GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il principio di non respingimento (non-refoulement) dei richiedenti asilo nella recente giurisprudenza della UK Supreme Court

    di Mario Serio

    Sommario: 1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale - 2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese - 3. Il giudizio davanti alla Supreme Court - 3.1. La rilevanza delle questioni dedotte - 3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court - 3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale - 3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court - 3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza -  4. Tratti conclusivi.

    L'intensità e la frequenza dei flussi migratori globali ormai da tempo interpella il mondo politico e quello giuridico che si trovano, così, alla ricerca di misure che rendano, almeno nelle intenzioni, compatibili i fondamentali principii via via elaborati dal diritto internazionale, pattizio e consuetudinario, e dagli ordinamenti sovranazionali e nazionali con le esigenze in concreto manifestate dai singoli Stati. Si assiste, pertanto, alla proliferazione di soluzioni adottate a livello interno o negoziale interstatale le quali sempre più spesso sono sottoposte a rigorose e doverose verifiche giudiziali al fine, appunto, di controllare l'effettiva realizzazione del non semplice obiettivo di compatibilità prima ricordato: solo da tale positivo riscontro è possibile, infatti, affermare la legittimità di tali soluzioni. Il problema è certamente noto anche in Italia. Questa circostanza conferisce ancor maggiore interesse ad accadimenti che si sono di recente verificati in altri paesi ed hanno costituito oggetto di rilevanti interventi giurisprudenziali.

    È il caso della severa ed ampiamente motivata pronuncia resa all'unanimità il 15 novembre 2023 dalla Supreme Court del Regno Unito a proposito dell'accordo dell'aprile 2022 tra il governo inglese e quello del Ruanda in materia di trattamento dei richiedenti asilo trasferiti dal territorio del primo a quello del secondo.

    1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale

    La complessità, che si manifesta anche sotto forma di varietà spesso irriducibile ad unità, delle concrete situazioni, spaziali, climatiche, politiche, istituzionali che fanno capo alle persone in tutto il mondo è spesso la causa induttiva dei loro movimenti migratori alla ricerca di nuove e migliori condizioni che rendano le loro vite degne di essere vissute [1]. Si tratta di un contesto drammatico nel quale si collocano insieme vite umane, orientamenti politici, questioni giuridiche: la loro composizione riesce molto frequentemente ardua e combattuta. Avviene, così, che le soluzioni escogitate per la gestione dei movimenti nello spazio di consistenti gruppi di espatriati desiderosi di guardare per necessità ad altri angoli del pianeta auspicabilmente meno amari vengano perseguite mediante accordi negoziali tra due stati diretti ad assicurare, mediante sistemi di riconoscimento di costi rimborsabili e compensi, la ricollocazione di persone arrivate nel territorio del primo, generalmente più vasto ed economicamente sviluppato, in quello del secondo, generalmente privo di questi attributi.

    Non mancano, tuttavia, esempi in cui il coordinamento tra i fattori inizialmente descritti, talora in vicendevole conflitto, avviene applicando la necessaria e soddisfacente ricerca dei criteri che più incisivamente lascino svettare la dignità della persona in virtù dei numerosi strumenti che la pluralità degli ordinamenti, nazionali, internazionali, transnazionali, è in grado di offrire. In altri termini, è il primato dei principii e delle regole giuridiche il mezzo più sicuro per governare fenomeni presenti su larga scala e con caratteristiche che di per sé possono suscitare divisioni e contrasti. Naturalmente, il ricorso alla via del diritto, di quel diritto che protegga il valore della persona, va effettuato con sapiente rigore in vista del reperimento degli strumenti adatti a risolvere i problemi connessi alla materia del trasferimento di esseri umani dal territorio di origine ad altri.

    Un ottimo esempio di equilibrata ed attenta considerazione delle circostanze che circondavano un accordo intervenuto tra i governi del Regno Unito e del Ruanda in materia di richieste d'asilo è certamente costituito dalla sentenza resa lo scorso 15 novembre dalla UK Supreme Court [2] sul ricorso originariamente proposto davanti la Divisional Court della High Court da un gruppo di richiedenti asilo, in prevalenza medio-orientali, contro la decisione del governo inglese di giudicare inammissibili le loro richieste e di ricollocazione in Ruanda in esecuzione del citato accordo tra i due paesi della primavera del 2022.

    2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese

    La controversia culminata nella sentenza della Supreme Court, che nel giro di alcuni mesi soltanto ha percorso tutti e tre i gradi di giudizio, nasce dall'azione proposta da alcuni cittadini stranieri che mirava alla dichiarazione di illegittimità, ed al conseguente annullamento, di una serie di provvedimenti dell'amministrazione britannica dell'interno (Home Office), che aveva dichiarato inammissibili le loro richieste di asilo e disposto al contempo la ricollocazione degli stessi in Ruanda in forza di un accordo del 13 aprile 2022 stipulato tra il governo inglese e quello del Ruanda denominato Migration and Economic Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due Note Verbali diplomatiche. La ragione della dichiarazione di inammissibilità della richiesta d'asilo era individuata nelle disposizioni comprese tra i paragrafi 345 A e D del regolamento in materia di immigrazioni (Immigration Rules), adottato in conformità all'Immigration Act del 1971. Tali disposizioni prevedono che le richieste di asilo vengano dichiarate inammissibili allorquando il loro autore avrebbe potuto rivolgerle ad un paese terzo sicuro ma non l'abbia fatto. In tal caso è nel potere dell'amministrazione provvedere al trasferimento della persona interessata ad un paese terzo sicuro che sia disposto ad accoglierla. In particolare, il paragrafo 345 B esige, ai fini della definizione di un paese terzo come sicuro (Safe third country), che lo stesso rispetti il principio di “non respingimento” (non refoulement) previsto dalla Convenzione ONU del 1951 sullo status di rifugiato (Convention on the status of refugees), integrata dal Protocollo del 1967. Esso implica il divieto di respingimento, diretto o indiretto, dei richiedenti asilo verso un paese in cui la loro vita o la loro libertà possa essere minacciata a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale, delle opinioni politiche; analogamente nel caso in cui i richiedenti corrano un rischio effettivo di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Sulla base delle assicurazioni che il governo inglese aveva ricevuto da quello ruandese circa l'effettivo rispetto del divieto di respingimento appena illustrato il primo stabilì che il suo interlocutore rientrasse nella categoria dei paesi terzi sicuri e dispose in conseguenza il trasferimento nello stato africano dei richiedenti asilo la cui domanda era stata dichiarata inammissibile nel presupposto che avrebbe potuto essere formulata nei confronti di un paese terzo sicuro, quale il Ruanda, rispettoso del divieto in parola.

    Su queste basi i cittadini stranieri, vistisi dichiarare inammissibili le richieste di asilo, percorsero la via giudiziaria davanti la Divisional Court [3] al congiunto fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità delle politiche migratorie del Ruanda in quanto contrarie al diritto internazionale consuetudinario e pattizio nonché della decisione del governo inglese di trasferirli nello stato africano.

    Al procedimento intervenne l'Alto Commissario per i rifugiati dell'ONU (UNHCR) depositando documenti e rapporti concernenti proprio le politiche migratorie del Ruanda accertate anche alla luce di recenti esperienze.

    Con sentenza del 19 dicembre 2022 [4] la Divisional Court dichiarò che in linea di principio l'intera sequenza dell'accordo tra i due governi, dal suo sorgere fino alla fase esecutiva del trasferimento dei richiedenti asilo, non presentava profili di illegittimità; tuttavia furono riscontrate delle irregolarità formali in taluni dei singoli provvedimenti con conseguente rinvio degli atti alle autorità di provenienza per il riesame.

    Su impugnazione degli originari ricorrenti la Court of Appeal, con una lungamente argomentata pronuncia a maggioranza del 29 giugno 2023 [5], dichiarò, in riforma della sentenza gravata, l'illegittimità della politica migratoria del Ruanda in quanto, alla stregua del materiale probatorio raccolto dalla Divisional Court, sussistevano solide ragioni per ritenere che vi fossero concreti rischi di un esame inappropriato delle domande di asilo da parte delle autorità di quel paese. Ciò comportava l'ulteriore, concreto rischio del respingimento e la connessa conseguenza che, in difetto della modificazione di tale politica, il trasferimento in Ruanda dei richiedenti asilo in Ruanda, avrebbe causato la violazione dell'articolo 6 dello Human Rights Act del 1998 inglese, traspositivo dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani che proibisce la tortura ed ogni trattamento inumano e degradante. Fu, al contrario respinta la tesi degli appellanti secondo cui nella fattispecie si sarebbe verificata anche la violazione della parte del diritto comunitario ancora in vigore nel Regno Unito (retained EU law) e segnatamente della direttiva 2005/85 che fissa gli standard minimi da applicare nei procedimenti relativi al conferimento ed alla revoca dello status di rifugiato in quanto, a differenza da quanto richiesto dagli articoli 25 e 27 [6] nessuno dei richiedenti asilo presentava alcun collegamento con il Ruanda.

    La sentenza è stata impugnata dal governo inglese in via principale con riguardo alla statuizione dell'illegittimità della politica migratoria del Ruanda ed alle conseguenze ricadenti sull'accordo dell'aprile 2022. Anche i cittadini stranieri hanno impugnato la sentenza in via incidentale per quanto attiene al diniego di violazione del diritto comunitario.

    La stessa Court of Appeal ha autorizzato il ricorso di tutte le parti davanti la Supreme Court in considerazione della rilevanza delle questioni sollevate.

    3. Il giudizio davanti alla Supreme Court

    3.1. La rilevanza delle questioni dedotte

    Del tutto fondata si rivela l'opinione espressa dalla Court of Appeal circa la rilevanza delle questioni scaturenti dalla fattispecie che ha giustificato il fatto di investire la Supreme Court. Proprio il giudizio che quest'ultima ha formulato si rivela per la ricchezza e profondità degli argomenti sviluppati e, in special modo, per l'atteggiamento di apertura mentale che da esso traspare, consente di affermare che ci si trova dinanzi ad un'autentica pietra miliare della civiltà giuridica ad un livello globale, corrispondente all'estensione globale dei temi trattati. Molteplici sono gli aspetti che consentono di attribuire a quello in esame la patente di documento giudiziario fondativo di un promettente ordine concettuale da cui certamente trarrà ulteriore ed esemplare beneficio il dibattito sui rapporti trilaterali tra l'esercizio della libertà migratoria, gli interventi legislativi ed amministrativi nazionali (in ineliminabile e coerente rapporto con la normativa di derivazione internazionale e transnazionale), il conseguente ed altrettanto ineliminabile momento di controllo giurisdizionale. Ed infatti, come si vedrà, il tema centrale della sentenza della Supreme Court è stato proprio quello indirizzato alla chiara delimitazione della possibile area di intervento giudiziario sui provvedimenti amministrativi di diretta incidenza nella sfera delle libertà personali dei migranti richiedenti asilo. E la Corte di ultima istanza ha dissentito in modo profondo e sistematico dall'atteggiamento minimalistico e formalistico adottato dalla Divisional Court, auto-relegatasi ad un compito di semplice verifica della legittimità estrinseca degli atti di governo, così rinunciando alla più estesa e penetrante opera di sindacato dell'intrinseca razionalità e conformità al complesso apparato normativo di varia derivazione dei provvedimenti impugnati: attività diligentemente ed accuratamente posta in essere proprio dai supremi giudici inglesi attraverso ragionamenti certamente candidati a divenire prezioso modello da imitare ed esportare. Ed ancora, la sentenza ribalta la conservativa impostazione della Divisional Court per ciò che attiene alle fonti probatorie utilizzabili in procedimenti nei quali si controverta sugli indici sintomatici della legittimità dell'azione amministrativa ed include in termini molto netti atti ed indagini esterne alla giurisdizione domestica ma saldamente poste nel circuito istituzionale internazionale quale l'alto commissariato per i rifugiati istituito presso le nazioni unite. Ancora una volta esce sconfitto un modello di controllo giurisdizionale che sacrifica la cruda e drammatica effettività dei fenomeni giudici sottoposti al vaglio di legittimità/legalità al timido rispetto dei soli sintomi esterni di apprezzamento dei provvedimenti del potere esecutivo. Lungo la medesima linea la Supreme Court ha proceduto allorquando ha spinto il proprio esame anche al versante della compatibilità, con il sistema internazionalmente costruito della protezione dei richiedenti asilo, del complessivo aspetto istituzionale-economico-politico del paese ricevente (nella fattispecie il Ruanda), così ampliando il proprio sguardo. Questo è stato lasciato spaziare dall'accertamento del contenuto dell'accordo tra paese inviante e paese di destinazione alla verifica in concreto delle modalità di relativa esecuzione da parte di quest'ultimo. Ed infine, la pronuncia di ultimo grado ha il merito, spendibile anche in funzione didascalica, della ricognizione e del collegamento tra le plurime fonti, di rango e derivazione differente, operanti sul terreno della disciplina dei flussi migratori.

    3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court

    Ciò premesso in punto di prospettazione del taglio generale e connotativo della sentenza, va anticipato che essa ha all'unanimità (con un'opinione redatta congiuntamente dal Presidente Lord Reed e da Lord Lloyd Jones, cui tutti gli altri 3 giudici hanno senza riserve aderito) rigettato il ricorso dell'amministrazione britannica dell'interno nonché, per ragioni di successione di leggi nel tempo conseguenti alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europea, quello incidentale dei richiedenti asilo.

    Va adesso seguito in maniera precisa l'articolato itinerario di pensiero della Supreme Court perché solo attraverso la sua razionale consequenzialità possono cogliersene significato ed effetti.

    La Supreme Court ha immediatamente chiarito le dimensioni del proprio intervento, sottolineando che il suo esclusivo oggetto è quello di valutare l'intrinseca legittimità delle politiche migratorie adottate dal Ruanda in esecuzione dell'accordo con il governo inglese nonché dell'idoneità di questo a soddisfare i requisiti imposti dall'ordinamento internazionale in termini cogenti, pattizi, spontanei. Altrettanto limpido e rassicurante è il messaggio iniziale, di dichiarato rifiuto di ingresso a qualsiasi giudizio di natura politica e di rigetto di ogni possibile interpretazione in chiave politica della propria decisione [7]: avvertenza assolutamente insolita per una corte inglese di giustizia, evidentemente resa necessaria dall'incandescenza della discussione condotta sul delicato e divisivo tema che non improbabilmente risente degli accenti che in altri evoluti ordinamenti dell'occidente del continente europeo sono esplosi a riguardo di provvedimenti ed orientamenti giurisprudenziali di impatto sulla (discutibile ortodossia della) disciplina dei fenomeni migratori.

    Il perno della controversia riguarda, in ultima e sintetica analisi, l'osservanza nell'accordo negoziale tra i governi del Regno Unito e del Ruanda, del fondamentale principio di non respingimento, noto nella comunità internazionale come del non-refoulement. La declinazione di tale principio è stata in primo luogo effettuata sulla falsariga delle già sommariamente richiamate disposizioni interne [8] le quali, nel definire la nozione di paese terzo sicuro cui poter inviare richiedenti asilo, pongono i seguenti requisiti, necessariamente oggetto di riscontro giudiziale: a) che la vita e la libertà del richiedente asilo non sia minacciata, nel paese terzo, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o dell'espressione di opinioni politiche; b) che venga rispettato nel paese terzo il principio del non-refoulement in conformità alla convenzione ONU sui rifugiati del 1951; c) che nel paese terzo venga rispettato il divieto di trasferimento ad altro paese e non venga violato il diritto di libertà dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani e degradanti sancito dal diritto internazionale; d) che ai richiedenti asilo venga riconosciuto dal paese terzo il diritto ad ottenere lo status di rifugiato e, nel caso di accertamento di tale condizione, a ricevere protezione in conformità alla Convenzione del 1951.

    Nella declamata cornice di queste regole il governo inglese stipulò con quello ruandese nell'aprile 2022 il Migration and Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due note verbali diplomatiche riguardanti il procedimento di asilo di singoli richiedenti e l'accoglienza e l'alloggio dei richiedenti asilo trasferiti nello stato ricevente: di entrambi i documenti la Supreme Court nega la riconducibilità a fonti di diritto internazionale. Ai sensi del paragrafo 9 del MOU il governo del Ruanda ha assunto l'impegno “a trattare ogni richiedente asilo, e a gestire il relativo procedimento, in conformità alla Convenzione sui rifugiati, alle norme interne in materia di immigrazione, ai criteri internazionale ed interni, incluse le norme internazionali ed interne in materia di diritti umani nonché, ma non in maniera tale da escludere l'applicazione di altre norme, quelle rivolte ad assicurare protezione dai trattamenti inumani e degradanti ed a proibire il refoulement”, ossia il respingimento verso paesi terzi non sicuri. All'interno del Memorandum era anche inserita una previsione [9] secondo cui il governo ruandese avrebbe potuto trasferire in un paese in cui avessero diritto di risiedere i richiedenti asilo ai quali fosse negata la condizione di rifugiato e che fossero privi della necessità di protezione o di base giuridica per permanere in quel paese.

    3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale

    Così descritto il tessuto negoziale su cui si fonda l'accordo dell'aprile 2022 la sentenza esplora nitidamente il campo delle plurime disposizioni ad esso applicabili. In primo luogo, annovera l'art.33 (1) della Convenzione sui rifugiati del 1951 che vieta ad ogni stato contraente di espellere o respingere in qualunque forma un rifugiato verso le frontiere di paesi in cui la vita o la libertà di questo sarebbero messe in pericolo a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Questa fondamentale disposizione è già stata interpretata estensivamente dalla giurisprudenza inglese nel senso di impedire non soltanto il trasferimento diretto verso un paese terzo nel quale il rifugiato possa temere di essere perseguitato ma anche quello indiretto attuato attraverso un paese terzo di transito [10]. In materie rilevanti ai fini della soluzione del caso in questione l'ONU è intervenuta con The United Nations International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) del 1966, accordo cui aderirono 173 stati, che riafferma il principio dell'obbligatorietà per le parti stipulanti del rispetto del divieto di respingimento di richiedenti asilo verso paese che presentino i rischi paventati dalla Convenzione del 1951. Principio analogo fu espresso dalla United Nations Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984 (UNCAT) che vieta agli stati aderenti l'espulsione, il respingimento o l'estradizione verso stati nei quali sia concreto il rischio che la persona possa essere soggetta a tortura.

    Il diritto convenzionale europeo risultante dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani del 1950 a propria volta vieta all'articolo 3 l'espulsione di richiedenti asilo verso paesi nei quali possano affrontare il pericolo di respingimento diretto o indiretto verso il paese d'origine [11]. E la giurisprudenza di Strasburgo si è mostrata preoccupata di porre al centro della propria indagine in merito all'esatta applicazione dell'articolo 3 appena citato la possibilità per il richiedente asilo di accedere a una adeguata procedura nel paese terzo ricevente [12].

    Di grande rilievo è la circostanza che l'articolo 6 dello Human Rights Act inglese del 1998 abbia espressamente e letteralmente recepito l'articolo 3 della CEDU.

    La Supreme Court ha per completezza osservato che il principio del non-refoulement concorre alla formazione del diritto internazionale consuetudinario, così vincolando tutti gli stati. Ed infatti, la Dichiarazione degli stati contraenti della Convenzione del 1951 ed aderenti al collegato Protocollo del 1967 sottoscritta nel 2001 [13] racchiude nel suo quarto “considerando” premesso al Preambolo il riconoscimento della continua rilevanza e resistenza del regime internazionale dei diritti e dei principi relativi alla protezione dei rifugiati, “incluso quello basilare del non-refoulement inglobato nel diritto internazionale consuetudinario. Questo importante riconoscimento rende il principio ius cogens per tutti gli stati della comunità internazionale e contribuisce, quindi, a disegnarne il peso vincolante anche per il Regno Unito. Tale ordinamento ha, a propria volta, posto in essere coerenti ed univoche misure normative sempre facenti perno sul principio del non-refoulement. In questo filone trova spazio, ad esempio, la sezione 2 dell'Asylum and Immigration Appeals Act del 1993 che dispone nel senso che nessuna delle disposizioni contenute nelle Immigration Rules, corollario dell'Immigration Act del 1971 possa ammettere pratiche contrarie alla Convenzione del 1951. Analogamente, la sezione 82 (1) del Nationality, Immigration and Asylum Act del 2002, in combinato disposto con la successiva sezione 82(2), conferisce ai richiedenti asilo la facoltà di appellare le decisioni governative che si pongano in contrasto con la Convenzione ONU, con il logicamente incluso inglobamento del divieto di respingimento. Ed infine, il paragrafo 17 dell'allegato 3 all'Asylum and Immigration (Treatment of claimants) Act del 2004, consente al segretario di Stato di certificare che il paese terzo cui inviare un richiedente asilo possa definirsi “sicuro” solo laddove la sua vita e la sua libertà non siano messe a repentaglio per ragioni razziali, religiose, politiche o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.

    Sulla scorta del quadro normativo così individuato, la sentenza procede all'esame delle questioni devolute alla sua cognizione (di una soltanto delle quali, quella relativa al ricorso incidentale fondato su una norma comunitaria non più in vigore dopo il 31 dicembre 2020 [14], e, pertanto, rigettato non è necessario in questa sede occuparsi).

    3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court

    Non considerando adesso, per le ragioni spiegate in chiusura del paragrafo precedente, l'oggetto del ricorso incidentale, la Supreme Court ha concentrato la propria attenzione sulla questione basilare attorno alla quale ruota la propria sentenza, ossia l'effettiva osservanza nella fattispecie del cardine dell'intero sistema planetario di trattamento dei richiedenti asilo, il non-refoulement principle. Per pervenire alla decisione sul punto, che in realtà investiva l'intera materia sviluppata nel ricorso del governo inglese contro la pronuncia per sé negativa della Court of Appeal, i giudici supremi suddividono in tre sotto-temi, di cui si andrà fornendo illustrazione, la complessiva materia, sapendovi dare una risposta unitaria ed armoniosa.

    Si è già preannunciato che il vero obiettivo della pronuncia è stato quello di rispondere alle censure sollevate dal governo contro la decisione di secondo grado ponendola costantemente a raffronto, in termini di aderenza ad un idoneo percorso argomentativo ed al nugolo dei poteri esercitabili in materia dall'autorità giudiziaria, con quella della Divisional Court che aveva, al contrario, sancito la legittimità dell'operato del governativo e, per diretta e meccanica conseguenza, quella del sistema operante in Ruanda in materia di protezione dei rifugiati richiedenti asilo.

    Ed invero, il primo quesito cui la Supreme Court si è assegnata il compito di dare risposta è stato quello sull'esattezza del metodo utilizzato in primo grado, e rovesciato in appello, di accertamento dell'esistenza del rischio del respingimento dei richiedenti asilo da parte del Ruanda.

    Seguendo un ormai consolidato approccio sistematico alla definizione del proprio ufficio decisorio, ed in sostanza assolvendo la propria funzione al tempo stesso nomofilattica e di sindacato costituzionale e, più in particolare interpretando nel modo più proficuo il proprio ruolo di garante della rule of law, epicentro del Constitutional Act del 2005, la sentenza fissa il modello di riferimento cui ancorarsi. E lo individua, a dimostrazione del proprio incontaminato animo europeista in senso lato, in una sentenza della Corte EDU in un caso di estradizione del 1989 che riguardava proprio il Regno Unito [15]. La regula iuris consacrata fu che il dovere degli stati contraenti, nascente dal citato articolo 3 della Convenzione del 1950, di non sottoporre alcuno a tortura o a trattamenti inumani e degradanti si accompagna al correlato obbligo di non trasferimento verso stati rispetto ai quali si presentino fondate ragioni per ritenere attuale e concreto il rischio che ivi si pratichino maltrattamenti.

    Del massimo interesse sul piano del legal reasoning è la conseguenza che la Supreme Court trae da quella che, provenendo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ben si assesta tra i precetti di diritto positivo. Ed infatti, i giudici supremi rinvengono nel caso Soering un sicuro elemento che giustifica l'affermazione secondo cui il test da applicare per verificare l'effettiva osservanza del principio proibitivo dei respingimenti di richiedenti asilo non può che essere quello, ignorato dalla Divisional Court e, all'opposto fatto giustamente proprio dalla Court of Appeal, che impone al Giudice di appurare e decidere direttamente e sulla base di un proprio, autonomo metro di giudizio se la fattispecie esibisca dati concreti che consentano di affermare che il trasferimento del richiedente asilo dal Regno Unito ad un altro stato (nella specie il Ruanda) esponga la persona ad un reale rischio di maltrattamenti. Viene ulteriormente affermata l'assoluta insufficienza al riguardo del metodo che aveva indotto i primi giudici ad assolvere l'operato governativo da ogni ombra sospetta di illegittimità, ovvero l'esistenza di assicurazioni dallo stesso fornite, ed a propria volta frutto di garanzie puramente verbali date dal governo del Ruanda, circa la conformità al diritto internazionale delle politiche in materia di immigrazione praticate in quel paese. Resta, così, platealmente bocciato l'atteggiamento remissivo e rinunciatario della Divisional Court, tenutasi prudentemente ai margini del merito della questione centrale vertente sull'assenza o presenza di rischi concreti circa il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Severa è la censura rivolta ai primi giudici, cui si è imputato di essersi accontentati di valutare la ragionevolezza del giudizio governativo classificatorio del Ruanda come paese terzo sicuro e di aver abdicato alla propria inerente prerogativa di ergersi a giudice dei duri fatti e non solo degli atti ufficiali. È il metodo di giudizio a costituire il vizio motivazionale che intacca la prima sentenza, pronunciata in carenza assoluta di un controllo giudiziale intrinseco dell'effettivo rispetto del principio del non-refoulement. E, come si vedrà, la Supreme Court non si è sottratta all'impresa, omogenea rispetto al principio di diritto enunciato, di desumere dall'ampio materiale probatorio a disposizione le ragioni di un convincimento contrario alla legittimità dell'intera operazione di delocalizzazione umana senza particolari scrupoli giuridici realizzata dal governo britannico. La automatica conclusione è stata quella di ratifica del contrario e corretto atteggiamento assunto dalla Court of Appeal, assuntasi la responsabilità di dire la propria parola sulla presenza del rischio della violazione della Convenzione ONU del 1951 insito nell'accordo con il Ruanda.

    Il secondo sotto-tema, derivante dalla questione essenziale relativa alla stretta osservanza, nell'intero accordo negoziale, del principio proibitivo del respingimento, consiste nel giudicare della correttezza della riforma, da parte della Court of Appeal, della statuizione principale della Divisional Court. La risposta positiva è in misura chiarissima il logico effetto del ragionamento appena illustrato.

    Alla critica di fondo imperniata sulla concezione riduttiva dell'intervento giudiziale se ne aggiunge altra non meno abrasiva, rivolta a sottolineare la povertà del metodo adibito alla valutazione delle risultanze probatorie in atti. Lacuna, questa, a propria volta traente origine dalla trascurata valorizzazione dell'orientamento della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in uno specifico passaggio della sentenza Ilias c.Ungheria del 2019. In esso il giudice europeo indica in modo stentoreo i criteri ai quali è tenuto ad attenersi lo stato contraente che intenda trasferire ad uno stato terzo i richiedenti asilo che si trovino nel proprio territorio. Sul primo stato incombe il dovere di esaminare approfonditamente la questione della sussistenza di un rischio effettivo che lo stato terzo ricevente possa negare accesso ai richiedenti asilo ad una procedura adeguata che li protegga dal grave pericolo del respingimento. E tale esame deve essere compiuto mediante la scrupolosa analisi delle modalità di funzionamento in concreto, nel paese terzo ricevente, del sistema di riconoscimento del diritto di asilo, tenendo conto delle eventuali carenze segnalate da organismi internazionali quali l'alto commissariato dell'ONU per i rifugiati ed avendo, altresì, riguardo a tutte le circostanze rilevanti note al momento. Questa osservazione fa giustizia del duplice errore addebitato dalla Supreme Court ai giudici di primo grado. Questi, infatti, non avrebbero, innanzitutto, potuto accontentarsi delle assicurazioni date dal governo ruandese a quello britannico circa l'effettivo rispetto dei divieti derivanti dalla Convenzione del 1951 in materia di respingimento. Ancora una volta è la giurisprudenza di Strasburgo il faro che orienta il ragionamento della Supreme Court. Ed infatti, in una sentenza del 2015 [16] la Corte EDU affermò che il peso da attribuire alle assicurazioni dello stato ricevente dipende volta per volta dalle circostanze concrete, così escludendone il valore assoluto. Indirizzo confermato da una sentenza del 2021 del medesimo organo giudicante inglese, ossia la Supreme Court [17], che sottolineò la necessità che i giudici chiamati a pronunciarsi su una richiesta di estradizione delibino accuratamente la sufficienza delle garanzie dello stato richiedente l'estradizione circa l'insussistenza di rischi di maltrattamenti alla luce di tutte le specifiche circostanze del caso e senza alcun automatismo. A questa stregua si è rivelato erroneo e carente il ragionamento seguito dalla Divisional Court che omise di considerare la concreta situazione del Ruanda con riguardo a lacune di sistema riscontrabili negli organi competenti ed alle procedure utilizzate per decidere sulle domande di asilo. Ancor più manchevole ed apodittico è apparso agli occhi della Supreme Court il passaggio motivazionale di primo grado fondato sul credito accordato, al fine di asseverare le assicurazioni del governo ruandese, alla competenza ed all'esperienza degli incaricati del governo inglese chiamati a pronunciarsi su di esse. E ciò perché non può essere delegato ad altri organi il giudizio, proprio della corte giudicante, circa l'insussistenza del concreto rischio della violazione del non-refoulement principle. Viene a questo proposito richiamato un caso-guida venuto all'esame della House of Lords nel 2001 [18] che, con l'opinione di Lord Hoffmann, affermò che, nell'ipotesi in cui la deportazione di un cittadino straniero in un altro paese comporti il rischio che gli vengano inflitte torture, è cedevole anche l'interesse inglese alla propria sicurezza nazionale ed è necessario che il governo metta in campo soluzioni alternative al trasferimento all'estero.

    Il secondo, altrettanto decisivo nell'economia della ratio decidendi della Supreme Court, errore commesso dalla Divisional Court ed analiticamente censurato anche dalla Court of Appeal è caduto sulla sostanziale pretermissione dei più significativi ed inequivocabili elementi probatori presenti in atti che cospiravano a favore della conclusione che le concrete circostanze lasciavano con certezza emergere la presenza del rischio reale che il trasferimento dal Regno Unito al Ruanda di cittadini richiedenti asilo si sarebbe risolto nell'inosservanza del divieto di respingimento. Con acribia la Supreme Court effettua l'elenco di tali elementi, in larga parte tratti da rapporti dell'UNHCR [19] ed altrettanto largamente trascurati dalla Divisional Court, qui di seguito sommariamente riportati. Innanzitutto, in un recente passato il governo ruandese aveva mancato di adempiere le assicurazioni date a quello israeliano in relazione ad un accordo per il trasferimento dal secondo al primo di richiedenti asilo. Vi è poi un’esperienza molto allarmante di casi di respingimenti compiuti in violazione del diritto internazionale da parte del governo ruandese nonché di gravi manchevolezze nel sistema di amministrazione delle domande di asilo rivelatosi privo di garanzie circa l'adozione di decisioni motivate a livello governativo: d'altra parte, non vi è evidenza di un solo caso di ricorso giurisdizionale contro una decisione di rigetto delle domande d'asilo. Ad aggravare le omissioni appena ricordate è stato l'atteggiamento sprezzante dei primi giudici verso la preziosa opera informativa dell'UNHCR, sistematicamente ignorata ed altezzosamente sottovalutata in quanto priva di un particolare peso (“carries no special weight”). L'atteggiamento è stato pesantemente criticato dalla Supreme Court che, oltre a ricordare l'importanza delle circostanze di cui i rapporti dell'organismo danno conto, ha voluto corrispondere un tributo al ruolo da esso svolto, definito da un precedente della stessa Supreme Court come il “titolare di un ufficio rispettato a livello internazionale e detentore di elevati livelli di conoscenza e competenza che eccedono quelli di cui ordinariamente è dotata una corte di giustizia” [20]: sotto questo profilo è stato reputato ammissibile l'intervento in giudizio (una sorta di amicus curiae) dell'UNHCR, teso a riaffermare il principio per cui i richiedenti asilo hanno il diritto di vedere esaminate le proprie domande nel territorio dello stato in cui approdano o di quello che abbia giurisdizione nei loro confronti.

    La somma di questi motivi ha portato la Supreme Court a concludere, quanto al secondo profilo del motivo principale di ricorso, che non meritava censure la decisione della Court of Appeal, la quale, come detto, aveva riformato quella di primo grado, autrice della serie di errori censurati.

    Il terzo profilo del fondamentale tema incentrato sul rischio che i richiedenti asilo trasferiti in Ruanda potessero veder violato il non-refoulement principle ha riguardo alla esattezza della statuizione della Court of Appeal, di riforma di quella della Divisional Court che aveva escluso l'esistenza di fondati motivi per ritenere la sussistenza di tale rischio. Le osservazioni precedenti in punto di criteri di giudizio e di sostanza probatoria orientano ancora una volta in senso affermativo la risposta volta a confermare la correttezza della sentenza di secondo grado impugnata dal governo inglese.

    Ulteriori e probanti elementi vengono portati a suffragio della tesi dell'alto grado di pericolo di attentato ai diritti umani dei richiedenti asilo nel caso di trasferimento in Ruanda. Si ricorda, a tal proposito, che la recente esperienza dimostra che il Ruanda è stato teatro di spaventosi periodi di violenza, solo in parte superati da successivi progressi in campo economico e sociale. Tuttavia, la corte non giudica questi ultimi idonei a superare il negativo impatto dei precedenti. Viene sottolineato che curiosamente era stata la stessa Divisional Court, seppur in diversa composizione, a definire in un caso del 2017 [21] il Ruanda come un paese che “ha istigato, in tempi molto recenti, omicidi politici, inducendo la polizia inglese ad avvertire cittadini ruandesi abitanti nel Regno Unito dell'esistenza di piani credibili, messi in opera dal governo, per ucciderli”. È anche accertato ormai che il Ruanda mantiene sì una politica di porte aperte nei confronti di rifugiati provenienti da paesi in cui alti sono i conflitti civili (quali la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica del Burundi) senza, tuttavia, di norma definire positivamente le domande di asilo. È altrettanto noto, come fatto risaltare nella prima citata sentenza del 2017 della Divisional Court, il timore di una scarsa indipendenza del potere giudiziario (nonché, perfino, dell'avvocatura) da quello esecutivo: il che mette a repentaglio la possibilità di un vaglio autonomo in sede giurisdizionale delle domande di asilo respinte nella fase amministrativa. Le statistiche dimostrano che in tale fase si è registrato il 100% di rigetti delle domande. Ed ancora, i rapporti dell'alto commissariato danno contezza di prassi di refoulement adottate nel paese, tanto da aver indotto uno dei giudici di maggioranza della Court of Appeal, Underhill, a descrivere, nella migliore delle ipotesi, come insufficiente la cultura del rispetto, da parte delle autorità governative ruandesi competenti in materia di immigrazione [22], degli obblighi internazionalmente assunti: mentre, nella peggiore delle ipotesi quella politica viene definita come improntata al deliberato disprezzo verso tali obblighi. Né, al momento della sottoscrizione dell'accordo o in epoca successiva, l'autorità governativa inglese si è in alcun modo curata di indagare circa le prassi di respingimento vigenti nel paese dell'altro contraente, come criticamente messo in rilievo in un inascoltato rapporto stilato da un'autorità indipendente inglese, l'Independent Advisory Group on Country Information (IAGCI) [23]. Si desume, altresì, dai rapporti dell'UNHCR l'assoluta mancanza di preparazione professionale dei funzionari statali incaricati di trattare le pratiche di asilo: ciò che fa temere che non sia possibile modificare, almeno nel breve periodo, le prassi del passato. Né, si osserva dalla Supreme Court, i funzionari del governo inglese sembrano essersi minimamente curati, prima di esprimersi sull'incipiente accordo, di verificare se l'analogo accordo stipulato con Israele avesse dato luogo-come in effetti era avvenuto-a patenti violazioni della Convenzione del 1951 a causa del mancato rispetto dei diritti dei richiedenti asilo.

    3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza

    Al termine di una minuziosissima analisi delle circostanze emergenti dall'imponente compendio probatorio le conclusioni cui perviene la Supreme Court si fondono in modo coeso e danno vita ad una convincente e congrua ratio decidendi. Questa gira, dall'inizio alla fine della lunga sentenza, attorno al presupposto basilare ai fini della decisione del caso, ossia il pieno potere-dovere dell'autorità giudiziaria inglese di sottoporre a stringente scrutinio l'attività posta in essere dagli organi del potere esecutivo nella doverosa prospettiva di verificarne rispondenza e coerenza con i principii fondamentali consegnati da norme internazionali ed interne, nonché dallo stesso common law inteso nella sua origine e formazione giurisprudenziale. In questo completo rovesciamento dell'ottica dalla quale guardare al caso risiede il completo rigetto dell'ingiustificata autolimitazione impostasi dalla Divisional Court, solo attenta al controllo esteriore e formale della legittimità dei provvedimenti in discussione. Questo atteggiamento contraddittorio rispetto alla pienezza della propria funzione ha condotto i giudici di primo grado ad ergere a piattaforma di valutazione della legittimità dei provvedimenti impugnati, non la ricca ed obiettiva evidenza probatoria sgorgante dagli atti ma, la semplice messe di interessate assicurazioni fornite dal governo del Ruanda (a favore del quale, come sostegno finanziario dell'accordo era stata stanziata dal governo inglese per il 2022 l'ingente somma di 140 milioni di sterline) circa la compatibilità del proprio sistema istituzionale considerato nel suo complesso con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e di divieto di respingimento implicati dalla gravità del caso. Ancora una volta è netta e radicale la cesura rispetto a questa posizione tanto della Court of Appeal a maggioranza quanto della Supreme Court all'unanimità, pronunciatesi concordemente nel senso della ineludibile esigenza di esaminare ogni elemento acquisito al processo onde giudicare del thema decidendum. E questo era unicamente costituito non dalla esistenza della buona fede del governo ruandese nel concludere l'accordo ma dalla sua obiettiva-tale perché deducibile da dati obiettivi-capacità di adempiere le obbligazioni assunte, prima e fondamentale tra esse quella di rispettare il divieto di respingimento. La ponderata valutazione delle circostanze, condotta senza aprioristici dinieghi di rilevanza ad alcuna fonte di conoscenza, ha portato a ritenere che sia ancora inadeguata la percezione in Ruanda dell'efficacia cogente ed inderogabile di principii fondamentali stabiliti dalla Convenzione ONU del 1951, quale quello del non-refoulement. È risultata altrettanto chiara la necessità, avallata dallo sbrigativo trattamento di rifugiati richiedenti asilo medio-orientali ed afghani, che rimarchevoli modifiche di sistema vengano apportate prima che si possa nutrire fiducia nell'osservanza incondizionata di tali principii. Non poteva, pertanto, concepirsi conclusione diversa da quella fatta propria dalla Supreme Court secondo cui sono affiorati rilevanti e fondati motivi per ritenere che ricorra un reale rischio che le istanze dei richiedenti asilo possano non essere decise in Ruanda in modo appropriato e che essi possano essere esposti al rischio di essere respinti, in forma diretta o indiretta, verso i loro paesi d'origine nei quali concreto è il pericolo della sottoposizione a trattamenti vietati dalle norme internazionali.

    4. Tratti conclusivi

    Il terreno delle considerazioni finali è sparso di argomenti eterogenei ma non per questo inadatti a restituire l'immagine di un filo conduttore comune al discorso fin qui svolto.

    Il tema dei flussi migratori, per la sua incidenza globale e per la sensibilità nei suoi confronti mostrata in ogni parte del mondo ampiamente dimostrata dal mondo politico-istituzionale, ha frequentemente aguzzato la fantasia dei decisori nazionali sbrigliandola in direzioni spesso avventurose ed immeditate come il caso inglese, tutt'altro che unico in Europa, prova. L'accentramento di decisioni così delicate nelle mani del solo potere esecutivo trascurando l'interlocuzione parlamentare (è proprio il caso inglese a lasciar auspicare che diverso debba essere il percorso da seguire in casi di accordi internazionali di siffatta portata), oltre a menomare la possibilità di un controllo pubblico diffuso sull'attività del governo, aumenta in modo rimarchevole la possibilità di dar luogo ad istruttorie affrettate, superficiali, carenti (imperdonabili appaiono, nel modo in cui sono state stigmatizzate dalla Supreme Court, ad esempio, le mancate indagini da parte dei funzionari governativi circa i comportamenti tenuti dal Ruanda in occasione di precedenti accordi e sullo stato generale delle garanzie democratiche indipendentemente dalle auto-certificazioni). Altra spia della cautela che avrebbe dovuto circondare l'intera operazione poi cassata dalla Supreme Court andava individuata nella disparità di consistenza economica dei due paesi contraenti, destinata ad incrementare il desiderio di concludere ad ogni costo l'accordo da parte del paese più debole in vista del corrispettivo conseguibile.

    Ma insieme a questi messaggi che suggeriscono grande prudenza e ponderazione nel trattare la materia dei diritti dei migranti e le connesse obbligazioni degli stati operanti nello scenario internazionale non è difficile cogliere note rosee ed incoraggianti.

    Invero, ove, seppur soltanto per (sterile) esercizio dialettico, dovesse dubitarsi dell'esistenza di un robustissimo telaio costituzionale nel diritto inglese, a dispetto della consolidata formazione di una inviolabile costituzione materiale, la vicenda cui è dedicata la presente ricerca presterebbe uno strumento potente ed incontrovertibile di rassicurazione. Ed infatti, volendo, e forse dovendo, elevare la vicenda stessa ad un piano conformativo e descrittivo dei caratteri dell'ordinamento inglese, viene da considerare che la sentenza della Supreme Court costituisce la più limpida e persuasiva esemplificazione e spiegazione della tanto spesso invocata (non sempre e non da tutti con pieno controllo concettuale) rule of law. Essa, epitome delle molteplici forme di manifestazione dello stato di diritto ordinatamente articolato secondo la divisione dei poteri, vive e si incarna nell'esempio fornito dall'esercizio quotidiano dei poteri stessi e dal loro coordinamento. Dicevano che, nell'impedire la sopraffazione di uno ad opera dell'altro, al contempo esige che ciascuno si esplichi senza timori o costrizioni in modo pieno. Ed è, pertanto, un segnale di vitalità di uno stato di diritto che il potere giudiziario non si lasci imprigionare dall'utilitaristica tentazione del quieto vivere e rinunci alle proprie funzioni di custode e promotore, attraverso l'espressione delle proprie decisioni, della legalità. E ciò anche a costo di esibire con motivata pronuncia l'illegittimità dell'agire governativo. In questo senso l'esempio che proviene da una indomita Supreme Court potrebbe sperabilmente rivelarsi contagioso e capace di valicare i confini nazionali.

    [1] Sul carattere fondamentale ed antico del diritto di emigrare v.Ferrajoli, Crisi del diritto e dei diritti nell'età della globalizzazione in Questione Giustizia del 20 novembre 2023. Il testo riproduce l'intervento svolto dall'Autore al XXIV congresso di Magistratura Democratica, svoltosi a Napoli tra il 9 e l'11 novembre 2023.

    [2] (2023) UKSC 42.

    [3] Organo in composizione collegiale della High Court competente, tra l'altro, in materia di impugnazione, attraverso lo speciale procedimento della judicial review di atti e provvedimenti dell'autorità amministrativa.

    [4] (2022) EWHC 320 (Admin.).

    [5] (2023) EWCA Civ 745.

    [6] Le due norme consentono il trasferimento dei richiedenti asilo in un paese terzo sicuro nella sola ipotesi della ricorrenza di un collegamento degli stessi con tale paese.

    [7] Vale la pena riportare nel testo originale il passaggio per la sua forza persuasiva: “The court is not concerned with the political debate surrounding the policy, and nothing in this judgment should be regarded as supporting or opposing any political view of the issues”.

    [8] Paragrafo 345 B delle Immigration Rules del 2016 emanate in omaggio alla previsione dell'Immigration Act 1971.

    [9] Paragrafo 10.4.

    [10] R v Secretary of State for the Home Department, Ex p Bugdaycay (1987) AC 532.

    [11] Principio applicato dalla Corte EDU nel caso MSS c Belgio e Grecia del 2011 relativo al trasferimento di un richiedente asilo verso un paese in cui era transitato.

    [12] Ilias v Hungary del 2019.

    [13] Declaration of States Parties to the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol Relating to the Status of Refugees (documento ONU 2001/09).

    [14] In virtù delle previsioni del paragrafo 6 (1) dell'allegato 1 all'Immigration and Social Security Co-ordination (EU Wirhdrawal) Act 2020, caparbiamente propugnato dal governo di Boris Johnson in attuazione del procedimento conseguente al voto referendario del 23 giugno 2016.

    [15] Soering c Regno Unito (1989).

    [16] Othman c. Regno Unito. Il caso riguardava la deportazione in Giordania di un cittadino richiedente asilo nel Regno Unito e la sufficienza delle garanzie fornite dal paese di destinazione in ordine all'assenza di concreti rischi di maltrattamenti.

    [17] Zabolotnyi v la Mateszalka District Court, Hungary (2021) UKSC 14 attinente alla sufficienza delle garanzie offerte dal governo ungherese ricevente sull'inesistenza del concreto rischio che l'estradizione del ricorrente non lo avrebbe esposto a maltrattamenti. È notevole il fatto che redattore della sentenza fu Lord Lloyd Jones, co-estensore con Lord Reed, di quella qui commentata.

    [18] Secretary of State for the Home Department v Rehman (2001) UKHL 47. Il principio, illustrato nel testo, fu poi seguito dalla Supreme Court 20 anni dopo in R (Begum) v Special Immigration Appeals Commission (2021) UKSC 7. La sentenza resa in quest'ultimo caso, in cui si riaffermava l'infungibilità della valutazione giudiziale in ordine alla possibile violazione da parte dell'autorità governativa degli obblighi internazionalmente assunti in base all'articolo 6 dello Human Rights Act 1998 (che traspose nel diritto inglese il divieto di tortura sancito dall'articolo 3 della CEDU), fu redatta da Lord Reed, coestensore di quella odierna.

    [19] La stessa Supreme Court ha riconosciuto quanto considerevolmente autorevoli siano i rapporti dell'alto Commissariato ONU definiti unici ed ineguagliabili nel caso IA (Iran) v Secretary of State for the Home department (2014) UKSC 6.

    [20] Così si espresse, citando le parole usate nel primo grado di quel procedimento dal giudice Sedley, Lord Kerr in R (EM(Eritrea) v Secretary of State for the Home Department (2014) UKSC 12.

    [21] Government of Rwanda v Nteziryayo (2017) 191 EWHC (Admin).

    [22] Il Directorate General of Immigration and Emigration in Rwanda (DGIE)  

    [23] In tale rapporto sono menzionate le numerose falle registrate nel sistema amministrativo, di cui viene denunciata la mancanza di trasparenza, che regola le procedure per l'esame delle domande di asilo.

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