GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 8500/2021 sui confini dell’applicazione del termine di decadenza dell’attività impositiva in presenza di oneri pluriennali  di Giuseppe Ingrao

    L’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 8500/2021 sui confini dellapplicazione del termine di decadenza dell’attività impositiva in presenza di oneri pluriennali

    di Giuseppe Ingrao        

    Le Sezioni Unite intervengono sul problema della rettifica delle quote di ammortamento o dei ratei annuali relativi a beni durevoli o ad oneri pluriennali qualora sia ormai definitiva la dichiarazione relativa all’annualità di prima iscrizione in bilancio. La pronuncia, in modo del tutto prevedibile, sconfessa la tesi restrittiva sostenuta da Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019, legittimando la piena rettificabilità delle dichiarazioni di periodo, per ragioni attinenti sia al calcolo matematico di ripartizione dell’onere, sia all’esistenza ab origine dei presupposti di deducibilità.

    Sommario: 1. Premessa. - 2. L’ordinanza di rimessione n. 10701/2020. - 3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite. - 4. La questione della conservazione dei documenti contabili - 5. Conclusioni.    

    1. Premessa

    La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione 25 marzo 2021, n. 8500, risolve una questione molto delicata nel settore del diritto tributario specificamente riferito alla decadenza dell’azione impositiva prevista dall’art. 43, Dpr n. 600/73. La questione specifica riguarda l’applicabilità dell’istituto della decadenza qualora il reddito dichiarato compendi fatti economici a carattere pluriennale che si manifestano tramite la deduzione di quote di ammortamento o di ratei annuali. Si è, invero, affermata una possibile preclusione della rettifica delle quote annuali, qualora siano inutilmente decorsi i termini per l’esercizio del potere di accertamento relativamente all’annualità in cui è stata rilevata in bilancio la spesa da dedurre in modo frazionato nei periodi di imposta successivi ([1]). 

     Il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite è il seguente: “Nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 d.P.R. n. 600/1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente reddituale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.

    Tale conclusione viene supportata da una moltitudine di argomentazioni giuridiche, tra cui un ruolo centrale assume l’affermazione (contenuta nel par. 4.5) secondo cui “la definitività, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta in sé il diverso effetto della ‘preclusività’ di sindacato per un periodo di imposta successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare solo dalla positiva rispondenza alla realtà di quanto dichiarato” ([2]).

     

    2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 10701/2020

    In termini provocatori, possiamo da subito evidenziare che il problema interpretativo su cui si è chiesto l’intervento delle Sezioni Unite non esisteva.

    D’altra parte, ove ci fossero state forti criticità in merito all’applicazione dell’art. 43, Dpr n. 600/1973, in presenza di oneri pluriennali, queste sarebbero emerse già da qualche decennio vista la amplissima rilevanza concreta della questione.

     Invero, prima delle sentenze della Cassazione del 2018 e 2019, il dibattito sulla possibilità per l’Ufficio di sindacare qualsiasi profilo attinente alla deducibilità delle quote di ammortamento o dei ratei annuali dei componenti reddituali a rilevanza pluriennale, anche se erano ormai decorsi i termini per accertare l’annualità nella quale le spese pluriennali erano state per la prima volta rilevate in bilancio e in dichiarazione, vi erano solo alcune pronunce contrastanti della giurisprudenza di merito ([3]). Il problema interpretativo è stato, quindi, creato proprio da questi due precedenti della Cassazione.

    Le sentenze della Cassazione n. 9993/2018 e n. 2899/2019 hanno affermato che una interpretazione costituzionalmente orientata (art. 24 Cost.) delle norme sulla decadenza del potere impositivo esige che si tenga conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 280/2005, secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati; pertanto, aderendo alla soluzione della possibilità di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo di imposta di concreto sostenimento della spesa si arriverebbe a violare il dictum della citata sentenza della Corte costituzionale, atteso che i presupposti per il diritto della deduzione nel suo complessivo valore (e non della singola quota) si realizzano appunto nel momento di acquisizione del bene o di sostenimento della spesa ad utilizzo pluriennale.  Peraltro, si è rilevato che il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria per singolo periodo di imposta non consente nuove ed autonome valutazioni tutte le volte in cui il presupposto per la deduzione di una spesa si rinnova annualmente in termini identici rispetto al passato, come dimostra quell’orientamento della giurisprudenza secondo cui è ammessa l’efficacia espansiva del giudicato su annualità diverse da quelle oggetto della decisione definitiva in relazione a situazioni geneticamente unitarie, destinate a ripercuotersi su annualità successive ([4]).

    In questa cornice, la Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di offrire un indirizzo certo, che potesse evitare di alimentare prevedibili futuri contenziosi.

    L’ordinanza di rimessione sottopone ad una puntuale critica gli argomenti giuridici evocati dalle due citate sentenze per negare la possibilità di sindacare i ratei dell’onere pluriennale quali: a) il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria, che ad avviso dei giudici opera solo sul piano sostanziale e non procedurale e come tale risulta inidoneo a risolvere la questione controversa; b) la regola dell’efficacia espansiva del giudicato esterno su fatti aventi efficacia permanente o pluriennale, ritenuta anch’essa estranea alla questione controversa perché l’inoppugnabilità di un componente reddituale conseguente a vaglio giudiziale consolidatosi nel giudicato è cosa diversa dall’inoppugnabilità della dichiarazione per effetto di mancato accertamento; c) il riferimento alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 280/2005 in tema di apposizione di una termine di notifica alla cartella di pagamento, che - chiariscono i giudici - non è riferibile all’istituto della decadenza in generale, ma esclusivamente alla riscossione dei tributi.

    Su un piano più generale, l’ordinanza precisa che l’amministrazione finanziaria ha il potere di contestare i bilanci di esercizio successivi rispetto a quello di prima imputazione della spesa, non manifestandosi alcun aspetto di consolidamento e che la tesi che consente di sindacare pienamente la deducibilità della quota di ammortamento o del rateo della spesa pluriennale non confligge con la tutela del contribuente al quale la legge consente di disfarsi della documentazione contabile relativa alla dichiarazione una volta decorsi i termini dell’accertamento e comunque decorsi dieci anni dalla formazione della stessa, perché “il regime dell’art. 22 andrebbe ricollegato a ciascuno dei successivi periodi di imposta nei quali il componente reddituale assuma rilievo, sicché per ognuno di tali periodi dovrebbe decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione documentale fino allo spirare del termine di decadenza dell’ultima dichiarazione rilevante”.       

     

    3. Le argomentazioni prospettate dalle Sezioni Unite n. 8500/2021  

    La sentenza a Sezioni Unite, nell’approcciarsi al problema interpretativo, ha ribadito la grande rilevanza della questione, segnalando che, oltre il problema della svalutazione dei crediti, investe questioni eterogenee quali le quote di ammortamento dei beni strumentali materiali e immateriali, la rateizzazione delle plusvalenze, i crediti di imposta di cui il contribuente può beneficiare in modo frazionato, nonché le perdite d’impresa. La questione - avvertono i giudici – impatta, peraltro, non solo sui soggetti Ires, ma anche sulle persone fisiche, con diluizioni che non sempre sono frutto di una pura ripartizione matematica, ma a volte presuppongono per ogni singola annualità una nuova valutazione che adegui la rata di competenza all’evolversi di situazioni fattuali considerate dalla legge come rilevanti. In ogni caso, i giudici ritengono di poter prospettare una soluzione unitaria.

     La Corte innanzitutto richiama alcuni precedenti della Cassazione sulla questione controversa, dai quali si può in qualche modo ricavare la possibilità per l’Ufficio di contestare senza limiti i ratei di spesa pluriennale nel periodo di imposta di relativa imputazione. In dette pronunce si precisa che è una mera facoltà, e non un obbligo sancito da preclusione, quella di contestare la componente pluriennale sin dalla sua prima dichiarazione (anche quando dalla contestazione d’origine non possa scaturire alcuna immediata imposizione).

    L’orientamento in questione muove dall’applicazione del principio di autonomia di ciascuna annualità, ma - rilevano le Sezioni Unite - questo principio viene utilizzato a volte per sostenere la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità, a volte per la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato ([5]). Pertanto, la sentenza n. 8500/2021 chiarisce che la novazione anno per anno dell’obbligazione tributaria incide in primo luogo sulla dichiarazione, nel senso che la mera indicazione di un fatto fiscalmente rilevante per quel periodo d’imposta non può di per sé esplicare alcun effetto preclusivo sulla contestazione di quel medesimo fatto qualora venga dichiarato ex novo in una dichiarazione di altra annualità. Il principio in questione rileva poi sull’accertamento nella misura in cui l’atto impositivo deve essere notificato a pena di decadenza entro i termini di cui all’art. 43, Dpr n. 600/73, che decorrono dalla presentazione della dichiarazione. Da quest’ultimo punto di vista - si sottolinea - la predetta norma non pone espressi limiti, e quindi, atteso che la decadenza è materia di stretta interpretazione, non è praticabile una lettura tale da ingenerare un’ipotesi di decadenza anticipata o ultrattiva a carico del Fisco, perché maturata a causa dello spirare del termine di accertamento relativo non alla dichiarazione oggetto di verifica, ma ad una precedente dichiarazione. Pertanto, l’accertamento si rinnova di anno in anno, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto, e non solo guardando alla correttezza della singola quota annuale. La dichiarazione definitiva per mancato accertamento non esplica effetti preclusivi di sindacato per quelle componenti che si riproducono in anni successivi.

     Dopo questo fondamentale inquadramento del problema, i giudici provvedono ad esaminare le due sentenze del 2018 e del 2019, che - come detto - hanno determinato l’emersione del dubbio interpretativo. Sul punto si nota che l’argomento dell’efficacia esterna del giudicato, che impedisce accertamenti successivi, non è dirimente, in quanto “la preclusione del giudicato tributario ultrannuale attiene al merito dell’imposizione, cioè alla sussistenza o insussistenza sostanziale dei suoi presupposti fattuali o di qualificazione giuridica, non già alla potestà impositiva dell’Ufficio, ostando infatti quel giudicato non all’accertamento in sé, ma ad un suo determinato esito sul fondo della pretesa”. Peraltro, come già rilevato dall’ordinanza di rimessione, si puntualizza che l’intangibilità della dichiarazione per semplice inerzia dell’amministrazione è cosa diversa da una sentenza passata in giudicato.

    In merito all’argomento rappresentato dal richiamo al principio evocato dalla Corte costituzionale secondo cui il contribuente non può essere esposto all’azione del Fisco per termini eccessivamente dilatati (Corte cost. n. 280/2005), le Sezioni Unite ribadiscono la tesi dell’ordinanza di rimessione secondo cui il principio, peraltro forgiato in un’epoca in cui la fase di riscossione della notifica della cartella di pagamento non era soggetta a termini di decadenza, non può essere utilmente impiegato per l’accertamento. Ed infatti, quando un componente reddituale pluriennale viene riportato in dichiarazione ne vengono al contempo richiamati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, e quindi non si tratta di attribuire all’amministrazione un potere di controllo per un tempo indeterminato così da violare quanto prescritto dal giudice delle leggi.

     

     

    4. La questione della conservazione delle scritture contabili  

    Sin qui la ricostruzione delle Sezioni Unite è perfettamente in linea con quanto sostenuto dall’ordinanza di rimessione.

    Vi è, però, un ulteriore aspetto sul quale la sentenza in rassegna, al pari del provvedimento di rimessione, poteva spendere qualche ulteriore riflessione. Ci riferiamo in particolare alla puntualizzazione delle differenze, nella prospettiva della conservazione dei documenti contabili probatori oltre il periodo decennale, delle ipotesi in cui: a) un elemento viene imputato esclusivamente nello stato patrimoniale del bilancio di un determinato periodo e si trasforma in modo graduato in componente reddituale degli esercizi successivi; b) un elemento viene imputato al conto economico del bilancio e gli effetti reddituali si esauriscono all’interno di quel singolo esercizio ([6]).

     Le Sezioni Unite ribadiscono quanto asserito nell’ordinanza di rimessione secondo cui la circostanza che l’amministrazione contesti il fatto generatore e il presupposto costitutivo dell’elemento anche a molti anni di distanza dal suo insorgere potrebbe determinare la lesione di posizioni giuridiche tutelate in capo al contribuente, quali i profili dell’affidamento (art. 10 della legge n. 212/2000) e dei limiti all’obbligo di conservazione della documentazione probatoria (art. 2220 Cod. civ. e art 8, comma 5, legge n. 212/2000) relativa alle spese pluriennali.  

    In merito al profilo dell’affidamento, tuttavia, i giudici chiariscono che non può farsi rientrare la mera inerzia dell’amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione nella quale è stato indicato per la prima volta il componente di reddito con valenza pluriennale. Dalla mancata sottoposizione a verifica di una annualità pregressa, il contribuente non può quindi trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza della propria condotta e la legittimità dell’operato negli anni successivi ([7]).

    Con riguardo al tema della conservazione della documentazione contabile, il supremo collegio richiama la previsione contenuta nell’art. 22, comma 2, del Dpr n. 600/1973, la quale dispone l’obbligo di conservazione delle scritture contabili fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o dalle altre leggi tributarie. Questa normativa - secondo i giudici - depone chiaramente che “è il regime di conservazione documentale, per la sua evidente finalizzazione e strumentalità, a doversi per forza adeguare alla disciplina dell’accertamento ed alla sua tempistica, non il contrario”. L’assenza di una lesione del diritto di difesa per la predetta correlazione servente tra conservazione dei documenti contabili e accertamento degli uffici impositori è stata accertata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 247/2011) a proposito della normativa sul raddoppio dei termini per l’accertamento.

    Le Sezioni Unite, peraltro, valorizzando il principio di reciproca collaborazione espresso dallo Statuto del contribuente, ritengono superabile quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle ipotesi in cui un bene a fecondità ripetuta partecipa alla formazione del reddito per un periodo temporale superiore al decennio, secondo cui l’ultrattività dell’obbligo di conservazione della contabilità oltre il termine di cui all’art. 2220 cod. civ. opera solo se l’accertamento, iniziato entro il decimo anno, sia stato definito a tale scadenza, altrimenti il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die (Cass. n. 9834/2016). Secondo quest’ultimo orientamento, in sostanza, in caso di ammortamenti ultradecennali, l’amministrazione mantiene il potere di accertamento anche dopo il decennio dall’acquisto del bene, in merito alle residue quote di ammortamento imputate in bilancio e in dichiarazione, ma la prova del contribuente circa i valori imputati originariamente può essere fornite con altre modalità rispetto all’esibizione di documenti di spesa e delle scritture contabili ([8]).

    Per le Sezioni Unite, invece, il contribuente è tenuto alla conservazione delle scritture contabili non sine die, ma fino allo spirare del termine di rettifica della dichiarazione nella quale viene fatto valere l’ultimo rateo annuale della spesa pluriennale, anche se la fattispecie di ammortamento sia ultradecennale. E ciò fermo restando che l’imprenditore, qualora sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione contabile, deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova a suo carico.      

    Orbene, come detto, il tema della conservazione della documentazione contabile probatoria   poteva essere ulteriormente approfondito, evidenziando la differenza sostanziale che vi è tra i casi in cui l’elemento patrimoniale dell’attivo o del passivo si trasforma in modo graduato in elemento reddituale degli esercizi successivi, dall’ipotesi di elementi reddituali che si esauriscono puntualmente all’interno di un esercizio. Muovendo dalla circostanza che la conservazione dei documenti relativi alle spese pluriennali, ed in generale alle poste che confluiscono nello stato patrimoniale del bilancio, è innanzitutto una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di esercizio deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in periodi molto risalenti nel tempo, si sarebbe dovuto rimarcare che la questione del mancato rispetto delle norme civilistiche e fiscali in materia e la conseguente limitazione del diritto di difesa è destinato tendenzialmente a sfumare. Nel caso, invece, di spese afferenti esclusivamente ad un esercizio, che affluiscono direttamente nel conto economico di uno specifico anno e giammai si ripresentano in anni successivi, andava notato che non emerge né un esigenza sul piano gestionale, né un obbligo sul piano giuridico, di conservazione oltre i termini decennali civilistici ovvero di quelli previsti per l’accertamento tributario; pertanto, decorsi tali termini né l’azienda, né il Fisco hanno più interesse alla conservazione della documentazione probatoria contabile.    

    In definitiva, la conservazione della documentazione contabile ([9]) per un lungo periodo temporale in alcuni casi, come per gli oneri pluriennali, o anche per i componenti positivi di reddito ripartiti in più esercizi (es. rateizzazione quinquennale delle plusvalenze da cessione di azienda o di beni strumentali) è del tutto fisiologica.

    D’altra parte, nemmeno le sentenze della Cassazione del 2018 e del 2019 hanno affermato che una volta decorsi i termini dell’accertamento relativi alla dichiarazione tributaria corrispondente al periodo di prima iscrizione in bilancio del bene durevole, il contribuente può disfarsi della documentazione probatoria contabile relativa al suo acquisto, solo perché le successive quote annuali di ammortamento non possono più essere rettificate dall’Ufficio impositore.

    Ed invero - dobbiamo sottolineare – che, non conservando le scritture contabili, qualora l’impresa decidesse di vendere il bene, non potrebbe quantificare (e provare) il valore iniziale del bene ai fini del calcolo della plusvalenza o della minusvalenza. In altri termini, finché vi è un costo o un valore da “spendere” per abbattere materia imponibile che potrebbe emergere in futuro, il documento probatorio, a prescindere da quanti anni sono decorsi dalla sua formazione, va conservato fintato che non si esaurisce il potere di accertamento relativo all’annualità in cui l’elemento in questione assume concreta rilevanza ([10]).

    Questa considerazione, che risponde ad una logica di esperienza comune, dovrebbe di per sé indurre a ritenere poco sostenibile l’argomentazione per cui la conservazione della documentazione contabile per un periodo “allargato” rispetto ai termini previsti in linea generale dal codice civile o dalla legislazione tributaria rappresenti sempre e comunque una condotta inesigibile. E ciò fermo restando che in tutte quelle ipotesi in cui emerge una situazione di buona fede in merito alla mancata detenzione delle scritture contabili, il contribuente che subisce la rettifica deve essere ammesso a fornire la prova circa la correttezza fiscale del proprio operato con altri mezzi probatori, come nel caso in cui i beni durevoli provengano da operazioni di conferimento di società o da altre operazioni straordinarie per cui vige il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.

       

    5. Conclusioni  

    In conclusione, muovendo dalla circostanza che gli artt. 38 e 39 del Dpr n. 600/1973 non pongono limiti al contenuto delle rettifiche che gli Uffici possono apportare alla dichiarazione di periodo ([11]) e che l’art. 43 del medesimo decreto non lascia spazio a interpretazioni restrittive sui termini quinquennali di decadenza di notifica dell’atto impositivo, possiamo affermare che in merito al problema della rettifica dei ratei di oneri pluriennali, sia l’ordinanza di rimessione, sia la sentenza a Sezioni Unite sembrano disperdersi sulla ricostruzione di profili che non rivestono centralità rispetto al cuore del problema che, a nostro avviso, è quello della conservazione della documentazione probatoria contabile che ha dato origine al valore iscritto nel bilancio.

    Era cioè necessario incentrare la motivazione sul fatto che qualora una spesa per l’acquisto di un bene durevole venga imputata nell’attivo patrimoniale, o qualora un elemento del passivo del bilancio sia in grado di ripercuotersi anche solo potenzialmente negli esercizi successivi, occorre sempre conservare la documentazione probatoria, anche oltre il decennio. Diversamente, per le spese che si esauriscono nell’esercizio, la conservazione è limitata al periodo di decorrenza dei termini per l’accertamento.

    Invero, la conservazione dei documenti di spesa, prima che essere un obbligo giuridico, è una esigenza dell’azienda, posto che la determinazione del reddito di impresa deriva anche dalla considerazione di eventi realizzati in esercizi molto risalenti nel tempo.  

    Vi è poi da considerare che l’art. 110, comma 8, TUIR, in caso di constatazione di una deduzione anticipata di una spesa pluriennale (cioè di un errore nel piano di ammortamento), obbliga il Fisco a rettificare in melius anche le dichiarazioni degli esercizi successivi, evitando così che si possa alterare la considerazione unitaria del tributo e garantendo la continuità dei valori di bilancio ([12]). Anche da questo punto di vista, quindi, sembra ragionevole la tesi abbracciata dalle Sezioni Unite con specifico riguardo alle spese pluriennali.

    Mettendo da parte il profilo giuridico della vicenda, non dobbiamo trascurare che l’esigenza di verificare prontamente la sussistenza dei presupposti per la deducibilità dell’onere pluriennale nel periodo di prima iscrizione in bilancio e in dichiarazione dovrebbe ricondursi non tanto al contribuente (che ha necessità di stabilizzare il rapporto fiscale e comunque di difendersi in modo  più agevole), ma soprattutto al Fisco, il cui interesse è quello di acquisire il tributo corrispondente all’esatta fattispecie imponibile realizzata. Agire tardivamente vuol significare perdere la possibilità di rettificare i primi ratei della spesa pluriennale ([13]). Ma come è noto non vi sono le capacità operative degli Uffici di controllare tutti i soggetti titolari di partita Iva ([14]), i quali quasi sempre dichiarano elementi di carattere pluriennale.

    Va ancora notato che la tesi sostenuta delle sentenze del 2018 e del 2019 non tiene conto del fatto che, a prescindere dalla decadenza, il contribuente potrebbe scegliere di non dedurre la quota della spesa relativa all’anno di prima iscrizione in bilancio (tramite una variazione in aumento in dichiarazione), facendo sì che il Fisco per quell’anno non possa rettificare la dichiarazione, pur ritenendo quella spesa pluriennale indeducibile. Questa condotta, ove si ritenesse che la mancata rettifica della dichiarazione abbia effetti preclusivi per le quote imputate e dedotte negli anni successive, potrebbe consentire al contribuente di beneficiare di deduzioni dal reddito di impresa in mancanza dei presupposti.

     

    [1] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib., 2019, p. 194 e ss., la quale sostiene che la tesi restrittiva, che fa leva sul criterio dell’autonomia dei periodi di imposta, risponde all’esigenza di salvaguardia della stabilità nel tempo di quei profili dell’obbligazione tributaria destinati a spiegare i loro effetti conformanti anche in periodi impositivi successivi a quelli di loro emergenza rispetto al quale sono rimasti incontestati; PEDROTTI F., Considerazioni intorno alla decadenza dal potere di accertamento in caso di componenti reddituali ad efficacia pluriennale, in Riv. dir. trib., 2021, II, p.53 e ss. L’autore ritiene che non giustificabile, alla luce del precetto costituzionale di uguaglianza, “la circostanza per cui il termine di decadenza relativo al controllo fiscale in merito al presupposto reddituale dichiarato dal contribuente possa essere diverso a seconda che il reddito di impresa comprenda componenti negativi concorrenti a formare la base imponibile in un unico periodo di imposta, ovvero componenti negativi deducibili in più periodi di imposta”.

    In senso contrario cfr. SCHIAVOLIN R., Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista, in Riv. dir. trib., 2018, II, p. 280 e ss.

    [2] La centralità di questa affermazione nel ragionamento della Corte è evidenziata da FRANSONI G., Le Sezioni Unite e la decadenza: una sentenza che farà danni, in Fransoni.it, 2021, il quale avverte che l’unico dato difficilmente controvertibile è che la decadenza appartenga alla categoria degli effetti preclusivi e che la preclusività è una vicenda stabilizzante: l’ordinamento valuta che, da un certo punto in poi, il costo sociale della verità sia maggiore dei suoi vantaggi.

    [3] Si veda CTR Milano, 21 ottobre 2014, n. 5447; CTR Milano, 11 giugno 2015, n. 2597.

    [4] Cfr. FERRANTI G., I costi pluriennali vanno contestati nell’anno in cui sono sostenuti, in, Corr. trib., 2018, p. 1927.

    [5] Cfr. CASTALDI L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi, cit., p. 204, la quale evidenzia che la scelta legislativa di attribuire valenza decadenziale ai termini di accertamento si spiega con l’intento di preservare l’autonomia dei periodi di imposta, con ciò intendendo riferirsi all’effetto della immutabilità/insindacabilità successiva, e dunque di definitiva cristallizzazione della rappresentazione del modo di essere dell’obbligazione anche per quanto attiene ai profili di essa destinati a rilevare negli esercizi successivi.

    [6] Sul tema della trasmissione fiscale dei valori nel tempo cfr. LUPI R. - CROVATO F., Il reddito d’impresa, Milano, 2002, p. 239.

    [7] Questa affermazione andrebbe meglio precisata perché non vi è un automatismo tra lo svolgimento di una verifica senza rilievi e l’insorgenza di un affidamento del contribuente. Sussistono, invero, frequenti ipotesi in cui un imprenditore subisce un controllo generale, ma nulla gli viene contestato in merito alla deducibilità della spesa pluriennale. L’affidamento si forma certamente se dai verbali di verifica risulta uno specifico esame della sussistenza dei presupposti per la deducibilità della spesa. Qualora, invece, manchi un riferimento all’analisi dei presupposti di deducibilità dell’onere pluriennale, l’insorgenza dell’affidamento è subordinata alla dimostrazione del fatto che il verificatore, usando l’ordinaria diligenza ed in relazione alla dimensione quantitativa della spesa pluriennale, avrebbe dovuto accorgersi dell’esistenza di una violazione delle regole tributarie.

    [8] Sul tema cfr. TRIVELLIN M., Il principio di collaborazione e buona fede nel rapporto tributario, Padova, 2008.

    [9]  Che non si esaurisce nelle fatture, ma include contratti, commesse, corrispondenza, etc.

    [10] Non è infatti immaginabile un accertamento finalizzato alla mera riduzione del valore fiscale di un bene patrimoniale in vista di una futura ed eventuale incidenza sulla determinazione del reddito.

    [11] Cfr. sul punto, con riguardo al tema della possibilità di notifica di un accertamento con cui si rettificano in diminuzione le perdite, FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, Milano 2001, p. 308.

    [12] Cfr. FICARI V., Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 207; NUSSI M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, p. 87; FRANSONI G., Giudicato tributario e amministrazione finanziaria, cit., p. 312.

    [13] Nel caso di specie è stata persa la possibilità di riscuotere il maggior tributo conseguente al recupero della svalutazione dell’anno 2003.

    [14] Le verifiche riguardano mediamente il 5% dei soggetti interessati.

     

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