GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 133 del 25.6.2021)

    La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 133 del 25.6.2021) 

    di Riccardo Rosetti

    Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale - 2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva - 3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità - 4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.

    1. La sentenza della Corte costituzionale.

    Con la sentenza n. 133 del 25 giugno 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla disciplina dettata dalla Riforma della filiazione per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Con la stessa pronuncia la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui prevede che «l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento» sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU.

    Si tratta di un intervento che assume rilievo nella delicata materia delle azioni di stato. Per comprendere rettamente i limiti e le conseguenze della pronuncia occorre sinteticamente ricostruire il sistema dalla disciplina originaria del codice, ai successivi sviluppi nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, fino alle innovazioni introdotte dalla riforma della filiazione recata dal decreto legislativo n. 154 del 2013.

    2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva.

    Nel sistema del Codice civile del 1942, l’articolo 263 c.c. regolava l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e assolveva alla tradizionale finalità di rimuovere il valore accertativo dello stato di filiazione naturale recato da un falso atto di riconoscimento. La disciplina ed era caratterizzata dal riconoscimento a qualsiasi interessato della legittimazione attiva e dalla imprescrittibilità. La regolamentazione dell’azione dipendeva in larga misura dal carattere indisponibile del diritto dedotto e dall’interesse pubblico a porre un obiettivo rimedio alla antigiuridicità della mancata corrispondenza tra l’accertamento dello stato di filiazione recato dal riconoscimento e la verità biologica del rapporto di filiazione. L’azione era, per questa ragione, concessa all’autore del riconoscimento a prescindere dal suo stato soggettivo, di buona o di mala fede, e senza limiti di tempo. L’interesse dell’ordinamento a rimuovere detta antigiuridicità accertando la verità biologica del rapporto era considerato prevalente rispetto al contrapposto interesse del soggetto riconosciuto alla stabilità dello stato di filiazione.

    Ben diversa era la disciplina dell’azione diretta a rimuovere lo stato di filiazione legittima, con i rigidi limiti che caratterizzavano, quanto ai presupposti e ai termini di proponibilità, l’azione di disconoscimento della paternità.

    La dottrina e la giurisprudenza non mancarono di rilevare la differenza tra la stabilità dello stato di figlio legittimo e la precarietà dello stato di figlio naturale e la discriminazione che ne conseguiva.

    La Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, aveva sempre confermato la legittimità costituzionale della disciplina nella parte in cui la stessa esponeva il figlio naturale alla rimozione del suo stato di filiazione senza limiti di tempo e per iniziativa di qualsiasi terzo, a fronte della garanzia di stabilità riconosciuta allo stato di filiazione legittima. La Corte affermava che, anche diversamente opinando, solo il legislatore avrebbe potuto stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilità disposta dall'art. 263 (Corte cost. n. 134 del 1985). Secondo la Corte la legittimazione attiva dell’autore del riconoscimento era da considerarsi come un progresso nell’evoluzione legislativa essendosi adottato il principio di ordine superiore secondo cui ogni falsa apparenza di stato doveva cadere (Corte cost. n. 158 del 1991). La Corte escludeva ancora che potessero utilmente invocarsi, in senso contrario, il principio di solidarietà familiare discendente dall’art. 2 Cost., trattandosi di legame familiare fondato su una falsa apparenza di status, ovvero il principio della parità di trattamento con il figlio legittimo, fondandosi l’accertamento della paternità  nel matrimonio sulla presunzione di cui all’art. 231 c.c. e sul favor legitimitatis. Ancora nel 2012 la Corte costituzionale rimetteva al legislatore ordinario la possibilità di effettuare una diversa scelta circa i termini di esperimento dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità onde garantire maggiore solidità dello status di figlio naturale (Carte cost. ord. n . 7 del 2012).

    Nonostante i pronunciamenti della Corte costituzionale, la giurisprudenza e la dottrina posero, negli anni, in discussione la prevalenza dell’interesse pubblico alla verità biologica del rapporto rispetto alla tutela dell’interesse del minore alla stabilità dello stato di filiazione.

    Si negava, in particolare, che la valenza costituzionale del principio del favor veritatis fosse incontrastata, rilevandosi come l’art. 30, comma quarto, della Costituzione avesse rimesso alla legge il compito di definire i limiti della ricerca della paternità, così autorizzando l’idea che l’accertamento del fondamento biologico della filiazione potesse incontrare i limiti derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti (Cass. 23 ottobre 2008, n. 25623; Cass. 17 marzo 2007, n. 6302; Cass. 19 settembre 2006, n. 20254).

    Si poneva, altresì, in rilievo come il principio del favor veritatis non fosse prevalente sull’interesse del minore nemmeno nell’ambito dell’azione di disconoscimento di paternità: in tale prospettiva si è sottolineava come la giurisprudenza di legittimità avesse, in quel contesto, considerato prevalente l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari negando la proponibilità dell’azione di disconoscimento di paternità al padre che avesse dato il proprio consenso alla fecondazione eterologa della moglie (Cass. 16 marzo 1999, n. 2315). Analoghi  principi di valenza generale hanno trovato, poi, riconoscimento nel diritto positivo con l’entrata in vigore dell’articolo 9 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 recante "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.

    La stessa Corte costituzionale giustificava i limiti alla ricerca della verità biologica della filiazione naturale sottolineando, per i figli minori infrasedicenni, come la valutazione fosse rimessa al giudice, ai sensi dell’art. 273 c.c., ogni volta che fosse emerso un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo ovvero all'assunzione dello stato di figlio naturale  e comunque ogni volta che il mutamento dello status familiare avesse potuto pregiudicare l'educazione del minore (Corte cost. n. 429 del 1991 e n. 341 del 1990). La Corte costituzionale, anche nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c. e del procedimento volto a valutare l’ammissibilità della dichiarazione giudiziale di paternità, chiariva come l’interesse del minore dovesse essere, in ogni caso, verificato nel giudizio di merito così ribadendo la centralità dell’interesse del minore nelle azioni di stato (Corte cost. n. 50 del 2006).

    La Corte costituzionale ha, di seguito, dichiarato la parziale incostituzionalità della fattispecie incriminatrice di alterazione di stato prevista dall’art. 567 c.p., nella parte in cui prevedeva la automatica decadenza della potestà genitoriale per il genitore condannato, ad esempio, per la falsità del riconoscimento. La Corte affermava la necessità di una valutazione caso per caso, fondata sull’accertamento della concreta corrispondenza della sanzione agli interessi del minore, ammettendo il venir meno della pretesa punitiva pubblicistica con rinuncia all’applicazione della sanzione della decadenza dalla potestà genitoriale ogni volta che fosse verificato l’interesse al mantenimento dello stato di filiazione e di un equilibrato ambiente familiare (Corte cost. n. 31 del 2012).

    Sulla scorte degli stessi principi, la giurisprudenza di merito (in tal senso Trib. Roma, 17 ottobre 2012, n. 19563, in Giur. mer., 2013, 1282; Trib. Civitavecchia, 19 dicembre 2008, in Giur. mer. 2010, 1250; Trib. Napoli, 28 aprile 2000, in Giur. Napoletana, 2000, 1277)  valorizzando la norma che sancisce l’irretrattabilità del riconoscimento, giungeva ad escludere la legittimazione all’impugnazione dell’autore del riconoscimento effettuato in mala fede, con ciò ponendosi in consapevole contrasto con il contrario, risalente, orientamento della Corte di cassazione (Cass. 24 maggio 1991, n. 5886).

    Alla luce di questi elementi, lo sviluppo del diritto vivente autorizzava l’idea che lo status familiare fosse sempre meno legato al vincolo meramente biologico, quanto piuttosto alla volontaria assunzione di responsabilità quale primigenia fonte della comunità familiare della quale garantire la stabilità.

    3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

    In questo contesto interveniva la Riforma della filiazione recata dalla legge 219 del 2012 che, con l’art. 2, co. 1, lettera g), affidava al legislatore delegato il compito di provvedere alla “modificazione della   disciplina   dell'impugnazione   del riconoscimento  con la limitazione    dell'imprescrittibilità dell'azione solo per il figlio e con l'introduzione di un termine  di decadenza  per  l'esercizio  dell'azione   da   parte   degli   altri legittimati”.

    Il criterio di delega tendeva, allora, a porre un limite alla precarietà dello stato di figlio nato fuori del matrimonio e a creare una tendenziale equiparazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del fuori del matrimonio anche con riguardo alle azioni a rimuovere lo stato di filiazione.

    La novella, in questa prospettiva, riformulava innanzi tutto i termini per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità: salva l’imprescrittibilità per il figlio, che rimaneva titolare del diritto di disporre in ogni tempo del suo status, il decreto legislativo confermava i consueti brevi termini di decadenza degli altri legittimati, con le differenti regole circa la decorrenza, ma introduceva un termine quinquennale di proponibilità dell’azione a tutela dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto di filiazione ormai consolidatosi.

    Sulla base di queste stesse premesse l’art. 263 c.c. era riformulato dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 nei termini seguenti.

    Il primo comma riproduceva il testo della norma previgente senza alcuna modifica: la legittimazione attiva era riconosciuta al figlio, all’autore del riconoscimento e, in ogni caso, a chiunque vi abbia interesse. Si confermava, sotto questo profilo, una differenza con la disciplina che l’azione di disconoscimento della paternità riserva al figlio nato nel matrimonio, per il quale la legittimazione è limitata ai genitori e al figlio stesso. La delega della legge 219 del 2012, tuttavia, non autorizzava modifiche in materia e la differenza, nella prospettiva del legislatore, non determinava una disparità tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio ma si giustificava piuttosto in ragione della differente tutela riservata alla famiglia fondata sul matrimonio. La pubblicità del vincolo, l’obbligo di fedeltà tra i coniugi, l’operatività della presunzione di paternità consigliavano di riservare ai membri della famiglia la legittimazione attiva all’azione di rimozione dello stato di figlio nato nel matrimonio.

    Tali elementi non si riscontrano nella filiazione fuori del matrimonio laddove non si tratta di verificare la paternità del figlio generato da una donna coniugata ma di verificare se il riconoscimento è conforme alla realtà biologica del rapporto di filiazione.

    In attuazione del criterio di delega già citato, il nuovo secondo comma dell’art. 263 limita al figlio l’imprescrittibilità dell’azione, unico legittimato attivo abilitato a disporre senza limiti dello stato di filiazione.

    Con riguardo al padre e alla madre, autori del riconoscimento, il terzo comma della disposizione prevedeva un termine di decadenza di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. La norma – prima dell’intervento della Corte costituzionale in commento - prevedeva che il termine decorresse anche dal momento, eventualmente successivo, in cui il padre ovvero la madre avessero avuto conoscenza dell’impotenza paterna. Per il padre autore del riconoscimento non era prevista altra ragione di deroga alla decorrenza del termine dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita.

    Non era, in altre parole, riconosciuta la possibilità di proporre l’impugnazione nel termine di un anno dalla eventuale scoperta della circostanza che la madre avesse intrattenuto rapporti sessuali con altri uomini all’epoca del concepimento. Tale ipotesi di dilazione del termine era riservata dal legislatore alla sola azione di disconoscimento perché, essendo fondata sulla violazione del vincolo di fedeltà nascente dall’art. 143 c.c., non si giustificava, nella prospettiva del legislatore, al di fuori del matrimonio. Il padre del figlio nato fuori del matrimonio era considerato autore volontario dell’atto di riconoscimento e non mero destinatario degli effetti della presunzione di paternità tipica della filiazione nel matrimonio.

    Il quarto comma dell’art. 263 dispone che “l’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita”. Onde garantire la stabilità del rapporto di filiazione è stabilito un termine finale di proponibilità dell’azione per gli altri legittimati all’impugnazione diversi dal figlio: tale termine è fissato in cinque anni dalla annotazione del riconoscimento a margine dell’atto di matrimonio e ciò a prescindere dalla ragione dell’impugnazione e del ritardo. Si tratta di un termine non prorogabile, volto a presidiare l’interesse insopprimibile del minore alla stabilità del rapporto di filiazione che, costituito in ragione del riconoscimento dei genitori, deve trovare nel - più che congruo - periodo fissato dal legislatore una definitiva intangibilità. Per non determinare discriminazione con i figli nati nel matrimonio – come rilevato - il legislatore ha fissato analogo termine per il disconoscimento di paternità, sussistendo la medesima esigenza di definire una linea oltre la quale lo stato di filiazione diviene incontestabile e il contrapposto interesse, proprio dell’ordinamento e dei legittimati attivi, a verificare la corrispondenza con la verità biologica del rapporto viene a cadere.

    Il termine quinquennale si applica solo per gli altri legittimati, mentre per entrambe le azioni la Riforma ha previsto l’imprescrittibilità con riguardo all’azione del figlio che mantiene per sempre la disponibilità del proprio stato di filiazione.

    4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.

    Con la pronuncia in commento la Corte ha, allora, innanzi tutto, affermato la legittimità del termine quinquennale di proponibilità delle azioni dirette alla rimozione dello stato di filiazione.

    La Corte ha, così, riconosciuto alla norma la funzione di essenziale punto di equilibrio tra la ricerca della verità biologica della filiazione e l’interesse del figlio alla stabilità dello stato di filiazione. La Corte ha ritenuto che detto limite alla proponibilità dell’azione da parte degli altri legittimati, benché si affermino non consapevoli dei fatti che valgano ad escludere la paternità, debba andare esente da censure anche se valutato alla luce delle pronunce della CEDU intervenute in materia: “Un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa. Nessuna censura di non proporzionalità può, dunque, muoversi – anche nel coordinamento fra l’interpretazione dell’art. 8 CEDU, offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei principi costituzionali – alla scelta operata dal legislatore che, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di sacrificare l’interesse dell’autore del riconoscimento, a far valere in via giudiziale l’identità biologica, a beneficio dell’interesse allo status filiationis consolidatosi dopo cinque anni dal suo sorgere. Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l’interesse a far valere la verità biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio, in quanto esso può essere fatto valere dallo stesso figlio, per il quale l’azione di impugnazione del riconoscimento risulta imprescrittibile”.

    La Corte ha, invece, dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 263 c.c. nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Secondo la Corte “la norma censurata comporta una irragionevole disparità di trattamento anche nel confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità. Il padre non coniugato può dimostrare solo l’impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato può, invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell’adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita. Anche a fronte di tale diversità di trattamento, che finisce per rendere più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio, deve, dunque, ritenersi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ. (..)”.

    In questa prospettiva la Corte ha ammesso la proponibilità dell’impugnazione del riconoscimento entro un anno dalla conoscenza di qualsiasi fatto idoneo ad escludere la paternità, ritenendo  irragionevole la distinzione che il legislatore aveva introdotto rispetto ai termini di decorrenza per la proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità.

    Per giungere a tale conclusione la Corte ricostruisce la genesi del testo dell’art. 263 c.c. come introdotto dalla Riforma della filiazione e la definisce come una “trasposizione meramente parziale delle regole dettate dal legislatore per il disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio” cioè come una riproduzione solo parziale dell’art. 235 c.c. come modificato, prima della Riforma, dalle pronunce di incostituzionalità additive. Tanto determina, secondo la Corte, una disparità di trattamento a danno dell’autore del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio che non sia in condizione di impotenza a generare e che non possa essere ammesso a provare le circostanze, diverse, che escludano la sua paternità. Secondo la Corte, in definitiva, la prova deve essere sempre ammissibile se diretta a dimostrare la mancata paternità biologica (e non solo se diretta a dimostrare l’impotenza) e il termine deve decorrere dalla scoperta di ogni circostanza che valga ad escludere la paternità.

    Il ragionamento della Corte offre, tuttavia, da una lettura parziale delle ragioni dell’intervento del legislatore della Riforma.

    Secondo il legislatore della Riforma l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità meritavano, sotto questo profilo, una disciplina differente in ragione delle differenti regole che presiedono, nei due casi, alla formazione dello stato di filiazione.

    Nella filiazione nel matrimonio la paternità è attribuita con la formazione dell’atto di nascita che discende dalla applicazione in via automatica della presunzione di paternità. Il marito, che in via generale può confidare sull’obbligo di fedeltà della moglie quale obbligo nascente dal matrimonio e che si vede attribuita la paternità senza alcun contributo volontario, può esercitare l’azione di disconoscimento dal momento in cui abbia avuto conoscenza di tutti i fatti che valgano ad escludere la sua paternità come l’impotenza a generare e come anche l’adulterio della moglie. In ragione della operatività della presunzione di paternità e della tutela della famiglia fondata sul matrimonio, il legislatore ha limitato la legittimazione attiva all’azione di disconoscimento di paternità, che rimane riservata alla moglie, al marito, al figlio maggiorenne e, nei casi previsti dall’art. 244, ultimo comma, c.c. ad un curatore del figlio minore, con esclusione del presunto padre.

    Nella filiazione fuori del matrimonio non opera alcuna presunzione di paternità, mancando il matrimonio e l’obbligo di fedeltà, e la paternità discende dall’atto volontario di chi si affermi padre e cioè dal riconoscimento. Il riconoscimento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse perché l’ordinamento preserva l’accertamento della verità biologica della filiazione a fronte di falsi riconoscimenti. La stabilità dello stato di filiazione è garantita essenzialmente dal termine quinquennale di proponibilità dell’azione che vale, come rilevato, per tutti i legittimati e con esclusione del solo figlio. Con riguardo all’autore del riconoscimento la Riforma poneva chiari limiti all’impugnazione, esercitabile solo entro un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero solo entro un anno dalla scoperta dell’impotenza dell’autore. Per questa via il legislatore aveva ammetteva che l’autore del riconoscimento potesse far valere la propria impotenza perché si tratta di una circostanza comunque idonea ad escludere in radice la paternità e tale da poter essere anche incolpevolmente ignorata, mentre aveva escluso che l’autore del riconoscimento potesse far valere la sussistenza di rapporti sessuali della madre con altri uomini all’atto del concepimento e tanto perché in mancanza di un matrimonio e spesso anche di una relazione stabile, la circostanza contraria, e cioè l’insussistenza di rapporti tra la madre e altri uomini, non poteva ragionevolmente presumersi e non riposava su alcun obbligo giuridico legato ad una formalizzazione dell’unione. Secondo la prospettiva del legislatore della Riforma, la possibilità che la madre avesse intrattenuto rapporti con diversi uomini all’epoca del concepimento andava considerata prima del riconoscimento e doveva indurre ad un esercizio consapevole dell’atto di attribuzione della paternità che così profondamente vale a incide sulla dignità del figlio. Il legislatore ha, in tal senso, considerato come allo stato attuale delle conoscenze scientifiche la certezza sulla paternità biologica possa essere acquisita con estrema rapidità e con esami tutt’altro che invasivi, tanto da poter assicurare all’autore del riconoscimento la certezza circa il fondamento biologico della paternità prima del compimento dell’atto volontario idoneo a fondare lo stato di filiazione. La Riforma aveva, allora, inteso valorizzare l’assunzione di responsabilità dell’autore del riconoscimento e assicurare la stabilità dello stato di figlio anche a fronte di riconoscimenti compiuti in mala fede o in modo compiacente ovvero in modo superficiale.

    La decisione della Corte ha inteso rideterminare l’equilibrio tra ricerca della verità biologica della filiazione e stabilità dello stato di filiazione, assicurando maggiore tutela all’autore del riconoscimento che dimostri di aver proceduto al riconoscimento in buona fede e senza conoscere della sussistenza di rapporti della madre con altri uomini al momento del riconoscimento: si tratta, tuttavia, di una prova che, per sua natura, si presta a strumentalizzazioni anche da parte di chi abbia effettuato un riconoscimento nella consapevolezza di non essere padre e, piuttosto, per affermare la stabilità del rapporto con la madre e che, di seguito, impugni il riconoscimento in ragione del mutare dei rapporti con la stessa madre, con sostanziale violazione del principio dell’irretrattabilità del riconoscimento dettato dall’art. 256 c.c..

    La decisione della Corte va, ad ogni modo, valutata come un ulteriore capitolo nella ricerca di un difficile punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela del principio di verità della filiazione e l’esigenza di tutela dell’interesse del figlio; in questo caso è riaffermata la prevalenza dell’interesse alla verità biologica della filiazione ma l’interesse del minore alla stabilità dello stato di figlio rimane tutelato dalla decorrenza del termine quinquennale di proponibilità dell’azione del quale la Corte ha confermato la legittimità costituzionale.

    Si considerino, nella medesima prospettiva, i principi affermati dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 127 del 2020. Detta pronuncia ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità. In questa occasione la Corte ha confermato la legittimità della norma rimettendo, comunque, al Giudice la valutazione dell’interesse del minore ed escludendo che la disposizione valga ad ammettere comunque l’impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento in mala fede e senza adeguata valutazione dell’interesse del minore.

    La corte ha affermato che: “nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia. In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento, sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia”.

                                                      

               

     

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