GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Scienze, neuroscienze e accertamento multifattoriale delle infermità psichiche

    Scienze, neuroscienze e accertamento multifattoriale delle infermità psichiche*

    di Alessandro Centonze 

    Sommario: 1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso” – 2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche – 3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche – 4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso.

    1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso”

    A partire dagli anni Sessanta si è sviluppato un acceso dibattito scientifico sul tema dell’imputabilità, alimentato dalla mancanza di parametri scientifici univoci sulle nozioni di infermità psichica e di capacità di intendere e di volere[1]. Tali contrasti interpretativi discendono dalle posizioni estremamente diversificate assunte dalla psichiatria forense nostrana sul tema dell’imputabilità, che traggono a loro volta origine dai contrasti esistenti in ordine allo stesso apporto di questa disciplina scientifica al processo penale e che le recenti aperture alle problematiche neuro-scientifiche hanno ulteriormente accentuato[2].

    Per comprendere tale situazione di incertezza interpretativa è sufficiente richiamare le parole di Tullio Bandini e Uberto Gatti, che, in un loro studio sulla valutazione clinica dell’imputabilità degli anni Ottanta, così commentavano il dibattito scientifico interno alla psichiatria forense su questo tema: «Nell’attuale momento storico si è quindi giunti ad una situazione di contrasto, che vede contemporaneamente presenti da un lato la richiesta di estendere l’intervento psicologico e psichiatrico all’interno del processo penale, attraverso la sistematica utilizzazione della cosiddetta perizia “criminologica”, e dall’altro lato la richiesta di limitare o addirittura escludere l’intervento della psichiatria nel sistema della giustizia, fino a giungere alla proposta di considerare sempre imputabili i rei affetti da patologia mentale»[3].

    In questa situazione di pluriennale incertezza interpretativa, a metà dello scorso decennio, si inseriva risolutivamente la Suprema Corte, intervenendo con una pronuncia a Sezioni Unite con la quale veniva definitivamente rivisitata la nozione di imputabilità, aprendo nuovi spazi ermeneutici ad approcci clinici nuovi e certamente affascinanti come quello neuro-scientifico.

    Le Sezioni Unite, in particolare, intervenivano per stabilire se, ai fini del riconoscimento del vizio parziale o totale di mente, rientrassero nel concetto di infermità psichica i gravi disturbi della personalità tradizionalmente inquadrati nell’ambito delle anomalie psichiche riconducibili all’art. 90 c.p. Con il loro intervento le Sezioni Unite risolvevano la questione oggetto di rimessione affermando il principio secondo cui i gravi disturbi della personalità sono ascrivibili al novero delle infermità psichiche e possono dare luogo al vizio di mente previsto dall’art. 88 c.p. a condizione che siano di intensità e gravità tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’agente e sussista un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta delittuosa[4].

    Veniva, conseguentemente, affermato il seguente principio di diritto, a tutt’oggi insuperato, secondo cui: «Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”»[5]

    Per raggiungere tali conclusioni, le Sezioni Unite rivisitavano la nozione di imputabilità, inquadrandola nell’ambito della capacità penale e adeguandola alle più recenti acquisizioni della psichiatria forense, che venivano reinterpretate in una prospettiva clinica aperta ai possibili apporti della ricerca scientifica.

    Si giungeva, in questo modo, a definire l’infermità psichica come una condizione di disagio mentale di consistenza tale da escludere o ridurre consistentemente la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato. In questa prospettiva interpretativa, dunque, non è tanto la condizione di infermità psichica dell’agente a rilevare sul piano dell’accertamento processuale della capacità di intendere e di volere, quanto il suo disagio mentale, la cui consistenza deve essere tale da incidere negativamente sulla sua capacità di determinarsi liberamente in rapporto al singolo evento delittuoso[6].

    2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche

    Per inquadrare l’orientamento interpretativo che si è richiamato nel paragrafo precedente occorre analizzare preliminarmente i presupposti sistematici di tale impostazione allo scopo di comprenderne l’effettiva portata applicativa.

    In tale ambito, cominciamo con l’osservare che, secondo la Suprema Corte, l’imputabilità non è solo una condizione psichica indispensabile per attribuire un reato all’agente, ma esprime la sua capacità penale, sul presupposto che non può esservi colpevolezza senza consapevolezza delle proprie azioni. L’imputabilità, dunque, è la condizione soggettiva indispensabile per affermare la responsabilità penale dell’agente, a condizione che questi, al momento del fatto, versi in una condizione di rimproverabilità riscontrata processualmente[7].

    Ne discende che non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità per la condotta tenuta dal soggetto attivo del reato, per sanzionare la quale è necessario riscontrare l’effettiva coscienza dell’antigiuridicità del fatto in capo all’agente.

    Né potrebbe essere diversamente, atteso che la verifica della colpevolezza del soggetto attivo del reato costituisce un momento insostituibile del giudizio di responsabilità penale in conseguenza delle finalità di rieducazione della pena affermate dall’art. 27, comma terzo, Cost., alla luce delle quali deve essere reinterpretato l’orientamento ermeneutico che si sta considerando. Infatti, la sanzione penale può svolgere la sua funzione di rieducazione del condannato soltanto a condizione che sia stato effettivamente commesso un fatto dannoso da parte del soggetto che deve essere rieducato e sia stata attuata con forme compatibili con il rispetto della persona imposto dall’art. 27, comma terzo, Cost.

    Ne deriva ulteriormente che la sanzione penale può svolgere un’effettiva funzione di rieducazione solo a condizione che il condannato abbia maturato la consapevolezza degli effetti lesivi del suo comportamento, attivando in conseguenza di tale percorso interiore un processo di reinserimento sociale all’interno o all’esterno del circuito penitenziario[8]

    In altri termini, è possibile parlare di rimproverabilità di un comportamento delittuoso solo se l’agente è consapevole dell’antigiuridicità del fatto che gli deve essere attribuito, sulla base di una verifica processuale sulla consapevolezza della sua condotta e non di una relazione meramente meccanicistica.

    Ne discende che il processo rieducativo del condannato non può mai essere dato per scontato, presupponendo la piena consapevolezza del reo e l’accettazione del percorso sanzionatorio attuato nei suoi confronti. Tali principi, del resto, possono ritenersi ormai pacificamente accettati e acquisiti al patrimonio concettuale del nostro sistema penale[9].

    Tutto questo porta a escludere ogni forma di coercizione, fisica o psichica, nel perseguimento delle finalità di rieducazione del condannato, che costituiscono un obiettivo tendenziale della pena perseguibile solo in presenza di una disponibilità del soggetto passivo del trattamento, sul presupposto della sua capacità di determinarsi liberamente[10].

    Da questo punto di vista, si ritiene di dovere ulteriormente affermare che la necessità di stabilire un collegamento tra l’imputabilità e la funzione sociale della pena è una conseguenza della  centralità riconosciuta nel nostro sistema processuale al principio del libero convincimento del giudice affermato dall’art. 192 c.p.p., che è individuati nell’obbligo di motivare la sentenza attraverso un percorso giustificativo coerente rispetto alle argomentazioni poste a suo fondamento e alle finalità perseguite dalla sanzione penale. Questo principio di origine illuministica, nella sua storia secolare, ha trovato la sua giustificazione nell’esigenza di limitare il pericolo di sentenze logicamente contraddittorie o emotive, imponendo una verifica rigorosa delle emergenze processuali riscontrate in relazione ai reati di volta in volta contestati e alla pena comminata all’esito del processo penale[11].

    L’accoglimento di tale principio nel nostro ordinamento comporta che qualsiasi elemento probatorio possa contribuire alla formazione del convincimento del giudice, senza che possano crearsi artificiose gerarchie processuali tra le fonti di prova legittimamente acquisite. Di conseguenza, il giudice, per formare il suo convincimento, può utilizzare tutti gli elementi probatori che ritiene utili per la decisione della vicenda sottoposta al suo vaglio processuale, avvalendosi anche di eventuali accertamenti neuro-scientifici, purché dia conto nella motivazione dell’attendibilità e della pertinenza delle fonti di prova utilizzate, che non devono essere valutate empaticamente.  

    In tale prospettiva, ci sembra evidente che il principio del libero convincimento del giudice segni il passaggio fondamentale dalla fase della dimostrazione dei reati contestati all’imputato a quella della verità processuale trasfusa nella sentenza, che deve fondarsi sulle emergenze probatorie e tenere adeguatamente conto della consapevolezza del soggetto attivo del reato, rispetto alla quale le verifiche neuro-scientifiche, in quanto tali, possiedono un valore neutro, soggiacendo ai parametri generali affermati dalla sentenza “Raso”[12].

    Si ritorna in questo modo alla centralità dell’art. 27 Cost., nell’ambito del quale deve essere inquadrato il principio della presunzione d’innocenza sancito nel suo secondo comma – nella sua duplice valenza di strumento di raggiungimento della verità processuale e di insostituibile regola di argomentazione – che impone all’autorità giudiziaria di formulare un giudizio di responsabilità penale dell'imputato solo quando la sua colpevolezza è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed è per questa ragione che riteniamo indispensabile collegare ulteriormente il principio del libero convincimento del giudice con il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, nella convinzione che tali principi costituiscano la piattaforma sistematica indispensabile per comprendere il significato più intimo dell’opzione interpretativa tesa a ricondurre i disturbi mentali nell’alveo dell’incapacità di intendere e di volere riconosciuta dall’art. 88 c.p.

    Sotto questo profilo, l’ingresso nel nostro ordinamento della regola di giudizio fondata sul principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio comporta il rifiuto categorico dell’assunto secondo il quale i processi si possono risolvere con il solo metodo dell’intuizione personale del giudice, che dunque non si potrà spingere fino a sostituirsi alle acquisizioni consolidate della psichiatria forense per valutare l’imputabilità dell’agente. In altre parole, laddove le evidenze scientifiche riscontrate nel caso di specie dovessero risultare incerte o comunque contraddittorie, lasciando residuare consistenti margini di dubbio sull’imputabilità e sulla sua colpevolezza, il giudice dovrà assolvere[13].

    A ben vedere, questa opzione interpretativa esprime una consapevolezza da tempo presente nelle scienze criminali nostrane, rafforzando il significato e la portata applicativa del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. In questa direzione, possiamo affermare che il responsabile dell’evento delittuoso può essere colpito dalla sanzione penale solo quando si raggiunge la certezza processuale che, al momento del fatto, fosse imputabile e che la sua capacità di intendere e di volere non fosse gravemente compromessa dalla presenza di patologie psichiche, rispetto alla quale – occorre ribadirlo – le verifiche neuro-scientifiche possiedono un valore neutro, essendo indispensabile vagliarne gli esiti alla luce della giurisprudenza richiamata nel paragrafo precedente[14].

    D’altra parte, lo scopo di sanzionare con una norma penale il comportamento del soggetto attivo del reato deve essere raggiunto attraverso il superamento di ogni ragionevole dubbio sul fatto che la sua condotta abbia effettivamente e consapevolmente causato l’evento delittuoso che si è preso in considerazione in sede processuale. Ne consegue ulteriormente che, qualora all’esito della verifica probatoria compiuta dall’autorità giudiziaria dovessero sussistere ragionevoli dubbi sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e sulla consapevolezza dell’azione criminosa oggetto di accertamento processuale, si dovrà ritenere non dimostrata la colpevolezza dell’agente che dovrà essere prosciolto dalle contestazioni che gli sono state mosse[15].

    In altri termini, non si può stabilire un collegamento processuale tra la condotta del soggetto attivo del reato e l’evento delittuoso oggetto di osservazione al di fuori delle regole di giudizio che governano nel nostro sistema l’accertamento della responsabilità penale, a meno di non stravolgere i principi fondamenti del nostro processo penale, tra i quali a buon diritto devono collocarsi tanto il principio del libero convincimento del giudice quanto il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio[16].

    3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche

    Una delle conseguenze più significative della posizione interpretativa che si sta considerando è rappresentata dalla necessità che la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e la sua imputabilità non siano valutate in astratto ma all’interno del processo penale, con le regole probatorie utilizzabili in tale ambito giurisdizionale e tenendo conto delle metodologie cliniche funzionali all’inquadramento della patologia psichica, di volta in volta, considerata.

    Tali conclusioni postulano, a loro volta, un rapporto simbiotico tra il sapere scientifico proveniente dalla psichiatria forense – rispetto a cui assumono una dignità non secondaria, ancorché non decisiva, gli esiti delle verifiche neuro-scientifiche[17] – e il materiale probatorio esaminato dall’autorità giudiziaria, che deve beneficiare di questa simbiosi processuale. Sotto questo profilo, non possiamo che condividere la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’ultimo decennio, si è mostrata sensibile agli orientamenti più raffinati delle discipline psicopatologiche, tra cui le neuroscienze, valorizzando, al contempo, una prospettiva interdisciplinare che punta al rafforzamento del rapporto di collaborazione tra giustizia penale e psichiatria forense[18].

    Ne discende che la condizione di infermità psichica dell’agente assume rilevanza ai fini dell’imputabilità solo in quanto risulti comprensibile il quadro bio-psicologico al quale associarla, con la conseguenza che è alla psichiatria forense che il giudice deve rivolgersi per individuare i dati clinici che gli consentiranno di ritenere l’individuo imputabile o non imputabile; ed è in tale contesto, necessariamente interdisciplinare, che il supporto delle neuroscienze può essere utile per l’accertamento dell’infermità psichica dell’imputato, ferma restando l’assenza di connotazioni salvifiche di tali metodiche diagnostiche.

    Da questo punto di vista, è condivisibile la scelta della Suprema Corte di sancire il definitivo superamento del paradigma organicistico, che non riteneva possibile l’inquadramento delle anomalie psichiche nel novero delle categorie nosografiche, dando spazio a prospettive cliniche nuove, tra le quali, a buon diritto, si collocano le verifiche neuro-scientifiche, laddove risolutive per accertare l’intensità obnubilante delle capacità psichiche della patologia psichiatrica oggetto di accertamento[19].

    In questo modo, ha trovato definitiva consacrazione quell’orientamento giurisprudenziale originariamente elaborato con riferimento alle sole “reazioni a corto circuito”, secondo cui le gravi alterazioni psichiche – anche se normalmente riferibili a stati emotivi e passionali non integranti una condizione patologica secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p. – possono costituire «manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni»[20].   

    L’ingresso delle “reazioni a corto circuito” nel dibattito giurisprudenziale risale alla seconda metà degli anni Ottanta, quando alcune Corti di Assise, pronunciandosi in materia di infanticidio, affermavano che i disturbi della personalità, se caratterizzati da particolare intensità, possono assurgere al rango di infermità psichica, facendo ritenere non imputabile quel soggetto che – in una situazione emotiva particolarmente coinvolgente e per effetto delle patologie di cui soffre – commette un fatto delittuoso. Tale impostazione partiva dall’assunto secondo cui l’infermità psichica idonea a compromettere la funzione intellettiva e ad abolire quella volitiva, anche solo transitoriamente, esclude che si possa applicare la disciplina dell’art. 90 c.p., che invece si riferisce a una condizione di turbamento passeggero dell’equilibrio psichico dell’agente conseguente all’insorgenza di fatti che toccano la sfera emotiva ovvero traggono origine da sentimenti più radicati nell’animo umano come la gelosia, l’amore, l’invidia o l’ambizione[21].

    Si è ritenuto, in questo modo, che, a prescindere dalle catalogazioni nosografiche, quello che occorre verificare in sede processuale è l’assetto psichico complessivo dell’agente da intendere come il possesso, in un determinato momento, delle sue facoltà di autodeterminazione. Si è così attribuita rilevanza giuridica anche a quei disturbi mentali – non necessariamente inquadrabili nosograficamente o rilevabili neuro-scientificamente – che, per la loro intensità o per la loro persistenza, siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere del soggetto rapportabile in relazione al singolo evento delittuoso, escludendo o riducendo fortemente la sua capacità di autodeterminarsi[22].

    Ne discende che non si tratta di affermare o escludere, sic et simpliciter, la rilevanza delle neuroscienze come metodica diagnostica ai fini dell’accertamento delle infermità psichiche e della loro eventuale rilevanza penale, ma di accertare se e in quale misura tali metodologie cliniche possono consentire di individuare patologie non altrimenti rilevabili e rispondere all’unico quesito che rileva in tema di capacità penale: l’imputato al momento del fatto era capace di intendere e di volere?.

    In questa prospettiva, come acutamente evidenziato da Isabella Merzagora Betsos, le nuove metodiche diagnostiche neuro-scientifiche devono essere inquadrate in un corretto contesto nosografico, essendo utilizzabili laddove consentano di individuare clinicamente i disturbi della personalità. Tali metodiche, dunque, possono rilevarsi utili, qualora siano «in grado di stanare patologie che senza l’impianto concettuale e gli strumenti tecnici loro propri erano trascurate o non individuate […]»[23].

    Seguendo questo percorso interpretativo si è ritenuto che anche i disturbi della personalità possono essere ritenuti idonei a concretizzare il vizio totale di mente previsto dall’art. 88 c.p., che può essere anche transeunte – connotazione quest’ultima differente dalla temporaneità del disturbo – ancorché riconducibile a una medesima condizione patologica. Da tali deduzioni deriva l’impegno del giudice nel distinguere gli stati di infermità psichica passeggeri da quelli che non possiedono siffatte connotazione cliniche e dai meri stati emotivi e passionali, i quali devono essere ritenuti irrilevanti ai fini dell’esclusione dell’imputabilità, secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p.[24]

    4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso

    A questo punto è chiaro che il dibattito che si è sviluppato in questi ultimi anni tra sostenitori del metodo di accertamento neuro-scientifico delle patologie psichiatriche e sostenitori del metodo di accertamento delle infermità mentali di impianto tradizionale, se portato alle estreme conseguenze, conduce a risultati aberranti.

    L’accertamento delle patologie psichiatriche, infatti, postula un percorso di verifica multifattoriale, che mette al centro dell’attenzione giurisprudenziale non tanto il metodo seguito ma il risultato della verifica, occorrendo dimostrare, sulla base delle emergenze probatorie, la sussistenza di un nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto di reato, che consenta di ritenere il primo determinante per il verificarsi del secondo. In questa cornice, non è rilevante il metodo clinico utilizzato per accertare la patologia psichiatrica da cui è affetto l’imputato, ma l’esito dell’accertamento diagnostico, che può certamente essere effettuato con metodiche neuro-scientifiche, ma che, in ogni caso, deve consentire di affermare, in termini di certezza processuale, quale fosse la condizione di capacità penale dell’imputato al momento del fatto.

    Invero, questo principio era stato già espresso in alcune risalenti pronunce di legittimità[25], ma non costituiva espressione di un orientamento consolidato, fino all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, che hanno assunto al riguardo una posizione esegetica inequivocabile, adottando una soluzione applicativa condivisa da tutti i commentatori[26].

    Tale posizione interpretativa ha incontrato il consenso degli esponenti più autorevoli della psichiatria forense nostrana che, da tempo, ritengono scientificamente plausibile che un malato di mente possa essere chiamato a rispondere del suo operato solo se viene stabilita una correlazione fra i disturbi mentali da cui è affetto e il reato commesso[27].

    Tale posizione interpretativa appare condivisibile anche nella prospettiva di un potenziamento del rapporto tra la psichiatria forense e la giurisdizione troppo spesso rimasto su un piano larvale. Nessun dubbio, infatti, può nutrirsi sulla necessità di verificare quali siano le condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, proprio per quell’indispensabile collaborazione che deve intercorrere tra il sapere scientifico e la iuris dictio del giudice.

    Per la verità, l’affermazione apodittica di un sapere giuridico astrattamente fondato sul principio di causalità non può considerarsi del tutto appagante sotto il profilo epistemologico, se si tiene presente il carattere di indeterminatezza delle scienze mediche e la neutralità solo apparente delle acquisizioni scientifiche. Non v’è dubbio, infatti, che l’avere trascurato di inquadrare la medicina nel dibattito sul carattere indeterminato delle scienze naturalistiche inevitabilmente comporta un indebolimento complessivo dei modelli di riferimento scientifico utilizzati dalla Suprema Corte in relazione al problema dell’imputabilità[28].

    D’altra parte, pur con i limiti epistemologici che si sono evidenziati, l’opzione interpretativa che si sta considerando ha l’indubbio merito di avere affrontato alla radice il problema del rapporto tra il disturbo mentale e l’agire criminoso dal punto di vista del diritto penale sostanziale, senza trascurare e anzi valorizzandone i profili probatori e gli effetti processuali. Infatti, il procedimento di accertamento della responsabilità penale seguito dal giudice – nonostante l’inevitabile tensione tra razionalità scientifica e logicità processuale – richiede un’intima coerenza con le leggi scientifiche generalmente condivise, tanto è vero che per inquadrare la causalità penale, da tempo, la Suprema Corte utilizza l’espressione “necessaria condivisione sociale dell’agire giurisdizionale”[29].

    Da questo punto di vista, ferma restando l’autonomia scientifica – e naturalmente professionale – del perito che esegue le verifiche delegategli dal giudice in ordine alle condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, il rapporto di cooperazione tra i due soggetti processuali deve essere coordinato dal giudice che deve fornire al suo collaboratore tutte le indicazioni necessarie per l’espletamento del suo accertamento. Le due figure processuali, infatti, devono operare in un ambito di condivisione interdisciplinare, che impone l’esatta delimitazione del contesto bio-psicologico nel quale si inserisce l’intervento del perito, al quale conseguentemente non potrà essere conferita una delega in bianco sulle modalità della verifica sull’infermità psichica.

    Sotto questo profilo, particolare importanza deve essere attribuita alla storia clinica dell’autore del reato e agli esiti delle indagini psicodiagnostiche che sono state eseguite nei suoi confronti prima dell’intervento peritale, allo scopo di verificare se il disturbo mentale si è manifestato con un’intensità, qualitativa e quantitativa, tale da escludere o attenuare la capacità di intendere e di volere dell’agente in modo permanente o temporaneo[30].

    Allo stesso tempo, essendo l’accertamento peritale finalizzato a consentire al giudice di valutare la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato, il perito dovrà dare conto dei termini con cui si è sviluppato il dibattito scientifico sui temi dell’infermità psichica e dell’imputabilità nell’ambito della psichiatria forense, allo scopo di evitare gli incombenti pericoli di decisioni emozionali o irrazionali svincolate dal percorso giurisprudenziale rigoroso che si è delineato in queste pagine; ed è proprio questo, a ben vedere, il pericolo di un utilizzo improprio delle metodiche neuro-scientifiche che, laddove disancorate da parametri nosografici rigorosi, possono sfociare in decisioni, per l’appunto, emotive o irrazionali.

    Né potrebbe essere diversamente, atteso che sul concetto di infermità psichica la Suprema Corte ha individuato degli argini interpretativi ineludibili, in linea con i principi richiamati dalla Corte Costituzionale in materia di coscienza dell’illiceità e di funzione sociale della pena, che costituiscono un punto di riferimento insostituibile nella valutazione della condizione di colpevolezza dell’imputato.

    D’altronde, è difficile ipotizzare, nel breve periodo, un diverso approdo scientifico in tema di infermità psichica – nell’auspicabile direzione di un potenziamento di quel connubio tra i profili sindromici del disturbo mentale e quelli patogenetici – con la conseguenza che il problema dell’accertamento dell’imputabilità comporta la risoluzione di una questione preliminare, finalizzata a verificare se lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle metodologie utilizzabili in sede peritale possa comportare profili di indeterminatezza della fattispecie in violazione del principio di tassatività[31].  

    Il vero è che l’accertamento dell’imputabilità del soggetto attivo del reato non può che fondarsi su un approccio multifattoriale dell’infermità psichica da cui è affetto e non può prescindere dalla consapevolezza del carattere multicausale della medicina moderna e dalla necessità di analizzare il processo di causazione di un disturbo mentale come conseguenza di una pluralità di fattori generalmente non isolabili. Soltanto un approccio multifattoriale, infatti, ci consente di comprendere che, nella rete di causazione di un disturbo mentale, molto spesso, non è isolabile il ruolo esclusivo o determinante di un’unica causa, con la conseguenza che l’infermità psichica non sempre si può attribuire, in termini di certezza scientifica, a un fattore piuttosto che a un altro[32].

    Tali conclusioni ci sembrano incontrovertibili se solo si considera che i parametri scientifici per definire il rapporto tra la causa e l’effetto di un evento patologico si sono notevolmente indeboliti rispetto al passato, come ci viene efficacemente rappresentato da Paolo Vineis, che contesta l’attualità della stessa nozione di causa, affermando: «Il vocabolo causa viene ad assumere pertanto un senso modificato rispetto alla tradizione aristotelica, e il concetto di causazione multipla […] emerge come modello interpretativo principale. Tale modello è associato all’interpretazione delle malattie croniche in termini di processi a più stadi: non è più singola esposizione nel corso del tempo, a costituire un complesso causale sufficiente»[33].

    Tuttavia, tali considerazioni finiscono per indebolire la posizione interpretativa della Suprema Corte che, nell’individuare quale requisito indispensabile dell’accertamento dell’imputabilità la sussistenza di un nesso eziologico tra condotta delittuosa e il disturbo mentale, finisce per trascurare il carattere multicausale della psichiatria forense e la difficoltà di selezionare i fattori causalmente rilevanti rispetto al disturbo mentale che affligge il soggetto attivo del reato. D’altra parte, l’impossibilità di circoscrivere l’origine del processo di causazione di taluni disturbi mentali tipici della società tecnologica è incontrovertibile, se solo si considera che nemmeno su tutte le patologie di origine paranoica, nella psichiatria forense, si dispone di dati scientifici idonei a stabilire con esattezza quali fattori possono ritenersi causalmente rilevanti rispetto al processo di degenerazione psichica[34].

    Ne discende che l’opzione interpretativa seguita dalla Suprema Corte in tema di nesso eziologico tra disturbo mentale e condotta delittuosa, seppure meritevole sul piano delle finalità di politica criminale perseguite, costituisce una semplificazione epistemologica, costituendo un’acquisizione incontrovertibile della moderna psichiatria forense quella secondo cui i fattori di acutizzazione di una patologia psichica sono difficilmente individuabili, in considerazione del lungo periodo di maturazione patogenico e della presenza di elementi di predisposizione soggettiva variabile da paziente a paziente. Senza considerare, per altro verso, che un’ipotetica ricostruzione degli elementi di predisposizione soggettiva dell’infermità psichica appare ulteriormente complicata dalla presenza di aspetti familiari di difficile selezione, anche ricorrendo a metodiche interdisciplinari, non potendosi fare a meno di valutare la rilevanza di profili di predisposizione genetica della patologia, con un’operazione che è possibile soltanto ricostruendo lo stato di salute mentale di tutti i familiari del soggetto clinico; operazione, questa, rispetto alla quale le metodiche neuro-scientifiche possono consentire l’acquisizione di risultati utili alla verifica sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato   

    Si trae conferma, in questo modo, dell’assunto secondo cui la storicità della patologia psichica oggetto di osservazione è il frutto di un processo di maturazione stratificato – estremamente complesso e spesso risalente nel tempo – che si perfeziona con una successione di fattori espositivi più o meno rilevanti, rispetto ai quali non è possibile indicare con esattezza il momento della patogenesi, che ovviamente non coincide mai con quello dell’accertamento diagnostico della patologia psichica[35].

    È questo, a ben vedere, uno dei punti di maggiore criticità del rapporto tra neuroscienze e accertamento delle infermità psichiche, su cui probabilmente occorre uno sforzo interpretativo maggiore, nella direzione di quell’auspicabile potenziamento del rapporto tra giurisdizione e psichiatria forense, al quale più volte ci siamo riferiti nel corso di questo intervento e che, troppo spesso, è rimasto a uno stadio meramente programmatico[36].  

     

    * Questo intervento, che è in corso di pubblicazione nel volume a cura di S. Aleo, Evoluzione scientifica e profili di responsabilità, Pacini, Pisa, 2022, fa parte delle riflessioni condotte nell’ambito del gruppo di ricerca “Responsabilità, neuroscienze, processi di predeterminazione sociale”, composto, oltre che dal sottoscritto, da alcuni docenti del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Catania, costituito con il contributo del Piano di incentivi per la ricerca di Ateneo 2020-2022.

    [1] Sul dibattito sviluppatosi in seno alla psichiatria forense a partire all’inizio degli anni Sessanta sul tema dell’imputabilità, si richiamano gli studi condotti da T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito nell’ambito del processo penale, in Riv. it. med. leg., 1982, pp. 321 ss.; Id., Nuove tendenze in tema di valutazione clinica della imputabilità, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, diretta da F. Ferracuti, Giuffrè, Milano, 1988, XIII, pp. 152 ss.

    [2] Sull’influenza del dibattito sulle neuroscienze rispetto al problema dell’accertamento delle infermità psichiche si veda il recente S. Aleo, Diritto penale e neuroscienze, in Resp. med., 2020, 2, pp. 171 ss.; si vedano anche, sul piano più generale, D. Oliviero, De rerum neuroscientiarum natura. Dai laboratori di genetica alle aule di tribunale, Milano, 2018; R. Dell’acqua-M. Turatto, Attenzione e percezione. I processi cognitivi psicologia e neuroscienze, Roma, Carocci, 2006; A. Siracusano-A.I. Rubino, Psicoterapia e neuroscienze, Roma, Il Pensiero Scientifico, 2006.

    [3] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., p. 152.

    [4] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, in Cass. C.E.D., n. 230317-01; si muovono nella stessa direzione ermeneutica anche le più recenti Cass. pen., Sez. I, 16 aprile 2019, Mazzeo, in Cass. C.E.D., n. 252686-01; Cass. pen., Sez. I, 31 gennaio 2013, Venzi, in Cass. C.E.D., n. 258444-01; Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2012, Bondì, in Cass. C.E.D., n. 276616-01; Cass. pen., Sez. VI, 27 ottobre 2009, Bolognani, in Cass. C.E.D., n. 245253-01.  

    Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale, si rinvia ai commenti, coevi alla pronuncia e sostanzialmente favorevoli alla svolta ermeneutica determinata dall’intervento delle Sezioni Unite, di M. Bertolino, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9163, Raso, in Dir. pen. proc., 2005, 7, pp. 119 ss.; M.T. Collica, Anche i “disturbi della personalità” sono infermità mentale, in Riv. dir. proc. pen., 2005, 1, pp. 394 ss.; I. Merzagora Betsos, I nomi e le cose, in Riv. it. med. leg., 2005, 2, pp. 372 ss.  

    [5] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit. 

    [6] Si recuperava, in questo modo, la concezione dell’imputabilità in senso relativo affermatasi in seno alla psichiatria forense nel corso degli anni Settanta, secondo cui tale condizione soggettiva dell’agente non deve essere valutata come generica attitudine a rispondere di un reato, ma come capacità rapportabile al singolo evento delittuoso esaminato. Sosteneva, in particolare, questa concezione dell’imputabilità G. Canepa, Personalità e delinquente, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 64 ss.; Id., Persectives d’innovation dans le domaine de l’expertise psychiatrique, in Revue de Police Tecnique, 1985, 3, pp. 59 ss.     

    [7] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit. 

    [8] La funzione sociale della sanzione penale è analizzata negli studi di E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1979, pp. 479 ss.; L. Eusebi, La «nuova» retribuzione. L’ideologia retributiva e la disputa sul principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, pp. 493 ss.

    [9] Si veda E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, cit., pp. 483-485.

    [10] Si tratta di un orientamento interpretativo recepito dalla Corte Costituzionale, fin dalla metà degli anni Settanta, in C. Cost., 19 maggio 1976, n. 134, in Giust. cost., 1976, 1, pp. 938 ss. 

    [11] Esemplare, sotto questo profilo, ci appare il punto di vita di uno dei più importanti studiosi del diritto penale contemporaneo come M. Maiwald, Causalità e diritto penale, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 101-102, che afferma: «Il principio del libero convincimento del giudice nel processo penale è principio comune agli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale e deriva dal patrimonio ideologico dell’illuminismo francese». 

    [12] Si occupano esplicitamente di questo tema, attribuendo un valore probatorio neutro o comunque non risolutivo alle verifiche psichiatriche neuro-scientifiche, le pronunzie Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, n. 28964; Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, n. 12558. 

    [13] In questa prospettiva ermeneutica, ci sembra utile il richiamo a F. D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione "moderna" della Corte di cassazione sull’"oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 749, dove il fondamento storico-sistematico di questo principio viene così individuato: «La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, infatti, costituisce il fondamento più genuino della giustizia penale delle grandi democrazie, nelle quali è incrollabile la consapevolezza che “è molto peggio condannare un innocente che lasciare in libertà un colpevole”. Quando questa consapevolezza viene meno, come è accaduto in larga parte d’Europa con l’affermazione dei regimi autoritari e totalitari, crolla anche la forza morale del diritto penale, perché si insinua, nella comunità, il lacerante sospetto che i giudici condannino degli innocenti».

    [14] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, cit. 

    [15] In questo senso, ci sembra fondamentale un ulteriore riferimento alla posizione interpretativa di M. Maiwald, Causalità e diritto penale, cit., p. 116, quando afferma la centralità del principio in dubio pro reo ai fini della valutazione della responsabilità penale del soggetto attivo del reato: «In questi casi, secondo i nostri principi processuali, si può solo applicare il principio in dubio pro reo. Se, infatti, sussistono delle divergenze di opinioni tra gli esperti sulla esistenza di determinate regolarità in natura, allora il giudice deve porre a fondamento della sua sentenza il punto di vista più favorevole all’imputato».

    [16] È questo il portato dell’orientamento giurisprudenziale affermato dalla Suprema Corte in Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese, in Cass. C.E.D., n. 222139-01.

    Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale si rinvia al commento di R. Blaiotta, Con una storica sentenza le Sezioni unite abbandonano l'irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, n. 332, pp. 1176 ss.

    [17] Si muove in questa direzione O. Di Giovine, Ripensare il diritto attraverso le (neuro-)scienze, Giappichelli, Torino, 2019; Id., Prove “neuro”-tecniche di personalizzazione della responsabiltà penale, in AA.VV, La prova scientifica nel processo penale, a cura di G. Carlizzi e G. Tuzet, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 324 ss.

    [18] Su questi temi si rinvia a B. Magro, Infermità di mente: nozione giuridica e ruolo delle neuroscienze, in www.quotidianogiurico.it, 16 giugno 2017, pp. 10 ss.

    [19] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, cit. 

    [20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 16 dicembre 1994, Sciumè, in C.E.D. Cass., n. 200687-01.

    [21] In questo senso, si veda la storica sentenza sull’inquadramento delle “reazioni a corto circuito” pronunciata dalla Corte Assise App. Milano, Sez. I, 2 marzo 1988, Maresca, in Arch. pen., 1988, pp. 606 ss.

    [22] Si rinvia, ancora una volta, a G. Canepa, Personalità e delinquente, cit. pp. 65-66.

    [23] Si veda I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?”, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 172.

    [24] Sulla natura transeunte dei disturbi della personalità si rinvia a Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 2014, Guidi, in C.E.D. Cass., n. 2613399-01; Cass. pen., Sez. I, 4 aprile 2012, Chiodini, in C.E.D. Cass., n. 252289-01; Cass. pen., Sez. VI, 7 aprile 2003, Spagnoli, in C.E.D. Cass., n. 225560-01; Cass. pen., Sez. I, 22 novembre 2005, Volontè e altro, in C.E.D. Cass., n. 233278-01.

    [25] Per la prima volta questo principio veniva espresso in Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1986, Ragno, in Cass. C.E.D., n. 172789.

    [26] Per tutti, si rinvia al commento di G. Amato, Un’estensione del concetto di “infermità” vincolata ai riscontri su causa ed effetto, in Guida al diritto, 2005, 17, pp. ss.

    [27] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., pp. 323-324. 

    [28] In questa prospettiva, fortemente critica nei confronti dell’utilizzo del principio di causalità nella medicina moderna, riteniamo opportuno il riferimento a P. Vineis, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Einaudi, Torino, 1990, pp. 4-5, che, nella prefazione del suo lavoro, osserva condivisibilmente: «Il complicarsi dell'idea di causalità negli ultimi decenni non ha ovviamente interessato la sola medicina né le sole discipline scientifiche. Un’idea di causalità indebolita, incerta e probabilistica si è fatta strada perfino nella letteratura. Talvolta questo interesse si è manifestato sotto forma di caricatura di un'idea forte di causalità». 

    [29] Si vedano Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999, Hariolf, in C.E.D. Cass., n. 216210-01; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001, Covili, in C.E.D. Cass., n. 220953-01.

    [30] Si veda U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, cit., pp. 247-248.

    [31] Su questi temi, si veda l’approccio critico di M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, in www.discrimen.it, 27 novembre 2018, pp. 14 ss.

    [32] Si veda P. Vineis, Modelli di rischio, cit., pp. 4-5.

    [33] Si veda P. Vineis, op. ult. cit., p. 21.

    [34] Su questi temi si rinvia a V. Lingiardi, La personalità e i suoi disturbi. Un’introduzione, il Saggiatore, Milano, 2001, pp. 23 ss.

    [35] Si veda M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, cit., pp. 16-17.

    [36] Si veda M. Bertolino, op. ult. cit., pp. 16-17.

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