Procedimento: aprire il Regio Decreto n. 267/1942 e sfogliarlo fino ad arrivare al comma secondo, numero 1) dell’art. 219 [oggi art. 326, comma 2, lett. a) del Decreto Legislativo n. 14/2019], travisare le Sezioni Unite della Cassazione, aggiungere un pizzico di circostanze attenuanti generiche e bilanciarle in equivalenza con più fatti di bancarotta… ed ecco servito il perfetto pasticcio giuridico.
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L’articolo 219 del Regio Decreto n. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare), rubricato «circostanze aggravanti e circostanza attenuante», prevede, al comma 2, n. 1), che le pene stabilite nei precedenti articoli 216, 217 e 218 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») «sono aumentate… se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati» (tale disposizione è oggi pedissequamente confluita nell’art. 326, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 14/2019, meglio noto come “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, introdotto nel nostro ordinamento in attuazione della Legge n. 155/2017 ed entrato in vigore in data 15.7.2022, giusto D.L. n. 36/2022[1]): si tratta della c.d. continuazione fallimentare, che – secondo un’ormai consolidata dottrina e giurisprudenza – comporta una deroga ex lege, in un’ottica di maggior favore per l’imputato, rispetto alla generale disciplina del reato continuato, di cui al capoverso dell’art. 81 c.p.[2], per l’ipotesi in cui il reo commetta, per l’appunto, più reati fallimentari (ad es., una bancarotta semplice e una fraudolenta oppure una bancarotta fraudolenta documentale e una per distrazione) ovvero più condotte illecite tali da integrare il medesimo reato fallimentare (ad es., più condotte distrattive).
Tale deroga opera senz’altro sul piano sanzionatorio, in quanto – come sopra accennato – determina un aumento di pena per la «violazione più grave» fino a un terzo, in luogo dell’aumento «sino al triplo» previsto dall’art. 81 cpv c.p.: in altri termini, anche l’art. 219 L.F., così come l’art. 81 cpv c.p., sostituisce al criterio del cumulo materiale, comportante la mera somma algebrica delle pene irrogate per i vari reati commessi, quello del c.d. cumulo giuridico, ma l’entità della pena da irrogare è sensibilmente ridotta.
Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la continuazione fallimentare deroghi alla disciplina “ordinaria” dettata dalla disposizione normativa da ultimo citata anche sotto un altro profilo (che pure ha dei risvolti sul piano del trattamento sanzionatorio, come si dirà meglio infra): l’assoggettamento al giudizio di bilanciamento – ex art. 69 c.p. – con le circostanze attenuanti, ivi comprese quelle di cui all’art. 62 bis c.p.
E invero, alla stregua di questo indirizzo ermeneutico, avallato anche dalla giurisprudenza di legittimità, l’art. 219 L.F. configura – quantomeno sul piano formale – una circostanza aggravante, il che, come anzidetto, «ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le eventuali attenuanti (Fattispecie in cui vi era stata in altra sentenza irrevocabile un giudizio di equivalenza tra l'aggravante di cui all'art. 219 legge fall. e le circostanze attenuanti generiche, e la Corte ha ritenuto illegale l'aumento della pena in continuazione per un'ulteriore autonoma condotta di bancarotta)» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018 e da ultimo, in senso analogo, Cass. Pen., Sez. V, n. 34216/2024).
Tuttavia, questo approdo esegetico già prima facie non convince, perché genera un “monstrum” (nel senso etimologico del termine), nella misura in cui trasforma degli accidentalia delicti come le circostanze attenuanti (ivi comprese le generiche) in un “fatto giuridico” che impedisce in concreto, per una o più ipotesi di bancarotta, l’applicazione della relativa pena.
Ipotizziamo infatti che, dopo aver commesso nello stesso contesto spazio-temporale due bancarotte fraudolente per distrazione, l’una dell’importo di euro 10.000,00 e l’altra del valore di euro 5.000,00, Tizio venga ritenuto meritevole delle circostanze attenuanti generiche: ebbene, avallando questo orientamento interpretativo, le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. andrebbero in bilanciamento con la continuazione fallimentare (in quanto ritenuta, per l’appunto, una circostanza aggravante) e, in caso di equivalenza tra le ritenute circostanze ovvero di prevalenza delle generiche, il predetto risponderebbe della sola violazione più grave, ossia la distrazione di 10.000,00 euro, senza subire alcun aumento di pena per effetto dell’ulteriore condotta delittuosa (la distrazione meno grave), sostanzialmente eliminata con un colpo di spugna all’esito del giudizio di bilanciamento.
Detto altrimenti, lungi dall’assolvere una funzione mitigatrice del trattamento sanzionatorio, le circostanze attenuanti generiche finirebbero col caducare, sul piano del trattamento sanzionatorio, intere fattispecie di reato: il che costituirebbe all’evidenza di un unicum nel nostro panorama giuridico.
Ciò, inoltre, potrebbe dispiegare un effetto potenzialmente criminogeno, in considerazione della maggiore “convenienza” a commettere più fatti di bancarotta.
Torniamo al nostro esempio e immaginiamo che Tizio abbia commesso la bancarotta fraudolenta distrattiva dell’importo di 10.000,00 in concorso con Caio; immaginiamo altresì che, alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.p., il Decidente decida di irrogare ad entrambi gli imputati il minimo della pena e di concedere loro le circostanze attenuanti generiche.
In questo caso:
§ ipotizzando una riduzione ex art. 62 bis c.p. nella massima estensione possibile, per la bancarotta distrattiva commessa in concorso con Tizio Caio verrebbe condannato alla pena finale di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
§ a fronte di due condotte distrattive, del valore complessivo di 15.000,00 euro (di cui una – quella di 10.000,00 euro – commessa in concorso con Caio), Tizio verrebbe condannato:
- in caso di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla continuazione fallimentare, alla medesima pena di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
- in caso di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare, alla pena – di poco superiore – di anni tre di reclusione (pari al minimo edittale).
E lo stesso varrebbe se, invece di commettere due distrazioni del valore complessivo di 15.000,00 euro, il nostro Tizio decidessero di commetterne tre, quattro, dieci, per migliaia e migliaia di euro: per assurdo, dunque, sarebbe più vantaggioso per il reo commettere più condotte distrattive e sperare nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Certo, si potrebbe obiettare che tali considerazioni (più di tipo “pratico” che “dogmatico”) a nulla rileverebbero, fatti salvi eventuali profili di illegittimità costituzionalità, di fronte all’insindacabile volontà del Legislatore – com’è noto, “libero nei fini” – di configurare la continuazione fallimentare come una circostanza aggravante.
E, in tal senso, l’orientamento ermeneutico in commento sembrerebbe godere dell’autorevole avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: basta infatti consultare una qualunque banca dati per appurare che tra i “precedenti conformi” figura Cass. Pen., Sez. Un., n. 21039/2011.
E giù il sipario sulla questione in esame!
Ma ecco il coup de théâtre che non ti aspetti: per il Giudice della nomofilachia la continuazione fallimentare non costituisce una circostanza aggravante, se non sul piano squisitamente formale.
È sufficiente, invero, leggere la “massima” della pronuncia da ultimo citata per comprendere che, secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte, «In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 cod. pen.».
In termini maggiormente esplicativi, l’Organo nomofilattico – come meglio chiarito nella parte motiva della sentenza, alle pp. 10 e ss. – ha sposato l’indirizzo interpretativo alla stregua del quale l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. prevede esclusivamente una fittizia unificazione quod poenam di plurimi e autonomi fatti di bancarotta commessi dal reo in un contesto spazio-temporale unitario, nella prospettiva di contenere – in modo ancor più pregante rispetto alla disciplina di cui al capoverso dell’art. 81 c.p. – la risposta punitiva dello Stato («Tale scelta appare chiaramente ispirata dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica»: cfr. p. 16). Tanto più che – come rammentato dalla stessa Suprema Corte – al momento dell’entrata in vigore dell’art. 219 L.F., l’ambito operativo dell’art. 81 cpv c.p. era circoscritto alle sole ipotesi di «più violazioni della stessa disposizione di legge», sicché la disciplina derogatoria in commento si caratterizzava, oltre che per un più mite trattamento sanzionatorio, anche per una più ampia portata applicativa (trovando applicazione, come anzidetto, pure nelle ipotesi di commissione di più reati fallimentari).
Ma procediamo con ordine.
La pronuncia delle Sezioni Unite prende l’abbrivio da una vicenda processuale che dà plasticamente contezza delle “storture” derivanti dall’indirizzo esegetico dell’“unitarietà della bancarotta”, in quanto – come evidenziato nell’ordinanza di remissione della Quinta Sezione Penale del 7.19.2010 – «riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne preclud[e] il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi in definitiva in contrasto con la logica del sistema penale e con gli articoli 3 e 112 della Costituzione» (cfr. p. 2 della sentenza delle Sezioni Unite): all’imputato, infatti, era stato contestato il delitto di cui all’art. 216, co. 1, n. 1) L.F., per avere dissipato, distratto, occultato e dissimulato attività della società di cui lo stesso era legale rappresentante, prelevando in più occasioni somme di danaro dai conti correnti sociali, sennonché, avendo patteggiato la pena – ex art. 444 c.p.p. – per i reati, relativi al medesimo fallimento, di bancarotta semplice e bancarotta preferenziale, il Giudice della cognizione aveva pronunciato nei suoi confronti sentenza di non doversi procedere per bis in idem, ritenendo nello specifico che, per quanto non sovrapponibili naturalisticamente, i delitti oggetto del secondo giudizio dovessero cionondimeno ritenersi assorbiti nel disvalore dell’unitario delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale già giudicato con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Quindi, dopo avere esaminato – anche in una prospettiva storica e comparatistica (avuto riguardo al codice di commercio del 1882 e al codice di commercio francese del 1807) – il «principio della c.d. unitarietà della bancarotta, secondo il quale il reato resta unico anche se realizzato attraverso una molteplicità di fatti» (cfr. p. 11), le Sezioni Unite hanno chiarito che gli articoli 216 e 217 L.F. sono inquadrabili nella categoria dogmatica delle “disposizioni a più nome” (o nome miste cumulative), in quanto prevedono diverse ed autonome ipotesi incriminatrici (ad es., con riferimento all’art. 216 L.F., bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e preferenziale), per poi concludere nel senso che «con l’abbandono della concezione del fallimento come evento e in considerazione del fatto che i comportamenti dell’imprenditore insolvente possono essere estremamente eterogenei per tipologia o offensività, deve ritenersi che i plurimi fatti di bancarotta nell’ambito del medesimo dissesto fallimentare, pure unificati normativamente nella previsione dell’art. 219, comma 2, n. 1, legge fall., rimangono naturalisticamente apprezzabili, se riconducibili a distinte azioni criminose, e sono da considerare e da trattare come fatti autonomi, ciascuno dei quali costituisce un autonomo illecito penale» (cfr. p. 15).
Prima di addivenire a tale conclusione, il Giudice della nomofilachia ha passato in rassegna i diversi argomenti a sostegno delle due diverse opzioni ermeneutiche, come di seguito compendiati.
Militano a sostegno della “tesi della circostanza aggravante” due (validi) argomenti:
§ quello letterale (come dianzi detto, nella rubrica dell’art. 219 L.F. il Legislatore ha adoperato il nomen iuris «circostanze»);
§ quello della “tecnica normativa” impiegata nella disposizione di legge in commento, che prevede genericamente un aumento di pena per l’ipotesi in cui il reo commetta più fatti di bancarotta, con un rinvio implicito, quindi, alla disciplina di cui all’art. 64 c.p.
Tuttavia, «il riferimento formale e anche quello funzionale a tale categoria giuridica non sono coerenti – prosegue la Cassazione a Sezioni Unite – con la connotazione strutturale della stessa», difettando nella specie «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16): e invero, la «circostanza» (dal latino “circum stans”, “che sta attorno”) “accede” sempre ad un fatto di reato, del quale costituisce un elemento (non essenziale, bensì) accidentale, in quanto può esserci o non esserci senza che il reato stesso venga meno.
Inoltre, considerato che ciascuno dei fatti previsti dall’art. 219 L.F. costituisce un’autonoma ipotesi delittuosa, avente la medesima “dignità giuridica”, non coglie nel segno – prosegue la sentenza in esame – l’assunto secondo cui «il legislatore avrebbe considerato proprio la pluralità dei fatti di bancarotta come una circostanza aggravante», non ravvisandosi «alcuna ragione logica per assegnare ad uno o più di essi la funzione di circostanza, declassando così condotte tipiche di determine fattispecie incriminatrici ad accadimento eventuale di altra fattispecie incriminatrice» (cfr. p. 16).
Aderendo alla “tesi della circostanza aggravante”, invero, si finirebbe col sostenere che il Legislatore ha inteso punire, in caso di commissione di plurimi fatti di bancarotta, la sola violazione più grave, prevedendo poi un aumento di pena per il fatto in sé – quale elemento circostanziante della fattispecie – dell’avere il reo commesso più reati di tale tipologia (indipendentemente dal loro numero).
E ancora, dopo avere esplicitato le ragioni per cui la disposizione normativa in commento non delinea né un «un reato unico nella forma del reato complesso» né un «reato abituale» (cfr. pp. 16 e 17), la Cassazione a Sezioni Unite ha statuito nel senso che «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. disciplina, nella sostanza un’ipotesi di concorso di reati autonomi e indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» (cfr. p. 16).
In altri termini, l’art. 219, co. 2, n. 1 L.F. veste l’abito giuridico della «circostanza aggravante», ma, nella sostanza, integra un’ipotesi speciale di “continuazione”.
Del resto, come rammentato dallo stesso Consesso nomofilattico, non si tratterebbe di una novità assoluta nel nostro ordinamento, atteso che anche l’ultimo comma dell’art. 589 c.p. («omicidio colposo»), «pur atteggiandosi apparentemente come circostanza aggravante, non è tale e non costituisce neppure un’autonoma figura di reato complesso, ma configura, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, un’ipotesi di concorso formale di reati, nella quale l’unificazione rileva solo quoad poenam, con la conseguenza che, ad ogni altro effetto, anche processuale, ciascun reato rimane distinto e autonomo» (cfr. p. 17): analoghe considerazioni, poi, valgono oggi – come si dirà meglio nel prosieguo della trattazione – per l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. («omicidio stradale»), introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge n. 41/2016.
Infine, prima di esplicitare le ragioni per cui «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. opera sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti indifferentemente dai precedenti artt. 216 e 217» e 218 L.F. (cfr. p. 18), nonché nelle ipotesi di «bancarotta impropria» (cfr. p. 19), la Cassazione a Sezioni Unite non ha omesso di evidenziare le «conseguenze paradossali» potenzialmente derivanti dall’applicazione dell’indirizzo ermeneutico dell’“unitarietà della bancarotta”: «esemplificativamente, una condanna per bancarotta preferenziale di scarso rilievo condurrebbe all’impunità di altri e più gravi fatti di bancarotta fraudolenta commessi dallo stesso soggetto nell’ambito dello stesso fallimento ed emersi solo successivamente al fatto giudicato» (cfr. p. 18).
Sennonché, prendendo le mosse dalla medesima premessa epistemologica del Giudice della nomofilachia («È indubbio che, sul piano formale, si è di fronte a una circostanza aggravante»: cfr. p. 16 della pronuncia in commento), la giurisprudenza di legittimità successiva è pervenuta alla conclusione che «la configurazione, sotto il profilo formale, della c.d. continuazione fallimentare, di cui all'art. 219, co.2 n.1, legge fall., quale circostanza aggravante, ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (Sez. 5, n. 21036 del 17/04/2013 Rv. 255146; Sez. 5, n. 51194 del 12/11/2013 Rv. 258675)» (cfr., ex multis, la summenzionata Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018, a pag. 2 della parte motiva), talvolta avendo anche cura di precisare che «tale conclusione è perfettamente in linea con la sentenza Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011 Rv. 249665 che ha affrontato il complesso tema della pluralità di fatti di bancarotta e del metodo di determinazione della pena» (cfr. ibidem).
A parere di chi scrive, invece, affermare che l’art. 219, comma 2, n. 1) L.F. costituisce una circostanza aggravante, in quanto tale soggetta al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, significa travisare il dictum e le motivazioni delle Sezioni Unite, secondo cui – lo si ribadisce – il Legislatore ha soltanto fatto «ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» per unificare fittiziamente nel cumulo giuridico plurimi e autonomi fatti di reato, difettando nella specie proprio il “substrato giuridico” della «circostanza», vale a dire «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16 della pronuncia delle SS.UU.).
Innanzitutto, non si comprende come una “circostanza attenuante” possa concretamente determinare, per effetto del giudizio di bilanciamento con una o più aggravanti, l’obliterazione sul piano sanzionatorio di uno o più fatti di bancarotta: e qui torniamo – in una sorta di Ringkomposition – alle “considerazioni pratiche” rassegnate all’inizio della trattazione.
Per definizione, infatti, le «circostanze attenuanti» hanno l’effetto di “circostanziare” il fatto di reato cui accedono, mitigandone – in ragione della minore gravità – il relativo trattamento sanzionatorio, non già quello di impedire in radice, per quella specifica ipotesi di reato, l’applicazione della pena.
Del resto, il “favor rei” non può e non deve trasmodare in “privilegium rei”, perché – come ci ricordano le stesse Sezioni Unite, sia pure sotto un diverso angolo prospettico – caducare intere fattispecie di reato «si pone in contrasto con la logica del sistema penale e con gli artt. 3 e 112 Cost.» (cfr. p. 18).
E ciò non può che valere a fortiori per una “circostanza” che tale è nella forma, ma non nella sostanza.
Tali considerazioni giuridiche, poi, trovano un rassicurante riscontro nella giurisprudenza di legittimità in materia di «omicidio stradale» colposo, secondo cui «il disposto di cui all'art. 589-bis, comma ottavo, cod. pen., relativo al caso di morte di più persone ovvero a quello di morte di una o più persone e di lesioni in danno di una o più persone, non configura né un'autonoma ipotesi di reato complesso, né una specifica aggravante, ma disciplina un caso di concorso formale di reati, unificati solo "quoad poenam", sicché ciascuno di essi conserva la propria autonomia» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. IV, n. 12328/2024, nonché Cass. Pen., IV Sez., n. 14069/2024; in senso analogo, ma con riferimento al delitto di «omicidio colposo» di cui all’art. 589 c.p., cfr. Tribunale di Sondrio - Sezioni Ufficio Indagini Preliminari del 10.3.2005, secondo cui «La fattispecie di cui all'art. 589 comma 3 c.p. non dà luogo ad una circostanza aggravante, bensì ad un concorso formale omogeneo di reati, per il che esso non può essere posto in bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche»).
In particolare, in alcune di tali pronunce – perfettamente sovrapponibili a quella delle Sezioni Unite del 2011 in materia di continuazione fallimentare [come anzidetto, infatti, è stato lo stesso Giudice della nomofilachia ad equiparare, sul piano dogmatico, l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. e l’ultimo comma dell’art. 589 c.p.] – la Suprema Corte ha altresì avuto modo di precisare che l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. non va posto in bilanciamento con eventuali circostanze, sicché, in presenza di esse, il Giudice dovrà dapprima individuare la pena da irrogare, già tenuto conto dell’aumento di cui all’ottavo comma, e solo successivamente effettuare le riduzioni o gli aumenti di pena in relazione alle sussistenti circostanze attenuanti o aggravanti.
Ebbene, applicato tale criterio di calcolo – mutatis mutandis – all’ipotesi di cui all’art. 219, co. 2, n. 1) L.F., al nostro Tizio dovrebbe applicarsi la seguente pena:
§ “pena base” per la bancarotta fraudolenta per distrazione dell’importo di 10.000,00 euro, anni tre di reclusione (pari al minimo edittale);
§ aumentata di 1/3 per la c.d. continuazione fallimentare con la meno grave bancarotta distrattiva (ipotizzando un aumento nella misura massima consentita) alla pena di anni quattro di reclusione;
§ infine, ridotta di 1/3 per le circostanze attenuanti generiche (ipotizzando una riduzione nella massima estensione) alla pena di anni due e mesi otto di reclusione.
E dal momento che “la matematica non è un’opinione”, è interessante osservare come l’opzione ermeneutica della “circostanza aggravante” comporterebbe, nel caso di cui all’esempio, l’irrogazione di una pena più aspra (anni tre di reclusione, previo bilanciamento con giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare) rispetto a quella che si infliggerebbe a Tizio qualificando correttamente l’art. 219 co. 2, n. 1) L.F. – in ossequio al dettato delle Sezioni Unite – come un’ipotesi di concorso formale di reati unificati quod poenam nel cumulo giuridico (come appena detto, anni due e mesi otto di reclusione).
In definitiva, l’assoggettamento della continuazione fallimentare al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche costituirebbe, nel caso di specie, un “error in procedendo” in senso più sfavorevole per l’imputato: e allora sì che questo “pasticcio giuridico” sarebbe davvero completo.
[1] Si osservi, per completezza espositiva, che gli articoli 216, 217 e 218 del R.D. n. 267/1942 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») sono stati trasposti, con alcune modifiche marginali, negli artt. 322, 323 e 325 del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
[2] A tenore del quale «È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo … chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge».
Immagine: Sandro Taurisani, Il caos n. 3.
