Democrazia, comunicazione e diritti nel tempo del Coronavirus. (*)
di Salvatore Aleo
Sommario: 1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a casa e attività on-line; 2. La dimensione politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le forzature costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia; 3. Auspici di semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e riduzione dello strumento penalistico; 4. Il carcere e le scarcerazioni; 5. Tutela della sanità e funzione giurisdizionale.
1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a casa e attività on-line
Le prime riflessioni sull’esperienza fatta fin qui del Coronavirus riguardano la velocità della diffusione del virus nel mondo globalizzato, operata dai trasporti e dagli spostamenti di ingenti quantità di persone, e la sensazione di paura, la preoccupazione da cui tutti siamo stati colpiti, come da una valanga lenta e inesorabile.
Ci siamo ritirati in casa e da lì abbiamo svolto le nostre attività lavorative e sociali attraverso le tecnologie della comunicazione, soprattutto informatiche.
Senza di queste, non avremmo avuto comunicazioni sociali.
Una riflessione centrale riguarda ovviamente la rilevanza dello strumento informatico. Il virtuale, generato da strumento informatico, ha avuto il sopravvento sul materiale, sul fisico. I processi di dematerializzazione sono diventati modo ordinario di esercizio delle attività, sociali, lavorative, amministrative, politiche, perfino ludiche, ricreative.
In tale momento eccezionale, tutti abbiamo fatto l’importante esperienza dell’uso delle tecnologie informatiche per comunicare, per lavorare, per i nostri comuni rapporti sociali e amicali. Ovviamente sono stati avvantaggiati, nei tempi e nella qualità, i più dotati di competenze e di risorse.
Fare lezione on-line è stato interessante e difficile. Parlare senza la presenza degli interlocutori, ‘sentendone’ la presenza a distanza tramite il video e il pensiero; assoluta mancanza di tempi morti, pure di sfumature; grande concentrazione sui contenuti; contrazione dei tempi complessivi; stress. Gli studenti hanno apprezzato molto, sia lo sforzo che la modalità, che ha consentito loro di non viaggiare, di non alzarsi presto, di ascoltare la lezione seduti comodi nella propria stanza; hanno riempito di messaggi di commento e pure di ringraziamento e compiacimento la chat che accompagna la piattaforma informatica. La sensazione ovviamente superficiale è di successo della didattica praticata on line, ma con grande fatica di chi l’ha realizzata, senza averne preventiva esperienza.
Lo stesso può dirsi per le diverse forme e modalità e occasioni di comunicazione, con gli studenti, con i colleghi, con i responsabili degli uffici amministrativi.
Guai però a pensare che il virtuale possa essere equivalente rispetto al reale, per ciò che riguarda appunto l’insegnamento. La mancanza del contatto nella stessa stanza pesa sulla psicologia dei docenti e crea effetti di semplificazione e banalizzazione sui discenti, ne riduce la fiducia oltre che le competenze.
In questo periodo ha avuto una dimensione preminente la comunità familiare, con le sue dinamiche, spesso trascurate nella vita ordinaria.
La socialità si è ridotta, si è concentrata, è stata realizzata in modo virtuale, tramite strumenti e tecnologie della comunicazione. I giovani sono stati lungamente attaccati al telefono cellulare o comunicando col computer.
Molti, stando in casa, hanno letto libri e romanzi che altrimenti non avrebbero letto, pure lunghissimi: chi scrive, La camorra e poi La Sanfelice di Dumas, il secondo in due volumi di 1754 pagine, nonché le Memorie autobiografiche di Garibaldi.
Sono state indotte numerose diverse forme nuove di spettacolo e intrattenimento on line.
Sono state sacrificate le attività in comunità e in pubblico, per esempio quelle sportive. Sui canali digitali sono state esaltate la musica e le trasmissioni televisive e cinematografiche.
La comunità scientifica medica ha incontrato un fenomeno assolutamente nuovo che ha cominciato a capire e cercato di capire strada facendo, mentre questo si svolgeva. I medici sono stati ovviamente i più esposti e hanno pagato un prezzo sicuramente alto, praticamente inevitabile. Quali che fossero le condizioni sanitarie e preventive, il confronto con un virus assolutamente sconosciuto e pericolosissimo ha creato inevitabile sovraesposizione del personale sanitario.
2. La dimensione politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le forzature costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia
Su questo terreno, la riflessione fa emergere una contraddizione.
Da un lato, è indubbio che le limitazioni imposte con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri siano state sia efficaci che tempestive. Senza, avremmo avuto una esplosione della pandemia, enormemente maggiore di quella che pure è avvenuta. L’efficacia e la tempestività delle misure del nostro Governo sono state pure maggiori in confronto a quelle di Paesi che sono considerati ovvero che si considerano più avanzati e blasonati. D’altro canto, ciò è avvenuto con forzature dell’ordine giuridico e costituzionale.
La libertà di movimento e spostamento è stata compressa e limitata fortemente con atti di natura amministrativa (i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sulla base generica di un decreto legge), con ordinanze dei Presidenti delle Regioni, con interventi dei Sindaci delle città, con il supporto e l’utilizzo del rinvio a una norma penale in bianco per la sanzione dell’inosservanza dell’ordine (degli ordini) dell’autorità, appunto amministrativa.
Sul piano formale, c’è di che vincere tanti ricorsi, pure qualche questione di legittimità costituzionale.
Giova ricordare che nella Carta costituzionale le limitazioni della libertà personale sono ammesse solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e nei modi previsti dalla legge (art. 13); le limitazioni della libertà di circolazione e soggiorno sono possibili solo per legge in via generale per motivi di sanità o di sicurezza (art. 16); secondo l’art. 78 le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari.
Sul piano sostanziale, la democrazia appare forzata, ma la nostra salute è stata difesa, salvaguardata, efficacemente. Il dato difficilmente contestabile è che la gente ha avuto bisogno dell’imposizione, della minaccia penale e poliziesca, per non uscire di casa e non contagiarsi. Il ragionamento sia politico, sia giuridico, deve tener conto della, di questa, realtà. Pure comprensibile, ma poco gradita, da chi scrive, l’ostentazione di responsabili delle Procure della Repubblica, sui mezzi di comunicazione, più che delle Forze dell’ordine impegnate, invece, necessariamente, sul campo.
Una riflessione necessaria riguarda, però, il bisogno (sociale) di diritto penale, reale, per rispettare e far rispettare le cautele, e culturale, come strumento di rassicurazione, di consolidazione del rispetto delle norme. Provoca delusione, sgomento, nel penalista, oltre che consapevolezza delle ragioni forti che giustificano e sorreggono il proprio ruolo sociale, la percezione che il senso di responsabilità risulta insufficiente in mancanza della minaccia penale. Questo, a sua volta, crea condizioni comunque squilibrate (ordinariamente squilibrate, secondo l’insegnamento della storia) dei rapporti sociali, fra i ceti, fra politica e magistratura.
Una considerazione generale che si può fare riguarda i tempi e la complessità della democrazia. Hanno prevalso, per necessità ritenuta – e abbastanza condivisa, evidentemente –, le ragioni della tempestività e della semplificazione. Il linguaggio informatico implica e induce, per sé, la semplificazione, è ragione e strumento di semplificazione.
Al di là dell’emergenza di questo virus, non si possono eludere, sul piano politico e amministrativo, le necessità di semplificazione e velocità dei processi decisionali e soprattutto di quelli gestionali in confronto alle esigenze poste dalle attività umane. Si fanno qui alcune considerazioni che si ritengono valide in generale, che sono emerse con particolare evidenza e rilevanza nell’emergenza contingente.
I partiti sembrano scomparsi e la democrazia politica, quella rappresentativa, ha assunto una connotazione prevalentemente elettorale. Aspetti comunque diversi della democrazia sono quelli esercitati mediante le attività lavorative e i mezzi di comunicazione, quindi di formazione del consenso. Accanto alla crisi degli istituti, delle forme e dei luoghi tradizionali della democrazia rappresentativa può farsi rilevare la possibilità attraverso i mezzi di comunicazione di indurre forme di democrazia rappresentativa diverse e ulteriori. I due aspetti sono certo distinti ma hanno elementi di collegamento. Non è questo il luogo per affrontare il problema della crisi dei partiti, ma è impossibile analizzarlo e spiegarlo a prescindere dalla rilevanza assunta nella nostra vita dai mezzi e dalle tecniche di comunicazione.
Lo stesso riguarda la scena politica caratterizzata da leader, anche poco adeguati ai compiti cui sono chiamati, che stanno moltissimo in televisione. Anche questa può essere considerata una connotazione della democrazia, epperò costituisce un segnale di modestia culturale della società nel suo complesso. Essenziale, e doveroso, in proposito, il riferimento ai fenomeni di populismo. Questi elementi inducono certamente processi di semplificazione, rispetto alla complessità dei problemi espressi dalla società, dall’economia, dalla cultura e dalla politica. Ma questo è sempre avvenuto nella storia. Si pensi alla straordinaria semplificazione costituita dalla codificazione giustinianea, in cui le opinioni di alcuni giuristi vennero sancite come norme; alla straordinaria semplificazione costituita dalla codificazione ottocentesca, a dimensione essenzialmente binaria (l’autore e la vittima, come i contraenti, come pure il colpevole e l’innocente, come l’attore e il convenuto); a tacere delle operazioni giuridiche costituite dai regimi totalitari.
Il consenso sui social spiazza chi ha una cultura consolidata diversa, forse vecchia, ma è una realtà di cui occorre sia tener conto, sia apprezzare le opportunità. Non sembra un’esagerazione ritenere il mezzo informatico come uno strumento di (agevolazione, quindi di realizzazione, della) democrazia: di partecipazione, altrimenti assente, per la natura dei protagonisti, difficile, in una società ultraveloce.
Indubbiamente interessanti, sul piano sia politico che tecnologico, tutti gli esperimenti, realizzati in questo periodo, di funzionamento degli organi collegiali sulle piattaforme informatiche.
Qualsiasi fenomeno sociale nuovo e rilevante impatta con la lentezza sia della formazione del consenso sia delle burocrazie.
Il primo è un dato assolutamente e puramente irrinunciabile, ma che comunque merita riflessione. Dalla burocrazia abbiamo, piuttosto, il dovere di difenderci, di difendere le nuove generazioni.
La dimensione complessiva della nostra burocrazia è diventata insostenibile. La moltiplicazione delle norme e dei vincoli non accresce l’efficienza e la trasparenza dell’attività amministrativa. Anzi. I Paesi con più leggi e più avvocati hanno anche più corruzione. La semplificazione delle dinamiche amministrative sembra indispensabile per una vita più serena di quella che conduciamo, avendo a che fare con la pubblica amministrazione.
La moltiplicazione esponenziale delle norme e dei controlli, giustificati come strumenti di garanzia e di legalità, crea enormi disagi a tutti i piccoli e medi produttori di attività economiche, che sono una forza tradizionale della nostra realtà socio-economica e invece, stretti nella morsa fra la burocrazia e la malavita, vengono espulsi dal mercato. Ora hanno avuto la botta finale con il Coronavirus. È colpevole non vedere questi problemi da parte dei gruppi dirigenti, degli intellettuali e dei politici. Di questi problemi reali il giurista deve occuparsi e la politica deve cercare soluzioni concrete.
L’informatizzazione può contribuire ad agevolare lo snellimento delle prassi amministrative, ma è solo uno strumento: lo snellimento dipende da un cambio di mentalità, dalla flessibilizzazione concettuale e giuridica. Diversamente, la stessa informatizzazione può generare (ulteriore, precipua) burocrazia.
3. Auspici di semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e riduzione dello strumento penalistico
Allargando il discorso, possiamo verificare profonde trasformazioni dei rapporti fra sfera pubblica e sfera privata. Prevalgono i meccanismi di autoregolazione del mercato, dei suoi protagonisti. Lo Stato di diritto fa fatica, è lento, arranca, è un grosso pachiderma. Soprattutto, fa fatica a produrre solidarietà, a sostenere i deboli.
Istituzioni private (di rating) valutano le attività pubbliche statali, oltre quelle private delle aziende, e inducono così importanti effetti nel mondo finanziario e politico globale, sugli stessi comportamenti degli Stati, che ne risultano fortemente condizionati. Tutti questi meccanismi affiancano i processi regolativi legislativi, che nel frattempo incontrano la difficoltà costituita dalla differenza fra l’astrattezza e generalità dei meccanismi e la contingenza emergenziale della realtà.
Le forze economiche influiscono sui meccanismi regolativi degli Stati: sul processo di formazione delle leggi; sulle dinamiche economiche; sullo svolgimento delle vicende giudiziarie.
In questo frangente del Coronavirus va registrato pure il sostegno finanziario di grandi imprenditori alle ricerche e alle dotazioni necessarie ad affrontare l’emergenza.
In confronto ai problemi della complessità, reale e culturale, dei fenomeni, della società, della politica e della cultura, può dirsi, da un canto, che risultino avvantaggiati i sistemi giuridici di common law, nei quali però va riscontrata la caratteristica – che sembra avere altro tipo di origine – di essere maggiormente alla portata dei più abbienti. I sistemi giuridici più flessibili trovano meno ostacoli e meno contraddizioni in confronto alla complessità reale e culturale della nostra vita sociale contemporanea, e si adattano meglio nelle differenze fra i vari sistemi, nella dimensione della globalizzazione. Può dirsi, pure, che in generale si vada riducendo la differenza fra i sistemi di common law e quelli continentali, anche attraverso la funzione delle Corti costituzionali e delle Corti sovranazionali. Nei sistemi continentali, però, l’incremento progressivo e costante della discrezionalità dei giudici, in tutti gli ambiti e situazioni, costituisce una mutazione genetica dell’assetto dello Stato di diritto, che deve essere necessariamente e variamente compensata. Il passaggio è prima di tutto culturale.
In particolare, dal punto di vista penalistico, di fronte all’elefantiasi del diritto penale, cui assistiamo, deve essere valutata positivamente l’esperienza dei processi davanti alla giuria popolare, con pochi imputati, su fatti strettamente determinati, a distanza di poco tempo dal fatto. Esperienza che esprime la dimensione democratica della giustizia penale e contraddice e contrasta l’estrema tecnicizzazione e proliferazione dello strumento penalistico per la risoluzione dei problemi sociali. Quindi anche le distorsioni che vi risultano collegate nei rapporti fra i ceti dirigenti.
Il penalista desidera e auspica poco diritto penale. Perché il diritto penale – che va riferito, qui e ora, tipicamente al carcere – è un trauma che si abbatte sulle vite delle persone, alterandole indubitabilmente e per sempre. Perché il diritto penale risulta spesso scarsamente utile, o affatto inutile, o peggio ancora dannoso, rispetto all’esigenza di evitare e diminuire la realizzazione di misfatti. Il diritto penale, sicuramente, però, costituisce uno straordinario, e costosissimo, strumento di potere e stabilizzazione sociale: esattamente come durante i cinque e più secoli di roghi per le streghe, pure senza i roghi. L’illuminismo è avvenuto largamente come protesta, più che ribellione, di intellettuali nobili contro le nefandezze dei magistrati e le miserie degli avvocati: intellettuali che si rivolgevano ai sovrani, chiedendo leggi poche, semplici, chiare, pene miti, ma certe, processi veloci e con le prove, l’abolizione della tortura e della pena di morte, magistrati che si limitassero ad applicare le leggi, volute appunto dai sovrani e poi dai popoli.
4. Il carcere e le scarcerazioni
Con l’emergenza del Coronavirus è scoppiata la polemica sulle scarcerazioni di detenuti anche pericolosi, mafiosi.
Le singole vicende sfuggono ovviamente alla valutazione di chi non le conosce fin nei dettagli: principio che deve essere considerato essenziale da parte di chi si occupi di questioni giudiziarie e peggio penali o vi s’imbatta a qualsiasi titolo.
Una prima considerazione riguarda la possibilità che il carcere diventasse una vera bomba sanitaria. Tutti, abbiamo detto, siamo stati come storditi dall’impatto mediatico con l’emergenza del virus. Lo stesso ha riguardato, ovviamente e banalmente, tutti coloro che a qualsiasi titolo si sono occupati di gestire e valutare le situazioni relative alla presenza dei detenuti nelle case circondariali e di reclusione, ai colloqui e alla comunicazione con i parenti.
È certo possibile che siano avvenute forzature e strumentalizzazioni, come avviene sempre e in tutti i tipi di situazioni. Come abbiamo visto e detto essere avvenute forzature istituzionali, pure efficaci, delle regole democratiche e costituzionali.
Il carcere è stato, ed è stato visto come, una bomba che poteva esplodere. Le polemiche sono sempre più rumorose del lavoro per risolvere i problemi.
Una considerazione generale riguarda però il carcere, come strumento, e le sue condizioni, di fatto.
Il carcere è uno strumento forse poco utile, sicuramente sopravvalutato, costosissimo. Oggi abbiamo circa sessantamila detenuti, di cui circa un terzo tossicodipendenti e ancor più extracomunitari, moltissimi detenuti in attesa di giudizio, anche di primo giudizio. A parte il dato che la capienza regolamentare è di circa diecimila unità in meno, siamo stati giudicati malissimo dalla Corte di Strasburgo, in relazione al divieto delle pene inumane e degradanti, e abbiamo fatto tutto ciò che è possibile per non accorgercene, per fare finta di niente. Ma intanto moltissimi detenuti hanno citato in giudizio lo Stato italiano per ottenere un risarcimento del danno, di avere praticato pene inumane e degradanti, o l’abbreviazione delle stesse. E perfino i direttori di carcere sono stati chiamati davanti alla Corte dei conti per rispondere di danno erariale.
La situazione complessiva delle carceri e dei detenuti in Italia è largamente al di sotto delle condizioni di dignità per un Paese che si definisce civile. Situazione, che certo non può trovare alcun tipo di giustificazione nella pericolosità dei fenomeni criminali, ovvero dei loro protagonisti, e che costituisce un problema sicuramente più grande, oggettivamente più importante, del fatto che alcuni malavitosi possano essere scarcerati, anche per errore, per imperizia o ancora peggio.
Papa Francesco ha manifestato ripetutamente dolorosa attenzione al problema carcerario ma non è stato ascoltato neppure Lui.
Anche magistrati noti (Fassone, Colombo), di evidente sensibilità umana, hanno cercato di attirare l’attenzione sulla situazione drammatica delle carceri e della detenzione, nonché sull’utilità delle pene detentive soprattutto lunghe. Non è successo nulla.
La sensibilità collettiva è mossa – facilmente, subito – dalla notizia che detenuti in regime di alta sicurezza sono stati destinati alla detenzione domiciliare, per ragioni attinenti alle loro precarie condizioni di salute, pure in considerazione del pericolo ulteriore costituito dal Coronavirus. La speculazione politica fa presa ovviamente su sentimenti che sono reali, altrimenti non ne verrebbe amplificata e supportata.
La gente ha bisogno, tutti noi abbiamo bisogno, della vendetta, come fonte e motivo di soddisfazione. Ho scritto un libro che s’intitola Dal carcere. Autoriflessione sulla pena, Pacini editore, 2016, dopo un’esperienza di ricerca durata cinque mesi nelle due case circondariali di Catania (Bicocca, alta sicurezza, detenuti di criminalità organizzata, Piazza Lanza, media sicurezza, detenuti comuni, molti tossicodipendenti, molti extracomunitari), partendo dal mio bisogno e istinto di vendetta, per fare i conti col problema della pena e del carcere.
Il diritto penale (anche quello dello Stato democratico di diritto) costituisce il prolungamento logico e storico della pratica della vendetta, che ha costituito forse il primo fondamento (giuridico, costituzionale) del processo di aggregazione sociale; così come l’amore ha costituito il fondamento costituzionale del legame familiare. È troppo forte, dentro di noi, il bisogno, il desiderio, l’istinto o la pulsione, della vendetta, perché possiamo riuscire a emanciparci.
Considerando il solo budget del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un detenuto costa circa cinquantamila euro l’anno. Senza considerare, dunque, il carico degli stipendi dei poliziotti non penitenziari, dei magistrati nonché pure di chi scrive. Pensi il lettore a quanti processi ed esperimenti di mediazione sociale e di rieducazione, nella società tecnologica del 2020, sarebbero possibili con una cifra simile a disposizione per ciascun autore di delitto, anche grave.
Il carcere è, nella più nobile ipotesi di lettura, la più incresciosa delle semplificazioni della nostra cultura sociale.
Il carcere costituisce il pilastro (di cemento, non simbolico) di un sistema di potere, da cui molti traiamo sussistenza e anche agi, che serve principalmente ad alimentare se stesso. E che non deve rendere conto a nessuno, circa la sua utilità, perché incontra il sentimento crudele della gente, del popolo, di tutti noi.
Provi, ancora, il lettore a pensare, a immaginare, se il carcere (che è comunque una bomba innescata, per svariate comprensibili ovvie ragioni) fosse esploso per l’emergenza Coronavirus.
5. Tutela della sanità e funzione giurisdizionale
Più sopra dicevamo dei medici, e paramedici, in prima linea, tutti. Con costi molto alti.
Ciò è avvenuto, per un capriccio della storia, dopo molti anni che queste categorie sono oggetto, vittime e quindi protagonisti forzati di uno straordinario fenomeno di contenzioso giudiziario, in tutti i Paesi più avanzati, contenzioso civile e anche penale.
I medici svolgono la funzione di tutela della salute e hanno in genere condizioni economiche migliori di altri settori. Inoltre molti sono dipendenti del servizio sanitario nazionale. In tutti i Paesi capitalistici è avvenuta una trasformazione appunto straordinaria. Prima il malato moriva perché Dio lo aveva chiamato e guariva perché il medico era stato bravissimo. Più di recente, ci si aspetta dai sanitari la guarigione, pure prospettata da toni salvifici più o meno interessati, e nei casi di evento infausto si ricorre al giudice per ottenere il risarcimento dell’errore sanitario. Con il supporto tecnico degli avvocati. E la magistratura svolge attività di controllo – non solo e puramente di legalità, ma anche – di qualità della funzione sanitaria. Queste dinamiche hanno stressato gravemente lo svolgimento della funzione sanitaria, condizionata peraltro dalla politica che sostanzialmente la governa, e hanno innescato i fenomeni cosiddetti di medicina difensiva (eccesso di esami, di ricoveri, di prescrizioni farmacologiche e terapeutiche) e una grande lievitazione dei costi.
Non c’è dubbio che questa situazione richieda uno scostamento innanzitutto culturale, di consapevolezza complessiva dei problemi così coinvolti. È certo auspicabile e anche verosimile che una situazione e un momento di intimità e di riflessione come la crisi del Coronavirus, verificando intanto gli sforzi, anche eroici, comunque straordinari, che i sanitari stanno compiendo, tra mille difficoltà, in favore di tutti noi, inducano noi stessi a una seria riflessione, a un profondo ripensamento, circa i reali interessi in gioco, anche in questo delicato campo.
Intanto, come spesso accade, prevale il politichese, o se si preferisce il giuridichese. Si sta tentando di fare approvare una norma di salvaguardia per le attività sanitarie svolte in regime di Coronavirus, a tutela innanzitutto dei responsabili delle aziende sanitarie. Tale disciplina di salvaguardia deve essere di carattere assolutamente generale, delle attività sanitarie. Perché costituisce un paradosso, finanche esaltato però dalla magistratura di legittimità, che i responsabili della funzione di garanzia della salute siano fatti responsabili, giuridicamente ed economicamente, delle occasioni, che devono essere considerate invece tipiche di tale funzione, di insuccesso. Un paradosso, perché è giusto e utile che il titolare di una funzione così delicata sia mantenuto in condizioni di serenità e di tutela.
Speriamo, proprio, che anche il ritiro forzato nel tempo del Coronavirus ci induca a riflessioni probe e intelligenti pure a questo così delicato proposito. Speriamo che il Coronavirus, che ci ha generato paura e sofferenza, ci renda complessivamente più umani e più buoni.
(*) Questo saggio sarà pubblicato anche sul n. 1 del 2020 del Mediterranean Journal of Human Rights.