Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus
di Tomaso Epidendio
sommario: 1.Premessa - 2.Lo stato di eccezione in “senso forte” e “in senso debole”- 3.Giustiziabilità, temporaneità e proporzione
1.Premessa
In limine una domanda: ha ancora un senso discutere di diritto mentre si è assediati dall’epidemia e i morti vengono portati fuori dalle città a bordo di mezzi militari?
Si succedono i decreti d’urgenza (del Governo, delle Regioni, di diversi Ministeri), si restringono progressivamente le libertà di circolazione e di iniziativa economica, si profila l’applicazione di norme incriminatrici di progressiva gravità per chi violi le disposizioni dei decreti legge e della normativa secondaria (emanata in base ad essi); nel contempo i processi vengono rinviati d’ufficio e sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia, vengono attribuiti poteri straordinari ai dirigenti degli uffici giudiziari e a varie autorità amministrative.
Le istituzioni rispondono così alla “nuda vita” che reclama il suo diritto alla sopravvivenza, alla paura primaria di morire: in tutto questo, può davvero avere ancora un senso discutere di questa produzione normativa in termini di principio di legalità e di riserva di legge, di rispetto dei limiti della decretazione d’urgenza, di riparto di competenze statali e regionali, di competenze giurisdizionali e amministrative, di norme penali “in bianco”, di sussumibilità in fattispecie di incriminazione sulla base di argomenti letterali, sistematici, a contrario, o teleologici.
Non si rischia forse di assomigliare ai padri conciliari della leggenda, che vuole impegnati a discutere del sesso degli angeli mentre Bisanzio sta per cadere assediata dai Turchi, o – peggio ancora – non si rischia di far la fine del don Ferrante manzoniano che, tentando arguti sillogismi aristotelici, finisce per morire di peste prendendosela con le stelle come un eroe di Metastasio mentre la sua famosa libreria è dispersa su per i muriccioli?
Io credo che, proprio quando la “nuda vita” entra in gioco e si affaccia nel diritto l’irrazionalismo della paura, il diritto sembra eclissarsi e, per dirla con Benjamin, rischia di diventare “violenza pura”, i giuristi, la classe forense e tutti gli operatori giuridici non solo “possono”, ma “devono” parlare.
Il problema è il “modo” in cui parlare: esso deve essere adeguato al contesto in cui interviene questa decretazione d’urgenza (legislativa e amministrativa) e la cui analisi, se trattata con le ordinarie categorie giuridiche, finirebbe per apparire autoreferenziale e forse un poco vacua.
2. Lo stato di eccezione in “senso forte” e “in senso debole”
Occorre guardare in faccia la realtà e prendere atto che non ci troviamo di fronte a una semplice “normazione emergenziale”, ma viviamo in una condizione affatto particolare, che sembra ricordare da vicino quella usualmente descritta come “stato di eccezione”.
Con questa espressione, non si designa, infatti, una semplice situazione che costituisce una eccezione rispetto a una regola, o genericamente una normativa eccezionale, ma una sorta di sospensione dell’ordine giuridico vigente prevista da quel medesimo ordine giuridico, una sorta di “autonegazione del diritto”, che si situa in una zona intermedia tra il giuridico e l’extra-giuridico, tra la legge e il mero esercizio della forza. Agamben, ad esempio, individua efficacemente l’archetipo dello “stato di eccezione” nel iustitium del diritto romano, proclamato in caso di grave pericolo per la Repubblica da un senatus consultum ultimum, che determinava la momentanea sospensione delle leggi con l’attribuzione ai magistrati di un potere illimitato: non si trattava, dunque, di una presa di potere rivoluzionaria, basata solo sulla sola forza, ma dell’esercizio di poteri che, pur sganciati da vincoli legali nel loro esercizio, restavano pur sempre fondati, nella loro genesi, sul diritto che, quasi paradossalmente, applicandosi si auto-sospendeva; un diritto che negandosi si afferma come tale.
Questo “stato di eccezione”, inteso in senso forte, non sembra abbia alcuno spazio nel nostro ordinamento: manca (per fortuna) una norma come l’art. 48 della Costituzione di Weimar o come la Costituzione del Brumaio che, durante la rivoluzione francese, aveva consentito di proclamare lo “stato di assedio”: nessuno può neppure lontanamente sognarsi di sospendere il diritto, a meno di non farlo con un atto di mera forza, che come tale si porrebbe totalmente al di fuori del diritto. L’art. 1 della nostra Costituzione è chiaro: la sovranità appartiene al popolo che, tuttavia, la può esercitare solo nelle forme e nei limiti della Costituzione. Nessuna possibilità di sospensione del diritto, nessuno spazio ad aree di indistinzione tra diritto e mera forza.
E’ pur vero che esistono nella Costituzione molteplici riferimenti a situazioni eccezionali legittimanti (art. 13 e 81 Cost.), a situazioni di urgenza (artt. 13, 21, 72, 73 e 77 Cost.), a situazioni di necessità (art.13, 50 e 77 Cost.): infine, ma non per importanza, l’art. 16 Cost. stabilisce che possano essere poste limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno per “motivi di sanità o di sicurezza”, ma solo se previste dalla “legge” e “in generale”. Nessuna di queste disposizioni, tuttavia, ammette che si possa “sospendere” il diritto e attribuire ad alcuno “pieni poteri”, non per ragioni di sanità pubblica e, anche per lo “stato di guerra” (artt. 78 e 87 Cost.), è previsto che sia dichiarato dal Presidente della Repubblica a seguito di delibera del Parlamento, il quale conferisce al “Governo” i “poteri necessari”, così come solo per “il tempo di guerra” è possibile “derogare” (non sospendere) i principi del giusto processo ex art. 111 Cost.; gli stessi Tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione “stabilita dalla legge” (art. 103 Cost.) e ancora solo “per legge” può essere prorogata la durata in carica delle Camere (art. 60 Cost.). Troppo vicini erano, del resto e per fortuna, i tristi epiloghi dei “totalitarismi” e i nostri padri costituenti li avevano ben presenti e hanno inteso preservarcene. Sarebbe davvero un peccato non fare tesoro dell’eredità che in questo senso ci è stata consegnata.
Occorre fare attenzione, dunque, ad ogni forzatura filosofica che veda stati di eccezione dove vi è solo cattivo diritto o addirittura soltanto esecrabili “atti di forza”.
Eppure credo esista uno stato di eccezione in “senso debole”, che è quello che descrive la situazione che stiamo vivendo.
Da un lato, infatti, la normazione primaria e secondaria che è stata oggi adottata non sembra inscrivibile in una “mera” normativa dell’emergenza, come tante ve ne sono state anche nel passato relativamente recente (si pensi alla legislazione in materia di terrorismo): la “normazione emergenziale”, in questa accezione, trova sì la sua causa legittimante in una situazione extra-giuridica di emergenza, che giustifica, sotto il profilo della ragionevolezza e della accettabilità politica, una disciplina di particolare rigore che, tuttavia, non attribuisce poteri extra-ordinem, nel senso di poteri attribuiti a soggetti che normalmente ne sono privi e rispetto a quali non è possibile alcun controllo sul loro esercizio, come avviene nello stato di eccezione in “senso forte”.
D’altro canto, la decretazione d’urgenza che stiamo trattando, attribuisce sì poteri eccezionali, ma non sembra sottrarli ad alcun controllo, non apre cioè una situazione di “anomia” come quella che caratterizzerebbe uno stato di eccezione in senso forte: sembra pur sempre possibile ricorrere alla giustizia amministrativa per annullare atti che siano illegittimi o ricorrere alla Corte costituzionale perché dichiari l’illegittimità costituzionale di atti aventi forza di legge, che costituiscono la base legale degli atti amministrativi adottati ai vari livelli (Statali, regionali, ecc…).
Ci troviamo, dunque, di fronte a una normativa che, per un verso, prevede l’attribuzione di poteri eccezionali che trovano la loro legittimazione genetica in una situazione di grave pericolo per la sopravvivenza dello Stato (nella sua stessa dimensione essenziale di sopravvivenza del “popolo”) e, in questo, essa si avvicina a un vero e proprio stato di eccezione; per altro verso, tuttavia, questi poteri non sono del tutto sottratti al “diritto”, ma essi non possono essere “valutati” secondo le “ordinarie” categorie giuridiche: la situazione induce cioè a ritenere “ragionevole” una valutazione giuridica secondo categorie “non ordinarie” e ciò, si badi bene, vale non solo in malam partem (si pensi alle pesanti limitazioni di varie libertà e imposizioni di obblighi assistiti da sanzioni penali), ma anche in bonam partem (si pensi alle giuste rivendicazioni di strumenti penitenziari eccezionali da parte dell’Associazione dei Professori di Diritto penale, per tutelare i detenuti dal pericolo di contagio).
Orbene questa situazione – che si caratterizza per l’attribuzione di poteri eccezionali (come in qualsiasi stato di eccezione), i quali, tuttavia, non sono sottratti a qualsiasi controllo giuridico (non introducono cioè uno stato di totale “anomia” come per lo stato di eccezione in senso forte), ma sollecitano la loro valutazione secondo peculiari categorie giuridiche, essendo “sospese” quelle ordinarie – può essere chiamata stato di eccezione “in senso debole”.
Riconoscere in questi casi uno “stato di eccezione”, nel “senso debole” che si è precisato, non è un inutile bizantinismo, ma serve a salvaguardare da un duplice e concretissimo rischio.
In primo luogo evitare che, di fronte a situazioni extra-giuridiche eccezionali, che spingono la popolazione a ritenere accettabili limitazioni dei diritti fondamentali altrimenti impensabili, queste limitazioni possano ritenersi giuridicamente ordinarie, legittimabili attraverso le ordinarie categorie giuridiche, così da determinare una sorta di “assuefazione” alla compressione di diritti fondamentali, una “normalità della eccezione” che finisca per legittimare la compressione di diritti oltre la situazione eccezionale e che, come storicamente è purtroppo avvenuto, potrebbe avere esiti catastrofici per la tenuta dell’ordinamento.
In secondo luogo riconoscere che questo stato di eccezione ha le sue categorie, che consentono di circoscriverlo e contenerlo giuridicamente, cosicché anche durante la permanenza di situazioni eccezionali non si può ritenere che il diritto abdichi a se stesso e che vi sia uno “stato di eccezione” nel senso classico del termine, del “iustitium” romano, che come detto non è ammesso dalla nostra Costituzione, ma senza neppure trascurare il peso che la situazione extra-giuridica eccezionale ha sull’esistenza del diritto e che determina lo “stato di eccezione” nel senso più limitato che ho inteso attribuirgli in questa sede, così da rispondere alla possibile accusa di “donferrantismo” e di incomprensione da parte del ceto politico e in genere dai non giuristi e rendere efficace una discussione in termini giuridici che, si faccia attenzione, lascia aperta la questione della compatibilità costituzionale di uno stato di eccezione anche in senso debole quale quello delineato dalla normativa in esame.
3.Giustiziabilità, temporaneità e proporzione
Prima di entrare più nel dettaglio della normativa ed esaminare la compatibilità con la Costituzione dello stato di eccezione in senso debole, occorre precisare (in senso stipulativo-descrittivo) quali siano le categorie giuridiche “sostitutive” di quelle “ordinarie”, che operano nello stato di eccezione in “senso debole”.
La prima, che lo distingue dallo stato di eccezione in senso forte, è quella della “giustiziabilità”.
Il pericolo del contagio, infatti, ben può giustificare il rinvio delle udienze e financo una parziale paralisi dell’attività giudiziaria (alle ulteriori condizioni della temporaneità e della proporzione che si tratteranno di seguito), ma non potrebbe consentire di sospendere il controllo giurisdizionale sulla stessa normativa di eccezione e sulla compressione di diritti fondamentali, anche durante lo stato di eccezione. Da qui l’importanza e l’accettabilità di forme altrimenti impensabili di celebrazione di talune udienze e di deposito degli atti e dei provvedimenti giurisdizionali, che consentano di salvaguardare la vita degli operatori e al contempo assicurare la tutela dei diritti fondamentali. Dall’altro l’opportunità, contro la teoria cd. “inflazionistica” dei diritti fondamentali, di ridiscutere lo statuto “fondamentale” dei diritti, proprio per evitare che una indiscriminata equiparazione di tutti i diritti porti a una “notte hegeliana dei diritti” stessi, in cui, cioè, tutti i diritti siano vacche nere indistinguibili nella notte, e tutte ugualmente sacrificabili di fronte all’emergenza: non tutti i diritti sono uguali e solo alcuni sono “fondamentali” e “inalienabili”.
La seconda è quella della “temporaneità”.
Lo stato di eccezione può essere tale solo fino a che la situazione extra-giuridica di esiziale gravità sussista e, dunque, la correlata normativa non può che essere temporalmente limitata al perdurare della situazione di fatto e non può consolidare compressioni definitive di alcun diritto.
La terza è quella della “proporzione” dei poteri previsti.
Intendo proporzione nel senso tecnico-specifico di poteri “idonei” a uno scopo legittimo”, rappresentato dalla tutela del bene-vita di ciascuno, esposto a rischio eccezionale dalla situazione-extragiuridica verificatasi, “necessari” a tale scopo e tali da comportare il “minor sacrificio” degli altri beni (libertà personale, d’impresa, ecc…). Un principio, cioè, che consenta la controllabilità della sua osservanza non attraverso impalpabili ed evanescenti criteri di soggettiva ragionevolezza, ma secondo un “test” che verifichi la sussistenza di “scopo legittimo”, “idoneità”, “necessità” e “minor sacrificio necessario” rispetto a tale scopo.
Così ricostruita, attraverso le pertinenti categorie, l’identità dello stato di eccezione in senso debole, si può passare ad esaminare la normativa adottata negli odierni frangenti e procedere alle relative valutazioni, anche di compatibilità costituzionale.
- -Fine prima parte.