La giudice ungherese Anna Madarasi, preziosa autrice di Giustizia Insieme, propone interessanti riflessioni, e il suo punto di vista, sul processo in corso in Ungheria a carico di Ilaria Salis.
I temi sono: giustizia e comunicazione, indipendenza della magistratura ungherese, responsabilità in ordine all’uso di strumenti coercitivi e consenso alla video ripresa.
Con la riflessione in ordine al rapporto tra giustizia e comunicazione pone l’attenzione sull’esigenza della completezza, oltre che di veridicità, della notizia.
La rappresentazione distorta dei fatti oggetto dell’accertamento processuale vulnera sia l’informazione che il processo.
Nel caso di Salis il rapporto processo-informazione si intreccia con la circostanza che i magistrati Ungheresi - a fronte di crescenti critiche provenienti dai parlamentari e dal governo - sono sempre più limitatati nella loro libertà di fornire informazioni utili a rendere edotta l’opinione pubblica su ciò che accade nelle aule di Tribunale.
Nel caso di Ilaria Salis i magistrati ungheresi lamentano di non essere stati messi nelle condizioni di fornire le esatte informazioni in ordine allo stato del processo, alla fase cautelare, nonché al quadro di gravità indiziaria a carico dell’imputata e alle esigenze che hanno indotto il giudice della cautela a emettere la misura in carcere. Registrano poi un’eccessiva enfasi della stampa internazionale sul procedimento cautelare rispetto al processo. L’autrice, per far intendere la gravità dei fatti, prescindendo da osservazioni di natura valutativa, richiama i massimi edittali previsti per i reati contestati.
Un’importante riflessione riguarda l’indipendenza dei giudici ungheresi che se, da un lato, si auspica non siamo condizionati nella decisione dal governo ungherese - come in effetti tranquillizza la giudice - dall’altro nemmeno possono essere influenzati dall’opinione pubblica o dai governi di altri paesi europei. Su questo non possiamo che condividere le sue riflessioni.
Con riguardo alle misure coercitive adottate per la traduzione dell’imputata dal carcere all’Aula di Tribunale l’autrice rappresenta che ogni decisione a riguardo spetta al Servizio carcerario, che dipende dall’esecutivo. Nel sistema di giustizia ungherese vi è dunque una criticità evidente che l’autrice segnala “il giudice non ha il potere di rimuovere tutti i mezzi di coercizione”.
Ma il giusto processo passa anche attraverso la partecipazione dell’imputato libero nella persona da vincoli coercitivi, lesivi della presunzione di innocenza e della sua dignità .
Il garante dello svolgimento del giusto processo - lo ricorda l’autrice - è il giudice, il quale - aggiungiamo noi - non deve subire interferenze per effetto di determinazioni di organi estranei alla giurisdizione come, nel caso di specie, il Servizio carcerario che, peraltro, dipende dall’esecutivo.
Il consenso dell’imputata ad essere ripresa, in aula con guinzaglio, ferri ai polsi e alle caviglie, non esime il giudice dal controllo in ordine allo svolgimento di un processo rispettoso della dignità della persona.
Il consenso alla ripresa non evita la lesione, apparsa sotto gli occhi di tutti, al giusto processo.
Attraverso il consenso Ilaria Salis ha, in realtà, esercitato il suo diritto a informare il pubblico che, in Ungheria, stava partecipando al processo a suo carico con guinzaglio in vita e piedi in catene, violata nella sua dignità e come se fosse già stata dichiarata colpevole.
Ha richiamato l’attenzione dei paesi dell’Unione affinché sia tutelato il suo diritto a un processo conforme ai canoni di cui all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la sua è stata una richiesta di aiuto.
Questa è l’altra faccia del rapporto tra giustizia e comunicazione.
Paola Filippi
Quis Custodiet Ipsos Custodes? Note al margine di un processo penale ungherese
di Anna Maderasi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il processo e l’accusa - 3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare.
1. Introduzione
Per molti giorni non si sono arrestate le polemiche sul processo penale iniziato davanti alla Corte Capitale di Budapest il 29 gennaio, per tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita con l’aggravante di organizzazione criminale[1] a carico di una cittadina italiana e altri.
La stampa italiana ha dato al caso ‘Salis’ un alto profilo politico e mediatico, che dopo l’udienza preliminare ormai è diventato anche un caso umanitario, la vicenda ora sfocia nella tutela dei diritti umani, in Europa come nel mondo. Questo caso dimostra ancora una volta, come abbiamo già visto in casi numerosi, che ’la convivenza tra stampa e processo penale è una convivenza assolutamente necessaria, posto che magistratura e libertà di informazione sono due pilastri dello Stato costituzionale di diritto, ma è al contempo una convivenza molto difficile.’[2] L’opinione pubblica[3] italiana in correlazione con il caso specifico ha messo in dubbio l'indipendenza e l'europeismo dei giudici ungheresi criticando il modo in cui l'imputata è stata trasferita all’udienza preliminare e il modo in cui è stata visualizzata nelle immagini riprese in aula d’udienza. Tuttavia, sembra che tale opinione sia stata formata soltanto sulla base delle informazioni ricevute dalla stampa o dalla difesa dell'interessato, e l’opinione pubblica ha accettato il fatto che i magistrati di uno Stato membro dell'Unione europea sono responsabili per la grave violazione dei valori dell'UE e i diritti umani fondamentali, e ha invocato il rispetto del giusto processo e della presunzione d’innocenza, senza lo stesso rispetto per il principio della mutua fiducia nella affidabilità delle decisioni giudiziarie, che sono principi fondamentali per il funzionamento dell’Unione Europea[4].
Da un lato, in uno stato democratico i mezzi di comunicazione riferiscono ciò che la giustizia fa ed è normale, anzi è necessario, che la critichino pure, ma all’altro lato la comunicazione, particolarmente la comunicazione politica, può diventare un mezzo molto efficace per erodere la fiducia del cittadino nel sistema giudiziario. E spesso ’la pubblicazione della notizia deve avvenire tempestivamente, anche a costo di sacrificare la verifica dei dettagli, e quindi la correttezza e completezza dell’informazione’[5]. E forse anche per questo motivo, nel caso specifico sia l’esecutivo italiano, che l’esecutivo ungherese, dopo la pubblicazione delle immagini dell’udienza preliminare si sono riferiti all’indipendenza della magistratura e di tale riferimento non ha dubitato nessuno, anche se, per quanto riguarda le condizioni carcerarie e la traduzione del detenuto, il giudice ungherese non è ‘in gioco’, perché non ha un potere decisionale. Soltanto il sistema penitenziario è il titolare del potere di decidere sull’uso delle misure coercitive, il quale è sotto il controllo dell’esecutivo.
Negli ultimi anni è anche vero che l’amministrazione del sistema giudiziario ungherese non sente la necessità di fornire al pubblico informazioni chiare e puntuali sul funzionamento della giustizia, in particolare quando questa viene messa in discussione. Nel caso di qualsiasi critica politica, il sistema giudiziario ungherese è in silenzio. I singoli giudici non hanno nessun mezzo per difendersi né contro gli attacchi politici, né davanti al ‘tribunale della pubblica opinione’[6], particolarmente per quanto riguarda un processo in corso. La libertà di espressione dei giudici è molto limitata e in Ungheria negli ultimi anni ci sono i tentativi di limitarla ancora di più, e nel frattempo le decisioni giudiziarie di tutti i livelli (dalle corti distrettuali alla Corte Suprema) spesso sono fortemente criticate dai parlamentari o direttamente dai componenti del governo, quindi dal potere esecutivo. Nel caso specifico in mancanza di comunicazioni da parte della Corte Capitale o dell’organo amministrativo centrale del sistema giudiziario ungherese, che avrebbe potuto fornire informazioni puntuali, le notizie e le reazioni del pubblico mostrano che il racconto della vicenda giudiziaria attraverso i media può essere uno specchio che riflette un’immagine molto parziale della realtà. E in questo modo la politica, trasmettendo i suoi messaggi al pubblico, riesce a minare la fiducia pubblica ─ sia italiana che europea ─ nei giudici ungheresi diventando una manovra molto pericolosa contro lo Stato di diritto che può comparire ovunque, anche nelle vecchie democrazie.
Poi viene notato che anche in questo caso le notizie italiane e le trasmissioni sul processo rinforzano la teoria[7]secondo quale nei media esiste una svalutazione di quello che è il processo vero e proprio, il dibattimento, ed una ipervalutazione delle misure cautelari, presentata agli spettatori come il vero processo. Questo articolo rispettando il fatto che il processo è in corso, non formula alcuna valutazione, ma cerca solo di presentare vari aspetti del caso specifico e di fornire il massimo di informazioni puntuali, con il massimo della chiarezza.
2. Il processo e l’accusa
Il processo di primo grado è iniziato con l’udienza preliminare il 29 gennaio. Dei tre imputati due sono in detenzione e uno è agli arresti domiciliari. All’inizio dell’indagine il g.i.p. ha disposto con un’ordinanza motivata la custodia cautelare in carcere di due degli imputati e, durante l’indagine, ha prorogato tre volte i termini di custodia cautelare dopo aver valutato le esigenze cautelari, gli indizi, la documentazione dell’indagine, e aver sentito il pubblico ministero, il difensore e l’imputato. Per quanto riguarda la terza persona, il g.i.p. ha disposto gli arresti domiciliari.
Nella sua prima ordinanza[8] il g.i.p. ha preso in considerazione le circostanze personali degli indagati, la natura, le caratteristiche e la gravità dei fatti, e ha affermato che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che senza la applicazione delle misure coercitive gli imputati durante le indagini si sarebbero allontanati in un luogo sconosciuto, e sarebbero stati irraggiungibili per l'autorità. La maggior parte dei partecipanti agli attacchi non è stata identificata, ma, sulla base delle informazioni acquisite con l’indagine, il gruppo era composto da persone in qualche modo collegate tra loro. Dopo aver preso in considerazione anche l'interesse dell'indagine, la natura organizzata del reato, la modalità dell’azione e le caratteristiche personali degli indagati, ha ritenuto che non ci si possa aspettare che collaborino con le autorità su una base volontaria. Il g.i.p. ha ritenuto importante sottolineare che gli imputati avevano una vita sostanzialmente ordinata, ma erano sospettati di aveve commesso reati palesemente brutali contro vittime sconosciute, senza alcun precedente contatto, in un modo senza scrupoli; tre imputati sono fuori dal loro paese d'origine. Le condizioni esaminate indirizzavano verso arresto e la Corte ha ritenuto che i rischi presi in considerazione fossero così grandi da rendere assolutamente necessario applicare la misura di coercizione più severa. La Corte ha concluso il ragionamento alla base della decisione osservando «che nessun motivo ideologico merita considerazione in presenza di un reato violento contro una persona. La violenza non ha colore. Il fatto che il caso specifico è diventato mediatico non ha alcun impatto sulla decisione. Le norme penali e procedurali devono essere applicate a prescindere dall'ideologia, come ha fatto la corte nel caso presente».
Il giudice di primo grado, precedentemente alla prima udienza, ha prorogato con un’ordinanza motivata i termini delle misure cautelari per tutti gli imputati. Per l’Ungheria questo è considerato un processo veloce, perché entro un anno dall’inizio della detenzione, la Corte Capitale ha già tenuto l’udienza preliminare.
Il dettaglio meno conosciuto del processo dal pubblico italiano sembra essere l’accusa, che la stampa ungherese[9]nella sua cronaca giudiziaria ha spiegato in modo dettagliato. Le aggressioni riscontrate dalle autorità riguardano persone, che presumibilmente avevano partecipato ai festeggiamenti del Giorno dell’Onore[10] a Budapest. Secondo l’accusa, gli imputati fanno parte di un'organizzazione di estrema sinistra e sono stati addestrati a compiere attacchi rapidi che possono causare danni fisici con pericolo di vita; durante le indagini non è stato stabilito se le vittime fossero realmente partecipanti alla manifestazione neonazista.
All’udienza preliminare il procuratore ha descritto la coreografia degli attacchi come segue: dopo il comando ‘go go’ del controllore, il gruppo ha aggredito persone, che dal loro vestito sembravano estremisti di destra, e le ha picchiate per 30 secondi pesantemente, senza fare rumore, coprendosi il viso e le mani per non farsi riconoscere. Quando è trascorso il tempo, il controllore, che non partecipava all'attacco, ha dato il segnale ‘stop’ e il gruppo è fuggito. Prima di fuggire, il controllore ha sempre spruzzato lo spray al peperoncino sulla vittima. I componenti del gruppo erano vestiti a strati per potersi cambiare durante la fuga.
Secondo questo scenario il gruppo è riuscito a compiere 5 attacchi contro 8 persone tra il 9 e l’11 di febbraio a Budapest, in diversi luoghi e con varie composizioni del gruppo. Secondo l’accusa, il gruppo ha usato manganelli telescopici, mazze di gomma, un'arma a gas da autodifesa e spray al peperoncino e al gas.
All’udienza preliminare uno dei tre imputati, un cittadino tedesco, si è dichiarato colpevole del reato descritto dall’accusa ed è stato condannato alla pena di tre anni di reclusione per partecipazione a un’organizzazione criminale[11], il giudice ha ordinato anche l’espulsione dal territorio dell’Ungheria per cinque anni.
L’imputata italiana è accusata di tre condotte di tentativo di lesioni personali gravi con pericolo di vita e con l’aggravante di organizzazione criminale[12]. Dalle disposizioni del Codice penale ungherese segue che tale reato è punibile con la pena della reclusione da due a otto anni, ma il limite superiore della pena viene aumentata della metà per l’aggravante di organizzazione criminale (2-16 anni), e per i più reati commessi (3 condotte) la pena si cumula, e il limite superiore viene aumentata della metà, cosicché la pena di reclusione si estende da due a 24 anni. Sulla base della Codice penale, nel caso in cui il giudice infligge la pena della reclusione, determina la durata partendo dalla metà della somma delle pene superiori e inferiori[13] e deve tenere conto di circostanze aggravanti e attenuanti.
3. La traduzione dell’imputato e l’udienza preliminare
Il punto più criticato del processo finora è stata la traduzione del detenuto all’udienza, l’opinione pubblica si è riferita subito alla violazione della Direttiva (UE) 2016/343.
Secondo il testo della premessa (20), ’le autorità̀ competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe, a meno che il ricorso a tali misure sia necessario per ragioni legate al caso di specie in relazione alla sicurezza, ad esempio al fine di impedire che indagati o imputati rechino danno a se stessi o agli altri o a beni, o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi, tra cui testimoni o vittime’[14].
Il testo dell’art 5 stabilisce che gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica.
Ma il punto 2. dice che il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi.
Mentre il primo paragrafo dell'articolo introduce un divieto generale di utilizzare misure di coercizione fisica, il secondo paragrafo, per ragioni di sicurezza, prevede possibili deroghe alla regola principale. Il regolamento non pone un divieto assoluto, invece stabilisce una previsione elastica per quanto riguarda all’uso di misure coercitive. Sebbene questa disposizione sia semplice nella forma, la sua applicazione pratica non è facile. L'uso delle misure coercitive in aula di udienza in presenza di determinate condizioni può essere necessario, e la valutazione della necessità va fatta caso per caso[15]. Secondo una ricerca di Helsinki Committe è importante osservare che una differenza importante tra gli Stati membri si nota nel modo in cui gli imputati arrivano in aula d’udienza: mentre in Francia e a Malta gli indagati e gli imputati arrivano nella maggior parte dei casi senza alcuna misura di coercizione, in Ungheria, Spagna e Croazia molto spesso arrivano in tribunale e aspettano davanti all'aula di udienza ammanettati. Non vi è dubbio che il modo di presentare la persona accusata davanti al giudice non è un aspetto di scarso rilievo per la tutela della presunzione d’innocenza.
Tornando al caso specifico, bisogna sottolineare che, al contrario alle dichiarazioni politiche pubblicate sulla stampa italiana e ungherese, la decisione sull'uso delle misure coercitive durante il trasferimento dell'imputato non è una decisione giudiziaria. Dopo aver ordinato la traduzione del detenuto, il giudice non ha il potere di decidere il modo in cui la traduzione viene effettivamente eseguita. Tale potere è in parte regolato dal Decreto n. 16/2014 del Ministro della Giustizia e in parte dalle decisioni interne del sistema penitenziario, che è sotto la direzione dell'esecutivo. Il comandante del carcere è il titolare della decisione circa le specifiche disposizioni di sicurezza per la detenzione, il trasporto e la traduzione del detenuto[16].
Ai sensi dell’art. 29 del decreto ministeriale, la struttura penitenziaria classifica i detenuti secondo un suo Sistema di Analisi e Gestione dei Rischi. Nel processo di classificazione vengono valutati vari elementi, come per esempio il pericolo di fuga e tentativi di fuga, comportamenti suicidi, pericolo di autolesione, violenza o tentativi di violenza contro altre persone, attività nel mondo criminale o carceraria, abuso di sostanze stupefacenti. La vita del detenuto in carcere è soprattutto determinata dalla sua classificazione. Il decreto disciplina anche i mezzi di coercizione che alla struttura penitenziaria è consentito utilizzare. Ai sensi dell'art. 54, l'uso dei mezzi di coercizione è deciso sulla base dei dati e delle informazioni relative al detenuto e sulla classificazione del rischio di sicurezza, ma nell'applicazione di un mezzo di coercizione si deve rispettare la legge e la dignità umana. In caso di traduzione del detenuto solo al comandante della struttura penitenziaria è consentito autorizzare la rimozione del mezzo di coercizione. Il decreto ministeriale nell’art. 54 (4) prescrive che il giudice è consentito ad ordinare la rimozione delle manette ai polsi, ma il decreto stabilisce che la disposizione non si applica alla rimozione di altri mezzi di coercizione.
Da tutto questo deriva in pratica che, il giudice non ha il pieno potere del controllo sulle esigenze di sicurezza in aula per quanto riguarda la traduzione del detenuto, anche se il Codice di procedura penale, stabilisce che, durante lo svolgimento dell'udienza, il giudice è il titolare del potere di garantire (i) il rispetto delle leggi e (ii) il corretto esercizio dei diritti delle parti. Evidentemente qui si trova il conflitto tra il decreto ministeriale e il Codice di procedura penale ungherese e, sulla base della Direttiva, la legislazione interna dovrebbe affidare al giudice il controllo sulle esigenze di sicurezza nell’aula di udienza con facoltà di rimuovere tutti i mezzi di coercizione.
Non conosciamo casi contro l'Ungheria davanti alla Corte di Strasburgo, in cui la Corte ha affermato la violazione dei diritti fondamentali, come in casi contro altri paesi[17], ma nella sua ricerca Helsinki Committe ha affermato che in Ungheria le manette spesso vengono utilizzate non nel modo giusto dalla polizia e nella maggior parte dei palazzi in cui si trovano i tribunali non esiste un percorso separato, dove la persona scortata non sia vista in pubblico durante la traduzione in aula di udienza [18].
In relazione ad un caso altro caso di rilevanza mediatico, il Garante ungherese ha affermato che l'uso di tre tipi di misure coercitive «contro una donna esile era sproporzionato, anche se l'istituto penitenziario aveva solo pochi giorni per effettuare una valutazione dei rischi prima di dover effettuare il trasporto[19].
Non è una fonte di diritto, ma è un aspetto notevole dell’opinione pubblica ungherese per quanto riguarda al caso specifico quello che è stato scritto in un articolo di un portale dell’opposizione ungherese che si riferisce ad un caso, esaminato anche da Helsinki Committe nella sua ricerca: «Il trasporto sicuro dei detenuti è responsabilità del servizio carcerario. L'uso di manette e catene è diventato comune dopo la fuga di un detenuto dalla Corte Capitale nel 2019. Durante il processo del suo caso penale, l'uomo ha preso l'arma della guardia, che lo accompagnava, ha preso ostaggi ed è fuggito. È stato catturato solo dopo che la polizia gli ha sparato. Dopo l'incidente, le guardie del sistema penitenziarie tendono a proteggersi eccessivamente. Quindi l'idea che l’imputata sia stata "incatenata" perché è un antifascista o perché è stato reso un avvertimento per qualche motivo, non è vera. Altra questione è se tale severità abbia un senso…»[20]
Da tutto ciò deriva una domanda evidente: perché non sono i detenuti ascoltati tramite una videochiamata? In Ungheria, come nella maggior parte dei paesi europei, si usano spesso i sistemi di telecomunicazione a circuito chiuso nei processi penali, soprattutto nei casi in cui sono coinvolte persone detenute. Sulla base del Codice di procedura penale durante il processo penale, in linea con i diritti umani fondamentali, la presenza fisica degli imputati è la regola principale, rispettando particolarmente il principio d’immediatezza, e le udienze da remoto sono l'eccezione. Ai sensi dell'art. 121 del Codice di Procedura Penale, al giudice è consentito, ex officio o su richiesta dell’imputato, di ordinare l'uso di mezzi di telecomunicazione e di tenere l’udienza da remoto, anche nel caso dell'udienza preliminare, ma solo con il consenso dell'imputato. In genere i giudici ungheresi tengono l'udienza preliminare con la presenza fisica degli imputati, se non è richiesta l’udienza da remoto dall’imputato, anche se successivamente passano all'uso di mezzi di telecomunicazione.
L’altro punto criticato del processo era la ripresa dell’immagine dell’imputata. Il Codice di procedura penale ungherese, in linea generale, garantisce la pubblicità dei processi, e riconosce il diritto del pubblico di essere informati attraverso la stampa[21], per tal fine i rappresentanti della stampa sono presenti in aula. Ma per tutelare i diritti personali degli imputati, le sue immagini possono essere riprese solo con il loro consenso e permesso[22]. Se l'immagine dell'imputata era visibile nella stampa, presumibilmente lei ha dato il suo consenso, quando è stato chiesto dal giudice all’inizio dell’udienza preliminare.
Infine, per dare un esempio di un punto di vista diverso da quello della stampa italiana, si cita un articolo della stampa ungherese, in cui il portale dell’opposizione scrive che «la differenza nel modo in cui gli italiani giudicano le azioni degli antifascisti rispetto agli ungheresi è principalmente culturale. In Italia, l'opinione pubblica è apparentemente molto più tollerante nei confronti dell'estrema sinistra, e in particolare degli antifascisti. E in effetti, alcuni articoli della stampa italiana considerano l’imputata, arrivata in tribunale sorridente, quasi un eroe. Ai loro occhi, è un cittadino italiano trattato in modo disumano dalle autorità ungheresi. Ma la verità è che i gruppi di estrema sinistra e di estrema destra sono trattati come organizzazioni pericolose dalle autorità, anche nelle democrazie.»[23]
Negli ultimi anni l’indipendenza del sistema giudiziario ungherese è un oggetto molto importante del dialogo in corso relativo allo Stato di diritto tra la Commissione Europea e il governo ungherese. Da un lato i problemi derivano dal sistema organizzativo ‘ibrido’, caratterizzato dalla coesistenza tra un organo di nomina parlamentare e un rappresentante della magistratura[24]. Anche dopo una riforma molto importante dell’anno scorso, che ha rafforzato lo status e il funzionamento del Consiglio, e ha anche rafforzato la posizione dei suoi componenti, sui vertici dell’amministrazione del sistema giudiziario esistono ancora problemi sistematici. Ma, anche se recentemente i giudici ungheresi hanno affrontato diversi tipi di difficoltà, l’esame degli aspetti sinora emersi probabilmente porta alla conclusione che nelle loro decisioni non sono assoggettati al potere esecutivo.
[1] Secondo il Codice penale ungherese é un aggravante senza finalitá specifiche
[2] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico” p.1.
[3] Per esempio: https://ilmanifesto.it/da-orban-un-avvertimento-ai-governi-europei, https://www.areadg.it/comunicato/in-solidarieta-di-ilaria-salis, https://www.magistraturademocratica.it/articolo/magistratura-democratica-sulla-vicenda-di-ilaria-salis
[4] https://resiudicata.hu/en/english-answers-to-critics-from-italy/
[5] N.Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”, p.27.
[6] Glauco Giostra: Processo penale e mass media, Criminalia 2007.
[7] N. Triggiani: Informazione e Gustizia Penale-Dalla cronaca giudiziaria al "processo mediatico”
[8] https://fovarositorvenyszek.birosag.hu/sajtokozlemeny/20230221/az-eroszaknak-nincs-szine-kenyszerintezkedesekrol-dontott-birosag-az
[9] https://hvg.hu/itthon/20240129_antifaper_elokeszito_ules_budapest, https://telex.hu/belfold/2024/01/29/harom-ev-fegyhazra-iteltek-a-budapesti-antifa-tamadas-egyik-vadlottjat
[10] Il ’Giorno dell’onore’ non è una ricorrenza ufficiale, un anniversario simbolico relativo ad alcuni fatti della Seconda guerra mondiale. Si tiene intorno all’11 febbraio per ricordare i soldati ungheresi e tedeschi uccisi durante l’assedio di Budapest (tra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945). Il ’Giorno dell’onore’ è legato a movimenti di neonazisti e neofascisti europei.
[11] Art. 321 comma (1) del Codice penale
[12] Art. 164 comma (1) e (8), art. 459 comma (1)
[13] Art. 80. del Codice penale
[14] DIRETTIVA (UE) 2016/343 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali
[15] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[16] Legge nr. CCXL del 2013 sull'esecuzione delle pene, dei provvedimenti, delle misure coercitive, e delle carcerazioni per contravvenzioni, Decreto del Ministro della Giustizia nr. 16 del 2014 (XII. 19.) sulle modalità di esecuzione della pena, Legge nr CVII del 1995 sull'organizzazione del sistema penitenziario
[17] Erdogan Yagiz contro la Turchia, no.27473/02, il 6 marzo 2007., Gorodnitchev contro la Russia, no.52058/99, il 3 marzo 2005
[18] https://helsinki.hu/wp-content/uploads/Legal-Comparative-Report-FINAL-Designed_2019_06_27-2.pdf
[19] Relazione no. AJB-6796/2010.
[20]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[21] Art. 108 comma (1) del Codice di Procedura Penale
[22] Ibid comma (2)
[23]https://m.hvg.hu/360/20240201_olasz_anarchista_no_Ilaria_Salis_antifa_bunugy_szelsobaloldal_szelsojobboldal_Giorgia_Meloni_Orban_Viktor
[24] https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/138-diritti-stranieri/2756-percorsi-di-accesso-alla-magistratura-in-ungheria-di-anna-madarasi?hitcount=0