L’ANGELO DEL CRIMINE recensione di Franco Caroleo
La storia del più famoso serial killer argentino: i delitti surreali di un candido biondino in un film sospeso tra sensibilità e insensatezza.
Carlitos è un puttino di bellezza preraffaelita, riccioli d’oro e labbra tumide. Carlitos è il più famoso serial killer che ha sconvolto l’Argentina negli anni ‘70.
Dopo Ted Bundy, esce nelle sala italiane un altro film chiamato a scardinare le logiche lombrosiane: con “L’angelo del crimine” (titolo originale “El Angel”, prodotto da Pedro Almodóvar e presentato a Cannes 2018 nella Sezione Un certain regard), Luis Ortega ci regala il ritratto di un giovanissimo criminale dal volto angelico e dalla distaccata spietatezza.
È la vera storia del diciassettenne Carlos Robledo Puch, conosciuto come “l’angelo della morte” o “l’angelo nero”, che tra il 1971 e il 1972 a Buenos Aires ha compiuto 42 rapine e 11 omicidi.
Ma scordatevi gli heist movie. Non ci sono piani architettati accuratamente e non ci sono colpi grossi.
Il nostro angelo non sembra molto interessato ad uccidere e a rubare: balla, esplora, si mira e si rimira agli specchi delle case di lusso, teatro delle sue scorribande.
Carlitos ondeggia tra la psicopatia e la normalità, mentre ammicca suadente a Ramon, suo compagno di avventure, dal quale vorrebbe essere amato nel segno di un’omosessualità dolce e pudica.
E nel suo ondeggiare ci confonde, come ci confondono le sue decisioni criminali e le sue emozioni, sempre al limite tra sensibilità e insensatezza, tra indifferenza e rimorso.
L’Argentina post-peronista, i pantaloni a zampa, il rock ferroso (c’è pure spazio per una frizzante versione spagnola di House of the rising sun) e le luci calde fanno da sfondo a questi delitti sospesi in un’atmosfera surreale di lieve follia: fughe rallentate, sparatorie insicure, intervalli di lucida crudeltà.
Qualcuno rimprovera al regista di essersi innamorato della sua ricostruzione estetica e di aver rivolto troppa attenzione alla superficie esterna della vicenda, depurandola dal contesto storico e sociale.
Obiezione per certi versi condivisibile.
Ma forse questa superficialità è la stessa che predomina in quell’Argentina del terrorismo nero, in cui dilagava la disinformazione e mai si sarebbe potuto immaginare che potesse essere una minaccia un biondino dai modi gentili.
E poi, il magnetismo dell’angelo (nella magistrale interpretazione dell’esordiente Lorenzo Ferro), l’eleganza della fotografia e il finale delirante stanno lí a ricordarci che il cinema è, prima di tutto, visione.