GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Conto corrente bancario: recesso ad nutum o ad libitum? Riflessioni sul potere di controllo del giudice sull’atto di esercizio del diritto potestativo. Nota a  Trib. Palermo, 17.03.2021 di Marcello Mauceri

    Conto corrente bancario: recesso ad nutum o ad libitum?

    Riflessioni sul potere di controllo del giudice sullatto di esercizio del diritto potestativo.

    Nota a Ordinanza del Tribunale di Palermo sez. V civile specializzata in materia di impresa, 17.03.2021

    di Marcello Mauceri    

    Sommario: 1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare - 2. Aspetti di diritto processuale - 3. Quadro normativo di riferimento - 4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi - 5. Conclusioni.  

    1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare

    Il tribunale di Palermo con l’ordinanza in commento decide in sede cautelare d’urgenza su un ricorso proposto da un esercizio di “Compro oro” che si è visto recapitare la comunicazione immotivata di recesso della banca dal contratto di corrente di corrispondenza a tempo indeterminato, senza apertura di credito e con saldo finale attivo. Il conto è stato acceso da oltre dieci anni senza subire nel tempo modifiche di sorta [1].

    Lamenta il ricorrente che l’esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum sia avvenuto in modo abusivo tenuto conto dell’evoluzione della normativa comunitaria che appare fare emergere un vero e proprio obbligo a contrarre delle banche con riferimento, quanto meno, ai conti correnti di base, cui specularmente corrisponde un vero e proprio diritto al conto corrente del richiedente.

    Lamenta altresì che la mancanza del conto corrente gli impedirebbe di fatto l’esercizio dell’attività economica costituente l’oggetto sociale, stante che la normativa sulla lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale, unitamente alle stringenti esigenze di tracciabilità dei pagamenti e alla diffusa dematerializzazione della moneta, non consentirebbe di operare tramite contante.

    Deduce inoltre di essersi attivato presso altri istituti di credito per ottenere l’apertura di un conto senza positivi riscontri.

    D’altro canto la banca invoca la libertà di esercizio del recesso trattandosi di conto corrente contratto a tempo indeterminato per come disciplinato dall’art. 1833 c.c. e ribadisce peraltro che il preavviso di sessanta giorni (ben superiore al limite di legge) dimostra la correttezza del suo agire.  

    2. Aspetti di diritto processuale

    Il giudice della cautela in primis dà conto dell’ampio spettro di ipotesi in cui è possibile disporre in via cautelare con il duttile strumento del provvedimento d’urgenza contemplato dall’art. 700 c.p.c.; ribadendo la discrezionalità che la legge offre al decidente per neutralizzare il “pericolo imminente e irreparabile” che vulnera la posizione giuridica soggettiva da tutelare nelle more della decisione di merito, la cui attesa potrebbe definitivamente frustrare il bene della vita (e le connesse utilità)  ad essa sotteso.

    Sul punto può dirsi ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale nel senso dell’ammissibilità della tutela cautelare atipica in funzione della difesa di diritti non assoluti, come  l'accertamento della legittimità dell'esercizio del recesso, “in quanto scopo della tutela cautelare è quello di impedire che il tempo necessario alla pronuncia di merito pregiudichi in maniera irreparabile le utilità che il titolare della situazione giuridica violata avrebbe potuto trarre da una pronuncia tempestiva a sé favorevole o, comunque, necessarie a scongiurare l'aggravamento di una situazione già pregiudicata “[2].

    Detta tutela in particolare non può essere negata nemmeno di fronte ad obblighi di fare ( o non fare) infungibili come potrebbe essere il diritto alla prosecuzione del rapporto contrattuale, perché nell’ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell’obbligazione di cui si predica l’inadempimento, non preclude una statuizione di condanna; tenuto conto peraltro delle potenzialità coercitive introdotte con l’art. 614-bis c.p.c. (rubricato “Misure di coercizione indiretta”)  che si inserisce coerentemente nel quadro dei principi di effettività della tutela giudiziale per come emergono dalla Costituzione e dalle norme di matrice comunitaria.[3]

    Ed allora l’ordinanza in commento pare non discostarsi da quel filone giurisprudenziale che predica l’ammissibilità di inibitorie atipiche in funzione della tutela urgente delle più diverse situazioni giuridiche soggettive, che invocano rapidità e incisività di intervento.  

    3. Quadro normativo di riferimento

    Le norme che vengono scrutinate per trovare la soluzione al problema di offrire tutela effettiva all’imprenditore, privato dall’oggi al domani (si direbbe brutalmente) dello strumento essenziale per continuare ad operare legalmente nel settore di riferimento - ossia un ordinario conto corrente di corrispondenza - sono in prima battuta gli artt. 1697 c.c. e 2597 c.c.

    La prima norma è stata ritenuta una applicazione speciale della seconda, anche se le opinioni al riguardo non sono uniformi [4].

    Di esse però viene per lo più esclusa l’applicabilità in via analogica.

    La dottrina si è occupata della possibilità di rinvenire nel sistema normativo obblighi a contrarre oltre lo stesso perimetro delle norme speciali traendo spunto dal principio generale del neminem laedere recato dall’art 2043 c.c. “opportunamente interpretato”[5] .

    Ne consegue che il danno ingiusto provocato dal rifiuto a contrarre a sua volta animato da intenti emulativi, ricattatori, discriminatori, sopraffattori, potrebbe trovare adeguata sanzione nel rimedio risarcitorio apprestato dalla menzionata norma. Ma ciò merita un approfondimento che verrà svolto più oltre.

    Non diversamente, e procedendo per esclusione, il tribunale, pur constatando un trend normativo favorevole a riconoscere ai cittadini dell’unione europea un vero e proprio diritto al conto corrente con caratteristiche di base  (anche a prescindere dalle loro condizioni reddituali, finanziarie o di solvibilità)  finisce con escluderne l’applicabilità al caso di specie, per la semplice ed evidente circostanza che sia la Direttiva UE 2014/92 sia il decreto legislativo applicativo, a sua volta attuato dal D.M. 70/2018, si rivolgono esplicitamente al consumatore ossia “ la persona fisica che agisca a fini che non rientrano nella sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” ( art.1  Dir.).

    Pertanto sul punto non occorre dilungarsi ulteriormente, tenuto conto che quanto emerge dai considerando non ha alcuna valenza precettiva e il diritto in questione non trova spazio fuori dai rapporti consumeristici [6].  

    4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi

    A questo punto, constatata l’assenza di un diritto al conto corrente ed uno speculare obbligo della banca a contrarre, il giudice esamina e risolve (in senso positivo per il ricorrente) la questio iuris, ricorrendo alla figura dell’abuso di diritto per come costruito nel suo percorso argomentativo da un noto precedente giurisprudenziale; richiamando cioè in toto la sentenza della suprema corte pronunziata in un caso di recesso ad nutum considerato “arbitrario, cioè ad libitum” siccome abusivo.[7]

    La tesi in estrema sintesi è la seguente: l’ordinamento offre sempre al giudice il potere di controllare l’esercizio del diritto soggettivo nelle sue molteplici manifestazioni per verificarne la sua conformità ai principi di buona fede, correttezza e lealtà; apprestando, in caso di suo esercizio abusivo, ossia di frattura fra potere conferito dalla norma o dal contratto e scopo per il quale è stato conferito, sia il rimedio reale dell’inefficacia dell’atto sia quello risarcitorio del danno.

    Non è questa la sede per ripercorrere i profili dogmatici e l’evoluzione dottrinale della discussa figura dell’abuso del diritto e della sua interazione con la clausola generale di buona fede in senso oggettivo, su cui si sono riversati fiumi di inchiostro: ora per negarne la sua esistenza, ora per affermarne la sua inutilità pratica, ora per esaltarne le potenzialità applicative in un sistema economico sempre più complesso e dinamico [8].

    Purtuttavia alcune considerazioni sul tema vengono sollecitate dalla decisione del tribunale che si analizza.

    Il caso affrontato dalla suprema corte non pare sovrapponibile a quello di cui si discute: lì siamo di fronte al un caso di recesso contrattuale, ossia previsto da un’apposita pattuizione convenzionale, rispetto alla quale si discetta di controllo dell’autonomia contrattuale, di controllo giudiziale in via modificativa o integrativa dello statuto negoziale, di esecuzione negoziale secondo buona fede;  qui invece è la legge la sola fonte del diritto potestativo unilateralmente esercitato (c.d. recesso legale); lì le parti sono legate da un contratto di concessione di vendita rispetto al quale l’abuso di dipendenza economica è rinvenibile nella squilibrata trama di pattuizioni intercorse fra loro; qui si è in presenza di in contratto di conto corrente bancario di base dove i reciproci diritti e obblighi hanno ampiezza e contenuti affatto differenti e il contesto di mercato si colloca su ben altro piano; li la pretesa lesione dei concessionari trova ristoro nella richiesta del risarcimento del danno; qui nella paralisi degli effetti del recesso [9].

    Se il ricorso alla teorica dell’abuso disvelato dalla violazione canone generale di buona fede è argomento dotato di sua persuasività non convince l’esito finale cui perviene la decisione in esame, ossia la declaratoria di inefficacia del recesso. La sterilizzazione cioè degli effetti di un atto di esercizio di un diritto potestativo che la legge riconosce in forza della indeterminatezza del tempo per cui il contratto è stato stipulato [10].

    La contraddizione appare in ciò: se da un lato si esclude l’esistenza di un obbligo legale a contrarre in capo alla banca e di conseguenza lo speculare diritto al conto corrente quanto meno di base (al contrario ipotizzabile solo per la diversa figura della  persona fisica qualificata come consumatore), paralizzare gli effetti del recesso ad nutum significa null’altro che obbligarla a mantenere il rapporto contrattuale in vita e quindi obbligarla sine die a svolgere lo specifico ed infungibile facere costituito dal servizio di cassa, tipico del conto corrente bancario.[11]

    Ma obbligare la parte a mantenere ed erogare il complesso servizio di cassa - in esecuzione di un contratto di durata - significa in definitiva riguardare la fattispecie in termini di obbligo legale a contrarre. Con evidente contraddizione rispetto a quanto prima affermato nel senso della esclusione di tale obbligo al di fuori delle specifiche e precise previsioni normative, di cui peraltro si predica la non applicabilità in via analogica.

    Orbene ciò non vuol dire affatto che nel bilanciamento degli interessi in gioco - alla luce dei principi costituzionali di solidarietà economica e utilità sociale dell’agire economico - debba prevalere l’arbitrio o il capriccio di chi esercita il potere legalmente previsto col conseguente ingiusto e sproporzionato sacrificio di chi lo subisce [12].

    Significa che solo il rimedio risarcitorio possa ritenersi sempre ravvisabile, tenuto conto fra l’altro che i canoni di buona fede, correttezza e lealtà attengono nel caso di specie alla sfera delle regole di condotta (e alle modalità concrete di esplicazione di questa)[13].

    È evidente nel caso che si esamina il conflitto di interessi di cui sono portatori i soggetti del contratto: da un lato quello della banca di non sopportare eccessivi oneri di “compliance” indotti dalla particolare e “sensibile” attività economica del “ c.d. compro oro” e dunque i relativi costi per ottemperare agli obblighi nascenti dalla normativa antiriciclaggio; dall’altra quella dell’imprenditore-cliente che senza conto corrente basico con i connessi servizi di cassa ( fornitura del POS, della carta di debito, etc.) non potrebbe di fatto proseguire nella propria attività commerciale, se non contravvenendo alle stringenti norme ( anche penali ) che la presiedono.

    Il problema allora si sposta di necessità sul piano squisitamente probatorio.

    Posto che la banca che recede ad nutum ha certamente l’onere in prima battuta di dimostrare di avere  concesso i termini di preavviso normativamente prefissati, l’altro contraente dovrà dimostrare che l’esercizio di tale potere è avvenuto con modalità abusive dopo avere creato il legittimo affidamento nella normale prosecuzione del rapporto; dovrà  allegare e dimostrare in modo convincente di non avere potuto reperire valide alternative sul mercato creditizio; dovrà allegare e dimostrare di avere subito atteggiamenti ritorsivi pur in assenza di anomalie contabili o carenze di solvibilità. E così via.

    Il risarcimento potrà sicuramente essere per equivalente e fondarsi sul principio che l’ingiustizia del danno presuppone la lesione di ampie e sempre nuove situazioni soggettive che l’ordinamento giuridico viene riconoscendo anche nell’intrecciarsi di norme nazionali e unionali.  

    5. Conclusioni

    È qui allora che la iurisdictio correttamente esercitata diventa cruciale nel dirimere contrasti di tal fatta, facendo prudente uso della discrezionalità che l’ordinamento giuridico le assegna in vista della giustizia del caso concreto.

    L’uso della figura dell’abuso del diritto come principio implicito e permeante la tavola dei diritti e dei doveri già prefigurato in Costituzione appare in tutta la sua dimensione dinamica come elemento correttivo in presenza di comportamenti oggettivamente anomali (o anormali) che dunque tradiscono i limiti interni della stessa posizione giuridica soggettiva, di fatto negandola.

    Con ciò si vuole affermare che il divieto di abusare del diritto significa in un certo modo negare il diritto stesso: abuso che appunto “vive dello scarto fra fattispecie normativa e fatto concreto” [14].

    Le considerazioni sopra svolte appaiono corroborate dal diritto comunitario e dalla dottrina che ne ha elaborato i profili di sistema, configurando l’abuso di diritto come forma di controllo e regolazione del modo di esercizio delle situazioni giuridiche soggettive [15].

    È del tutto evidente che l’art. 54 (“Divieto dell’abuso del diritto”) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, avente com’è noto lo stesso valore giuridico dei trattati internazionali, può diventare il grimaldello interpretativo che toglie ogni dubbio circa il potere del giudice di scongiurare ogni utilizzo distonico, deviato o distorto del potere che pure la legge in astratto riconosce [16].

    Ma l’operazione ermeneutica va condotta con grande prudenza e discernimento, al fine di non entrare a gamba tesa su quell’area di libertà di scelta economica che proprio la Costituzione intende preservare con l’art. 41, I comma. E ciò tanto più che il limite e il confine fra libera scelta decisionale in materia economica quale prerogativa dell’imprenditore che opera su un libero mercato (con assunzione dei conseguenti rischi) e sindacato giurisdizionale sull’atto di autonomia negoziale (ossia, come nel caso di specie, esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum quale negozio unilaterale recettizio) diventa assai labile e a rischio di dubbie (e per ciò stesso non auspicabili) riperimetrazioni.

     

    [1] Sul provvedimento in commento v. L. MORMILE, Conto Corrente e recesso ad nutum, in www.ilcaso.it.

    [2] In questo senso v. Trib. Pescara, ord. 11.12.2020 che a sua volta richiama Trib. Milano Sez. Specializzata in materia di imprese, 03.01.2013.

    [3] Cfr. al riguardo Cass. Sez. 1, n. 19454 del 23/09/2011 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 18779 del 05/09/2014; Cass. Sez. 3, n. 9957 del 13/10/1997; Cass. Sez. 1, n. 15349 del 01/12/2000).

    [4] Sul punto  si vedano ex multis, A. DE MARTINI, voce Obbligo a contrarre, Novissimo dig. it., XI, Torino, 1965, pp. 694 ss.; C. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004; L. MONTESANO, voce Obbligo a contrarre, Enc. dir., vol. XXIX Milano, 1979, pp. 509 ss.; G. GABRIELLI, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977; L. NIVARRA, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989; ID., La disciplina della concorrenza. Il monopolio, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992; M. LIBERTINI, L'imprenditore e gli obblighi di contrarre, in Tratt. dir. comm. e dir. pubb. econom., diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, pp. 272 ss.; M. LIBERTINI – P. M. SANFILIPPO, voce Obbligo a contrarre, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, pp. 480 ss.; P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969. 

    [5] In questo senso sono le illuminanti considerazioni di R. SACCO, Il contratto Imposto, Trattato di diritto privato, Vol. 10, pag. 369 ss.

    [6] Il trentacinquesimo considerando della Direttiva UE 2014/92 recita: “È opportuno evitare di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della citta­dinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fonda­ mentali dell’Unione europea («Carta») in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione. Inoltre, è opportuno che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di paga­ mento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento”.  

    [7] Il riferimento è alla nota sentenza della cassazione n. 20106/2009, oggetto di sferzanti critiche da A. GENTILI, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, Responsabilità civile e previdenza ,2010, pag. 354 che trova “stupefacente che i giudici possano rifare i contratti che a loro non sembrano equi”; v. anche C.A. NIGRO, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), nota a Cass. 18 settembre n. 20106, Giust. Civ. 2010, n. 20106, che nota come “il tema della buona fede e quello dell’abuso siano stati sovrapposti, ove non addirittura confusi, almeno sul piano applicativo: certo è che i rapporti tra l’una e l’altro appaiono descritti in modo poco chiaro, ed in alcuni passaggi in termini che sembrano addirittura contraddittori”.

    [8] R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile diretto dal medesimo, Torino, 2001, p. 320.  

    [9] Secondo la giurisprudenza “si ha dipendenza economica quando si è dedicata la propria attività imprenditoriale ad un unico produttore”: così L. DELLI PRISCOLI, nota a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, Giur. Comm. 2010, pag. 834.

    [10] In dottrina si è osservato al riguardo che  il divieto dei vincoli perpetui è espressivo di un principio di ordine pubblico” così FRANZONI, Degli effetti del contratto, in il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger. Art. 1374-2381, Milano 1999, 323 ss.

    [11] Pacificamente qualificato come “contratto innominato misto (consensuale, di durata) con cui il cliente investe la banca di un mandato generale ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far confluire nel conto le somme acquisite in esecuzione del mandato” C. SANDEI, in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN – TRABUCCHI, PADOVA, 2014, sub art. 1852 Codice Civile, n. 2-3.

    [12] Il rimedio risarcitorio sembra prevalere nella giurisprudenza della cassazione che ancora di recente ha affermato con chiarezza che l’esercizio del recesso in violazione della regola della buona fede in executivis è di per sé idoneo a por fine al rapporto contrattuale, “mentre l’inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che tale regola abbia violato”: Cass. civ. sez. I, 16.04.2021, n. 10125.

    [13] v. Tribunale di Grosseto, 02.05.2020, n. 311: “la violazione delle di regole di condotta (discendenti dalla clausola generale di cui all’art. 1375 c.c.) non può dare luogo ad invalidità e dunque a inefficacia dell’atto che costituisce esercizio del diritto potestativo riconosciuto alla legge o dal contratto, sicché il recesso abusivo è in ogni caso valido ed efficace e dunque idoneo a determinare lo scioglimento del rapporto contrattuale (contra Cass. sent. 20106/09, rimasta sostanzialmente isolata)”.

    [14] “Un diritto non può mai essere abusivo in sé, pena la contraddittorietà della locuzione e del fenomeno giuridico cui essa rimanda. Il predicato dell’abusività, invece, e da correlare al divenire del diritto stesso, o – meglio ancora – al profilo dinamico dei poteri e delle facoltà che in esso sono racchiusi, dei quali rivela e spiega la condizione patologica, riflettendosi sulla stabilità o sull’efficacia dell’atto”: C.NIGRO, op.cit, pag,21 in nota.

    [15] v. S.CAFARO, L’abuso del diritto nel sistema comunitario: dal caso Van Binsbergen alla Carta dei Diritti, passando per gli ordinamenti nazionali, Il diritto dell’Unione europea, 2003,293; R. T. BONAZINGA, Abuso del diritto e rimedi esperibili, www.comparazionedirittocivile.it che sottolinea come i rimedi sanzionatori di comportamenti abusi riguardano “ il profilo di applicazione uniforme delle disposizioni comunitari al fine di salvaguardare la certezza del diritto e la prevedibilità delle soluzioni giurisprudenziali anche nell’ordinamento giuridico comunitario”.

    [16] Interessante a tal riguardo quanto affermato da Cass. pen. 21.05.2010, n. 28658, nel caso in cui la fattispecie oggetto di cognizione non ricada nell’ambito di applicazione del diritto europeo: la Carta costituisce uno strumento di interpretazione privilegiata per il diritto interno che si deve presumere coerente con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato”; ed ancora, “la nomofilachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento dei diritto comune europeo” .  

     

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