazione. In esito ad un articolato procedimento, il Comune di Milano adotta infine provvedimento di diniego, anche questo impugnato dalla società avanti al T.A.R. Lombardia. A fronte del rigetto nel merito della domanda di annullamento, la società propone appello in Consiglio di Stato avverso la sentenza di primo grado, impugnazione che tuttavia è anch’essa rigettata con la sentenza in commento.
Ritiene il Consiglio di Stato che la domanda di annullamento sia infondata in quanto (fra l’altro) “coperta” dal giudicato della sentenza resa dal T.A.R. Lombardia, 6 aprile 2016, n. 664, circostanza ritenuta dal Giudice di appello “decisiva”. La sentenza del T.A.R. Lombardia consentirebbe di ritenere accertata (in esito alla verificazione esperita in giudizio) la violazione delle norme disciplinanti la cd. fascia di rispetto autostradale.
La pronuncia presenta alcune problematiche in materia di: a) valutazioni di merito compiute dal giudice in un giudizio definito in rito; b) estensione del giudicato; c) rilevanza giuridica delle prove assunte in un giudizio definito in rito con pronuncia di inammissibilità del ricorso.
2. Le “valutazioni” di merito contenute nella motivazione di una sentenza di rigetto in rito
Il Consiglio di Stato ritiene la questione oggetto di controversia coperta da giudicato, in quanto già decisa in maniera definitiva dal T.A.R. Lombardia con la sentenza del 6 aprile 2016.
Gli effetti di una sentenza acquisiscono autorità di cosa giudicata qualora la pronuncia sia divenuta definitiva tra le parti, rendendo dunque la relativa questione di diritto incontrovertibile. Al fine di poter invocare l’autorità di cosa giudicata in ordine ad una determinata questione è dunque necessario che la sentenza (oltre che definitiva) decida la controversia nel merito[3].
Si è specificato tuttavia come, nel caso qui esaminato, la sentenza del T.A.R. Lombardia 6 aprile 2016, n. 664 non statuisca nel merito della vicenda, ma definisca la controversia soltanto in rito, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla società ricorrente per omessa notifica nei confronti del controinteressato. Solo in motivazione (e non nel dispositivo) il T.A.R. Lombardia precisa che (a suo avviso) la domanda di annullamento è comunque da ritenersi infondata.
È dunque necessario stabilire se l’autorità giudiziaria, definendo in rito la controversia, possa anche decidere nel merito e (eventualmente) quali effetti produca tale decisione. Sembra naturale propendere per la risposta negativa per il seguente ordine di ragioni.
Le ipotesi di inammissibilità del ricorso previste nel nostro ordinamento sono quanto mai varie e tra loro disomogenee, ma solitamente esse si ricollegano all’inesistenza di condizioni essenziali del ricorso, tali da rendere l’atto introduttivo inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale. Mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 35, co. 1, lett. b), c.p.a., è possibile affermare che, in via generale, il ricorso è inammissibile laddove vi siano “ragioni ostative ad una pronuncia nel merito”[4].
L’inammissibilità del ricorso impedisce al ricorrente di poter discutere il merito della controversia e soprattutto di ottenere una sentenza che si pronunci sulla fondatezza o infondatezza della pretesa dedotta in giudizio. Ma essa comporta anche (e ciò maggiormente rileva ai fini della presente analisi) l’impossibilità per il giudice di conoscere la controversia nel merito. Ciò in quanto, l’autorità giudiziaria può e deve pronunciarsi soltanto nei limiti della domanda validamente proposta dal ricorrente[5]. La domanda proposta con un ricorso dichiarato inammissibile non è evidentemente idonea a suscitare una pronuncia nel merito, dunque ad investire l’autorità giudiziaria del potere di decidere la controversia[6]. Di conseguenza, il giudice adito non solo non può, ma (soprattutto) non deve pronunciarsi in ordine alla fondatezza (o infondatezza) della domanda proposta dal ricorrente[7].
3. La rilevanza delle “valutazioni” di merito nell’ambito di un successivo giudizio
È necessario domandarsi quali effetti producano le eventuali “valutazioni” compiute dal giudice nel merito della controversia pur a fronte dell’inammissibilità del ricorso o comunque della definizione in rito del processo.
Nel caso di specie, la sentenza del T.A.R. Lombardia – richiamata dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui annotata – una volta esposte le ragioni a sostegno dell’inammissibilità del ricorso, si esprime anche nel merito della controversia, ritenendo infondata la domanda di annullamento del provvedimento di diniego. L’argomento è confinato nella motivazione della sentenza e non trova poi alcun riscontro nel dispositivo della decisione.
La valutazione compiuta dal T.A.R. Lombardia non riguarda una questione incidentale della controversia, anche solo per il fatto che (ovviamente) la conoscenza dei profili di merito della controversia non assume alcun valore pregiudiziale o essenziale per potere decidere sull’ammissibilità del ricorso. Sembra logico concludere sostenendo che le valutazioni nel merito della controversia rese dal giudice nonostante la definizione della causa in rito siano prive di effetti per il ricorrente e, dunque, del tutto irrilevanti nell’ambito di eventuali successive controversie.
Ma si potrebbe affermare che l'eventuale valutazione compiuta dal giudice – essendo stata adottata in assenza di una domanda di parte validamente proposta – sia affetta da nullità, dunque “sanabile” ai sensi dell'art. 161 c.p.c. qualora la nullità non venga fatta valere in appello[8]. A prescindere dalla circostanza che la fattispecie non rientra tra le ipotesi di invalidità della sentenza tassativamente previste[9], la soluzione trascura tuttavia che, nel caso di specie, non siamo di fronte nemmeno ad una vera e propria decisione (prova ne sia che il dispositivo della sentenza riguarda unicamente la definizione della causa in rito), ma ad una mera “valutazione” del giudice in ordine alla fondatezza del ricorso.
Non trattandosi di una decisione in senso stretto (dunque non producendo effetti per le parti in ordine alla domanda proposta dal ricorrente) non può parlarsi di nullità della sentenza nella parte in cui si esprime sul merito della controversia.
Nemmeno le tesi più estensive in materia di interpretazione della sentenza consentirebbero di giungere ad un risultato differente[10]: parte della dottrina ipotizza infatti che la motivazione assuma rilievo determinante (e vincolante) ai fini della esatta individuazione dell’oggetto della decisione resa dal giudice (ossia, in altre parole, dell’interpretazione del dispositivo). Ma anche a voler ragionare in tal senso, è evidente che le valutazioni compiute nel merito della controversia e confinate nella motivazione non possono in alcun modo rilevare ai fini della “interpretazione” di una decisione di mero rito.
La conclusione trova conferma negli argomenti svolti poco sopra in relazione alla preclusione per il giudice di pronunciarsi nel merito della controversia in presenza di ragioni di inammissibilità del ricorso. L’impossibilità di pronunciarsi nel merito comporta l'assenza dei poteri di giurisdizione propri dell'autorità giudiziaria, con la conseguenza che l’eventuale valutazione della fondatezza del ricorso non assume rilevanza giuridica.
D’altro canto, se così non fosse, il ricorrente verrebbe gravemente pregiudicato nella propria tutela, in quanto la valutazione resa dal giudice in ordine alla fondatezza del ricorso non sarebbe comunque impugnabile in appello.
Infatti, il ricorrente (soccombente in primo grado), per poter contestare la parte di sentenza in cui il giudice ha valutato il merito della controversia, dovrebbe previamente impugnare la decisione laddove essa ha dichiarato inammissibile in rito il ricorso. In caso contrario, il ricorrente risulterebbe privo di interesse ad impugnare, non potendo trarre dall’accoglimento dell’impugnazione alcuna utilità: la riforma della decisione di primo grado con riguardo ai profili di merito presuppone, in altre parole, una nuova (e difforme) valutazione dell’ammissibilità del ricorso.
Il Consiglio di Stato potrebbe accogliere il motivo di appello principale, ritenendo ammissibile il ricorso presentato in primo grado, decidendo poi la controversia nel merito e assicurando dunque piena tutela all’appellante[11]. Ma potrebbe anche rigettare il motivo di appello principale, confermando l’inammissibilità in rito del ricorso: in tale caso, il capo di sentenza con cui il giudice di primo grado ha conosciuto sulla fondatezza della domanda di annullamento non sarebbe oggetto di esame da parte del giudice di appello. È evidente il pregiudizio che a ciò conseguirebbe il capo al ricorrente, il quale sarebbe vincolato dagli effetti della sentenza di primo grado anche in relazione al merito della controversia, senza nemmeno aver potuto ottenere dal giudice di appello un nuovo esame della questione controversa.
Per le ragioni esposte, è possibile concludere affermando che: il rigetto in rito del ricorso (quantomeno nei casi di inammissibilità e irricevibilità) impedisce al giudice di conoscere e pronunciarsi nel merito della controversia; l’eventuale decisione o valutazione compiuta dal giudice in violazione di tale principio non configura un’ipotesi di nullità del relativo capo di sentenza. Esso, infatti, deve ritenersi meramente privo di effetti. Pertanto, la parte soccombente non deve – e nemmeno può – impugnare il capo di sentenza nella parte in cui il giudice ha erroneamente pronunciato nel merito della domanda.
4. Riflessi delle tesi esposte sui limiti del giudicato
Se la sentenza di rigetto in rito non può in ogni caso produrre effetti rilevanti sul piano sostanziale (essendo la decisione limitata entro l’ambito processuale), nemmeno è possibile che essa acquisti autorità di cosa giudicata in ordine al merito della controversia. Come già accennato sopra, il giudicato non rappresenta – come spesso affermato in dottrina – un effetto della sentenza, ulteriore e distinto rispetto agli altri effetti che essa produce, ma una qualità (una caratteristica) della stessa[12]. La sentenza produce i propri effetti anche laddove non ancora passata in giudicato; il passaggio in giudicato comporta “soltanto” l’incontrovertibilità della decisione, ossia la definitività degli effetti propri della decisione.
Ma qualora la sentenza definisca la controversia in rito, essa risulta improduttiva di effetti nel merito e, pertanto, inidonea a acquistare autorità di cosa giudicata: ne consegue, per logica, l’inesistenza dei vincoli del giudicato in capo al ricorrente, il quale rimane libero di agire nuovamente in giudizio al fine di far valere i vizi del provvedimento amministrativo.
Si sottolinea soltanto che la riproposizione della (medesima) domanda di annullamento già rigettata in rito risulterà (con buona frequenza) impedita dal decorso del termine di impugnazione del provvedimento amministrativo. Ma sul piano teorico essa rimarrebbe comunque proponibile, senza che la precedente sentenza di rito produca vincoli in ordine alla introduzione di un giudizio avente ad oggetto la medesima domanda già proposta con ricorso dichiarato inammissibile.
Fermo quanto sopra, vale pur sottolineare che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso non è improduttiva di effetti in ordine all’eventuale successivo giudizio: essa, infatti, ha deciso (con efficacia vincolante) sulla necessaria sussistenza di determinati presupposti (nel nostro caso: la notifica al controinteressato) al fine della ammissibilità del ricorso, decisione divenuta comunque incontrovertibile tra le parti del processo.
Peraltro, un ulteriore aspetto merita di essere evidenziato. Pur ammettendo che la sentenza T.A.R. Lombardia n. 664 del 2016 riguardi il merito e non (solo) il rito della controversia, essa si riferisce ad un provvedimento diverso rispetto a quello oggetto della pronuncia del Consiglio di Stato di cui al presente commento. È possibile affermare, pur in via generale[13], che la sentenza resa sulla validità di un provvedimento amministrativo non produce effetti (e non acquisisce dunque autorità di cosa giudicata) in relazione alla validità (o invalidità) di un provvedimento diverso e successivo. Il giudicato, infatti, si estende entro i limiti dell’oggetto della controversia, potendo dunque rilevare soltanto in riferimento alla questione della fondatezza o infondatezza del ricorso proposto avverso uno specifico provvedimento amministrativo. Sicché, nel giudizio avente ad oggetto il provvedimento successivo, il giudice è chiamato a svolgere una (nuova e diversa) valutazione dei fatti di causa e degli elementi di diritto, potendo in astratto giungere a conclusioni difformi rispetto a quelle della prima decisione. In altre parole, se le valutazioni compiute in un precedente giudizio possono agevolare la decisione della controversia successiva, esse non acquisiscono tuttavia autorità di cosa giudicata[14].
5. La sorte delle prove raccolte nel giudizio poi definito in rito
Escluso che la sentenza del T.A.R. Lombardia possa far stato tra le parti in ordine al merito della questione, resta da valutare la rilevanza delle prove raccolte in giudizio e in particolare della verificazione disposta nel processo poi definito in rito (e non in merito).
Nel caso particolare, si trattava di verificare la distanza tra l’autostrada e il confine del terreno su cui il ricorrente intendeva realizzare un impianto di distribuzione di carburanti, al fine di stabilire se esso ricadesse o meno nella cd. fascia di rispetto autostradale. La circostanza è stata appunto oggetto di verificazione del processo poi definito in rito dal T.A.R. Lombardia.
Il Consiglio di Stato utilizza le risultanze istruttorie ivi raccolte, mantenendo fermo l’assunto per cui l’impianto di distribuzione che la società istante avrebbe voluto realizzare rientrava (parzialmente) nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma è lecito domandarsi se le prove formate in un giudizio definito soltanto in rito possano essere utilizzate anche in un diverso processo.
Le norme in materia di processo amministrativo non regolano la fattispecie. E, in realtà, nemmeno il codice del processo civile contiene una disciplina specificamente applicabile. Si potrebbero allora richiamare le disposizioni in materia di estinzione del processo civile: a riguardo, l’art. 310, co. 3, c.p.c. prevede che le prove assunte nel giudizio dichiarato estinto sono valutate (in un eventuale diverso processo) come argomenti di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
Il codice del processo amministrativo non regola (nemmeno in generale) le conseguenze della dichiarazione di estinzione del processo. Sicché, la disciplina prevista dall’art. 310 c.p.c. troverà applicazione anche nell’ambito del giudizio amministrativo, tramite il cd. rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. o quantomeno in via di applicazione analogica[15].
Rimane da stabilire se la disciplina prevista in materia di estinzione sia o meno estendibile anche all’ipotesi in cui il processo sia definito con una sentenza di rito in ragione dell’inammissibilità del ricorso introduttivo.
Un argomento a favore della tesi positiva potrebbe essere desunto dall’art. 85 c.p.a., norma che regola la forma della dichiarazione di estinzione e di improcedibilità del giudizio. La disposizione equipara le fattispecie in oggetto, riservando ad entrambe il medesimo procedimento. Si potrebbe dunque concludere ritenendo che tale equiparazione rilevi non soltanto a fini procedimenti, ma anche con riguardo agli effetti: in altre parole, l’improcedibilità del giudizio risulterebbe anch’essa disciplinata (quanto alle conseguenze derivanti dalla relativa dichiarazione) dall’art. 310 c.p.c.
Anche ammesso che tale soluzione sia corretta, ciò tuttavia non consente di estendere le medesime conclusioni anche all’ipotesi in cui il ricorso sia dichiarato inammissibile[16]. Risultato che invero sembra assai difficile da sostenere dal punto di vista interpretativo.
In primo luogo, l’art. 85 c.p.a. si riferisce solamente alle ipotesi di estinzione e improcedibilità del giudizio: sicché viene meno qualsiasi sostegno normativo per estendere l’applicazione dell’art. 310 c.p.c. a fattispecie diverse, come appunto l’inammissibilità del ricorso.
Soprattutto, l’ipotesi di inammissibilità si distingue dalle fattispecie previste dall’art. 85 c.p.a. per la diversità dei relativi presupposti[17]. L’estinzione e l’improcedibilità attengono infatti allo svolgimento del processo, configurando ipotesi straordinarie in cui il giudizio non giunge ad una definizione del merito della controversia per eventi o circostanze sopravvenute rispetto alla sua instaurazione. Al contrario, l’inammissibilità presuppone la sussistenza di ragioni ostative alla pronuncia nel merito, ragioni che possono essere sopravvenute rispetto all’atto introduttivo ma che di regola attengono il momento “genetico” del processo.
In tale prospettiva, l’eventuale inammissibilità del ricorso – impedendo al giudice di pronunciarsi sulla domanda – preclude anche lo svolgimento della fase istruttoria, la quale (non potendo la controversia essere decisa nel merito) si dimostrerebbe del tutto superflua[18]. Sicché il giudice non solo non dovrebbe, ma nemmeno potrebbe procedere all’istruzione della causa. Qualora si sia ugualmente provveduto in tal senso, si potrebbe perfino sostenere che le prove raccolte in giudizio non siano affatto degradate a meri argomenti di prova, ma piuttosto che esse (in quanto invalidamente raccolte) non abbiano alcuna rilevanza processuale e che pertanto non possano essere utilizzate in un eventuale successivo processo.
Non può trascurarsi che la soluzione prospettata mal si concilia con le esigenze di economicità dei mezzi processuali e di limitazione dei tempi di giudizio, particolarmente avvertite nell’odierno contesto giurisprudenziale. Tuttavia, una diversa interpretazione (che appare ardua sul piano argomentativo) presupporrebbe di equiparare l’inammissibilità del ricorso all’estinzione del giudizio, con particolare riguardo ai rispettivi effetti, equiparazione che non trova, come sopra esposto, alcun conforto normativo e richiederebbe di individuare nell’art. 310 c.p.c. una sorta di “principio generale”, applicabile in tutti i casi in cui il giudizio venga definito con una sentenza di rito (anziché di merito)[19].
[1] L’art. 41, co. 2, c.p.a. prescrive l’onere di notifica al controinteressato a pena di “decadenza”, non di inammissibilità. Ma la giurisprudenza largamente prevalente ravvisa nel caso previsto dalla disposizione una ipotesi di (appunto) inammissibilità del ricorso (v. recentemente T.A.R. Lazio 2 maggio 2023, n.7329, secondo cui “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica del ricorso, a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale e il G.A. non può fare altro che statuire sul vizio di inammissibilità del gravame, non potendo essere sanato tale difetto di notifica mediante l'integrazione del contraddittorio, a mente dell'art. 41, comma 2, c.p.a., ovvero con la concessione dell'errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., non sussistendo oggettive ragioni di incertezza”). L’art. 35 c.p.a. – laddove individua le diverse ipotesi di sentenze di rito – non disciplina la fattispecie della “decadenza”. Per tale ragione, probabilmente, la giurisprudenza ha ritenuto di dover ricondurre la mancata notifica del ricorso al controinteressato entro una delle varie categorie previste all’art. 35 c.p.a., sorvolando sulla lettera dell’art. 41, co. 2, c.p.a. Sicché la decadenza non appare, ad oggi, fattispecie giuridica dotata di autonoma rilevanza processuale. Così non era in passato, si veda ad esempio (seppur in una prospettiva “casistica” più che sistematica) E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, Padova, 1954, p. 280, secondo cui la decadenza del ricorso interviene “quando il deposito del ricorso dopo la notificazione non sia effettuato nel termine prescritto, o quanto non vi sia stata accompagnata la copia del provvedimento impugnato o altro atto equipollente, o quando il ricorrente, terminato il giudizio di falso da lui instaurato, non depositi copia della relativa sentenza entro il termine prescritto presso la segreteria del collegio giudicante”.
[2] Così la sentenza: “la presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica allo stesso del ricorso proposto al giudice amministrativo a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010 (c.p.a.), trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale. Nella fattispecie all’esame del collegio la Milano Serravalle – Milano Tangenziali S.p.a. riveste certamente tale qualifica, avendo espresso il proprio parere negativo alla realizzazione dell’impianto oggetto della presente controversia nell’ambito della conferenza di servizi che ha portato all’emanazione del diniego impugnato, nella sua qualità di concessionaria dell’autostrada della cui fascia di rispetto il provvedimento impugnato ha rilevato la violazione”.
[3] Sia consentita la semplificazione esposta nel testo, la quale non vuole certo trascurare le tesi dottrinarie secondo cui non solo le sentenze di merito, ma anche le pronunce in rito potrebbero acquisire autorità di cosa giudicata. A ben vedere, l’autorità di cosa giudicata altro non è se non una qualità della sentenza, conseguente alla incontrovertibilità della questione decisa. Tale questione potrebbe essere anche di rito: ciò significa che le parti del processo non potranno più porre in discussione i profili di rito esaminati e decisi dalla sentenza passata in giudicato. Sul punto sia consentito rinviare a quanto dettagliatamente esposto in C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 171 ss.
[4] Per una più ragionata analisi della fattispecie della inammissibilità, seppur condotta in riferimento al diritto processuale civile, sia consentito rinviare a R. Poli, Inammissibilità e improcedibilità, in Treccani Diritto on line 2016.
[5] Si può anche affermare, sotto diverso punto di vista, che la sussistenza di ragioni di inammissibilità del ricorso comporta l’illegittimo o comunque inefficace esercizio dell’azione. Non è questa la sede per approfondire il concetto (particolarmente complesso) di azione, la cui definizione viene resa nel testo secondo le indicazioni di autorevole dottrina processualista (v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 62 ss.; per un esame approfondito si veda, ad esempio, R. Orestano, Azione in generale, Enc. Dir., spec. p. 797 ss.).
[6] Sulla correlazione tra domanda e limiti del potere decisorio del giudice, v. C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 93 ss.
[7] Quanto esposto sembra la logica conseguenza dei principi che regolano il nostro sistema processuale, fra tutti il principio della domanda e il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tuttavia, a quanto consta, la dottrina si è finora espressa in termini di mera “irrilevanza” delle valutazioni di merito contenute in una sentenza di rigetto in rito della domanda. Si veda, ad esempio, E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268 ss.: “La sentenza di rito è, come rilevato, quella che incide soltanto sul processo e non anche sul merito; si può anche qualificare come 'giurisdizionale', ma solo lato sensu (infatti, non realizza misure giurisdizionali). Si tratta, ancor qui di volizione (preceduta, ovviamente, dalla ricognizione dei presupposti). Così, è rifiuto di pronunciare nel merito la sentenza che declina la giurisdizione o la competenza. Queste declinatorie possono intervenire tardi cioè dopo che il processo si è svolto completamente. Ma esse possono intervenire anche molto prima: così quando il giudice constati, già in base al metro del provvedimento richiesto, e senza necessità d'istruttoria, di esser privo di giurisdizione e/o di competenza (non altrimenti il giudice deve por termine al processo quando constati che neanche in ipotesi le parti possono essere considerate destinatarie degli effetti del provvedimento richiesto che, dunque, esse non sono munite di legittimazione ad agire). Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide: ciò è confermato dalla nostra legge processuale, che consente al giudice di non decidere subito la quaestio pregiudiziale (e così, ad esempio, quella di competenza), ma di rimandare la decisione alla fine (art. 187 comma 3 c. p. c.)”.
[8] Sull’applicazione delle disposizioni in materia di nullità della sentenza nel processo amministrativo, v. F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 288.
[9] Si rammenta che l’art. 156, co. 1, c.p.c. prevede infatti che la nullità per inosservanza delle forme degli atti processuali non può essere pronunciata “se la nullità non è comminata dalla legge” ovvero laddove l’atto manchi dei “requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”, ipotesi che nel caso qui annotato non paiono sussistere.
[10] Salvo non portare alle estreme conseguenze i numerosi “corollari” derivanti da una interpretazione eccessivamente “elastica” della pronuncia giurisprudenziale. Sul punto si veda F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, p. 301: “I problemi nascono nel momento in cui la nozione di cosa giudicata abbandona il ristretto, ma certo, confine del dispositivo della sentenza, la conclusione del sillogismo in cui si esprime la logica della sentenza, per estendersi alle sue premesse, alla parte motiva della sentenza. E, nel caso del processo amministrativo, si acuiscono a dismisura per via delle eccessive fluidità ed elasticità della nozione di giudicato. Ciò è dovuto non tanto al fatto che nel processo amministrativo è pacifica l’affermazione che occorre guardare alla motivazione della sentenza per ricostruire il dictum del giudice, quanto piuttosto al fatto che essa si accompagna ad altre affermazioni quali sono quella che nel giudizio di legittimità il giudicato copra comunque solo i vizi dedotti e non quelli deducibili; che la motivazione possa essere integrata nell’ambito del giudizio di ottemperanza “al giudicato”, completando in questa stessa sede l’accertamento mancante nella sentenza; o (si accompagna) al dato esperienziale di una prassi che origina motivazioni prolisse, eccessivamente articolate e complesse, che troppo spesso rendono assolutamente labile ed evanescente il confine tra un obiter dictum e ciò che è un antecedente logico necessario della decisione e al fatto che questa prassi è per altro verso dissonante dall’esplicito riconoscimento legislativo della possibilità di pronunciare sentenza in forma semplificata, ovvero con «sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero al precedente conforme» (art. 74 c.p.a.)”.
[11] Nel caso di accoglimento del motivo di appello avverso la pronuncia di inammissibilità, il Consiglio di Stato decide la controversia senza rinviare al giudice di primo grado (v. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2018 n. 10 e 11: “La questione di diritto all’esame dell’Adunanza plenaria deve essere risolta dando continuità al consolidato orientamento interpretativo che, anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, afferma il carattere tassativo ed eccezionale dei casi di rimessione al giudice di primo grado, oggi descritti dall’art. 105 dello stesso Codice. Va in particolare, escluso che tra i casi di annullamento con rinvio possa rientrare l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità della domanda, oppure l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia totalmente omesso di esaminare una delle domande proposte (anche per ragioni diverse dall’accoglimento di una eccezione pregiudiziale di rito)”.
[12] Si fa riferimento alla tesi di Liebman, variamente esposta in diversi scritti, secondo cui l’autorità di cosa giudicata non è un effetto della sentenza (la quale è infatti produttiva di effetti indipendentemente dal passaggio in giudicato) ma una sua qualità o caratteristica, ricollegata alla raggiunta incontrovertibilità della questione oggetto di decisione (ne consegue peraltro l’irrilevanza della distinzione tra giudicato formale e giudicato sostanziale); la tesi si trova esposta in vari scritti, in particolare E.T. Liebman, Efficacia e autorità della sentenza Milano, 1962.
[13] Il tema, in realtà, è più complesso e meriterebbe una estesa trattazione. Soltanto per accennare un possibile aspetto problematico, si pensi all’ipotesi in cui il primo giudizio abbia deciso su questioni pregiudiziali rispetto alla controversia oggetto del secondo processo (per una approfondita trattazione del tema, C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 129; nonché F. Francario, Il contrasto tra giudicati, Il Processo, 2022, 299).
[14] Si potrebbe obiettare che talora (come parrebbe nel caso di specie) le ragioni poste a fondamento della “prima” decisione permangono immutate anche nell’ulteriore giudizio relativo al “secondo” provvedimento. Nella sentenza in commento, ad esempio, l’impianto di distribuzione risultava ricompreso, tanto nel primo quanto nel secondo progetto, nella cd. fascia di rispetto autostradale. Ma si tratta di una obiezione non risolutiva. Essa non consente infatti di superare quanto affermato nel testo, ossia che la valutazione resa dal giudice riguarda (necessariamente) soltanto gli elementi di fatto e di diritto relativi allo specifico provvedimento impugnato. Quantomeno, il giudice sarà chiamato a stabilire se una data circostanza – ritenuta dirimente ai fini di un precedente giudizio – sia o meno altrettanto determinante per la decisione della controversia.
[15] La giurisprudenza appare orientata nel senso di ritenere applicabile alla giurisdizione amministrativa la disciplina dell’art. 310 c.p.c. Recentemente, Cons. Stato, 30 maggio 2023, n. 9187. In maniera argomentata, v. T.A.R. Puglia, 24 ottobre 2013, n.1489: “A tenore dell’art. 310 c.p.c., l’estinzione del processo non estingue l’azione. Si può ritenere che tale norma si applichi – in ragione del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a. – anche al processo amministrativo, dove l’estinzione processuale è determinata dalla perenzione, ex art. 9 comma secondo della legge n. 205/2000 (ora art. 81 c.p.a.). Infatti, l’estinzione del processo civile e la perenzione del processo amministrativo sono istituti in tutto simili, con la differenza che, mentre la perenzione considera il processo nel suo insieme e sanziona l’inattività assoluta delle parti, protrattasi per un certo periodo di tempo, l’estinzione ha riguardo ad atti specifici e alla loro specifica collocazione temporale e sanziona non solo la lunghezza e rilassatezza dei tempi, ma anche il mancato compimento di attività funzionali a una corretta decisione di merito”.
[16] Le medesime considerazioni possono trarsi anche per l’ipotesi di irricevibilità.
[17] Nel testo si propone – per ragioni di brevità – una interpretazione semplificata del fenomeno dell’estinzione del processo e dei suoi rapporti con categorie “limitrofe”, quali l’inammissibilità del ricorso e l’improcedibilità del giudizio. Per una interessante disamina delle principali tesi dottrinarie, si veda C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, p. 235 ss.
[18] Si veda il già citato E. Fazzalari, Sentenza civile, Enc. Dir., 1268: “Da ribadire, poi, che quand'anche le pronunce di rito che pongono fine al processo sopravvengano tardi, e una parte delle attività processuali svolte risulti, perciò, superflua, non per questo esse sono da ritenere giuridicamente invalide”.
[19] In buona sostanza, troverebbe applicazione la (pacifica) giurisprudenza secondo cui le prove raccolte in un giudizio diverso possono essere valutate come “argomenti di prova”. Tale indirizzo si riferisce tuttavia alle prove assunte nell’ambito di processi poi giunti ad una definizione di merito della controversia, risultando dunque quantomeno discutibile l’applicazione del medesimo principio nel caso di un processo concluso con una sentenza di rito (v. di recente Cons. Stato, 4 agosto 2023, n. 7539: “Quanto all’accertamento svolto in sede civile va rammentato che, per principio generale, il giudice può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le stesse e anche altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, al fine di trarne non solo semplici indizi o elementi di convincimento, ma anche di attribuire loro valore di prova esclusiva, il che vale anche per una perizia svolta in sede penale o una consulenza tecnica svolta in altre sedi civili”; ma anche, seppur in via incidentale, Cass. SS.UU., 8 aprile 2008, n. 9040: “il giudizio circa l'utilità e la pertinenza di un mezzo di prova rientra nei poteri di valutazione del giudice di merito, il quale può anche utilizzare per la formazione del proprio convincimento prove raccolte in altro giudizio, sebbene estinto, tra le stesse parti”).