1. L’indipendenza della magistratura presuppone che sia possibile distinguere tra giustizia e potere. Pone quindi un problema culturale prima che istituzionale.
Infatti una cultura millenaria, che si fa risalire ai sofisti greci, sostiene che l’evocazione della giustizia è sempre solo una maschera retorica destinata a dissimulare l’esercizio del potere, perché tutti i rapporti umani sono in realtà solo e sempre rapporti di potere[1].
La riviviscenza di questa cultura sta oggi erodendo dal di dentro le istituzioni democratiche, perché si accetta così un solo campo di gioco, quello del potere esercitato anche per mezzo della forza.
Quando si afferma che il diritto internazionale non esiste o si discredita la Corte penale internazionale; quando si denuncia la politicizzazione dei magistrati in quanto impegnati a ostacolare l’attività di governo, si disconosce appunto la possibilità di distinguere tra giustizia e potere.
L’accusa di politicizzazione riduce la magistratura a potere senza giustizia.
Parlando della riforma costituzionale che in primavera sarà sottoposta a referendum confermativo, la Presidente del Consiglio dei ministri e altri autorevoli esponenti del Governo hanno affermato che occorre porre rimedio alle ricorrenti invasioni di campo della magistratura.
Secondo il sottosegretario Mantovano, in particolare, «oggi c’è il blocco delle espulsioni grazie a decisioni giudiziarie, c’è il blocco della sicurezza, della politica industriale che voglia raggiungere certi obiettivi, si pensi all’Ilva, grazie a decisioni giudiziarie. C’è un’invasione di campo che deve essere ricondotta».
Il discorso non riguarda dunque solo i giudici penali, che occorrerebbe separare dai pubblici ministeri, ma anche i giudici civili.
Peraltro, con l’abituale candore, il ministro Nordio riconosce che il fenomeno della presunta invasione di campo dei magistrati non è solo italiano, ma riguarda anche altri paesi; e poiché cita il giurista francese Garapon, finisce per ammettere che quel fenomeno riguarda anche paesi in cui le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate.
Il problema cui si intende porre rimedio non è dunque quello della unicità di carriera di pubblici ministeri e giudici italiani, ma quello dell’indipendenza della giurisdizione, che, con il crescente svuotamento del ruolo dei parlamenti, è rimasta la sola istituzione idonea a limitare il crescente potere degli esecutivi.
Nasce qui, e non solo in Italia, il conflitto tra Governo e Giurisdizione, che attiene così ai limiti dell’attività di governo e al ruolo della giurisdizione in uno Stato di diritto; al rapporto tra sovranità popolare e autorità di garanzia.
Questo spiega perché si interviene addirittura sulla Costituzione per separare carriere già di fatto separate nell’ordinamento giudiziario riformato da ultimo dalla ministra Cartabia.
A dispetto del titolo assegnatole, in realtà, i problemi della giustizia sono del tutto estranei alla riforma costituzionale oggi in discussione, come riconoscono del resto gli stessi proponenti. Infatti nessuno chiarisce cosa ci sia della vantata ispirazione liberale in una riforma intesa a delegittimare la giurisdizione. Mentre è pura invenzione propagandistica la sua necessaria derivazione dalla riforma del codice di procedura penale del 1988, posto che la separazione delle carriere si ritrova anche in sistemi processuali tuttora inquisitori, come quello francese, non solo in quelli inglese e americano, indicati quali modelli di processo accusatorio.
Il vero obiettivo sembra dunque essere proprio e solo il referendum sulla riforma costituzionale, che permetterà di trascinare la magistratura al giudizio del popolo, addebitandole inefficienze ed errori che con la separazione delle carriere non hanno nulla a che vedere. Ed è la riduzione della magistratura a mero potere senza giustizia che dovrebbe permettere al Governo di ricondurla all’ordine, sconfiggendola nelle urne referendarie.
Se l’operazione riuscirà, non saranno necessarie neppure ulteriori riforme costituzionali per contenere la giurisdizione. Una magistratura sconfitta dal popolo è una magistratura culturalmente sottomessa.
2. A una negazione della separazione tra giustizia e potere è destinato anche il sorteggio per la selezione dei componenti dei due Csm e della istituenda Corte di giustizia.
Nelle intenzioni dei riformatori il sorteggio è un rimedio contro la degenerazione delle correnti in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati, che da espressioni di autentico pluralismo culturale e professionale si sono ridotte a centri di potere clientelare.
Sennonché la degenerazione delle correnti deriva in realtà dall’involuzione corporativa dell’ANM, un tempo impegnata nella promozione e nella tutela di interessi collettivi, ora ridotta a piccolo sindacato di categoria. Da anni si assiste infatti a una sostanziale omogeneizzazione della dirigenza dei gruppi associativi su posizioni corporative, frequentemente in palese e piena incoerenza con le proclamazioni valoriali e programmatiche.
Affidare al sorteggio la selezione dei componenti dei due Csm e della Corte di giustizia aggraverebbe questa involuzione corporativa, perché il solo titolo di legittimazione dei selezionati rimarrebbe appunto quello dell’appartenenza alla corporazione, senza alcun riferimento alle diverse idee di giustizia che ne giustifichino l’elezione. Intatti rimarrebbero comunque gli spazi di gestione dei centri di potere clientelare, anche se la loro rappresentanza consiliare risulterebbe affidata al caso anziché al consenso, comunque conseguito.
Anche così si ridurrebbe la magistratura a minuscolo potere corporativo, facilmente gestibile dal potere esecutivo perché privo di qualsiasi riferimento collettivo a un’idea di giustizia.
3. La propaganda a sostegno della riforma costituzionale risulta dunque evidentemente segnata da una crescente ambiguità.
Nella sua versione originaria la separazione delle carriere dei magistrati veniva giustificata con la considerazione che il rapporto di colleganza con il pubblico ministero può pregiudicare la terzietà del giudice.
In realtà non è stato mai attendibilmente accertato quale incidenza statistica abbia il cosiddetto “appiattimento” del giudice sulle posizioni del pubblico ministero. Né con riferimento al deplorato correntismo è sostenibile che i modelli di comportamento rivelati dallo scandalo dell’Hotel Champagne siano comuni a tutti i magistrati, sebbene forse a molti di coloro che sono chiamati a rappresentarli.
Ma è indiscutibile che gli avvocati sono inevitabilmente testimoni quotidiani di arroganze, ignavie, comode subalternità, quale che ne sia la rilevanza statistica.
È comprensibile dunque che il foro risulti tuttora schierato in favore della riforma costituzionale.
Tuttavia la più recente evoluzione delle motivazioni addotte a sostegno di questa riforma dovrebbe determinare una modifica nel quadro del consenso.
Le ripetute denunce di invasioni di campo della giurisdizione, estranee come s’è detto alla programmata separazione delle carriere, rivela che sono in realtà in discussione i limiti dell’attività di governo e il ruolo della giurisdizione in uno Stato di diritto. Ed è plausibile che l’avvocatura continui a dichiararsi favorevole a un’operazione destinata a incidere così pesantemente sull’esercizio della professione forense?
Qui non si tratta più di contrapporsi all’involuzione corporativa dell’ANM o di pretendere un’effettiva terzietà del giudice nei confronti del pubblico ministero. Si tratta oggi di evitare che gli avvocati si trovino a discutere dinanzi a un giudice intimidito se non eterodiretto.
Occorrerebbe dunque una mobilitazione civile, distinta dalle campagne referendarie dei partiti e delle corporazioni, per preservare il “campo” della giustizia contro la dietrologia populistica che, proclamando di smascherare il potere, lo libera in realtà da qualsiasi limite istituzionale. Una mobilitazione che non si limiti a dire un indispensabile “NO” ma proponga anche soluzioni alternative per una giustizia più inclusiva ed efficiente.
[1] S. Neiman, La sinistra non è woke, Utet 2025. L’autrice sostiene che qualsiasi posizione di sinistra non possa prescindere da una separazione tra giustizia e potere, fondata sull’universalismo dei diritti, piuttosto che sul tribalismo delle appartenenze (nazioni, generi, corporazioni, etc.), e sulla possibilità di promuovere un possibile, non più ineluttabile, progresso dell’umanità.
