L’effettività del principio di parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nei piccoli comuni (nota a Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 62)
di Silia Gardini
Sommario: 1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali – 2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale – 3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale – 4. Concludendo.
1. Il punto di partenza: la legislazione vigente in materia di parità di genere per le elezioni negli enti comunali
In materia di cariche elettive, all’indomani dell’importante evoluzione costituzionale del principio di equilibrio di genere attuata con la Legge costituzionale[1] n. 1 del 2003, il compito che il legislatore si vedeva assegnato era quello – non semplice – di ricucire un quadro regolamentativo estremamente frammentato, individuando regole e principi che potessero delineare una normativa valida e coerente con tale principio, anche a livello locale. Dal canto suo, la corposa giurisprudenza costituzionale formatasi negli anni precedenti lasciava in “eredità” almeno tre importanti direttive di principio: l’illegittimità delle misure volte ad alterare direttamente la parità di chances fra i candidati ai fini dell’elezione, l’ammissibilità delle disposizioni volte a vincolare i partiti nella presentazione delle liste (ossia in un momento in cui la competizione elettorale non fosse stata ancora avviata), al fine di garantire la presenza di entrambi i generi nelle liste e l’ammissibilità del ricorso alla regola della doppia preferenza elettorale declinata al genere[2].
L’adeguamento della legislazione elettorale alle nuove esigenze di tutela è avvenuto con la legge 23 novembre 2012, n. 215, che ha introdotto nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) specifiche misure positive finalizzate a ristabilire una equilibrata presenza di genere negli organismi politici elettivi dei comuni[3].
Le norme introdotte dalla legge n. 215/2012 incidono direttamente sulla composizione delle liste elettorali, prevedendo altresì un regime sanzionatorio in caso di violazione delle relative prescrizioni. Le regole non sono, però, omogenee, poiché si differenziano sulla base di scaglioni demografici. Vengono, così, individuate tre soglie di pervasività della disciplina, parametrate alla popolazione comunale: superiore ai 15.000 abitanti, compresa tra i 5.000 ed i 15.000 abitanti ovvero inferiore ai 5.000 abitanti (c.d. piccoli comuni).
Per tutti i comuni con più di 5.000 abitanti la regola è che le liste elettorali debbano essere predisposte in modo tale che «nessuno dei due sessi» possa «essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati»[4]. A tale previsione si affianca il meccanismo della doppia preferenza di genere, che offre all’elettore la possibilità di esprimere due preferenze a candidati di sesso differente, secondo il sistema ampiamente scrutinato e legittimato dalla Corte costituzionale[5].
Sul versante sanzionatorio, nel caso in cui uno dei due generi sia rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, nei comuni con più di 15.000 abitanti la Commissione elettorale è incaricata dell’estromissione dalla lista dei soggetti appartenenti al sesso sovrarappresentato, partendo dall’ultimo in elenco. La lista non rispettosa della quota di genere non viene, dunque, considerata ipso facto inammissibile: essa può essere ricusata soltanto laddove, dopo le cancellazioni, contenga un numero di candidati inferiore al minimo prescritto dalla legge. Nei comuni di medie dimensioni, con popolazione compresa fra i 5.000 ed i 15.000 abitanti, la portata precettiva della misura si alleggerisce notevolmente. L’opera di cancellazione della Commissione elettorale non può, infatti, mai produrre la riduzione dei candidati ad un numero inferiore al minimo prescritto dalla legge per la composizione delle liste. A tale numero minimo l’azione della Commissione elettorale deve, dunque, sempre arrestarsi e l’impossibilità numerica di rispettare la quota non comporterà la decadenza della lista, ma soltanto la riduzione dello squilibrio di genere.
Ancor meno incisiva è la normativa prevista per i comuni con meno di 5.000 abitanti (che in Italia rappresentano circa il 70% del totale[6]), laddove il legislatore si è “accontentato” di prescrivere – alla luce del principio maturato dalla Consulta[7] con la sentenza n. 49/2003 – esclusivamente l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste.
La ratio della riduzione della soglia di tutela potrebbe, in tal contesto, essere rinvenuta nella necessità di non paralizzare – in ambiti territoriali particolarmente ristretti – l’azione dei partiti nella formazione delle liste. Il bilanciamento del principio di parità di genere con i principi della partecipazione democratica e del pieno collegamento dei rappresentanti politici con il territorio viene, dunque, tradotto in un meccanismo di connotato da una maggiore flessibilità, espressione di equilibrio tra la presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali e la maggiore rappresentatività possibile dei territori. Senonché, l’assenza di una esplicita sanzione per la violazione della seppur minima garanzia paritaria prevista della norma ha prodotto effetti estremamente iniqui sul piano pratico, determinando la diffusissima disapplicazione dei relativi precetti.
Basti pensare che, tra i piccoli comuni che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale del 2021, solo uno su due ha garantito una adeguata presenza di entrambi i sessi nelle liste, mentre in ben 79 comuni la presenza maschile è stata superiore all’80% del totale dei candidati[8]. Il dato è chiaro: nei contesti territoriali di modeste dimensioni, che pure rappresentano centri propulsivi di assoluta importanza nella vita del Paese, la tutela della parità di genere ed i precetti dell’art. 51 Cost. risultano ampiamente disattesi.
2. Il caso: l’evidenza del vulnus di tutela e la rimessione della questione alla Corte costituzionale
La vicenda esaminata trae origine dalla competizione elettorale svoltasi nel 2020 in un piccolo comune campano, nel corso della quale una lista composta esclusivamente da candidati di sesso maschile aveva ottenuto tre seggi in Consiglio comunale. I primi due candidati non eletti avevano, dunque, adito il T.A.R. Campania, lamentando l’alterazione del risultato elettorale dovuto alla mancata ricusazione della lista che – in spregio a quanto previsto dall’art. 71, comma 3-bis del T.U.E.L. – aveva presentato candidature monogenere.
Il Giudice amministrativo di primo grado, però, pur rilevando che la l. n. 215/2012, nel modificare il D.lgs. 267/2000 ed il d.P.r. n. 570/1960, ha previsto un controllo e un diretto intervento delle commissioni elettorali circondariali al fine di garantire la rappresentanza di entrambi i sessi nelle liste dei candidati, evidenziava che – con specifico riguardo ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti – la stessa legge non ha disposto alcuna misura sanzionatoria (tantomeno quella della ricusazione) a carico di chi non rispetti tali prescrizioni. Pertanto, escludendo la possibilità di ricorrere ad un’interpretazione analogica della disposizione riferita ai comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, il T.A.R. Campania concludeva per il rigetto del ricorso.
In sede di appello – ribadita l’impossibilità di attuare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, pure ricorrendo all’analogia iuris – la Terza Sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 4294 del 4 giugno 2021, ha ritenuto sussistenti i presupposti per sollevare una questione di legittimità costituzionale. Nello specifico, i Giudici di Palazzo Spada hanno sottoposto all’esame della Consulta la tenuta costituzionale dell’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000 «nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti», e dell’art. 30, lett. d) bis ed e) del d.P.R. n. 570/60, «nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti», per contrasto con gli artt. 51, 3 e 117 comma 1 della Costituzione (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU ed all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU).
Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’ordinanza di rimessione ha valorizzato la «natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica»[9] dell’art. 51 Cost. e, parallelamente, il fondamentale dovere della Repubblica – che da esso discende – di adottare adeguate misure promozionali ai fini della tutela di quel «patrimonio umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere»[10]. Secondo il ragionamento del Giudice amministrativo, considerando obiettivo primario della legge proprio quello di garantire la parità di genere attraverso interventi di riequilibrio, la circostanza che nella maggior parte dei Comuni italiani tali interventi siano di fatto paralizzati dall’assenza di un meccanismo sanzionatorio, finisce per svuotare lo stesso principio di parità di genere della sua effettività e determina, di conseguenza, un preoccupante vulnus di tutela.
In relazione alla violazione dell’art. 3 della Costituzione, il Consiglio di Stato ha, poi, rilevato l’iniquità del regime di differenziazione parametrato alle dimensioni degli enti comunali. Da tale meccanismo discenderebbe, infatti, una discriminazione a valenza bidirezionale idonea, da una parte, ad alterare l’equilibrio tra generi nei piccoli comuni e, dall’altro, a privilegiare i soggetti di genere femminile residenti in comuni con più di 5.000 abitanti, rispetto a quelli residenti nei comuni di piccole dimensioni. La diversità di trattamento riservata ai comuni minori non sarebbe, peraltro, giustificabile dalla presunta difficoltà di individuare donne candidate in contesti abitativi di piccole dimensioni, considerato che non vi è un obbligo di candidare persone residenti nello stesso comune e che, in ogni caso, eventuali difficoltà derivanti dalla carenza demografica prescinderebbero dal genere dei candidati.
Interessante il richiamo, operato in chiusura, a quella giurisprudenza amministrativa[11] che ha considerato la corretta attuazione del principio di equilibrio di genere alla stregua di un parametro di legittimità sostanziale e di garanzia di “funzionalità” degli apparati amministrativi, al fine del miglior perseguimento degli obiettivi di efficienza, imparzialità e buon andamento dell’azione pubblica. Vista da tale prospettiva, la composizione principalmente monogenere degli organi politici assume un’ulteriore connotazione negativa, poiché, al di là della lesione di diritti costituzionalmente garantiti, determina una vera e propria patologia del sistema democratico. L’aporia rappresentativa influisce direttamente sulla qualità del dialogo istituzionale: lo impoverisce drasticamente, limita la visuale e l’incisività delle azioni politiche che da esso derivano e causa, in sostanza, uno scollamento tra vita politica e società civile, producendo il doppio deficit di rappresentanza e di funzionalità.
3. La decisione: la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto di trattare congiuntamente le censure sollevate dall’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, considerandole sostanzialmente convergenti nella sostenuta violazione dell’obbligo costituzionale di promozione della parità di genere nell’accesso alle cariche elettive e nella conseguente irragionevolezza e sproporzione delle scelte operate a tal fine dalla legislazione vigente. Ha, invece, considerato assorbito il riferimento all’art. 117, in relazione all’art. 14 ed all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 12 della CEDU.
L’argomentazione del Giudice costituzionale si è assestata sostanzialmente sull’iter valutativo già condotto dal Consiglio di Stato. Così, premesso il riconoscimento dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode in campo elettorale (che pienamente giustifica, tra le altre cose, la graduazione delle misure in ragione delle dimensioni degli enti comunali)[12], la Consulta ha spiegato come, nella materia in esame, il dettato legislativo debba essere sempre coerente con l’obbligo costituzionale di «promuove[re] attraverso appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», così come prescritto dall’art. 51 Cost. Di conseguenza, una disciplina elettorale che ometta di contemplare adeguate misure di promozione o che le escluda per determinate categorie di enti, non potrebbe che essere ritenuta costituzionalmente illegittima.
Invero – come già rilevato (e come pure la Corte costituzionale ha evidenziato nel ricostruire la disciplina vigente) – l’art. 71 comma 3-bis del d. Lgs. n. 267/2000, con riferimento ai piccoli comuni, contempla una basica prescrizione attuativa del principio di parità di genere. La norma prescrive, infatti, l’obbligatoria presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali, realizzando quella «misura minima di non discriminazione» cristallizzata dalla nota pronuncia del 2003 resa dalla stessa Consulta con riferimento alla legge elettorale valdostana[13].
Tale disposizione, essendo sprovvista di qualsivoglia rimedio per i casi di violazione dell’obbligo che da essa discende, risulta però totalmente carente di effettività. Tamquam non esset, alla stregua di un fenomeno di normativa rinnegante[14], che si manifesta nello scostamento tra il principio affermato in sede normativa e la sua stessa tangibilità[15]: le regole, seppur formalmente sancite, vengono “rinnegate” in sede applicativa dai soggetti che dovrebbero attuarle, senza che l’ordinamento preveda a tal guisa alcun rimedio.
Il vulnus di tutela è, dunque, evidente e, ad avviso della Corte, la violazione del dettato costituzionale non può essere compensata neppure facendo leva sul bilanciamento tra il principio di equilibrio di genere ed altri principi costituzionalmente rilevanti, in particolare quello di rappresentatività. Un’apposita difesa in tal senso era stata, peraltro, prospettata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui – benché la normativa vigente non limiti la candidatura ai soli soggetti residenti nel territorio comunale nel quale si svolge la competizione elettorale – la possibile carenza di candidati nelle comunità di piccole dimensioni potrebbe determinare, in presenza di vincoli numerici, la formazione di liste elettorali distanti dall’ente amministrato. Pur considerando tale profilo, la Corte costituzionale ha, tuttavia, ribadito che la soluzione adottata dal legislatore si dimostra manifestamente irragionevole, poiché – oltre a sacrificare oltre il dovuto il principio di parità di genere – determina un’eccessiva ed ingiustificata disparità di trattamento, tanto tra i diversi enti comunali, quanto tra gli aspiranti candidati nei rispettivi comuni.
In conclusione, ferma restando la possibilità per il legislatore di individuare – nell’ambito della propria discrezionalità – una nuova soluzione rispettosa dei principi costituzionali, la Corte ha ritenuto necessario disporre, in tutti i casi di mancato rispetto dell’art. 71-bis, comma 3 del T.U.E.L., l’estensione della sanzione dell’esclusione della lista (già prevista per i comuni di più ampie dimensioni) alla disciplina elettorale dei piccoli comuni.
4. Concludendo
La vicenda esaminata consente di effettuare alcune riflessioni sul modo di attuazione del principio di equilibrio di genere nel nostro ordinamento.
Una premessa è, però, a tal fine necessaria. La costituzionalizzazione della tutela positiva della parità di genere[16], in particolare nell’ambito della rappresentanza politica, ha avviato un complesso processo di sedimentazione normativa e giurisprudenziale che ha condotto alla reinterpretazione – in virtù del rinnovamento profondo dei termini di bilanciamento – degli stessi principi costituzionali che informano la soggettività politica dei cittadini. Alla luce di tali principi, deve essere dunque ben chiaro che tutelare la parità di genere non vuol dire promuovere l’inclusione condizionata in determinati settori di soggetti “deboli”: l’essere donna (o uomo) non è condizione di appartenenza ad una categoria, non è accostabile a gruppi predeterminati o, peggio, minoritari[17], ma rappresenta un fattore irriducibile della stessa persona umana. Il principio di parità tra i sessi si configura, dunque, come irrinunciabile elemento costitutivo di qualsivoglia sistema statale costruito sui principi di libertà ed uguaglianza e proteso al buon funzionamento delle sue istituzioni[18].
Partendo da tali presupposti, in dottrina è stato elaborato il concetto di “democrazia paritaria”, proprio al fine di valorizzare il pieno sviluppo dei diritti e dei doveri connessi alla cittadinanza per entrambi i generi e superare la logica della tutela paternalista di individui deboli per definizione. Obiettivo primario, in tale ottica, è l’affermazione concreta di una nuova eguaglianza formale – intesa come assenza di discriminazioni – che miri a riequilibrare le condizioni di partenza, influendo tanto sulla vita pubblica, quanto sulla sfera privata di tutti i cittadini[19]. Tale nozione è stata fatta propria anche da parte della giurisprudenza amministrativa, secondo cui «(l)a portata della disposizione di cui all’art. 51 Cost., immediatamente e concretamente applicabile nei rapporti intersoggettivi, determina (...) un particolare modo di essere e di agire in capo a qualsiasi soggetto pubblico (...): quello ovverossia di provvedere, quale che sia l’oggetto dei singoli interventi, sulla base dei canoni della c.d. democrazia paritaria»[20].
Se si assume il concetto di democrazia paritaria come punto di partenza, l’analisi della questione del riequilibrio di genere nelle assemblee elettive (e degli strumenti normativi a tale scopo previsti dall’ordinamento) cambia radicalmente prospettiva. Essa non può, infatti, arrestarsi ad un mero dato statistico, ma deve calarsi nel merito della qualità della democrazia rappresentativa, alla luce delle istanze emergenti dal contesto sociale. Così, quella strana vocazione a considerare la parità di genere come una questione formale, un tecnicismo volto ad inserire forzatamente soggetti di genere femminile nella sfera pubblica perde di significato, poiché è la tendenza sociale all’assenza sostanziale di una parte dei cittadini dalle istituzioni a costituire il vero problema. Le stesse misure poste a sostegno della rappresentanza femminile mostrano, infatti, tutta la loro inadeguatezza ed ineffettività proprio quando – come nel caso in esame – non sono accompagnate dalla reale consapevolezza, sul piano culturale, del valore della diversità di genere o, peggio, quando si assestano sulla asettica necessità di una presenza che non sia non realmente partecipativa.
Appare, allora, evidente che – al di là della fondamentale affermazione del principio costituzionale sancito dall’art. 51 Cost. – l’effettività di quelle misure che il legislatore deve porre a presidio della bilanciata presenza dei sessi nell’accesso alle cariche elettive non può prescindere dalla realizzazione di un processo culturale di autoriforma delle forze politiche[21] che preveda, innanzitutto, l’impiego di reali criteri di selezione delle candidature, idonei a garantire non soltanto la quantità, ma soprattutto la qualità della rappresentanza politica per entrambi i generi[22] ed a realizzare quel passaggio – doveroso – da una politica della presenza ad una politica delle idee.
[1] Com’è noto, la Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12 giugno 2003, ha modificato l’articolo 51 della Costituzione, inserendo – accanto alla previsione secondo cui «[t]utti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», il dovere della Repubblica di «promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità fra uomini e donne». L’intervento della legge costituzionale ha, dunque, previsto il dovere giuridico in capo allo Stato ed alle Regioni di legiferare in attuazione della novellata norma costituzionale.
[2] Cfr., le importantissime sentenze della Consulta n. 49/2003 e n. 4/2010, entrambe in www.cortecostituzionale.it. In particolare, con riferimento alla c.d. doppia preferenza di genere – introdotta dalla legge elettorale campana – la Corte ha considerato determinante la circostanza che all’elettore sia consentito di non avvalersi della seconda preferenza e che solo quest’ultima sia travolta da invalidità nel caso in cui non sia rispettata l’alternanza di genere: i votanti, infatti, potrebbero ben disattendere il fine perseguito dal legislatore, semplicemente votando per un unico candidato. Peraltro, proprio nel sindacare la legittimità di tale meccanismo, la Consulta ha fornito un’interpretazione ancor più pregnante del principio di parità di genere, calandolo in una dimensione ultra-individuale, fatta di connotazioni più strettamente sociali ed accogliendo pienamente la tesi secondo cui, nella sua nuova veste, l’art. 51 Cost. giustificherebbe l’adozione di misure direttamente attuative del principio di uguaglianza sostanziale.
[3] La legge n. 215/2012 si è occupata anche della individuazione dei principi fondamentali a cui il legislatore regionale deve far riferimento nella predisposizione della propria normativa elettorale. Rilevanti sono, poi, le norme volte a consolidare la parità di genere nelle giunte e, più in generale, in tutti gli organi collegiali non elettivi degli enti locali. Non vengono, invece, disciplinate le elezioni dei consigli provinciali, successivamente regolamentate dalla legge 7 aprile 2014, n. 56, c.d. Legge Delrio. Per una più approfondita analisi di questi ed altri profili, sia consentito rinviare a S. Gardini, Equilibri di genere negli organi di rappresentanza politica, in Diritto e processo amministrativo, 1/2017.
[4] Con arrotondamento all’unità superiore per il genere meno rappresentato, anche in caso di cifra decimale inferiore a 0,5. È questa la c.d. “quota di lista”. Cfr., art. 71, comma 3-bis T.U.E.L.
[5] Cfr., supra, nota 2.
[6] Su un totale di 7904 Comuni italiani (dati Istat al 20 febbraio 2021), circa 5.500 (secondo il rapporto ANCI “Atlante dei piccoli comuni” del 5 luglio 2019) sono formati da meno di 5.000 abitanti. La popolazione residente in questi enti è pari a quasi dieci milioni di abitanti.
[7] Il giudizio riguardava la norma secondo cui le liste elettorali per l’elezione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta dovessero comprendere, a pena di invalidità, candidati di entrambi i sessi. Secondo la Corte, tale norma «non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di chances delle liste e dei candidati e delle candidate nella competizione elettorale, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva» e «può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità (…) di equilibrio della rappresentanza» (cfr., Corte costituzionale, sent. 10.02.2003, n. 49, in www.cortecostituzionale.it). La pronuncia ha segnato uno dei passaggi fondamentali nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di parità di genere. Per un approfondimento dottrinale, si vedano: L. Carlassare, La parità di accesso alle cariche elettive nella sentenza n. 49: la fine di un equivoco, in Giur. Cost., n.1/2003, 364 ss.; A. Deffenu, Parità dei sessi in politica e controllo della Corte: un revirement circondato da limiti e precauzioni, in Le Regioni, n.5/2003, 918-928; S. Mabellini, Equilibrio dei sessi e rappresentanza politica: un revirement della Corte, in Giur cost., n.1/2003, 372 ss.
[8] I dati sono estrapolati dalle informazioni rese note dal Ministero dell’Interno e consultabili all’indirizzo web www.interno.gov.it/it/speciali/elezioni-2021.
[9] Cfr., punto 15 dell’Ordinanza di rimessione. Il discusso discrimen tra norme programmatiche, applicabili solo dopo un apposito intervento del legislatore e norme precettive, immediatamente cogenti – a ben vedere – può essere fortemente ridimensionato sul piano degli effetti. Come ha rilevato la stessa Corte costituzionale, infatti, «il concetto di norma programmatica non è un indice negativo di qualificazione della disposizione» (cfr., Corte cost., sent. n. 81/2012) ed il proprium delle norme programmatiche non si rinviene tout court nell’assenza di precettività, ma si manifesta nella speciale natura del precetto che esse esprimono, volto alla determinazione di un principio dell’ordinamento, utilizzabile tanto per il superamento delle lacune e delle aporie della legge, quanto in sede di interpretazione sistematica. In dottrina, sulla normatività delle disposizioni costituzionali anche cd. programmatiche, resta insuperato l’insegnamento di V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952. Ritiene che in capo ai principi positivizzati in Costituzione debba essere riconosciuta una funzione suppletiva, integrativa e correttiva delle regole G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006, 114 ss., mentre secondo l’autorevole ricostruzione di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 158 ss., la funzione meramente accessoria dei principi costituzionali rispetto alle regole legislative è frutto di un vero e proprio pregiudizio positivistico, per il quale «alla fine, le vere norme siano le regole, mentre i principi siano un sovrappiù, qualcosa di cui si sente la necessità solo come “valvole di sicurezza” dell’ordinamento».
[10] Cfr. Cons. di Stato, Sez. I, 4 giugno 2014, parere n. 1801, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Cfr., in particolare, T.A.R. Lazio, 25 luglio 2011, n. 6673, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] In essa si esprime, infatti, al massimo della sua pervasività la politicità della scelta legislativa, che risulta pertanto censurabile solo quando risulti manifestamente irragionevole. Cfr., Corte cost., sent. nn. 35/2017, 1/2014 e 242/2012, tutte in www.cortecostituzionale.it.
[13] Cfr., nota 7.
[14] Il concetto di “normativa rinnegante” fu elaborato, com’è noto, da I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, I ed., Milano, 1979. L’A. identificò con tale locuzione la tecnica di redazione normativa tipica dei regimi nei quali il potere pone in essere regole formali che consentano di agire legibus solutus sul piano sostanziale.
[15] Parla di “diritti dimezzati” sotto il profilo dell’effettività S. Gambino, Sui limiti della democrazia paritaria in Italia, in Verso una democrazia paritaria. Modelli e percorsi per la piena partecipazione delle donne alla vita politica e istituzionale, a cura di A. Falcone, Milano, 2011, 10.
[16] Il principio de quo ha una piena autonomia, anche sul fronte costituzionale. Esso trae origine, storicamente e concettualmente, dal principio di uguaglianza sostanziale, ma non può essere considerato come un mero corollario dell’art. 3, comma 2 della Costituzione. Cfr., A. Deffenu, Il principio di pari opportunità di genere nelle istituzioni politiche, Torino, 2012, 11.
[17] Cfr. M. Barbera, L’eccezione e la regola, ovvero l’eguaglianza come apologia dello status quo, in Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, a cura di B. Beccalli, Milano, 1999, 115: «le donne non sono una minoranza ma una maggioranza» e «(...) l’essere donna non costituisce la categoria di un gruppo di interesse fra gli altri, ma di un modo di essere della persona umana».
[18] Cfr. G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà e uguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, passim.
[19] Per un’analisi approfondita del concetto di “democrazia paritaria” e delle sue possibili implicazioni sul sistema costituzionale, si rinvia alla riflessione di M. D’Amico, Il difficile cammino della democrazia paritaria, Torino, 2011, passim, nonché agli acuti inquadramenti di G. Brunelli, Donne e politica, Bologna, 2006, 21 ss. La complessa tematica della cittadinanza e la sua più specifica ed incompiuta declinazione “al femminile” non può, in tale sede, essere oggetto di approfondimento. Si rinvia, dunque, alla riflessione di A. E. Galeotti, Cittadinanza e differenza di genere, in Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, a cura di G. Bonacchi e A. Groppi, Roma-Bari, 1993, 190 ss. Sul punto, si veda anche A. Sabbatini, Donne e welfare. Una cittadinanza incompiuta, in La Rivista delle politiche sociali, 2/2009, 7-15.
[20] In tali termini: T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, n. 622/2010; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, n. 14310/2010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Vero è che negli statuti di ogni partito politico – in linea con quanto stabilito dal decreto-legge sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto ai partiti (D.l. 28 dicembre 2013, n. 149, convertito dalla l. n. 13/2014) – sono presenti previsioni dedicate al rispetto della parità di genere. La presenza maschile risulta, però, ancora irriducibilmente dominante. La stessa Legge individua un meccanismo sanzionatorio soltanto in relazione alle elezioni politiche nazionali. Infatti, nel caso in cui, nel numero complessivo dei candidati presentati da un partito per ciascuna elezione della Camera, del Senato e del Parlamento europeo, uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40%, è prevista la riduzione delle risorse spettanti allo stesso partito a titolo di “due per mille”. In particolare, la misura della riduzione è pari allo 0,5% per ogni punto percentuale al di sotto del 40%, fino al limite massimo complessivo del 10%.
[22] Cfr., P. Scarlatti, La declinazione del principio di parità di genere nel sistema elettorale politico nazionale alla luce della legge 3 novembre 2017, n. 165, in Nomos, 2/2018.