Note sul procedimento di localizzazione e approvazione delle opere pubbliche nello schema di codice dei contratti dopo il parere della Conferenza unificata[*]
di Pier Luigi Portaluri
1. È anzitutto opportuno definire la cornice normativa al cui interno operano le Commissioni parlamentari chiamate a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo recante il codice dei contratti pubblici (breviter, SCC).
Come noto, l’art. 1, comma 4, 3° e 4° periodo, l. 21 giugno 2022, n. 78 (rubricato «Delega al Governo in materia di contratti pubblici»), prevede: «Ove il parere delle Commissioni parlamentari indichi specificamente talune disposizioni come non conformi ai principi e criteri direttivi di cui alla presente legge, il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. Le Commissioni competenti per materia possono esprimersi sulle osservazioni del Governo entro dieci giorni dall'assegnazione; decorso tale termine il decreto legislativo può essere comunque emanato.».
La norma è chiara nell’attribuire alle Commissioni parlamentari il potere di sindacare – sia pur in sede consultiva – la conformità delle disposizioni codicistiche ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega: onde, poi, il ritorno alle Camere (e quindi alle Commissioni stesse) qualora il Governo non intenda conformarsi ai pareri parlamentari.
Poiché parametro di una tale verifica sono, ovviamente, le dorsali regolative desumibili dalla normazione delegante, trovo arduo – a pena di una vacua ineffettività dell’apporto di Camera e Senato – sostenere che il ruolo delle Commissioni non possa spingersi sino a individuare nel dettaglio i profili ritenuti dissonanti rispetto all’armatura concettuale consegnata dalla l. n. 78/’22.
Vi sono, peraltro, basi positive che orientano in questo senso. Infatti, il parere delle Commissioni – puntualizza il 3° periodo cit. – può indicare «specificamente talune disposizioni». Si tratta, pertanto, di una verifica di compatibilità che può sia essere di sistema, concernendo le scelte e i nodi d’apice che connotano lo schema di codice; sia riguardare – restringendo progressivamente l’angolo visuale – blocchi organici di disposizioni; sia giungere, infine, all’analisi critica di una singola disposizione. Uno spettro d’azione così ampio implica di necessità un altrettale potere “consultivo”: per cui le Commissioni potranno esprimere pareri che riguardino l’intelaiatura normativa generale, ovvero – all’opposto – che focalizzino questioni meno strutturali.
Inerisce naturalmente a uno spatium consulendi così largo l’eventualità che le Commissioni non si limitino a esporre il proprio avviso sull’articolato in esame, ma che invece propongano – sopra tutto ove si tratti di interventi su disposizioni singole (cfr. il 3° periodo cit.) – anche modalità concrete di superamento delle criticità rilevate. In altre parole, ritengo che il potere di proposta emendativa sia interno alla loro sfera d’azione.
Altra conferma, sia pure indiretta, ci viene dal parere ex art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, che la Conferenza unificata – in base all’art. 1, comma 4, 1° periodo, l. n. 78/’22 cit. – ha reso in senso favorevole «nei termini di cui in premessa e di cui agli allegati documenti, che costituiscono parte integrante del presente atto».
A loro volta, questi allegati sono tre:
- la «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”» del 26 gennaio 2023, n. 23/06/CU06/C4, espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome: il documento si suddivide, al suo interno, in emendamenti prioritari, da una parte, ed emendamenti meramente collaborativi, dall’altra parte; come vedremo, l’emendamento n. 3 prende espressamente in considerazione il nostro art. 38, comma 11, e propone di sopprimerne alcune parti fondamentali;
- il «Parere sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», reso da ANCI sempre il 26 gennaio scorso, che però non si occupa del nostro tema;
- il coevo «Contributo UPI», che – come ANCI – non affronta la questione.
In sintesi, recependo la citata Posizione della Conferenza delle Regioni, la Conferenza unificata ha formulato proposte emendative puntualissime: e ciò, si noti, pur in assenza di una norma della l. n. 78/’22 che – a differenza di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, 3° periodo, cit., per le Commissioni parlamentari – quel potere conferisca.
Mi pare inutile soffermarmi, a questo punto, sulla contrarietà al senso del diritto positivo e comunque sulla illogicità di un’interpretazione restrittiva che negasse alle Commissioni parlamentari il potere di formulare pareri corredati da specifiche proposte emendative.
Possiamo quindi passare all’esame della norma oggetto delle mie riflessioni.
2. L’art. 38 SCC – rubricato «Localizzazione e approvazione del progetto delle opere» – nel suo comma 11 stabilisce: ««Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
La disposizione potrebbe essere ritenuta, ma solo se ci si ferma a un’interpretazione letterale, un altro passo della traiettoria che l’ordinamento sta percorrendo da qualche tempo verso la parificazione e l’amministrativizzazione spoliticizzante di tutti gli interessi pubblici: inclusi quelli sensibili.
Per chiarezza, conviene rifare questo cammino a ritroso.
3. Se identifichiamo come punto di partenza il 1990, e dunque la l. n. 241, l’assetto iniziale è abbastanza chiaro. Di segno opposto all’attuale, però: gli interessi pubblici sono gerarchizzati e anche in modo ben delineato. Infatti le regole acceleratorie del modulo conferenziale ex art. 14, comma 3, l. n. 241/’90 (silenzio assenso dell’amministrazione convocata ma assente, salve possibilità marginali di dissenso postumo) non si applicano «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini» (comma 4): chiamate cioè a tutelare – o a difendere, se si preferisce – quei tre interessi.
4. Il quadro cambia abbastanza presto.
La l. n. 127/’97 (la nota legge Bassanini-bis) sostituisce il comma 4 appena ricordato con un altro, di ispirazione diversa: non più una protezione tendenzialmente assoluta dei super-interessi, ma una conflittualizzazione e politicizzazione del tema.
In caso di motivato dissenso espresso da una Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la p.A. procedente – purché non vi sia stata una pregressa valutazione di impatto ambientale negativa – può investire della questione il Presidente del Consiglio dei ministri, che si esprime previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
Come si vede, gli interessi sensibili cessano di essere sottratti alla logica del bilanciamento ponderativo, nella quale sono ora fatti entrare senza riserve: l’unica particolarità, certo non secondaria, è appunto la devoluzione del contrasto al decisore politico d’apice.
5. Camminando svelti, ricordiamo adesso la l. n. 124/’15 (c.d. Madia), il cui art. 3 introduce nella l. n. 241/’90 l’art. 17-bis: si arriva così a estendere il modello del silenzio assenso ai procedimenti che coinvolgono una pluralità di Amministrazioni pubbliche, anche se si tratti di «amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini». L’unica differenza è data dal termine per la formazione del provvedimento tacito: trenta giorni per le pp.AA. che tutelano interessi “ordinari”, novanta per quelle preposte alla gestione di interessi sensibili.
Ma ciò non significa semplicemente imprimere una accelerazione ai procedimenti.
Vi è una scelta sottostante ben precisa, che presuppone e implica una modifica nella tavola dei valori protetti, cioè nella loro gerarchia. In generale, il modello del silenzio-assenso presuppone un ripensamento al ribasso del rilievo endoconferenziale attribuito ad alcune Amministrazioni e agli interessi della cui cura sono attributarie.
In altre parole, l’art. 17-bis genera una dequotazione sostanziale degli interessi sensibili. La maggior durata del termine previsto per la formazione del silenzio (novanta giorni in luogo di trenta) sta a indicare una differenza che è oramai solo quantitativa, non più qualitativa.
Resta operativo il meccanismo di conflittualizzazione e politicizzazione del mancato accordo tra le Amministrazioni coinvolte, incluse quelle preposte alla «tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini»: l’art. 17-bis prevede infatti che in questi casi «il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento».
6. Mi soffermo ora sull’ecosistema normativo del PNRR perché, come vedremo, si trova qui il modello cui s’ispira l’art. 38 SCC.
Con la normazione PNRR l’ordinamento raggiunge un traguardo inseguito a lungo: l’unicità del procedimento al cui interno si forma la decisione finale rilevante per il governo del territorio, sopra tutto con riguardo a interventi infrastrutturali (puntuali o a rete che siano). Meta non priva però di conseguenze: comprimere nel tempo e nello “spazio” giuridico l’acquisizione degli interessi (anche) pubblici comporta la riduzione – se non l’eliminazione – delle manifestazioni dissensuali.
È quello che, almeno a mio avviso, ha perseguito quella normazione, in particolare il d.l. n. 77/’21 (c.d. «Semplificazioni-bis»).
Mi limito a richiamare l’art. 44, d.l. cit.: rubricato «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto», tratta di alcune specifiche infrastrutture ferroviarie, idriche e portuali.
Questo il comma 4, che la Relazione illustrativa allo schema di codice licenziato dalla Commissione Carbone richiama come modello ispiratore: «[…] la stazione appaltante convoca la conferenza di servizi per l’approvazione del progetto ai sensi dell’articolo 27, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. La conferenza di servizi è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e nel corso di essa, ferme restando le prerogative dell’autorità competente in materia di VIA, sono acquisite e valutate le eventuali prescrizioni e direttive adottate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ai sensi del secondo periodo del comma 1, nonché gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte secondo le modalità di cui all'articolo 46 del presente decreto, della verifica preventiva dell’interesse archeologico e della valutazione di impatto ambientale. La determinazione conclusiva della conferenza approva il progetto e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita.».
Non sono previsti, nel testo della norma, meccanismi per sollevare conflitto e quindi per politicizzarlo.
Per cui – restando all’interno dell’ecosistema PNRR – dovrebbe trovare applicazione o l’art. 13, d.l. n. 77/’21, rubricato «Superamento del dissenso», secondo cui «In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente proveniente da un organo statale che, secondo la legislazione vigente, sia idoneo a precludere, in tutto o in parte, la realizzazione di un intervento rientrante nel PNRR, la Segreteria tecnica di cui all’articolo 4, anche su impulso del Servizio centrale per il PNRR, ove un meccanismo di superamento del dissenso non sia già previsto dalle vigenti disposizioni, propone al Presidente del Consiglio dei ministri, entro i successivi cinque giorni, di sottoporre la questione all'esame del Consiglio dei ministri per le conseguenti determinazioni; ovvero – ratione materiae – il meccanismo preventivo ex art. 29, comma 2, d.l. n. 77/’21, che istituisce una Soprintendenza «speciale» (cioè unica) per il PNRR. Norma, questa, che esautora stabilmente le articolazioni ministeriali territoriali, spogliandole delle funzioni di tutela ove si tratti di beni culturali e paesaggistici che siano «interessati da interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale» oppure che «rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero». Sempre in base all’art. 29, comma 2, cit., poi, «in caso di necessità e per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR, la Soprintendenza speciale può esercitare, con riguardo a ulteriori interventi strategici del PNRR, i poteri di avocazione e sostituzione» nei confronti delle Soprintendenze periferiche.
7. Possiamo adesso esaminare l’art. 38, comma 11, SCC.
Preferisco, per comodità di analisi, riportarne nuovamente il testo: «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di decadenza, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale.».
Come dicevo al punto 2., se ci fermassimo alla lettera, quella disposizione ben potrebbe essere inserita nella traiettoria ordinamentale verso la “scomparsa” degli interessi sensibili, non più intesi come valori collettivi giuridicizzati in modo differenziato rispetto a tutti gli altri. La comunanza di regolazione fra le due categorie di interessi (“ordinari” e sensibili) sarebbe confermata dall’inciso «senza deroghe» che – in quanto posto all’interno di un periodo che è già deontico-performativo («si applicano a tutte le amministrazioni» – avrebbe un effetto di senso rafforzativo.
In breve, la disposizione esprimerebbe una declinazione forte del principio di unicità procedimentale, perché vi assoggetterebbe anche le Amministrazioni titolari di interessi sensibili.
Peraltro, il richiamo all’art. 44, comma 4, d.l. n. 77/’21, cit. – contenuto, come ho detto, nella Relazione illustrativa (che correttamente si autodefinisce Gesetzesmaterial) della Commissione Carbone – sembrerebbe confermare questa interpretazione.
Andiamo oltre, però, l’approccio letterale e asistematico.
A me pare – lo dico subito – che l’art. 38, comma 11, SCC, non possa essere interpretato nel senso di definire nella loro interezza i diritti procedimentali delle Amministrazioni titolari di interessi sensibili. Ove così fosse – qualora cioè queste pp.AA. vedessero esaurirsi il loro ruolo nell’espressione di un dissenso che dev’esser non solo costruttivo, ma anche tale da non comportare modifiche sproporzionate, inefficaci o tali da rendere irrealizzabile il progetto originario per insostenibile aumento dei costi – si porrebbero forse problemi di compatibilità con l’art. 9 Cost.
Privare tout court – cioè senza contrappesi e compensazioni – le Soprintendenze del potere di veto significherebbe in concreto che ogni progetto deve essere comunque approvato e realizzato; e che eventuali modifiche sarebbero ammissibili solo se non comportassero un aggravio di costi. Per fare un esempio, una Soprintendenza non solo non potrebbe opporsi a un progetto di strada che attraversasse un sito archeologico; ma non potrebbe neanche proporre una modifica del percorso viario che giri intorno a quel sito: una tale variante sarebbe molto probabilmente inammissibile poiché comporterebbe un allungamento del tracciato e dunque un aumento – magari trascurabile – della spesa.
S’impone dunque, come prima cosa, un’interpretazione estensiva dei concetti giuridici indeterminati che connotano i requisiti della proposta ammissibile: «proporzionalità» «efficacia»,«sostenibilità finanziaria» rispetto al progetto originario arrivato in conferenza di servizi.
Se si volesse comunque elidere anche la sola possibilità, il solo rischio, di un’interpretazione del concetto di sostenibilità finanziaria in termini di rigida invarianza dei costi progettuali, non c’è altra via che quella dell’emendamento. In questo caso si potrebbero aggiungere, dopo la parola «efficienza», le parole «nonché, se comportano un aumento dei costi».
In questo modo, la norma riconoscerebbe implicitamente la possibilità di un incremento dell’esborso. E l’esigenza di sostenibilità verrebbe a costituire non una tagliola per espellere automaticamente qualunque proposta che comporti un sia pur minimo aumento dei costi, ma una soglia – elastica, perché da determinare caso per caso mediante discrezionalità tecnica – che solo in caso di suo sforamento renderebbe inammissibile la variante indicata.
Tuttavia il problema, sebbene mitigato, resta.
La sottrazione del potere di veto, ancorché compensato da un potere di proposta ragionevolmente ampio (nei termini e limiti appena indicati), darebbe comunque vita a un modello che qualifica nella sua complessità e articolazione la posizione delle Amministrazioni differenziate all’interno della conferenza di cui all’art. 38.
Ci si deve domandare, insomma, se lo scrutinio di costituzionalità di cui dicevo debba essere riferito unicamente a questo schema procedimentale, oppure se la disposizione in esame esaurisca o meno la posizione (e i poteri) di tali, particolari pp.AA.
Due argomenti letterali indurrebbero a ritenere che queste pp.AA. – anche se orbate del ius vetandi assoluto (la c.d. opzione zero, che blocca irreparabilmente il progetto) – conservino comunque il potere di escalation, cioè di devolvere la loro opposizione alla delibazione dell’organo politico d’apice, il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il primo argomento discende dal comma 1 dell’art. 38: «L’approvazione dei progetti da parte delle amministrazioni è effettuata in conformità alla legge 7 agosto 1990, n. 241 […]».
Per dare un senso alla disposizione, altrimenti ridondante, si deve ritenere che essa non contenga una inutile clausola di stile, ma rinvii a quella legge con pienezza di effetti giuridici: rimandi, ai nostri fini, all’intero sistema delle decisioni conferenziali di cui agli artt. 14 – 14-quinquies.
Ed è proprio l’art. 14-quinquies che viene qui in rilievo: «Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza. Per le amministrazioni statali l’opposizione è proposta dal Ministro competente.» (comma 1).
È vero: fra le due disposizioni si pone un problema di coordinamento, che però può essere superato. L’art. 38, comma 11, impone infatti alla p.A., a pena di decadenza, di articolare un dissenso costruttivo; mentre l’art. 14-quinquies ritiene sufficiente ad attivare l’escalation l’espressione, da parte dell’Amministrazione, di un dissenso meramente oppositivo (purché motivato).
Ne deriverebbe, sempre restando intra litteram, che se la p.A. esprimesse un dissenso oppositivo all’interno della conferenza ex art. 38, comma 11, esso sarebbe inammissibile e dunque non produrrebbe gli effetti devolutivi di cui all’art. 14-quinquies.
In realtà, si può comporre la questione ritenendo che il dissenso oppositivo comporti una sorta di inammissibilità relativa: le motivazioni contenute a corredo e supporto, anche se particolarmente stringenti, non entreranno in comparazione, ma l’opposizione produrrà comunque l’effetto devolutivo dell’affare all’organo politico.
In sostanza, le pp.AA. titolari di interessi sensibili avrebbero due strade avanti a sé, percorribili alternativamente.
La prima, ex art. 38, comma 11, SCC: esprimere un dissenso costruttivo.
La seconda, ex art. 14-quinquies, l. n. 241/’90: formulare un dissenso oppositivo, da cui l’escalation politica della questione.
Quelle pp.AA. perderebbero dunque il potere di veto, ma non anche quello devolutivo.
Dicevo che vi sarebbe un secondo argomento a sostegno di questa lettura. È un po’ più formale, e non privo di ambiguità.
Secondo il comma 9 dell’art. 38 in esame «La conferenza di servizi si conclude nel termine di 60 giorni dalla sua convocazione, prorogabile, su richiesta motivata delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi di cui all’articolo 14-quinquies, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990, una sola volta per non più di 10 giorni. […]».
Questo comma contiene l’espressa nominazione sia delle Amministrazioni in esame, sia dell’art. 14-quinquies cit.
Se ne possono trarre due letture, opposte tuttavia negli esiti.
La prima valorizza il (mero) richiamo dell’art. 14-quinquies per dedurne l’applicabilità in totodella disposizione: l’escalation sarebbe sempre consentita, anche sulla base di una ermeneusi più ispirata dall’art. 9 Cost.
La seconda, invece, enfatizza la possibilità di prorogare la conferenza su richiesta di quelle stesse Amministrazioni per inferirne che ciò esaurisce il loro spazio d’azione anche esoprocedimentale: nessuna devoluzione al livello politico, dunque, sarebbe prevista.
8. Più sopra, al punto 1., ho accennato al parere reso dalla Conferenza unificata il 26 gennaio 2023 e alla coeva «Posizione sullo schema di decreto legislativo recante “Codice dei contratti pubblici”», espressa dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e recepita integralmente da quel parere.
Ho pure detto che l’emendamento prioritario n. 3 della Posizione si occupa proprio dell’art. 38, comma 11, SCC, proponendo di eliderne e modificarne alcune parti di importanza primaria.
Ne risulterebbe questo testo (uso il condizionale perché il complesso degli interventi conduce a una disposizione già sintatticamente di non facile lettura): «Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante e comunque coinvolte esprimono il proprio parere ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della citata legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, devono indicare le prescrizioni che, ove possibile, rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali prescrizioni sono determinate conformemente ai principi di proporzionalità, efficacia e sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale».
Par di comprendere, in breve, che si vorrebbe attribuire a tutte le Amministrazioni partecipanti il potere di veto: il dissenso, infatti, non deve più essere necessariamente costruttivo, come rivela l’inciso «ove possibile» riferito all’indicazione delle prescrizioni che «rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso».
È però un modello che ritengo passatista e massimalista all’un tempo. Se non m’inganno, si perderebbe infatti la gerarchizzazione degli interessi procedendo però in senso vettorialmente opposto rispetto alla traiettoria di cui dicevo all’inizio: non una compressione verso il basso degli interessi sensibili, tendenzialmente parificati agli altri; ma una “elevazione” di questi ultimi, che andrebbero a comporre – insieme ai primi – un’indistinta panoplia capace di paralizzare qualunque processo decisionale.
La citata Posizione (e dunque la Conferenza unificata), tuttavia, «chiede di proseguire il confronto sugli ulteriori temi, sempre inseriti tra quelli prioritari, (es. conferenza dei servizi […]) sui quali ancora non si è raggiunta una condivisione»; e precisa che su questi emendamenti «è tuttora in corso un'interlocuzione con il MIT su iniziativa del Ministero stesso». Con riferimento specifico all’art. 38, comma 11, poi, la Posizione precisa: «Pur comprendendo la ratio della norma, si propone di valutare l'opportunità di mantenere il comma stanti le disposizioni già vigenti della l. 241/90».
La Conferenza, in somma, non ha ancora assunto un orientamento definitivo.
9. Il lavoro interpretativo sull’art. 38, comma 11, SCC, sembra condurre ai risultati che ho sin qui indicato.
Non intendo nascondere le penumbrae esegetiche che restano.
Se si ritenesse comunque preferibile proporre l’eliminazione di questi dubbi ermeneutici, e si condividesse il modello secondo cui le pp.AA. che gestiscono interessi sensibili possono alternativamente esprimere un dissenso costruttivo oppure formulare un dissenso oppositivo che provoca l’escalation politica, le Commissioni parlamentari competenti potrebbero formulare il proprio parere nel senso di proporre un intervento sul testo attuale dell’art. 38, comma 11, SCC.
Si potrebbe, dunque, consultivamente proporre di aggiungere, dopo il terzo periodo del citato comma 11, il seguente: «Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
10. Indico, in fine, alcune possibili modifiche del testo del comma 11 che riguardano solo il drafting.
a) Poiché il testo adopera la parola «determinazioni» con riguardo agli atti di alcune pp.AA. partecipanti («[…] le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante […]»), appare preferibile non usare nuovamente, non essendo un tecnicismo, una forma/voce della stessa famiglia lessicale con riferimento alle prescrizioni di quelle pp.AA. («sono determinate»). Si potrebbero quindi sostituire le parole «[…] sono determinate conformemente» con le parole «[…] devono essere conformi».
b) Poiché le pp.AA. partecipanti possono indicare sia «prescrizioni», sia «misure mitigatrici», l’uso della sola parola «prescrizioni» nel periodo successivo («Tali prescrizioni […]») potrebbe far ritenere che quelle pp.AA possano indicare solo prescrizioni e non anche misure mitigatrici. Si potrebbe quindi sostituire la parola «prescrizioni» con la parola «indicazioni», che fungerebbe da vero e proprio incapsulatore semantico.
11. In definitiva, le Commissioni parlamentari potrebbero sul punto esprimere il proprio parere proponendo questo testo dell’art. 38, comma 11, cit.:
«11. Nella procedura di cui al presente articolo, le determinazioni delle amministrazioni diverse dalla stazione appaltante o dall’ente concedente e comunque coinvolte ai sensi dell’articolo 14-bis, comma 3, della legge n. 241 del 1990, in qualsiasi caso di dissenso o non completo assenso, non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere o degli impianti, ma devono, in ogni caso, a pena di inammissibilità, indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendano compatibile l’opera e possibile l’assenso. Tali indicazioni devono essere conformi ai principi di proporzionalità e di efficacia nonché, se comportano un aumento dei costi, di sostenibilità finanziaria dell’intervento risultante dal progetto originariamente presentato. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo si applicano, senza deroghe, a tutte le amministrazioni comunque partecipanti alla conferenza, incluse quelle titolari delle competenze in materia urbanistica, paesaggistica, archeologica e del patrimonio culturale. Restano comunque esperibili i rimedi di cui all’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990».
[*] Questo scritto riprende i contenuti delle mie audizioni svoltesi il 23 gennaio 2023 innanzi all’VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera, e il 1° febbraio 2023 davanti all’VIII Commissione (Ambiente, transizione ecologica, energia, lavori pubblici, comunicazioni, innovazione tecnologica) del Senato nell’ambito dei lavori parlamentari inerenti al parere da rendere sullo «Schema di decreto legislativo recante codice dei contratti pubblici» (Atto del Governo n. 19): di qui la presenza di mie proposte emendative rispetto al testo della disposizione esaminata.