GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La permanenza nel braccio della morte ovvero il tempo sospeso tra speranza e sofferenza

    La permanenza nel braccio della morte ovvero il tempo sospeso tra speranza e sofferenza

    di Rocco Poldaretti 

    Sommario: 1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon». – 2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza. – 3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza? – 4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive.

    1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon»

    Il braccio della morte, ovvero il luogo in cui il condannato si trova ad attendere l’esecuzione della pena capitale sin dal momento della condanna, è stato a lungo al centro del dibattito giuridico nazionale e sovranazionale, in cui si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra la salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti umani ed il perseguimento delle logiche della pena capitale.

    In quest’ottica, la tutela costituzionale dei valori fondamentali dell’individuo si tradurrebbe nelle scelte dei singoli ordinamenti che, in varia misura, possono essere ispirate a principi tra loro divergenti: da un lato, la correttezza procedurale, e dall’alto la maggiore efficacia dello strumento sanzionatorio.

    La delicata questione è stata oggetto di una riflessione del Justice Breyer della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale, nella sentenza Glossip c. Gross[1], ha evidenziato sotto forma di dissenting opinion l’angusto «dilemma» che affligge la pratica della pena di morte.

    Secondo il giudice, “in un sistema concernente la pena di morte che ricerchi la correttezza procedurale, l’affidabilità conduce a ritardi che aggravano seriamente la crudeltà della pena capitale e pregiudicano significativamente la logica dell’irrogazione di una condanna a morte, [mentre] un sistema che riducesse i ritardi pregiudicherebbe gli sforzi dell’ordinamento giuridico di assicurare l’affidabilità e la correttezza procedurale”[2].

    Il dilemma verrebbe pertanto ad essere ridotto all’aut aut tra una pena di morte presumibilmente funzionale a perseguire legittimi scopi penologici[3], oppure un sistema procedurale che, presumibilmente, ricerchi affidabilità e correttezza nell’applicazione di tale pena[4].

    All’interno di questo dualismo, che sovente si traduce in soluzioni di prevalenza – e non di totale esclusione – dell’uno sull’altro, si colloca poi la questione degli effetti del tempo trascorso dal condannato nel braccio della morte.

    In questo senso, con l’espressione «death row phenomenon»[5] si indica l’insopportabile ritardo legato all’angoscia onnipresente e crescente relativa all’esecuzione della pena capitale[6], attraverso un giudizio incentrato sulla persona del ricorrente, ovvero con particolare attenzione alla sua età e al suo stato mentale all’epoca del reato, con il reale rischio di sottoporre lo stesso ad un trattamento inumano e degradante[7].

    L’esistenza del braccio della morte non deve però portare a concludere che qualsiasi ritardo costituisca un trattamento disumano; poiché, altrimenti, l’alternativa di prevedere una esecuzione immediatamente successiva alla sentenza costituirebbe una patente violazione del diritto all’appello, alla revisione della condanna oppure alla richiesta di provvedimenti di clemenza, evitabile soltanto attraverso la strada dell’abolizione[8].

    Occorre pertanto fare chiarezza su un duplice interrogativo: da un lato quello di cercare di definire il vasto orizzonte temporale che connatura il c.d. «death row phenomenon» e dall’altro quello di individuare il momento a partire dal quale l’attesa del condannato cesserebbe di essere giustificata, esponendolo a sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili[9].

    2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza

    Nonostante l’assenza di una soluzione univoca sul punto da parte della giurisprudenza delle varie corti supreme e costituzionali, si evidenzia come alcune di esse, in realtà, abbiano intrapreso percorsi convergenti, circoscrivendone la durata “massima” una volta che il provvedimento è divenuto definitivo.

    Le prime pronunce in tale direzione si devono alla Corte suprema indiana la quale, nel 1983, aveva in un primo momento riconosciuto come disumanizzante la permanenza del detenuto nel braccio della morte per un periodo superiore a due anni, periodo entro il quale si sarebbero dovuti esaurire tutti i rimedi esperibili contro il provvedimento che dispone la pena capitale[10].

    Poco dopo, tuttavia, la Corte è tornata sui propri passi, dapprima evidenziando le perplessità relative alla portata applicativa che la soluzione avrebbe potuto avere[11]; poi attraverso un overruling, affermando come non possa essere predeterminato alcun termine fisso di ritardo a partire dal quale avrebbero origine le insopportabili sofferenze del condannato[12].

    Una diversa chiave di lettura rispetto all’approdo finale della Corte indiana è invece offerta dalla giurisprudenza del Judicial Committee del Privy Council[13] e della Corte suprema dello Zimbabwe[14], che hanno ritenuto disumana o degradante la permanenza nel braccio della morte per una durata superiore, rispettivamente, ai 52 e 72 mesi nell’uno, e cinque anni nell’altro caso.

    Sulla stessa scia sembra inserirsi anche la decisione della Corte Costituzionale dell’Uganda del 2005, con la quale i Justices hanno stabilito che l’esecuzione della condanna configura un trattamento disumano quando viene condotta oltre il termine di tre anni dal momento in cui il provvedimento diviene definitivo – e non, come nei casi precedenti, dalla emissione della prima sentenza – costituendo, al contempo, il termine massimo per decidere sulla domanda di grazia del condannato[15].

    3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza?

    Tuttavia tali concezioni, in cui la sofferenza dell’individuo viene ad identificarsi nella eccessiva durata o nell’eccessivo numero dei giudizi che, a vari livelli, consentono di ribaltare la condanna oppure di convertirne la pena, non hanno trovato terreno fertile nel dibattito giuridico di altri paesi retenzionisti.

    Nell’ordinamento statunitense, in cui la Corte suprema federale ha sempre negato le varie richieste di certiorari sull’argomento, non sono mancate, da parte di corti d’appello, visioni di segno diametralmente opposto.

    In questo contesto, il ritardo nella esecuzione viene difatti concepito come una conseguenza necessaria che sul piano pratico segue l’elenco di strumenti processuali forniti al condannato, cosicché la scelta di volerne profittare non renderebbe il ritardo contrario alla Costituzione[16]; mentre l’accoglimento di una qualsiasi domanda di questa natura potrebbe fornire un pericoloso incentivo a ritardarne volontariamente le tempistiche[17].

    Questa “diversità di ritardo”[18] che contraddistingue l’ordinamento statunitense riflette al contempo una diversa percezione della sofferenza del condannato: l’interminabile attesa cui esso è sottoposto non costituirebbe la causa di sofferenze fisiche e psicologiche, quanto piuttosto l’unica fonte della speranza di poter godere, anche solo per più tempo ed all’interno di strutture detentive, del proprio bene “vita”.

    Nella stessa direzione si pone anche l’ordinamento giapponese, in cui il termine massimo di sei mesi per l’emissione dell’ordine di esecuzione previsto dal Codice di procedura penale[19] si traduce, nella prassi, in una semplice “advisory provision[20], con la permanenza nel braccio della morte di periodi che oscillano tra i 15 ed i 20 anni[21].

    Il quadro di ingiustificati ritardi di carattere sostanziale viene poi integrato dalla controversa pratica di eseguire la condanna a morte a distanza di poche ore dalla notifica dell’ordine di esecuzione.

    Tale attività, che provoca nel detenuto uno stress continuo ed ininterrotto fin dal momento della condanna, verrebbe a giustificarsi nella volontà di rimandare, per quanto possibile, il fortissimo impatto emotivo che l’atto avrebbe se notificato con anticipo, cercando al contempo di conservarne lo stato di serenità dell’individuo[22].

    La questione non assume invece gli stessi termini nel sopraccitato ordinamento statunitense, dove il condannato non solo ha diritto a ricevere tempestivamente la notifica dell’ordine di esecuzione, ma dispone anche di mezzi di impugnazione atti a farne valere gli eventuali vizi[23].

    Orbene, all’interno della inscindibile dicotomia tra speranza e sofferenza che definisce il braccio della morte, si inserisce da ultimo la singolare scelta legislativa dell’ordinamento cinese di prevedere, contestualmente alla sentenza di condanna e sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, la possibilità di sospendere la pena di morte per un periodo di due anni, al termine del quale – se medio tempore il condannato non ha commesso nessun altro reato doloso – la pena viene automaticamente convertita nel carcere a vita oppure nella misura di 25 anni[24].

    In questi termini, il braccio della morte verrebbe ad acquisire una dimensione temporale ben precisa e l’esito verrebbe ad essere interamente rimesso all’effettivo pentimento del condannato, costituendo una interessante lente d’osservazione attraverso la quale traguardare nuovamente i confini della questione.

    Alcuni autori sostengono tuttavia che tale periodo sarebbe comunque idoneo a provocare nell’individuo un forte stato d’ansia legato alla (necessaria) autoriforma ed alla incerta applicazione della pena di morte[25]; mentre secondo altri[26] ciò non valicherebbe le soglie che, a diverse latitudini, tratteggiano la linea di confine dei trattamenti disumani e degradanti[27].

    4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive

    Volendo trarre qualche considerazione conclusiva si evidenzia come, in realtà, persino una soluzione ancorata a fattori che rientrano nella sfera di controllo del condannato non sia di per sé idonea a fugare ogni dubbio circa la possibilità che, nelle more dell’esecuzione, quest’ultimo non sia esposto ad un forte e perdurante stato di angoscia.

    Speranza e sofferenza sarebbero dunque due elementi (rectius, conseguenze) ineliminabili del braccio della morte, il cui delicato bilanciamento sembra porsi al centro del «dilemma» sulle diversità sistemiche del Justice Breyer.

    La predeterminazione di un termine massimo di durata del braccio della morte consentirebbe di porre un limite alle sofferenze fisiche e psicologiche del condannato, limitando però al contempo anche la speranza di continuare a godere del proprio diritto alla vita.

    Al contrario, un più ampio orizzonte temporale si tradurrebbe nella effettiva dilazione del momento in cui l’individuo verrebbe privato del bene “vita”, acquisendo pertanto maggior rilevanza rispetto allo stato di angoscia cui esso è costantemente sottoposto.

    Le diversità di concezioni e l’impossibilità di individuare una soluzione univoca sarebbero dunque il riflesso della natura stessa del braccio della morte, che come un pendolo oscilla incessantemente tra speranza e sofferenza, a cui ci si può sottrarre, forse, soltanto attraverso l’impervia strada dell’abolizione.


    [1] Sentenza 576 U.S. 863, 29 giugno 2015, https://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-7955_aplc.pdf.

    [2] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32.

    [3] Per una più attenta disamina degli stessi, cfr. N. Bobbio, Il dibattito attuale sulla pena di morte, in Id., L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1977, p. 201 ss; per un approfondimento sullo scenario statunitense si veda altresì D. Garland, Peculiar Institution: America's Death Penalty in an Age of Abolition, Oxford University Press, 2010; nonché J. S. Liebman, P. Clarke, Minority Practice, Majority’s Burden: The Death Penalty Today, in Ohio State Journal of Criminal Law, 2011, vol. 9, p. 255 ss.

    [4] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32, cui peraltro il Justice ha precisato che, delle due, “non si possono avere entrambe”.

    [5] Termine adoperato in un primo momento dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Kirkwood c. Regno Unito, n. 10479/83, 12 marzo 1984, https://www.refworld.org/cases,COEC-OMMHR,3ae6b6fc1c.html.

    [6] Sul punto, cfr. anche Judicial Committee del Privy Council, sentenza Noel Riley and Others v Attorney-General for Jamaica, 1 AC 719 (1983), 28 giugno 1982, https://www.casemine.com/judg-ement/in/5779fac6e561096c93-13158b, in cui si è parlato di “anguish of alternating hope and despair, the agony of uncertainty, the consequences of such suffering on the mental, emotional and physical integrity and health of the individual”.

    [7] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Soering c. Regno Unito, n. 14038/88, 7 luglio 1989, par. 111, https://hu-doc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-57619%22]}. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che l’estradizione di un individuo verso uno stato in cui, per il reato addebitatogli, può essere applicata la pena di morte, costituisce una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, in ragione del “periodo molto lungo da passare nel braccio della morte”.

    [8] P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Calenzano, Leo S. Olschki, 2021, p. 238.

    [9] Sulla insopportabilità delle conseguenze psicologiche cfr. Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza In Re Medley, 134 U.S. 160, 161, 3 marzo 1890, https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/134/160.html; in dottrina, cfr. L. A. Rhodes, Pathological Effects of the Supermaximum Prison, in American Journal of Public Health, 2005, vol. 95 (10), p. 1692 ss.

    [10] Cfr. sentenza T. V. Vatheeswaran vs State of Tamil Nadu, 1983 SCR (2) 348, 16 febbraio 1983, https://indiankano-on.org/doc/1536503/. Si segnala altresì la precedente sentenza Ediga Anamma vs State of Andhra Pradesh, 1974 SCR (3) 329, 11 febbraio 1974, https://indiankanoon.org/doc/1496005/, in cui la Corte aveva convertito la pena capitale con la pena dell’ergastolo sulla base, tra le altre, di un periodo nel braccio della morte superiore a due anni.

    [11] Sentenza Sher Singh & o. vs The State Of Punjab, 1983 SCR (2) 582, 24 marzo 1983, https://indiankanoon.org/doc/1166797/.

    [12] Sentenza Triveniben vs State of Gujurat, JT 1988 (4) ST 112, 11 ottobre 1988, https://indiankano-on.org/doc/144619408/.

    [13] Sentenza Pratt and Morgan v Attorney General of Jamaica, 2 AC 1 (1993), 2 novembre 1993, https://www.casemine.com/judgement/uk/5b599a772c94e02f4938ac4f.

    [14] Sentenza Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe v. Attorney General of Zimbabwe, 1993 (4) SA 239 (ZS), 24 giugno 1993, https://www.refworld.org/cases,ZWE_SC,3ae6b6c0f.html.

    [15] Sentenza Susan Kigula & 416 Ors v Attorney General [2005], UGCC 8, 10 giugno 2005, https://ulii.org/ug/judgment/constitutional-court-uganda/2005/8.

    [16] Cfr. l’opinione concorrente del Justice Thomas, sentenza Knight c. Florida e Moore c. Nebraska, U.S. 98-9741 e 99-5291 (1999), 8 novembre 1999, https://www.law.cornell.edu/supct/pdf/98-9741P.ZA; della Corte d’Appello del Nono Circuito si vedano invece la sentenza Richmond c. Lewis, 921 F.2d 933 (9th Cir. 1990), 26 dicembre 1990, https://www.casemine.com/judgement/us/5914bfe5add7b04-9347b092c, in cui si è sostenuto che così come “l’imputato non deve essere penalizzato per il perseguimento dei suoi diritti costituzionali, [dall’altro lato] non dovrebbe neanche essere in grado di trarre vantaggio dal perseguimento, in ultima analisi, infruttuoso di tali diritti”; nonché la sentenza McKenzie c. Day, 57 F.3d 1461 (9th Cir. 1995), 8 maggio 1995, https://casetext.com/case/mckenzie-v-day/?PHONE_NUMBER_GROUP=P.

    [17] A. A. Sun, “Killing Time” in the Valley of the Shadow of Death: Why Systematic Preexecution Delays on Death Row Are Cruel and Unusual, in Colombia Law Review, 2013, vol. 113, p. 1605.

    [18] Ibid., p. 1602.

    [19] Art. 475, c. 2.

    [20] M. Obara-Minnitt, Japanese Moratorium on the Death Penalty, Palgrave Macmillan, 2016, p. 35.

    [21] P. Schmidt, Capital Punishment in Japan, Brill, 2002, p. 196.

    [22] Sul punto, cfr. report Hanging by a thread: Mental health and the death penalty in Japan, Londra, Amnesty International, ASA 22/005/2009, 2009, settembre 1-94, p. 29.

    [23] Per una disamina dei due modelli cfr. D. H. Foote, “The Door That Never Opens”?: Capital Punishment and Post-Conviction Review of Death Sentences in the United States and Japan, in Brooklyn Journal of International Law, 1993, vol. 19, issue 2, p. 386 ss.

    [24] Artt. 48-50 della Legge penale della Repubblica popolare cinese.

    [25] Cfr. Z. Ning, The Debate Over the Death Penalty in Today’s China, in China Perspectives, 2005, vol. 62. Sul punto si veda inoltre J. A. Cohen, The criminal process in the People’s Republic of China, 1949-1963, Harvard University Press, 2013.

    [26] Cfr. M. Seet, China’s Suspendend Death Sentence with a Two-Year Reprieve: Humanitarian Reprieve or Cruel, Inhuman and Degrading Punishment?, in Asian Yearbook of International Law, 2017, vol. 20, p. 163 ss.

    [27] Si evidenzia come la questione debba ancora essere oggetto di diretta considerazione da parte della giurisprudenza delle corti supreme e costituzionali. A titolo meramente esemplificativo, cfr. Corte Federale del Canada, sentenza Lai Cheong Sing and Tsang Ming Na v. Canada (Minister of Citizenship and Immigration), 2007 FC 361, [2008] 2 F.C.R. 3, 25 aprile 2007, par. 100, https://www.refworld.org/cases,CAN_FC,48eccb782.html, in cui si è limitata a dire che la questione circa la crudeltà dello strumento sanzionatorio non rileva poiché, nel caso di specie, non erano presenti i requisiti richiesti dalla legge per accedervi.

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