Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria. – 3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive. – 3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione. - 4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali. – 5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust.
1. Premessa
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato, ritenendo infondate le censure avanzate dagli appellanti, compie un’interessante ricognizione di principi già espressi in materia di regime probatorio delle intese anticoncorrenziali.
Al contempo, il giudice amministrativo svolge talune precisazioni circa le modalità di quantificazione delle sanzioni Antitrust, prendendo le mosse dalla loro qualificazione in termini di sanzioni sostanzialmente penali.
2. Il procedimento dinnanzi all’AGCM e la successiva vicenda giudiziaria
La vicenda giudiziaria ha origine dal ricorso presentato al Tar Lazio con cui la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento dell’AGCM che, avendo rilevato un’intesa restrittiva della concorrenza nell’ambito del mercato della produzione e commercializzazione di fogli in cartone ondulato, ha comminato alla ricorrente la sanzione pecuniaria pari ad € 3.658.077,00[i].
Più specificatamente, nell’ambito di quel procedimento l’AGCM ha intrapreso un’istruttoria volta ad accertare la partecipazione, da parte di una serie di società, a due distinte intese anticoncorrenziali: da un lato, nel mercato della produzione e commercializzazione di cartone ondulato (cd. intesa-fogli); dall’altro, in quello della produzione e commercializzazione di imballaggi in cartone ondulato (intesa-imballaggi).
Con una serie di successive delibere, il procedimento è stato poi esteso tanto sotto il profilo soggettivo, mediante il coinvolgimento di altre società[ii]; tanto sotto l’aspetto oggettivo delle condotte oggetto di accertamento, allargate alla limitazione o al controllo della produzione dei fogli in cartone ondulato nonché alla ripartizione di specifici clienti[iii].
Nel corso dell’istruttoria particolarmente rilevanti sono state le dichiarazioni rese da diverse imprese partecipanti alle intese oggetto di accertamento, nell’ambito del programma di clemenza (c.d. leniency).
In ragione della ritenuta fondatezza della contestazione in merito alla realizzazione delle due intese, l’Autorità ha concluso l’iter con il provvedimento sanzionatorio oggetto di impugnazione.
Il T.a.r. Lazio ha rigettato il ricorso con sentenza n. 6040/2021; detta sentenza è stata impugnata dalla società appellante, la quale ha prospetta una serie di motivi, alcuni dei quali anche piuttosto articolati.
Innanzitutto, con il primo motivo l’appellante deduce il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti, lamentando la mancata valutazione degli elementi istruttori che escludono la propria partecipazione da qualsiasi intesa, oltre che l’adesione acritica alla ricostruzione prospettata dall’AGCM.
In particolare, l’unico elemento utilizzato a sostegno della partecipazione dell’impresa appellante all’asserita intesa consisterebbe nella presunta partecipazione del responsabile commerciale della società alle riunioni intercorse in attuazione dell’intesa. Al riguardo, il T.a.r. Lazio si sarebbe limitato a ritenere che gli elementi riportati nel provvedimento fossero idonei a fornire un quadro univoco in ordine alla partecipazione anche dell’impresa appellante all’intesa-fogli.
Sul punto, l’appellante sostiene invece che il responsabile commerciale avrebbe partecipato alle riunioni in questione non come rappresentante della società ma “in proprio”[iv]; tant’è che, a seguito del suo decesso, nessun altro rappresentante avrebbe preso parte ad altre riunioni. In altri termini, non sarebbe provata l’adesione dell’appellante all’intesa, basandosi questa solo sulle dichiarazioni di un leniency applicant da ritenersi prive di qualsiasi valenza istruttoria in quanto non corroborate da ulteriori elementi di prova.
Né, sempre secondo l’appellante, ci sarebbe stato alcuno scambio di informazioni commerciali con le altre imprese concorrenti. A riprova di ciò, allega la circostanza di aver mantenuto una politica di prezzo totalmente autonoma dal Listino 2004, con risultati economici ben peggiori di quelli delle altre imprese di settore. Tali aspetti non sarebbero stati presi in considerazione dall’Autorità che, nell’esaminare la posizione di ciascuna impresa, si sarebbe limitata a prendere atto dei ricavi medi di settore, senza considerare le variazioni rilevantissime tra i ricavi dei singoli concorrenti.
Ancora, lo schema delle riunioni incriminate di cui si fa menzione nella sentenza di primo grado sarebbe del tutto inattendibile, in quanto privo di chiarezza in ordine alla partecipazione e alle eventuali tempistiche con cui il responsabile commerciale dell’appellante avrebbe partecipato alla maggioranza delle riunioni attuative dell’asserita impresa; risultando invece evidente, dalla documentazione raccolta in sede istruttoria, l’assenza dalle predette riunioni oltre che l’estraneità allo scambio documentale.
Con il secondo motivo l’appellante deduce nuovamente l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e travisamento dei fatti sotto il diverso profilo della errata definizione da parte del T.a.r. del Lazio dei limiti temporali della partecipazione all’intesa. Anche ad ammettere un coinvolgimento d’appellante per il tramite del più volte menzionato responsabile commerciale, tale partecipazione, ad avviso dell’appellante, sarebbe limitata ad un arco temporale di gran lunga inferiore rispetto a quello contestato[v].
Con il terzo motivo l’appellante fa valere l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, lamentando l’erronea valutazione da parte del T.a.r. in ordine alla impossibilità di procedere alla riqualificazione dell’asserita intesa in abuso di posizione dominante. Invero, secondo la prospettazione dell’appellante, i contenuti dell’intesa in questione sarebbero stati definiti solo da una quota di larghissima maggioranza sul mercato che, congiuntamente, detiene una posizione dominante sul mercato della carta. Tali imprese dominanti avrebbero imposto agli operatori minori – tra cui l’appellante stessa - le condizioni alle quali operare sul mercato, cui si sarebbero aggiunti meccanismi di controllo e di verifica oltre che di ritorsione nei confronti di quanti non si fossero adeguati[vi].
Con il quarto ed ultimo motivo l’appellante lamenta l’erronea determinazione della sanzione, sotto diversi profili.
Innanzitutto, per quanto attiene alla illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza dell’intesa: il carattere segreto dell’intesa, infatti, non potrebbe mai dirsi insito nella violazione in sé o nella natura riservata con cui essa viene posta in essere[vii], dovendo semmai l’AGCM fornire prova di circostanze idonee a far ritenere la precisa e determinata volontà delle parti di occultare ogni contatto avvenuto per dare luogo all'intesa sanzionata.
In secondo luogo, la determinazione della sanzione sarebbe erronea in relazione all’illegittima omissione da parte del T.a.r. della valutazione degli effetti dell’intesa, avendo registrato l’impresa appellante – diversamente dalle imprese dominanti - un quadro non di crescita, ma semmai di stabilità e a tratti di contrazione, sia in termini di ricavi che di margine operativo.
Sotto un terzo profilo, l’appellante lamenta l’illegittima mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti, avendo essa dimostrato «di aver svolto un ruolo marginale alla partecipazione dell’infrazione, provando altresì di non aver di fatto concretamente attuato la pratica illecita», in ossequio alla previsione contenuta nel § 23 delle Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Da ultimo, un ulteriore profilo attiene al ricalcolo della sanzione, avendo l’Autorità interpretato l’art. 15, co. 1, l. 287/1990, nella parte in cui stabilisce che l’AGCM può applicare una sanzione «fino al 10% del fatturato», come mera soglia di contenimento della sanzione. Tale interpretazione conduce alla conseguenza che l’importo calcolato secondo le Linee guida, nei passaggi sanzionatori intermedi, possa eccedere il massimo di legge, purché tale limite venga poi rispettato nel risultato finale.
Un simile approccio, ad avviso dell’appellante, solleverebbe forti perplessità nella misura in cui finisce per determinare un “appiattimento” di tutte le sanzioni irrogate verso il massimo, in violazione dei principi di legalità, proporzionalità, individualità e uguaglianza. Il superamento della soglia del 10% nei passaggi intermedi di calcolo comporta infatti un innalzamento artificioso ed indebito della sanzione sulla quale calcolare le eventuali attenuanti, che rischiano così di divenire, di fatto, irrilevanti ai fini sanzionatori[viii].
3. La decisione del Consiglio di Stato: la prova delle intese restrittive
Il Consiglio di Stato reputa il primo motivo infondato. Per giungere a tale conclusione compie una preliminare ed efficace sintesi dei principi enunciati in materia di prova dell’esistenza e della partecipazione ad una intesa restrittiva della concorrenza, richiamando una serie di propri precedenti.
Innanzitutto, l’accertamento de quo non richiede che l’intesa risulti da documenti o da altri elementi probatori fondati su dati estrinseci e formali, essendo sufficienti anche indizi purché gravi, precisi e concordanti[ix]; a tal fine, occorre procedere ad una valutazione globale delle prove acquisite, onde dare evidenza dell'intero assetto dei rapporti intercorrenti tra le imprese[x], predisponendo un'analisi complessa ed articolata che tenga conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nella loro interezza e nella correlazione reciproca[xi].
In altri termini, la prova di accordi bilaterali assume valenza sufficiente a dimostrare l'esistenza dell'intesa, non essendo necessario accertare la partecipazione ad ogni singolo episodio contestato dall'Autorità[xii]. Ne consegue allora che un elevato numero di indizi e riscontri, unitariamente considerati, possono costituire la prova di una violazione delle regole di concorrenza solo se manchi una spiegazione alternativa lecita della condotta delle imprese coinvolte[xiii]; in tal caso, grava sulle imprese l'onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti[xiv].
Ancora, la sola partecipazione di un'impresa alle riunioni nel corso delle quali sono stati definiti gli elementi dell'intesa vietata non consente all’impresa in questione di invocare la propria estraneità rispetto alla fattispecie oggetto di sanzione; a meno che essa non si sia manifestamente opposta alla pratica ovvero riesca a dimostrare che la sua partecipazione alle riunioni non si sia connotata di alcuno spirito anticoncorrenziale[xv]. E ciò in quanto si deve presumere che le imprese partecipanti alla concertazione e che rimangono presenti sul mercato tengano conto degli scambi di informazioni con i loro concorrenti per decidere il proprio comportamento sul mercato stesso[xvi], restando così superfluo, al fine dell'an della responsabilità, indagare se il singolo partecipante all'intesa vietata abbia avuto un ruolo maggiore o minore, attivo o meramente passivo[xvii].
Nel caso di specie, l’accertamento in ordine all’esistenza delle due intese emerge dalla circostanza che numerose imprese hanno confessato la propria partecipazione agli illeciti, rendendo all’Autorità dettagliate dichiarazioni, il cui contenuto è confluito nel provvedimento.
Inoltre, tramite l’istruttoria svolta dall’AGCM è stato documentalmente accertata la partecipazione dell’appellante ad un numero significativo di riunioni, specie nel periodo intercorrente dal 1998 al 2013. Nel corso del procedimento l’appellante non ha fornito neppure un principio di prova riguardo alla sua eventuale opposizione alla pratica che si andava in modo evidente delineando. Né può assumere valore il tentativo di creare un discrimen tra i ruoli ricoperti dal responsabile commerciale, per un verso, dipendente dell’impresa appellante e, per altro verso, esponente di spicco del GIFCO, non essendo emerso nessun elemento a supporto di tale ricostruzione.
Neppure il secondo motivo di appello, concernente l’arco temporale della contestata partecipazione dell’appellante all’asserita intesa, può essere accolto. Posto che l’azione di contrasto ai cartelli deve essere effettiva, per il carattere segreto o riservato degli accordi di cartello la prova della c.d. “pistola fumante” è evenienza rarissima. In questo caso, evidenze individualizzanti relative alla partecipazione a determinati segmenti temporali del cartello unitario protrattosi per lungo tempo, in presenza di una mancata dissociazione significativa o della prova positiva di una spiegazione alternativa, sono sufficienti a ritenere concretizzata la prova della partecipazione all’intesa per tutto il periodo individuato dall’Autorità.
Ancora, infondato è il terzo motivo di appello concernente la riqualificazione dell’asserita intesa in termini di abuso di posizione dominante. Al riguardo, la VI Sez. richiama un proprio precedente in cui ha dettagliatamente chiarito come i singoli comportamenti delle imprese devono essere considerati quali «tasselli di un mosaico» e dunque come elementi di una fattispecie complessa, «significativi non di per sé ma come parte di un disegno unitario»[xviii] qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante.
Rispetto ad esso, è sufficiente che l'AGCM tracci - come avvenuto nel caso di specie - un quadro indiziario coerente ed univoco, oltre che privo di salti logici. Viceversa, spetta ai soggetti interessati fornire spiegazioni alternative alle conclusioni tratte nel provvedimento accertativo della violazione concorrenziale; in questo caso, tuttavia, l’ipotesi prospettata dall’appellante appare meramente ipotetica e non suffragata da alcun supporto probatorio.
3.1. La decisione del Consiglio di Stato: la quantificazione della sanzione
Con riferimento al quarto motivo, il Consiglio di Stato giunge ad esiti differenziati in relazione ai singoli profili evidenziati dall’appellante. Anche in questo caso, al fine di meglio inquadrare le questioni sottese, il giudice si preoccupa preliminarmente di riassumere i principi già sanciti dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni.
Innanzitutto, nell'esercizio del proprio potere sanzionatorio l'Autorità persegue un duplice obiettivo: da un lato, un effetto dissuasivo specifico nei confronti delle imprese che si sono rese responsabili di una violazione delle norme in materia di intese; dall’altro, un effetto dissuasivo generale nei confronti degli altri operatori economici dall'assumere o continuare condotte contrarie alle norme di concorrenza[xix]. L'elevato grado di severità che caratterizza le sanzioni Antitrust ne determina la natura sostanzialmente penale delle stesse[xx], sebbene questo non determini un’automatica applicazione di tutti i principi garantistici previsti dal processo penale[xxi]. Per quanto qui d’interesse, la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell'applicazione delle sanzioni penali anche alle sanzioni amministrative punitive[xxii].
L’art. 15, l. n. 287/90[xxiii], ferma la qualificazione dell'illecito come grave ai fini della punibilità con sanzione pecuniaria, consente inoltre al giudice un apprezzamento di gravità in ordine alla graduazione della pena[xxiv]. A tal fine, i provvedimenti dell'Autorità devono recare l'indicazione di una serie di dati come: qualificazione dell'infrazione come grave o molto grave; durata dell'illecito; importo della sanzione per ciascuna impresa; eventuali circostanze attenuanti o aggravanti applicate; rapporto percentuale tra importo della sanzione e fatturato complessivo dell'impresa; eventuali altri criteri di quantificazione utilizzati[xxv].
All’esito di siffatta qualificazione, la determinazione dell'importo della sanzione costituisce espressione di un potere discrezionale dell'Autorità, e ciò in quanto il valore finale della sanzione va determinato assumendo quale principale parametro di riferimento l'effettiva idoneità del quantum della sanzione a tenere conto nel modo più adeguato possibile della specifica gravità della condotta contestata all'impresa[xxvi].
Tanto chiarito, la VI Sez. reputa infondata la doglianza relativa all’illegittima applicazione dell’aggravante della segretezza. Le intese in questione sono state correttamente considerate segrete, sia perché esse non erano palesate al pubblico sia perché ai fini della prova si è dovuto ricorrere a plurime dichiarazioni dei leniency applicants, oltre che all’acquisizione di documenti come la corrispondenza delle imprese coinvolte, normalmente coperta dal segreto epistolare.
Neppure può essere accolta la tesi secondo cui il provvedimento non avrebbe accertato gli effetti che l’intesa ha prodotto sul mercato, e ciò in quanto le intese hanno un oggetto di per sé vietato e, quindi, sono per loro stessa natura dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, senza che occorra dimostrare in concreto la sussistenza di effetti dannosi sul mercato.
Al contrario, la VI Sez. reputa fondate le censure con cui si lamentano per un verso, la mancata valutazione da parte del T.a.r. delle attenuanti e, per altro verso, i criteri di calcolo della sanzione che si risolvono in una violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e individualità della pena.
Per giungere a tali conclusioni, ricostruisce il quadro normativo vigente in materia, prendendo le mosse dall’art. 11 della l. 689/1981[xxvii] che, al fine di modulare la sanzione in ragione delle specificità del caso concreto, individua come parametri di riferimento «la gravità della violazione, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché la personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
Inoltre, le Linee Guida ai punti 7 e ss. dispongono che la sanzione venga calcolata moltiplicando una percentuale del valore delle vendite determinata in funzione della gravità dell’infrazione, per la durata dell’intesa contestata (espressa in anni, mesi e giorni); l’importo assunto quale base di calcolo è quindi ancorato ad un dato oggettivo. Quest’ultimo importo viene considerato solo per una quota percentuale, fissata in funzione della gravità dell’infrazione e fino alla misura massima del 30% del valore delle vendite; con l’ulteriore precisazione che in presenza di violazioni particolarmente rare tale percentuale non possa essere inferiore al 15%.
In ogni caso, l’importo risultante all’esito del descritto procedimento di calcolo, secondo quanto previsto dal menzionato art. 15 della l. n. 287/1990, non deve eccedere il tetto del 10% del fatturato. Ancora, ulteriori riduzioni sono riconoscibili in applicazione di un programma di clemenza[xxviii] o delle circostanze concrete[xxix].
Nel caso di specie, l’Autorità, sul rilievo dell’indisponibilità di elementi certi circa l’effettivo impatto dell’intesa sul mercato, ha applicato a tutte le partecipanti il predetto valore percentuale minimo del 15%; il quantum così parametrato viene rimodulato (in aumento) in relazione alle responsabilità del singolo operatore, tenuto conto di eventuali circostanze aggravanti/attenuanti rinvenibili nella fattispecie[xxx].
Tuttavia, lo scarto esistente fra il minimo valore percentuale (vale a dire il 15% del coefficiente di calcolo) e il massimo valore percentuale (rappresentato dal 10% del fatturato), determina in concreto un appiattimento della sanzione su quest’ultimo valore, frustrando la ratio della disciplina di settore, astrattamente improntata ad una differenziazione della sanzione in funzione delle specificità delle condotte e dei ruoli imputabili a ciascun singolo operatore[xxxi].
Ne consegue che la ratio sottesa all’art. 15, individuabile nella necessità di contenere l’entità della sanzione entro limiti di sostenibilità finanziaria, se così interpretata limita - quando non esclude - la possibilità di graduare la stessa adeguandola alle effettive responsabilità degli autori delle condotte illegittime. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, una simile discrasia deve essere eliminata, dovendosene fare l’Autorità in sede di ridefinizione degli importi delle sanzioni.
4. Sul regime probatorio degli illeciti anticoncorrenziali
Le considerazioni svolte dal Consiglio di Stato con riferimento alla sufficienza di elementi indiziari ai fini dell’accertamento delle intese restrittive della concorrenza non lasciano di certo sorpresi.
Si tratta infatti di un orientamento piuttosto consolidato che, in ragione dei caratteri peculiari degli illeciti anticoncorrenziali[xxxii] – quali lo svolgimento in modo segreto e clandestino, talvolta in territorio estero e con una documentazione in genere piuttosto minimale –, si è interrogato sulle regole probatorie da seguire in ambito procedimentale e in sede di successivo controllo giurisdizionale.
Le principali tematiche affrontate (e risolte) sono state essenzialmente due: la prima, concernente gli elementi necessari per fornire la prova della partecipazione all'intesa anticoncorrenziale; la seconda, relativa agli elementi probatori invocabili dalle imprese a testimonianza della loro dissociazione dalle intese in questione.
Con riferimento al primo aspetto, l’approccio seguito è stato quello di dedurre l’asserita condotta illecita della singola impresa da una valutazione unitaria e complessiva di un significativo numero di indizi e riscontri. Tanto si giustifica proprio in ragione del fatto che gli elementi probatori attestanti in modo esplicito una condotta illegittima sono normalmente frammentari, sporadici, sforniti di taluni dettagli ricostruibili solo in via deduttiva[xxxiii]. Così, sono reputati elementi indiziari, la cui rilevanza deve essere valutata globalmente: l'elevato numero di riunioni e contatti tra le imprese coinvolte, la sostanziale stabilità delle quote di mercato, l'elevato grado di fidelizzazione della clientela, oltre che la confessione proveniente dagli altri soggetti partecipanti all’intesa vietata, riscontrata nel caso di specie.
Per quanto attiene poi al secondo profilo, laddove l’Autorità abbia provato - con le modalità appena indicate - la partecipazione ad una intesa anticoncorrenziale, l’impresa può fornire ulteriori elementi probatori a supporto della propria estraneità all'illecito. In dettaglio, tali elementi si identificano nella dimostrazione di una dissociazione significativa, tale da rivestire i caratteri di una opposizione alla pratica, o nella prova positiva di una spiegazione alternativa.
Su questo fronte, forte è stata l’influenza di quella giurisprudenza sovranazionale che ha elaborato una vera e propria "dottrina della dissociazione pubblica". In base ad essa, l’accertamento non può dirsi avvenuto laddove l’impresa, rispetto alla quale la Commissione abbia provato la condotta illecita, abbia manifestato in maniera inequivocabile la volontà di dissociarsi, portando tale volontà a conoscenza degli altri partecipanti all’accordo[xxxiv].
Un simile rigore si giustifica in ragione del fatto che la sola partecipazione di un'impresa a riunioni aventi un oggetto anticoncorrenziale ha obiettivamente l'effetto di creare o rafforzare l'intesa stessa, nella misura in cui fornisce l’impressione di volersi conformare ad essa. Pertanto, la mera circostanza che l’impresa non abbia dato seguito alle riunioni, né - come nel caso di specie - abbia tratto specifici vantaggi da esse, non è sufficiente ad ad escludere la sua responsabilità, essendo necessario che questa prenda pubblicamente le distanze dal contenuto delle riunioni.
Lungi dal rappresentare un’inversione dell’onere della prova, un approccio del genere si pone nel solco del dettato normativo: la dissociazione può essere dimostrata dall’impresa solo dopo che l’Autorità, assolvendo correttamente al proprio onere probatorio, abbia dimostrato la partecipazione della singola impresa all’intesa vietata; in mancanza, la prova non può dirsi raggiunta.
Si tratterebbe, in altri termini, di configurare un mero alleggerimento dell’onere probatorio posto in capo all’AGCM - anche in ragione della complessità dell’indagine investigativa cui la stessa è tenuta - che, almeno in astratto, appare rispettoso del principio di presunzione di innocenza.
Tuttavia, non è peregrino evidenziare come un siffatto modus agendi, a seconda di come declinato nella prassi, rischi di disattendere il predetto principio proprio in una materia in cui questo assume una particolare rilevanza, non solo per la natura “paragiurisdizionale” delle attività poste in essere delle Authorities, ma anche in ragione del carattere sostanzialmente penale delle sanzioni de quibus.
5. Il necessario rispetto del principio di proporzionalità per le sanzioni Antitrust
In tema di quantificazione della sanzione, al di là del tecnicismo delle norme di settore, il presupposto del ragionamento seguito dal Consiglio di Stato è rappresentato dal riconoscimento della natura punitiva delle sanzioni irrogate dall’AGCM, cui consegue l’estensione di taluni principi propri delle pene in senso stretto.
Più in dettaglio, si tratta dell’adesione alla tesi sostanzialista, elaborata dalla giurisprudenza sovranazionale e ormai ampiamente sdoganata anche in ambito interno, in base alla quale ai fini della individuazione delle “pene” cui applicare le garanzie riconosciute a livello costituzionale e convenzionale, non occorre fermarsi al dato formale ma è necessario esaminare la sostanza delle singole sanzioni. In quest’ottica, il nomen iuris rappresenta solo il primo dei criteri da seguire ai fini del riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione, collocandosi accanto a questo, in un rapporto di alternatività, anche quelli della natura della disposizione punitiva e del grado di severità della sanzione stessa[xxxv].
Nel caso di specie, è stato proprio quest’ultimo il criterio dirimente che in passato aveva portato il Consiglio di Stato a riconoscere la natura punitiva delle sanzioni pecuniarie de quibus[xxxvi], con conseguente applicazione delle garanzie proprie del settore penale.
Ed in particolare, il profilo qui attenzionato dal Consiglio di Stato è quello della proporzionalità della sanzione amministrativa, già oggetto di riconoscimento da parte del giudice amministrativo[xxxvii], in aderenza alla linea interpretativa seguita dalla Consulta.
Al riguardo, ebbene precisare che il principio in esame è da tempo applicato nel diritto amministrativo, anche grazie al contribuito interpretativo della Corte di Giustizia che lo ha elevato al rango di principio generale del diritto comunitario[xxxviii].
Nel diritto nazionale, tale principio ha assunto una particolare valenza all’indomani della l. 15/2005 che, incidendo sul testo dell’art. 1 della l. 241/1990, ha assoggettato l’attività amministrativa al rispetto di tutti i principi procedimentali di diritto comunitario[xxxix]. In conseguenza della novella, il rispetto del principio di proporzionalità è stato evocato dalla giurisprudenza italiana in maniera costante in diversi settori, dalla materia ambientale, alla concorrenza, al commercio, agli appalti pubblici e alle sanzioni[xl].
Purtuttavia, allorquando vengano in considerazione sanzioni sostanzialmente penali, il medesimo principio si declina in termini diversi e più pregnanti, non dissimili da quelli che lo connotano nel diritto penale.
È questa la conclusione cui è giunta qualche anno fa la Consulta che ha esteso il principio di proporzionalità – inteso in senso forte – alle sanzioni sostanzialmente penali, ammettendo così un sindacato condotto secondo uno schema autonomo, vale a dire sganciato dal raffronto con un tertium comparationis e reso possibile in virtù dell’applicazione dell’art. 49, par. 3 Carta di Nizza[xli].
Tali approdi sono fatti propri dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che, in sede di ricognizione dei principi enunciati dalla Sezione in materia di quantificazione delle sanzioni, richiama un proprio precedente il quale, a sua volta, fa rinvio alla sentenza della Corte Costituzionale[xlii].
L’interesse per la sentenza, pertanto, deriva anche dalla circostanza che la stessa conferma il ruolo attivo svolto dal giudice amministrativo nel processo di assimilazione tra la figura delle sanzioni amministrative e quella delle sanzioni penali, in adesione al filone sostanzialista inaugurato da Strasburgo e in linea di continuità con l’orientamento patrocinato dalla Corte Costituzionale.
[i] In dettaglio, si allude al provvedimento n. 2784 adottato nell’adunanza del 17 luglio 2019.
[ii] Cfr. delibere AGCM del 5 luglio 2017, del 5 dicembre 2017 e del 9 maggio 2018.
[iii] Cfr. delibera AGCM del 31 ottobre 2018.
[iv] Nello specifico, costui avrebbe agito al fine di incentivare il proprio prestigio all’interno del Gruppo Italiano Fabbricanti Cartone Ondulato – GIFCO di cui era stato membro del Consiglio Direttivo per più di un decennio.
[v]In particolare, tale partecipazione non si estenderebbe a tutto il periodo compreso dal 5.11.2009 al 30.3.2017 come asserito nella sentenza impugnata, ma al più dal 2011 (data a partire dalla quale nei file ci sarebbe prova della partecipazione alle riunioni dell’impresa appellante) al 20.10.2015 (data di morte del responsabile commerciale per il cui tramite si ritiene che l’appellante abbia preso parte alle intese).
[vi] A sostegno di questa ricostruzione, vengono allegate una serie di circostanze, quali: vantaggio economico concentrato nelle sole imprese in posizione dominante; convenienza dell’intesa immaginata dall’AGCM unicamente per le grandi imprese titolari di più stabilimenti e non anche per quelle dotate di un unico stabilimento come l’appellante; mantenimento di una politica autonoma da parte dell’appellante.
[vii] Nella specie, documenti ad uso interno o scambi di mail intercorsi tra le parti e non conoscibili all’esterno.
[viii] Per superare questa aporia, l’appellante ha proposto una interpretazione alternativa della norma, in base alla quale il limite di cui all’art. 15 della l. n. 287/1990 deve essere inteso come massimo edittale in senso proprio, tale da imporre all’AGCM di determinare l’importo della sanzione entro il massimo di legge anche nei passaggi di calcolo intermedi.
[ix] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[x] Cons. Stato, Sez. VI, 10/01/2020, n. 236.
[xi] Cons. Stato, Sez. VI, 03/01/2020, n. 52.
[xii] Cons. Stato, Sez. VI, 02/09/2019, n. 6022.
[xiii] Cons. Stato, Sez. VI, 14/01/2019, n. 321.
[xiv] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n. 4123.
[xv] Cons. Stato Sez. VI, 02/07/2015, n. 3291.
[xvi] Cons. Stato, Sez. VI, 24/10/2014, n. 5274.
[xvii] Cons. Stato, Sez. VI, 04/09/2014, n. 4506.
[xviii] Cons Stato, Sez. VI, 01/06/2016, n. 2328.
[xix] Cons. Stato, Sez. VI, 15/07/2019, n. 4990.
[xx] Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164, Corte di Giustizia dell'Unione europea, sentenza Menarini, 27 settembre 2011, n. 43509/08.
[xxi] Cons. Stato, Sez. VI, 10/07/2018, n.4211.
[xxii] Cons. Stato sez. VI, 09/06/2022, n. 4696.
[xxiii] Art. 15, comma 1-bis: «Tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o associazione di imprese nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida, determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione. Se l'infrazione commessa da un'associazione di imprese riguarda le attività dei suoi membri, l'Autorità dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento della somma dei fatturati totali a livello mondiale realizzati nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida di ciascun membro operante sul mercato interessato dall'infrazione commessa dall'associazione. Tuttavia, la responsabilità finanziaria di ciascuna impresa riguardo al pagamento della sanzione non può superare il 10 per cento del fatturato da essa realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida».
[xxiv] Cons. Stato, Sez. VI, 24/06/2010, n. 4013.
[xxv] Cons. Stato, Sez. VI, 20/05/2011, n. 3013.
[xxvi] Cons Stato, Sez. VI, 26/03/2020, n.2111.
[xxvii] Applicabile in virtù del rinvio che l’art. 31 della l. n. 287/1990 compie alle disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689.
[xxviii] V. art. 30 Linee Guida.
[xxix] V. art. 34 Linee Guida.
[xxx] Sulla scorta di quanto previsto dall’art. 25 delle Linee Guida.
[xxxi] Circostanza del resto confermata anche dal provvedimento impugnato, nella parte in cui la stessa AGCM precisa che le sanzioni applicate alle imprese partecipanti «eccedono per la maggior parte delle aziende coinvolte, il limite massimo previsto dall’art. 15, comma 1, della legge n. 287/1990». In altri termini, il beneficio del tetto massimo riconosciuto ad ogni azienda si determina in funzione dell’entità dello scostamento della sanzione (calcolata come sopra descritto) dal tetto legale, determinando il paradossale risultato che maggiore è la gravità della condotta, maggiore può rivelarsi il vantaggio che il trasgressore ricava.
[xxxii] Per un’analisi più approfondita della materia, si rinvia a A. PAPPALARDO, Il diritto comunitario della concorrenza - Profili sostanziali, Utet, Torino, 2007.
[xxxiii] In tal senso, oltra ai precedenti più recenti citati nella parte motiva della sentenza in commento, v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2008, n. 424 in cui, per la prima volta, vengono chiariti i criteri di valutazione del giudice amministrativo in ordine all'assolvimento da parte dell'AGCM dell'onere probatorio circa l'esistenza di un'intesa.
[xxxiv] Sul punto, v. in Corte di Giustizia, sentt. 8 luglio 1999, causa C-199/92, Huls/Commissione, pt. 155 e causa C-49/92 Commissione/Anic Partecipazioni, pt. 96.
[xxxv] In argomento si rinvia, ex multis, a F. GOISIS, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Giappichelli, Torino, 2015, 4; V. MANES, Profili e confini dell’illecito para-penale, Rivista Italiana Di Diritto E Procedura Penale,2017, p. 988.
[xxxvi] V. Cons Stato, Sez. VI, 22/03/2016, n.1164 secondo cui «Questa disposizione [art. 6 CEDU] si applica anche in presenza di sanzioni amministrative di natura afflittiva, alle quali deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale. La Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. […] Nella la fattispecie in esame, la sanzione dell’AGCM, avuto riguardo ai criteri di identificazione sopra esposti e, in particolare al grado di severità della stessa ha natura afflittiva e “sostanzialmente” penale».
[xxxvii] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696, ove si legge che «Tale conclusione, oltre che più aderente alla lettera della legge, appare anche in maggior sintonia con i recenti approdi della giurisprudenza volti a salvaguardare i principi di adeguatezza e proporzionalità della sanzione, i quali implicano necessariamente che la situazione economica della società, di cui l’Autorità deve tenere conto, e i dati utilizzati per il calcolo della sanzione siano, se non concomitanti, quanto meno temporalmente prossimi alla data di irrogazione della stessa».
[xxxviii] Cfr., ex multis, C.giust. 18 novembre 1987, causa C-137/85, Maizena e a., Id., 16 ottobre 1991, causa C-24/90, Hauptzollamt Hamburg-Jonas c./Werner Faust offene Handelsgesellschaft Kg secondo cui «per stabilire se una disposizione di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità è necessario controllare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a realizzare lo scopo perseguito, senza andare oltre quanto è necessario per raggiungerlo [...] fermo restando che, qualora si presenti una scelta tra più misure appropriate, è necessario ricorrere alla meno restrittiva».
[xxxix] Per una disamina più approfondita del principio di proporzionalità nel diritto amministrativo si rinvia, fra gli altri, a A.M. SANDULLI, voce Proporzionalità, in S. CASSESSE (diretto da) Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4643 e ss; ID., La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 37 e ss.; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; TRIMARCHI BANFI F., Canone di proporzione e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2016, p. 361.
[xl]Esemplificativa è Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087 ove viene precisato che «il principio di proporzionalità […] si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, sia con atti normativi, sia con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino, tutelate dal diritto comunitario, in misura superiore, cioè sproporzionata, a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo, cioè adeguato all'obiettivo da perseguire, e necessario, nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile» Nel medesimo senso, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2670/01; Id., 5714/02; Id., Sez. VI, 1 aprile 2000, n. 1885.
[xli] Si allude a Corte Cost. sent. 10 maggio 2019, n. 112 che, riconoscendo la natura punitiva della misura prevista dall’art. 187-sexies t.u.f., ne ha dichiarato la incostituzionalità nella parte in cui prevede la confisca dell’intero «prodotto» di operazioni finanziarie illecite e dei «beni utilizzati» per commetterle, anziché del solo «profitto» ricavato da queste operazioni.
[xlii] Il riferimento è alla già menzionata Cons. Stato, Sez. VI, 09/06/2022, n. 4696 che chiarisce «Deve infatti ricordarsi che la Corte costituzionale ha esteso il principio di proporzionalità nell’applicazione delle sanzioni penali – che impone la necessaria personalizzazione della pena alla luce della oggettiva gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato in attuazione del principio di personalità della responsabilità penale ai sensi dell’art. 27 Cost. – anche alle sanzioni amministrative punitive (sentenza n. 112 del 2019, cfr. anche Consiglio di Stato, 25 giugno 2019, n. 4335: “l’importo dell’ammenda deve rimanere comunque proporzionato, oltre che all’infrazione anche e in ogni caso alla situazione economico-finanziaria del soggetto che se ne ritenga responsabile”)».