Il pasticcio dell’eutanasia. Le colpe del “politicamente corretto”
di Giuseppe Cricenti
Sommario: 1. Tutta una serie di equivoci - 2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva - 3. La definizione di eutanasia - 4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto.
1. Tutta una serie di equivoci
La bocciatura del quesito referendario era prevedibile.
In effetti il referendum mirava ad abolire, quasi interamente, la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente producendo un effetto ben maggiore di quello che stava a cuore ai promotori: non solo avrebbe reso lecita l’eutanasia ma qualsiasi caso di morte data con il consenso della vittima, salvo ipotesi eccezionali.
Chiaramente, posto in questi termini, il quesito non poteva passare: per quanto ancora non nota la motivazione, mi pare evidente che, come si evince dal comunicato stampa della Corte, la preoccupazione è stata quella di evitare che i cittadini chiamati al referendum, nella convinzione di star facendo un’opera di bene per i malati terminali, inconsapevolmente acconsentissero anche a condotte che con l’eutanasia hanno nulla da condividere.
Perché si è arrivati a tanto?
Intanto, perché, sia nel senso comune, che tra molti dotti, non è chiaro cosa si intenda per eutanasia, che non è né suicidio assistito né omicidio del consenziente, ma un’altra e ben diversa cosa; inoltre perché la precedente decisione della Corte Costituzionale (n. 242 del 2019), sul famoso “caso Cappato”, quella confusione ha alimentato, facendo soverchio affidamento su una distinzione del tutto irrilevante e fuorviante, tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, ed ha fatto coincidere la prima con il suicidio assistito e la seconda con l’omicidio del consenziente, in modo del tutto ingiustificato: distinguo che ha indotto i promotori del referendum a chiedere l’abrogazione, almeno parziale, proprio dell’omicidio del consenziente, unica norma rimasta a sanzionare l’eutanasia, quella, per l’appunto, attiva.
Vediamo meglio perché.
Il senso della precedente decisione della Corte, ossia della sentenza n. 242 del 2019, era il seguente: se l’ordinamento riconosce il diritto del paziente di rifiutare le cure ancorché salvifiche, perché non dovrebbe riconoscere il diritto di morire facendosi aiutare da un terzo?[1]
In sostanza, conta l’autodeterminazione del paziente, nel senso che, nel ristretto ambito di casi in cui il malato è gravemente sofferente per una malattia irreversibile, è tenuto in vita artificialmente, ma è capace di prendere decisioni libere e consapevoli, allora «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita».
Conseguentemente, se il medico asseconda la determinazione del malato a morire, il suicidio assistito che ne risulta non è penalmente rilevante, e quindi l’art. 580 del codice penale, nella misura in cui invece lo sanziona, è illegittimo.
Ma i casi di assistenza del medico non si riducono a questo.
Infatti, osserva la corte[2] che la legge oggi vigente (il riferimento è alla legge n. 219 del 2017) consente al paziente di rifiutare le cure, ma non consente al medico una condotta attiva che causi la morte del sofferente, e neanche una condotta con cui il medico metta a disposizione del paziente mezzi utili a che costui possa provocarsela da sé.
In sostanza, la differenza tra la condotta lecita del medico e quella illecita è basata su un criterio naturalistico, vale a dire che dipende dalla circostanza che l’azione sia materialmente o meno compiuta dal paziente o dal sanitario.
Nell’operare questo distinguo, la corte ha ripreso una speciosa distinzione fatta dal Comitato di Bioetica, che, richiesto di un parere proprio sul caso oggetto di decisione, ha opinato come, nella misura in cui l’eutanasia consiste nell’anticipazione della morte del paziente per alleviarne le sofferenze, allora rientra nella fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Per contro, la differenza tra questo caso ed il suicidio assistito, starebbe nel fatto che è il paziente, nel suicidio assistito, a compiere l’ultimo atto[3]. Dunque, la validità di una qualificazione morale e giuridica dipende da una differenza meramente naturalistica: il paziente che prende da solo il farmaco, fornitogli dal medico, oppure il medico che glielo somministra direttamente. E cambia tutto.
Insomma, il Comitato di Bioetica, ed in una certa misura la stessa Corte costituzionale, richiamano distinzioni che sembravano superate, in quanto del tutto inutili, se non controproducenti, per una definizione dell’eutanasia. La distinzione tra azione ed omissione come distinzione naturalistica: l’agire è movimento corporeo, l’omissione no; e proprio per questo l’agire è causalmente efficiente e l’omissione no, o comunque, in alcune varianti, è causalmente meno determinante. Con la conseguenza che l’omissione va trattata in modo diverso, moralmente e giuridicamente più indulgente, dell’azione.
Ecco dunque perché il referendum ha dovuto avere ad oggetto la fattispecie dell’omicidio del consenziente.
Avendo la precedente decisione della Corte costituzionale, ritenuto penalmente irrilevante l’eutanasia passiva, considerata come caso di suicidio assistito, ed avendo invece lasciato in piedi la rilevanza penale di quella attiva, considerata un caso di omicidio del consenziente, ne è seguita la necessità, per coloro che intendevano rendere lecita ogni ipotesi di eutanasia, di chiedere l’abrogazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente, unica fattispecie rimasta in vigore a sanzionare l’eutanasia, quella attiva.
2. Il principale degli equivoci: la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva
Il referendum, dunque, ha avuto una strada obbligata: puntare sull’omicidio del consenziente poiché questa fattispecie era l’unica rimasta a decretare la rilevanza penale dell’eutanasia, meglio, di quella ipotesi di eutanasia che la Corte costituzionale aveva ritenuto ancora penalmente rilevante a cagione del fatto che lì è il medico che aiuta il paziente a morire, con una sua attiva condotta.
Sia detto, e non per mero inciso, che v’era di certo interesse a far dichiarare anche questa forma di eutanasia come lecita, poiché un conto è lasciar morire il paziente, interrompendo la cura, ad esempio staccando il respiratore o togliendo il sondino naso gastrico, oppure non somministrando più i farmaci, e altro ben diverso conto è invece procurargli qualcosa che lo faccia morire subito: questa seconda soluzione evita le spesso lunghe sofferenze causate invece dalla prima.
Non ho qui lo spazio per dimostrare che quella distinzione, sfruttando un sedicente diverso ruolo causale, e conseguentemente un diverso statuto morale, dell’azione rispetto all’omissione, è del tutto fallace ed irrilevante, cosi come lo è il ruolo dell’intenzione nella fattispecie dell’eutanasia[4].
Inoltre, è mancata del tutto una riflessione su cosa si intenda per eutanasia, e se solo si avesse avuto cura di considerare che si tratta di una vicenda del tutto diversa da quelle incriminate dal codice penale (art. 579 e 580 c.p.) ossia suicidio assistito e omicidio del consenziente, non avremmo avuto bisogno di rigettare un quesito referendario e non avremo bisogno di una legge: se solo la Corte Costituzionale, avesse evitato di operare quella distinzione enucleando una ipotesi di eutanasia- quella attiva- da intendere ancora come penalmente rilevante.
Vediamo come può definirsi l’eutanasia.
3. La definizione di eutanasia
Da quanto sino ad ora detto, emerge come, sgomberato il campo da quelle distinzioni, si possono individuare condizioni necessarie e sufficienti per definire l’eutanasia come pratica lecita, secondo il modello ipotizzato da T. Beauchamp e A Davidson[5], che risponde peraltro ad acquisizioni pressoché condivise in bioetica e filosofia morale. Secondo questa definizione la morte di un essere umano, A, è un caso di eutanasia se e solamente se: (i) la morte di A è provocata da un altro essere umano, B, ma nel senso che quest’ultimo può essere sia la causa della morte di A che un elemento causalmente pertinente dell’evento morte (che ciò avvenga dunque per azione od omissione non rileva); (ii) B dispone di sufficienti elementi per credere che A soffre in modo intenso o è in uno stato di coma irreversibile, e questa credenza si fonda su una o più leggi causali attestate; (iii) la ragione maggiore per cui B vuole la morte di A è nel far cessare le sue sofferenze; (iv) tre le procedure che consentono la morte di A, A e B scelgono quelle che producono le minori sofferenze ad A, e comunque sofferenze minori di quelle che con la morte si vorrebbero far evitare; (v) A non è un organismo fetale.
Si tratta di cinque condizioni, individualmente necessarie ed insieme sufficienti a definire l’eutanasia.
Intanto (i) deve trattarsi di morte provocata da un terzo, condizione che serve a distinguere l’eutanasia dal suicidio; deve essere voluta per porre fine alle sofferenze di una malattia mortale irreversibile (ii e iii), e dunque, come abbiamo visto non può parlarsi di eutanasia rispetto ad un soggetto sano, né può questa condizione servire a distinguere tra azioni ed omissioni, ipotizzando che solo in quest’ultimo caso la morte sopravviene per decorso naturale della malattia, e salva la restrizione del concetto alle sole sofferenze dovute a malattie mortali o terminali, o particolarmente gravi[6], con la conseguenza che si spiega perché (iv) la sofferenza provocata dalla procedura di eutanasia prescelta non deve produrre sofferenze maggiori di quelle che si vogliono evitare. L’ultima clausola (v) consente di distinguere l’eutanasia dall’aborto; le prime quattro da qualsiasi forma di omicidio o suicidio assistito.
Se aiuto taluno a buttarsi dalla finestra perché deluso dalla fidanzata, o angosciato dai debiti, non è evidentemente eutanasia, e così se propongo a taluno di ucciderlo e costui acconsente.
Eutanasia è concetto ben preciso che indica la fine delle sofferenze di un malato, che è tenuto in vita, o potrebbe esserlo, artificialmente, e che non vuole che si prosegua in un accanimento terapeutico o che quell’accanimento mira a prevenire.
Un concetto onesto che non comprende la medicalizzazione del suicidio: sono solo un depresso e chiedo, magari pagando un ticket, di essere aiutato a morire dalla ASL. Ma che punta sulla fine di una sofferenza inevitabile e di un processo naturale che solo l’accanimento terapeutico può rallentare, senza che rilevi se la fine è decretata da un’azione o da una omissione.
4. Conclusioni. L’eutanasia come moda del politicamente corretto
Mi pare, in conclusione, che si possa convenire sul fatto che l’equivoco è partito proprio dalla decisione precedente della Corte Costituzionale che, dopo aver correttamente premesso che deve essere fatta la volontà del paziente, si è messa a distinguere tra il caso in cui quest’ultimo è aiutato dal medico attivamente oppure no, ed ha dunque ritagliato una ipotesi di eutanasia ancora penalmente rilevante nel primo caso, riferendola alla fattispecie dell’omicidio del consenziente, e così obbligando i promotori del referendum ad aggredire questa norma.
Utile sarebbe stato invece definire l’eutanasia secondo una ormai consolidata visione bioetica.
Ma non basta.
I promotori del referendum hanno agito anche per equivoco proprio: era difficile spiegare contrarietà ai sostenitori del quesito senza incorrere nell’accusa di voler negare autonomia al paziente, e senza essere persino additati tra quelli che vogliono obbligarlo a soffrire.
Ed anche qui l’equivoco.
Non ho lo spazio per dimostrare in questi ambiti quanto poco si sappia del concetto di autodeterminazione quando lo si usa nelle questioni di biodiritto: i bioetici ne hanno maggiore confidenza.
Ma mi limito a brevi chiose.
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’eutanasia è chiesta dai parenti di un malato che, per le condizioni in cui versa, non è in grado di decidere: dunque non realizza l’autonomia del paziente.
Anche quando si è in presenza di un testamento biologico, non bisogna dimenticare che si tratta , sì, di un atto di autonomia, ma di un soggetto sano, e non sappiamo se una volta trovatosi nelle condizioni presagite, costui mantenga la volontà espressa nella direttiva anticipata, o piuttosto cambi idea: gli oncologi di maggiore esperienza riferiscono di pazienti, che pur avendo fatto testamento biologico , chiedono poi di essere curati il meglio possibile, anziché rifiutare l’intervento. Altro è determinarsi da sano, altro è farlo quando la decisione da assumere è concreta.
Restano, certamente, i casi in cui il paziente è cosciente e decide da sé di rifiutare il trattamento medico, e lì la sua volontà va rispettata.
Quello che però da cui mettere in guardia è l’idea che, modernamente, non si può parlare di etica pubblica, se non attraverso l’etica dell’autodeterminazione. Segno dei tempi: non c’è etica pubblica al di fuori di quella dei diritti fondamentali.
L’eutanasia, quale momento di assoluta autodeterminazione del paziente, è un’invenzione degli intellettuali dell’occidente, che non corrisponde alla realtà dei fatti.
Il che non sarebbe un guasto, se questi ultimi, anziché una moda del politicamente corretto- faccio morire il paziente nel suo interesse- fossero frutto di una strategia epistemologicamente fondata.
[1] Corte Cost. 242 del 2019 : «Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più̀ lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».
[2] Corte cost. n. 242 del 2019
[3] Comitato Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, p. 9 e ss..
[4] Rinvio chi avesse curiosità a G. CRICENTI, Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, ETS, Pisa, 2013, p. 98 e ss. Ovviamente B. STEINBOCK, Killing and Letting Die, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1980 e H. KUHSE, The Sanctity-of-Life Doctrine in Medicine. A critique, Clarendon Press, Oxford, 1987, oltre che O.H. GREEN, Killing and letting Die, in «American Philosophical Quarterly», 17, 1980, pp. 195-204
[5] T.L. BEAUCHAMP -A DAVIDSON, The definition of Euthanasia, in «Journal of Medicine and Philosophy», 1979, p. 294 e ss.
[6] Il riferimento alle leggi causali certe consente di affrontare la questione della sofferenza non attuale ma futura, ossia di un soggetto di cui è certo che in un breve tempo soffrirà per una malattia che gli viene diagnosticata oggi e che è incurabile o irreversibile, cosi che rientra nel concetto di eutanasia anche la pratica volta ad evitare sofferenze non attuali , ma certe in futuro.