Sommario: 1. Criticità della configurazione del condominio come consumatore - 2. L'evoluzione della giurisprudenza nel tempo: i precedenti nazionali - 3. Le sentenze della Corte di Giustizia europea (sent. 3 aprile 2020, in causa C-329/19 e sent. 27 ottobre 2022, in causa C-485/21) - 4. Rilievi conclusivi e possibili scenari futuri.
1. Criticità della configurazione del condominio come consumatore
La questione oggetto della presente riflessione può essere sinteticamente espressa in questi termini: “può il condominio essere considerato un consumatore?”, o meglio, “si può pensare di applicare la disciplina prevista a tutela del consumatore, dagli art. 33 ss. c. cons., anche ai negozi giuridici conclusi dall’amministratore di condominio?”. Posto che il condominio, nell’ordinamento giuridico italiano, non è da considerarsi né una persona fisica né una persona giuridica, e sul presupposto che le disposizioni in materia di tutela del consumatore indicano la “fisicità del soggetto” come caratteristica essenziale ai fini dell’attribuzione della qualifica di “consumatore”, è lecito chiedersi se, e in che modo eventualmente, possa estendersi la disciplina del consumatore nei confronti dell’istituto condominiale.
I dubbi circa la configurabilità del condominio come consumatore sono da ascrivere non solo alla compagine condominiale frequentemente eterogenea, potendo risultare costituita sia da condòmini che ivi svolgono attività imprenditoriale o commerciale sia da condòmini che fruiscono delle proprie unità immobiliari a scopi meramente residenziali, ma anche all’annosa, e non ancora risolta, questione riguardante la soggettività giuridica dell’istituto condominiale. Il condominio (evocando Pirandello) è, infatti, nell’ordinamento giuridico italiano, ancora “un personaggio in cerca di autore”.
Non è possibile rintracciare una soluzione legislativa al problema in disposizioni comunitarie o nazionali. Invero, né nei considerando e nei lavori preparatori alle direttive, né nel codice del consumo si rinvengono elementi utili a fornire una pacifica soluzione.
Peraltro, è appena necessario sottolineare che, qualora si attribuisse al condominio la qualifica di consumatore, si giungerebbe ad una conclusione non priva di conseguenze. Basti pensare alle innumerevoli disposizioni di tutela applicabili esclusivamente ai rapporti tra professionista e consumatore; a partire dal così detto foro del consumatore, passando per il principio di trasparenza, per finire alla disciplina delle clausole vessatorie.
2. L'evoluzione della giurisprudenza nel tempo: i precedenti nazionali
Occorre partire da una considerazione concreta: il condominio è, da diverso tempo e sia pure senza una condivisa giustificazione, considerato un consumatore dalla giurisprudenza di merito e dalla stessa Corte di Cassazione.
Si pensi alla sentenza del 24 luglio 2001, n. 10086, in cui la Cassazione stabilisce che al contratto concluso con il professionista dall'amministratore del condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si debbano applicare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, gli artt. 1469 bis ss. c.c. (oggi 33 ss. c. cons.), atteso che l'amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condòmini, i quali “vanno senz’altro considerati consumatori, essendo persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Poco dopo la stessa Corte, in una controversia riguardante l’individuazione del foro competente, stabilisce che si debba ritenere competente il giudice del luogo in cui il consumatore, in questo caso il condominio, abbia la residenza o il domicilio elettivo e che sia da considerarsi vessatoria la clausola che stabilisce una diversa località come sede del foro competente, posto che “per quanto concerne la qualificazione del condominio quale soggetto consumatore non sussistono ragioni per discostarsi dalla sentenza n. 10086/01”[1].
Seguendo lo stesso iter logico-giuridico, e sulla base delle medesime motivazioni, la Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza del 22 maggio 2015, n. 10679, in una controversia in cui si discute della vessatorietà di una clausola compromissoria, che prevede la rimessione in arbitrato irrituale di tutte le controversie concernenti l’esecuzione del contratto[2].
Diverse sono le sentenze della giurisprudenza di merito che condividono l’orientamento di legittimità, estendendo al condominio le disposizioni previste, dall’ordinamento italiano e comunitario, a tutela del consumatore[3].
Tuttavia non mancano pronunzie disomogenee rispetto ad un orientamento giurisprudenziale consolidato.
In particolar modo, nella sentenza del 16 gennaio 2019, il Tribunale di Bergamo, a proposito di una controversia concernente l’applicabilità della disciplina prevista per il sovraindebitamento, precisa che sia “inammissibile il piano del consumatore proposto da un condominio di edifici in quanto soggetto privo dei requisiti di cui all’art. 6 perché non riconducibile ad una persona fisica”[4].
L’orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicabilità della disciplina consumeristica al condominio si è basato, e continua a basarsi, sul presupposto che l’amministratore agisca quale rappresentante della comunità dei condòmini, sicché i rapporti giuridici scaturenti dai contratti così stipulati fanno direttamente e collettivamente capo all’insieme dei condòmini, e non al condominio inteso come soggetto separato e distinto rispetto a questi ultimi[5]. Si tratta di una conclusione influenzata dall’orientamento prevalente in giurisprudenza secondo cui il condominio è un mero ente di gestione sfornito di personalità giuridica. Questa considerazione, infatti, fa sì che gli effetti giuridici dei negozi conclusi dall’amministratore si producano direttamente in capo ai singoli condòmini, e non al condominio in quanto tale.
In nessuna delle sentenze citate viene presa in considerazione l’eventualità che non tutti i proprietari delle singole unità immobiliari perseguano scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, né vengono esaminate le conseguenze che potrebbero derivare dalla presenza di un “professionista” all’interno della compagine condominiale. Non viene affrontata nemmeno la questione se la circostanza che l’amministratore stipuli, agendo nell’ambito della sua attività professionale, contratti per il condominio, possa valere ad escludere l’applicabilità della disciplina consumeristica[6].
3. Le sentenze della Corte di Giustizia europea (sent. 3 aprile 2020, in causa C-329/19 e sent. 27 ottobre 2022, in causa C-485/21)
Di recente è intervenuta la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 2 aprile 2020, in causa C-329/19, resa su domanda di rinvio pregiudiziale formulata dal Tribunale di Milano.
In una questione riguardante la vessatorietà di una clausola inserita in un contratto di fornitura di energia termica stipulato tra un condominio e una società, il Tribunale di Milano si chiede “se la nozione di consumatore quale accolta dalla direttiva n. 93/13/CEE osti alla qualificazione come consumatore di un soggetto (quale il condominio nell’ordinamento italiano) che non sia riconducibile alla nozione di “persona fisica” e di “persona giuridica”, allorquando tale soggetto concluda un contratto per scopi estranei all’attività professionale e versi in una situazione di inferiorità nei confronti del professionista sia quanto al potere di trattativa, sia quanto al potere di informazione”.
La Corte di Giustizia, nel risolvere la questione, viene fortemente influenzata dalla sua formulazione e dalla ricostruzione del diritto italiano offerta dal giudice remittente, sostanzialmente sbilanciata verso la concezione atomistica, e comunque imprecisa nel declinare il tradizionale concetto di “ente di gestione”, elaborato dall’orientamento collettivistico maggioritario[7].
Il giudice di Lussemburgo parte dalla problematica applicabilità, all’istituto condominiale, della nozione di “consumatore” contenuta nella lettera b dell’art. 2 della direttiva n. 93/13/CEE, e dalla necessità che siano soddisfatti entrambi i requisiti: occorre che si tratti di una persona fisica, e che abbia altresì agito per fini che non riguardano l’attività economica o imprenditoriale eventualmente svolta.
Nella domanda di rinvio pregiudiziale, il giudice remittente descrive l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui “da un lato, i condomini, pur non essendo persone giuridiche, si vedono riconoscere la qualità di soggetto giuridico autonomo”, dall’altro, secondo la medesima giurisprudenza, le norme a tutela dei consumatori si applicano ai contratti stipulati tra un professionista e l’amministratore di un condominio, definito come un “ente di gestione sfornito dipersonalità distinta da quella dei suoi partecipanti”, in considerazione del fatto che “l’amministratore agisce per conto dei vari condòmini, i quali devono essere considerati come consumatori”.
A proposito della qualificazione del consumatore come “persona fisica”, occorre immediatamente ribadire come la giurisprudenza comunitaria ne abbia sempre fornito una definizione restrittiva[8].
Infatti, la Corte di Giustizia ha costantemente negato il riconoscimento della qualifica di “consumatore” alle persone giuridiche, sottolineando come la nozione di “consumatore”, contenuta nell’art. 2 lettera b della direttiva n. 93/13/CEE, debba essere interpretata esclusivamente nel senso di “persona fisica”[9].
È evidente che, alla luce del rilievo che la “fisicità” assume ai fini della qualificazione dell’individuo-consumatore, l’orientamento consolidato della C.G.U.E. non permette di estendere l’applicabilità della relativa disciplina al caso del condominio, non potendo essere quest’ultimo una persona fisica.
Resta da stabilire se la giurisprudenza italiana, che estende la normativa di recepimento della suddetta direttiva in materia di clausole vessatorie anche al condominio, sia compatibile con quanto disposto dalla disciplina comunitaria a tutela dei consumatori. Nel caso in analisi, risulta che l’orientamento della giurisprudenza nazionale sia effettivamente volto a tutelare maggiormente il consumatore, ampliandone la tutela anche all’istituto condominiale.
Alla luce dei predetti presupposti, nella sentenza del 2 aprile 2020, la Corte concludeva che “alla questione sollevata occorre rispondere che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 2, lettera b), della direttiva n. 93/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una giurisprudenza nazionale che interpreti la normativa di recepimento della medesima direttiva nel diritto interno in modo che le norme a tutela dei consumatori che essa contiene siano applicabili anche a un contratto concluso con un professionista da un soggetto giuridico quale il condominio nell’ordinamento italiano, anche se un simile soggetto giuridico non rientra nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva”.
Il 26 novembre 2020, a seguito della pronuncia sulla questione pregiudiziale della Corte di Giustizia, il Tribunale di Milano è intervenuto con sentenza definitiva.
Si tratta di una pronuncia che induce a qualche perplessità non solo e non tanto per l’improvviso capovolgimento delle posizioni espresse dal giudice di rinvio nell’ordinanza di rimessione, quanto perché, lungi dal risultare una mera applicazione del principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia, risulta sostanzialmente svilirne la portata innovativa. Inoltre, chi auspicava di ricevere una risposta definitiva sulla natura giuridica del condominio è rimasto deluso nello scoprire che, né a livello comunitario né a livello nazionale, vi sono tutt’oggi certezze sul punto.
La Corte, infatti, ha basato la sua pronuncia sulla valorizzazione della natura giuridica della parte contraente, ovvero il dover essere una “persona fisica”, ponendo in secondo piano l’altra condizione, cioè l’agire per scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta. Quest’ultima deve essere verificata unicamente nel caso in cui risulti sussistente la prima.
È chiaro che, in questo ragionamento, non vi può essere spazio per la configurazione del condominio come consumatore, posto che esso non è evidentemente una persona fisica ma neanche una persona giuridica, per l’ordinamento giuridico italiano.
A contrario, il Tribunale di Milano fonda la sua pronuncia su di un punto di vista differente, non più nella prospettiva “sfuggente” della teoria del soggetto (che, invece, aveva costituito proprio il punto di partenza nell’ordinanza di rinvio), ma in quella del rapporto giuridico.
È necessario, precisa il Tribunale, verificare caso per caso la destinazione delle unità immobiliari appartenenti alla compagine condominiale, dovendosi considerare “consumatore” unicamente il condominio che sia costituito “prevalentemente” da unità immobiliari di proprietà di persone fisiche, destinate a scopi estranei all’attività imprenditoriale e/o professionale da essi eventualmente svolta. Tale ragionamento consente di risolvere la questione del regime giuridico degli atti compiuti da un imprenditore con una parte plurisoggettiva.
Nel caso di specie si è ritenuto che il condominio fosse un consumatore, ma quello contiguo (diversamente composto) potrebbe non esserlo, e allo stesso modo anche il primo potrebbe mutare la propria qualificazione giuridica qualora venisse modificata la compagine condominiale.
In un’ulteriore e più recente decisione la Corte di Giustizia ha confermato i propri assunti ritenendo legittima l’estensione della disciplina prevista a tutela del consumatore anche alla compagine condominiale.
Con la sentenza del 27 ottobre 2022, in causa C-485/21, la Corte ha ribadito che “una persona fisica, proprietaria di un appartamento in un immobile in regime di condominio, deve essere considerata un «consumatore», ai sensi di tale direttiva, qualora essa stipuli un contratto con un amministratore di condominio ai fini della gestione e della manutenzione delle parti comuni di tale immobile, purché non utilizzi tale appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale”.
Ciò significa che, tenuto conto dell’orientamento nazionale (l’unico, a voler essere precisi, considerato dalla Corte di Giustizia) che qualifica il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica, i singoli condòmini devono essere considerati consumatori laddove stipulino contratti per scopi che non siano esclusivamente professionali.
Anche in questa occasione, dunque, i giudici di Lussemburgo non fanno altro che confermare la stretta connessione che lega la questione della natura giuridica del condominio all’estensibilità ad esso delle tutele previste dal Codice del Consumo.
4. Rilievi conclusivi e possibili scenari futuri
Partendo dall’analisi della pronuncia della Corte di Giustizia del 2 aprile 2020, il primo punto che desta qualche perplessità è che la decisione, fortemente influenzata dal contenuto dell’ordinanza di rimessione del giudice meneghino, ha dato per scontato che, per l’ordinamento giuridico italiano, il condominio sia da considerare un centro autonomo di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, distinto dai singoli condòmini[10].
In conseguenza di ciò, la Corte ha omesso di pronunciarsi sulla possibilità di estendere la nozione di “consumatore” alla parte soggettivamente complessa ma priva di soggettività giuridica (come il condominio in Italia), e si è limitata a precisare di non poterlo considerare come un consumatore, in quanto non è “persona fisica”.
La conseguenza di questo travisamento è che il decisum della Corte risulta vincolante in tutti gli Stati membri che riconoscono autonoma soggettività giuridica, ma non per quelli che non la riconoscono, compreso l’ordinamento giuridico italiano[11].
Non si può non concordare, quindi, con chi evidenzia che, per quanto possa apparire paradossale, la rilevanza della sentenza, pronunciata per risolvere una questione pregiudiziale sollevata da un giudice italiano, per questo stesso ordinamento finisce per dipendere, in modo decisivo, dalla soluzione che verrà data alla vexatissima quaestio della soggettività del condominio[12].
Finora, nell’innegabile indeterminatezza della natura giuridica del condominio, il ricorso all’ambiguo concetto di ente di gestione, sostenuto dalla prevalente giurisprudenza, ha permesso di ritenere integrati i requisiti della figura del consumatore e di conseguire il risultato voluto, ovvero la nullità delle clausole vessatorie.
Volendo aderire alla tesi prevalente nella giurisprudenza, che fa coincidere le parti del contratto con i singoli condòmini, occorrerebbe verificare, caso per caso, la compagine condominiale, al fine di accertare la sussistenza della qualità di consumatore in capo a ciascuno dei condòmini. Di conseguenza, la tutela dovrebbe essere negata nel caso di unità immobiliari tutte destinate a scopi professionali. Invece, nell’ipotesi di composizione mista, si potrebbe pensare ad un trattamento giuridico differenziato, a seconda che siano in maggioranza consumatori o no. Quest’ultima teoria sembra proprio il criterio applicato dal Tribunale di Milano. Tuttavia, la stessa sentenza non chiarisce quale sia il criterio da utilizzare per verificare la prevalenza: se debba essere calcolata per quote, oppure per teste.
Peraltro, i giudici di merito sembrano lontani dall’approdare ad una soluzione univoca, invocando, in alcuni casi, il criterio della “prevalenza” e sostenendo, altre volte, l’applicazione della disciplina consumeristica, anche ai complessi edilizi in cui sono ubicate solo unità immobiliari destinate ad attività commerciali o professionali, sul presupposto che l’atto concluso sarebbe sempre estraneo all’attività professionale, in quanto finalizzato soltanto alla gestione delle parti comuni[13].
Una parte della dottrina ha sottolineato le criticità che derivano dall’adozione del criterio della prevalenza, in quanto, per tale via, non vi sarebbe alcuna prevedibilità, dovendosi procedere necessariamente ex post ad una verifica della destinazione degli immobili e, inoltre, si troverebbero a beneficiare della tutela alcuni soggetti, quali enti e persone giuridiche che, in condizioni di normalità, ad essa sarebbero sottratti ex lege[14] o, per esempio, persone fisiche che, locando gli appartamenti dello stabile, esercitano la loro precipua attività professionale di agenti immobiliari[15].
Al fine di risolvere tali criticità, vi è chi ha proposto la tesi secondo cui bisognerebbe “oggettivare il profilo consumeristico” degli atti di gestione dei beni comuni, in virtù del fatto che essi non perdono il proprio “lineamento necessariamente personalistico” e la propria funzionalizzazione al godimento della proprietà da parte di più persone fisiche anche quando la situazione formale di appartenenza delle porzioni di immobile faccia a capo a enti e/o professionisti. Di conseguenza, sotto una “dimensione dinamico-utilitaristica”, lo sfruttamento del condominio rappresenterebbe “una forma speciale, soggettivamente neutra e oggettivamente tipizzata (...), di atto di consumo”. Una tale soluzione avrebbe il vantaggio di garantire certezza del diritto sottraendo il giudice all’odiosa spada di Damocle, laddove la situazione rimessa allo scrutinio giudiziale presenti evidenti chiaroscuri, come accade nel caso in cui il condominio abbia una composizione mista o nel caso in cui le persone giuridiche proprietarie degli immobili lochino i medesimi a terzi per scopi abitativi[16].
Altra parte della dottrina, invece, ha proposto la creazione di una definizione transtipica di consumatore, che superi le dicotomie classiche di persona fisica e persona giuridica, facendo prevalere il profilo teleologico, che connota il comportamento del consumatore, su quello prettamente soggettivo. In questo modo, rilevando quale unico discrimen la situazione di inferiorità e debolezza in cui versa il soggetto nei confronti del professionista, si garantirebbe il raggiungimento di un equilibrio tra le parti, reale e non solo formale, in tutte le situazioni caratterizzate da uno squilibrio di potere contrattuale e da un’asimmetria informativa, e si realizzerebbe quell’eguaglianza sostanziale che è l’obiettivo di tutta la disciplina consumeristica[17].
Secondo un altro orientamento[18], trattandosi di parte plurisoggettiva mista, composta da consumatori e professionisti, la disciplina del codice di consumo, letta come diritto speciale, sarebbe del tutto inapplicabile, dovendo trovare applicazione la disciplina generale del codice civile. A sostegno della citata tesi, si fa riferimento all’art. 54 dell’abrogato codice di commercio ai sensi del quale “se un atto è commerciale per una sola delle parti, tutti i contraenti sono per ragione di esso soggetti alla legge commerciale, fuorché alle disposizioni che riguardano le persone dei commercianti, e salve le disposizioni contrarie di legge”.
Un ultimo orientamento giunge, invece, a conclusioni opposte ritenendo di poter applicare, in presenza di una parte plurisoggettiva mista, la disciplina del codice del consumo, in ogni caso e anche ai professionisti, in quanto tra un eccesso di tutela, ove si applichi a tutti i soggetti la disciplina del codice di consumo, ed un rischio di eccesso di rigore, ove si applichi a tutti i soggetti la disciplina del codice civile, “tutto sommato è forse preferibile correre il primo pericolo”[19].
Il criterio della prevalenza fa sorgere anche il problema dell’identificazione della parte su cui grava l’onere di dimostrare di essere un consumatore. La dimostrazione spetta all’amministratore del condominio che ha concluso il contratto, in quanto tale qualifica costituisce un elemento strutturale della domanda o dell’eccezione, da porre a carico di chi rivendica l’applicabilità alla fattispecie contrattuale della disciplina pro consumatore[20].
Tuttavia, occorre rilevare come la pronuncia della Corte di Giustizia ha posto una grave ipoteca sul tema della sussumibilità del condominio nella nozione di “consumatore” giacché, nello stabilire che, qualora gli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri attribuiscano un’autonoma soggettività giuridica al condominio, al medesimo non possa essere data immediata applicazione della disciplina consumeristica, ha legato indissolubilmente la questione in esame al problema della soggettività giuridica[21].
Il punto è che, nell’ordinamento giuridico italiano, il condominio continua a rimanere un “personaggio in cerca di autore”, con l’aggravante che, in base alla sentenza in commento, non si potrà più considerare quest’ultimo sic et simpliciter consumatore[22].
A destare ulteriori perplessità è ancora il Tribunale di Milano che, dopo aver ottenuto dalla Corte sovranazionale una pronuncia che conferma e rende vincolante proprio il suo assunto di partenza, non si pronuncia poi sulla questione della soggettività giuridica del condominio e, tornando a considerare il condominio semplicemente come una parte soggettivamente complessa, giunge ad una conclusione che presupporrebbe risolta proprio la questione della natura giuridica.
Sembra ragionevole ritenere che così viene elusa la pronuncia della Corte di Giustizia dallo stesso giudice che l’aveva chiesta. Infatti, volendo considerare il condominio come una semplice parte soggettivamente complessa, una mera somma di comproprietari che partecipano uti singuli, rappresentati dall’amministratore, alla stipulazione del contratto, non sussisterebbero dubbi, qualora risultasse soddisfatto il criterio della prevalenza, circa l’estensibilità della disciplina consumeristica al condominio.
Sembra quasi che l’unico modo per garantire ai condòmini la qualità di parte “consumatrice” sia la negazione dalla soggettività giuridica del condominio[23].
Laddove, invece, si attribuisse al condominio un’autonoma soggettività giuridica, scatterebbe il vincolo interpretativo della Corte di Giustizia, e sarebbe esclusa a priori la qualificabilità del condominio come un consumatore. In tal caso, il sistema per assoggettare il condominio alla disciplina consumeristica sarebbe quello di ricorrere ad un’interpretazione estensiva dell’art. 3 lett. a del Codice del consumo, ovvero un’applicazione analogica delle disposizioni del codice medesimo.
A proposito del primo orientamento, vi è chi ha ritenuto che “il gruppo condominiale sia tanto particolare (…) da non poter essere comunque ascritto agli enti collettivi cui il legislatore risulta aver negato la qualifica di consumatori” [24]. Tuttavia, questi assunti non sembrano convincenti, come sostenuto da altra parte di dottrina, in quanto “vi è un punto di rottura oltre il quale l’elasticità semantica del testo non consente all’interprete di procedere”[25].
Per quanto concerne, invece, l’ipotesi di applicazione analogica, appare difficile da giustificare in un ordinamento giuridico come quello italiano per due motivi fondamentali: 1) la normativa a tutela del consumatore è inserita nel codice del consumo o in decreti legislativi di natura settoriale, che sono posti in rapporto di specialità rispetto al diritto privato comune affidato al codice civile; 2) l’art. 32, lett. c, l. n. 234 del 24 dicembre 2012 (recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”), stabilisce che gli atti di recepimento di direttive dell’UE “non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse”, per “livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” dovendosi intendere, fra l’altro[26], “l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, laddove ne derivino maggiori oneri amministrativi per i destinatari”[27] [28].
A questo punto, per superare i limiti dell’interpretazione analogica, le soluzioni proposte dalla dottrina sono due.
La prima è quella di estendere la disciplina consumeristica al condominio al fine di un’interpretazione sistematica. Questa soluzione[29] si basa su due presupposti fondamentali: da un lato, la coerenza e la completezza del sistema impone di prevedere soltanto due possibili categorie di contraenti, quelle di “professionista” e di “consumatore”, non essendovi spazio per un tertium genus, sicché indipendentemente dalla natura giuridica della parte contraente e dagli scopi per i quali agisce, è sempre indispensabile qualificarlo come un “professionista” o un “consumatore”; dall’altro, occorre valorizzare la circostanza che nel diritto italiano l’ambito di operatività di alcune disposizioni consumeristiche è stato esteso anche ai rapporti contrattuali intercorrenti fra “professionisti” e “microimprese” e, dunque, se si escludesse la possibilità di equiparare il condominio al consumatore, si perverrebbe ad un risultato paradossale: l’applicazione delle disposizioni citate potrebbe essere invocata dalle microimprese, cioè da soggetti che agiscono in ogni caso nell’ambito di un’attività imprenditoriale, ma non dal condominio.
Pertanto, qualora si ritenesse il condominio un ens tertium dotato di soggettività giuridica, non vi sarebbero dubbi circa l’applicabilità ad esso della disciplina consumeristica, in virtù del fatto che il condominio, agendo per finalità sicuramente estranee a qualsiasi attività imprenditoriale e/o professionale (beninteso, quando agisce per soddisfare le esigenze relative alle parti in comune dell’edificio condominiale), è da considerarsi non un consumatore in senso stretto, ma un soggetto che, per ragioni sistematiche, di completezza e di coerenza, non può non essere equiparato ad un consumatore[30].
La seconda soluzione proposta dalla dottrina è quella di analizzare la ratio della disciplina posta a tutela del consumatore. Laddove la si rinvenisse nella protezione del fruitore finale di beni o di servizi, non si potrebbe più sottrarre il condominio alla sua applicazione, in quanto quest’ultimo, al pari del consumatore, si inserisce nel mercato per consumare e non per produrre ricchezza. Sostenendo questa tesi, anche qualora si volesse propendere per il riconoscimento della soggettività giuridica al condominio, lo si potrebbe assoggettare alla disciplina consumeristica, senza superare la definizione di consumatore, e trovando un avallo nella sentenza della Corte di Giustizia[31].
Non è difficile rendersi conto che il condominio si pone esattamente a metà strada tra la nozione di “consumatore” e la nozione di “professionista”: non è un consumatore in quanto non può essere una persona fisica, ma non è neanche un professionista perché, almeno quando conclude negozi giuridici al fine di garantire la gestione, l’amministrazione e il godimento delle parti comuni, non agisce per fini professionali e/o imprenditoriali.
In definitiva, per quanto consapevole che concludere l’analisi di un istituto giuridico auspicando l’intervento del legislatore non si caratterizzi per originalità metodologica, credo non ci si possa esimere dal ritenere che solo una novella normativa chiarificatrice consenta di evitare le inevitabili incertezze derivanti da una verifica caso per caso.
In quest’ottica, una soluzione che risulterebbe efficace, al fine di porre un punto fermo alla vexata questio, potrebbe consistere nell’estendere, sul modello di altri Paesi europei e per opera del legislatore, la nozione di “consumatore”.
Allo stato attuale della giurisprudenza, e senza una risposta certa sulla natura giuridica del condominio che possa far propendere in un senso piuttosto che nell’altro, è innegabile che il condominio (e non i singoli condòmini che concorrono a formare la parte soggettivamente complessa, qualora si continui ad aderire a quest’ultima tesi) non sia e non possa essere, in quanto tale, un “consumatore”, ma semplicemente possa godere (condivisibilmente) delle stesse tutele giuridiche.
[1] Cass., 12 gennaio 2005, n. 452.
[2] La Corte Suprema precisa, infatti, che “va ricordato che al contratto concluso con il professionista dall'amministratore del condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la normativa a tutela del consumatore, atteso che l'amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condòmini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.
[3] Ex multis: Trib. Ravenna 27 settembre 2017; Trib. Massa 26 giugno 2017; Trib. Milano 21 luglio 2016; Trib. Cagliari 19 giugno 2014, n. 1890; Trib. Genova, 14 febbraio 2012; Trib. Milano, 8 settembre 2008, n. 10854; Trib. Reggio Emilia, 6 marzo 2008; App. Catania, 26 febbraio 2008; Trib. Genova, 6 novembre 2007; Trib. Monza, 28 giugno 2007; Trib. Milano, ord., 20 novembre 2004; Trib. Modena, 20 ottobre 2004; Trib. Pescara, 28 febbraio 2003; Trib. Bologna, 3 ottobre 2000.
[4] www.condominioelocazione.it, nota a sentenza del 29 settembre 2020; vedi anche Cerri, La Suprema Corte definisce la nozione di consumatore nella composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il diritto fallimentare, 2016, pp. 1291 ss.
[5] De Cristofaro, Diritto dei consumatori e rapporti contrattuali del condominio: la soluzione della Corte di Giustizia UE, in Nuova giur. civ. comm.,2020, I, p. 844.
[6] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilità delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. UE del 2 aprile 2020, in Nuove leggi civili commentate, 2021, pp. 594-596.
[7] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, in Nuove leggi civili commentate, 2020, pp. 1375-1376.
[8] Ex multis: Corte di Giustizia, 5 dicembre 2013, in causa C-508/12; Corte di Giustizia. 19 gennaio 1993, in causa C-89/91 e Corte di Giustizia, 21 giugno 1978, in causa C-150/77.
[9] Corte di Giustizia, 22 novembre 2001, cause riun. C-541/99 e C-542/99, nella quale sono state escluse dalla nozione di consumatore sia la società in nome collettivo sia la società a responsabilità limitata, facendo leva proprio sulla impossibilità di ricondurre questi tipi sociali alla nozione di “persona fisica”.
[10] A tal proposito, il ragionamento della Corte è evidente, ad esempio: al punto 22 (“occorre stabilire se un soggetto giuridico che non sia una persona fisica possa (...) rientrare nella nozione di consumatore”); al punto 26 (“il giudice del rinvio indica che nell’ordinamento italiano un condominio è un soggetto giuridico che non è né una “persona fisica”, né una “persona giuridica”); al punto 28 (ove muovendosi dalla considerazione che il condominio non può essere considerato una persona fisica si riconosce che gli Stati membri sono liberi di decidere se esso sia una vera e propria “persona giuridica” (...) ovvero un tertium genus non riconducibile né all’una né all’altra categoria) e al punto 37 della sentenza della Corte (ove si afferma che gli Stati membri possono estendere l’applicazione delle norme di recepimento della direttiva n. 93/13 CEE anche a “soggetti giuridici” (...) che non rientrano nella nozione di consumatore” e si individua esplicitamente proprio nel condominio, quale concepito nel diritto italiano, un esempio tipico di soggetti giuridici siffatti).
[11] Foresta, Il recente approdo della Corte di Giustizia sul condominio consumatore, in Studium iuris, 2021, p. 18.
[12] De Cristofaro, Diritto dei consumatori e rapporti contrattuali del condominio: la soluzione della Corte di Giustizia UE, cit., pp. 845 ss.
[13] App. Milano, 13 novembre 2019, n. 4500. Si consideri, per esempio, la sentenza della Corte d’Appello di Genova il 20 novembre 2020, in cui si trattava di stabilire se un condominio-centro commerciale potesse essere considerato come consumatore. I giudici della Corte d’Appello hanno ritenuto che il condominio in questione rientri nella categoria dei consumatori. Posto che, precisava la Corte, la questione rilevante consisteva nel verificare se il condominio svolgesse un’attività imprenditoriale o professionale o se tale attività fosse svolta da tutti i suoi condòmini o da una parte prevalente di essi, tale ultima situazione non ricorreva nel caso di specie, non potendosi escludere, per la sola denominazione di “condominio-centro commerciale”, che il complesso edilizio fosse costituito da negozi ed abitazioni, anziché esclusivamente da persone giuridiche e/o imprenditori. La Corte d’Appello sembra correlare la qualifica di consumatore non ad una “formalistica” condizione permanente del soggetto, bensì alla “sostanziale” attività dello stesso, ed alla finalità dell’atto negoziale posto in essere. Si dovrebbe escludere la qualità di consumatore non al condominio-centro commerciale in quanto tale, ma solo a quello in cui tutti i condòmini svolgano un’attività commerciale, essendo necessaria, per tale via, una verifica ex post dello scopo per cui sia stato concluso il contratto. Se tale situazione non ricorre, si deve ritenere che tutti i contratti condominiali, in quanto volti alla conservazione/manutenzione delle parti dell’edificio o al funzionamento dei servizi comuni, non sono connessi all’attività imprenditoriale e/o professionale eventualmente svolta nelle singole unità immobiliari (Bordolli, Il condominio destinato a centro commerciale, composto di negozi e abitazioni, può essere considerato come un “consumatore”, 2021, in condominioelocazioni.it).
[14] Chiesi, Condominio: “essere o non essere” (consumatore)?, in Immobili&Proprietà, 2020, p. 498.
[15] Celeste, Il condominio diventa "consumatore" sia pure solo se le unità immobiliari dell'edificio risultino prevalentemente di proprietà di persone fisiche, 2021, in condominioelocazione.it
[16] Calvo, Complessità personificata o individualità complessa del condominio-consumatore, in Giur. It., 2020, p. 1326, il quale aggiunge che il criterio della prevalenza, se applicato a tali soluzioni, “rende a nostro avviso arbitraria e sindacabile qualunque soluzione prescelta. Si rinnovi alla memoria che le ipotizzate impasse sono in apicibus annientate ove si segua l’orientamento da noi proposto, facente perno sulla categoria razionalizzante e unificatrice dell’atto obiettivo di consumo”. A tal proposito, Pagliantini, Il consumatore “frastagliato” (Istantanee sull’asimmetria contrattuale tra vicende circolatorie e garanzie), Pisa, 2021, pp. 77 ss., ha obiettato che “ragionare di un atto oggettivo di consumo, scisso dalla qualità soggettiva dei condòmini (…) riscrive il disposto dell’art. 3 lett. a) c. cons.”, dove non vi è menzione “di una neutralità soggettiva degli atti soppiantata da una rilevanza del loro contenuto oggettivo”.
[17] Cerri, Il condominio è qualificabile come consumatore? La questione rimessa alla Corte di giustizia, in il Corriere giuridico, 2020, pp. 207-208.
[18] Stella Richter, Il tramonto di un mito: la legge eguale per tutti (dal diritto comune dei contratti al contratto dei consumatori), in Giust. Civ., 1997, II, pp. 201 ss., ove si precisa che “l’orientamento non merita consenso: non convince né l’assunto secondo cui il diritto dei consumatori sarebbe diritto speciale come tale non applicabile quasi per definizione, né il richiamo ad una norma ormai abrogata quale l’art. 54 c. comm”.
[19] Atelli, Consumo individuale e consumo “aggregato”: insufficienze del modello legale del consumatore in Tendenze evolutive nella tutela del consumatore, 1998, p. 34; a tal proposito, vedi anche Minervini, Condominio e consumatore, in Giur. It., 2022, p. 253, dove si sottolinea che “neanche questo orientamento merita consenso: l’arbitrarietà dell’argomentazione addotta a sostegno è palese”.
[20] Calvo, Complessità personificata o individualità complessa del condominio-consumatore, cit., p. 1326.
[21] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, cit., pp. 1380-1381.
[22] Spoto, Il condominio non è un consumatore ma ha le stesse tutele, in Corriere giuridico, 2020, p. 901.
[23] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, cit., p. 1381.
[24] Simeon, Il condominio è un consumatore? La decisione della Corte di Giustizia non scioglie i dubbi, in Giur. Comm., 2021, II, pp. 476 ss.
[25] Bin, Clausole vessatorie: una svolta storica (ma si attuano così le direttive comunitarie?), in Contratto Impr./Europa, 1996, p. 436; vedi anche Minervini, Condominio e consumatore, cit., p. 251, ove si aggiunge che la tesi va ben oltre il “punto di rottura” in quanto l’art. 3 lett. a c. cons. parla chiaro e non ammette una siffatta interpretazione estensiva.
[26] Ai sensi del comma 24 ter, lett. b, dell’art. 14 l. n. 246 del 28 novembre 2005, espressamente richiamato dallo stesso art. 32 cit.
[27] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilita` delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. Ue del 2 aprile 2020, cit., p. 619.
[28] A tal proposito, Pagliantini, Il consumatore “frastagliato” (Istantanee sull’asimmetria contrattuale tra vicende circolatorie e garanzie), cit., p. 70, sottolinea che non è ammissibile il ricorso all’analogia in quanto quest’ultima non è una “formula magica”, sicchè se non vi è una lacuna “l’interprete non può maneggiare lo scopo di protezione come se questa ci fosse”.
[29] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilità delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. Ue del 2 aprile 2020, cit., p. 621.
[30] A contrario, Minervini, Condominio e consumatore, cit., p. 251, obietta che “non si rinvengono ragioni di coerenza e completezza del sistema, tali da giustificare siffatta equiparazione”.
[31] Scapellato, Per la Corte di giustizia UE la tutela del consumatore può estendersi al condominio, in Giurisprudenza italiana, 2021, p. 1594.