GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria di Simone Benvenuti

    Sommario: 1. Premessa - 2. La decapitazione del sistema giudiziario e l’epurazione mascherata della magistratura - 3. La centralizzazione e la burocratizzazione del sistema di amministrazione giudiziaria- 4. La (abortita) riforma della giustizia amministrativa - 5. L’ultimo capitolo della saga giudiziaria: la “legge insalata” del dicembre 2019 - 6. Conclusioni: la professionalità del giudice come baluardo dell’indipendenza.

    1. Premessa

    Il 12 dicembre scorso, la Commissione europea e il Governo ungherese hanno raggiunto l’accordo che sblocca una prima tranche di settecento milioni di euro del Piano di ripresa nazionale. Tale risultato, che rappresenta solo un compromesso provvisorio, fa seguito alla introduzione nell’ottobre precedente di alcune misure legislative volte a rafforzare il principio del rule of law e a proteggere gli interessi finanziari dell’Unione.

    La legge n. 27 del 3 ottobre 2022 aveva infatti istituito, tra le altre cose, un’Autorità per l’Integrità competente ai fini del monitoraggio dell’utilizzo dei fondi UE: un’autorità indipendente a tutti gli effetti, divenuta operativa il 19 novembre, che risponde alle richieste in materia rivolte dalla Commissione al Governo ungherese. Come forse è noto, tali richieste rappresentano la punta di un iceberg il quale comprende un ambito assai ampio di questioni riguardanti l’Ungheria, nel quale le riforme degli apparati di controllo dell’operato dei pubblici poteri occupano un posto particolare. Tra tali apparati, il sistema giudiziario ha una ovvia centralità. Dopo gli interventi che ne hanno profondamente mutato la struttura nel decennio passato, e nonostante la materia dell’organizzazione giudiziaria sia tra gli obiettivi (milestones) che scandiscono l’erogazione dei fondi dopo questa prima tranche, esso non è tuttavia oggi oggetto di progetti di riforma e appare dunque stabilizzato.

    Può essere allora utile ripercorrere brevemente le vicende che nell’ultimo decennio o poco più (la prima riforma risale al 2011) hanno riguardato il sistema giudiziario ungherese, tralasciando per la sua specificità la giurisdizione costituzionale. Ciò permette infatti non solo di cogliere le linee di sviluppo – le quali sono peraltro manifeste se sol si guarda ai numerosi contributi in materia in lingua italiana o straniera – ma anche di riflettere sull’effetto sistemico di tali vicende, sulla matrice ideologica delle stesse ma anche su quella storica, riguardante la transizione ungherese in senso ampio e la funzione che il giudiziario ha svolto in essa (e che in generale svolge negli ordinamenti contemporanei caratterizzati da debolezza delle istituzioni rappresentative), sulla ratio delle riforme che si sono succedute, dunque sul loro spirito. Ci permette infine di ragionare, soprattutto, sull’esigenza di pensare al principio di indipendenza giudiziaria in un’ottica ampia, non meramente istituzionale, data l’importanza che il tema della professionalità giudiziaria assume sullo sfondo delle vicende ungheresi.

    2. La decapitazione del sistema giudiziario e l’epurazione mascherata della magistratura

    Il 19 aprile di dodici anni fa, il Parlamento ungherese approvava il nuovo testo costituzionale (Legge Fondamentale)[1], aprendo una stagione di riforme dello Stato nelle quali la giustizia avrebbe occupato un posto privilegiato[2]. Gli articoli relativi all’ordinamento giudiziario (artt. 25-28), a prima vista in continuità con il testo costituzionale preesistente, risaltavano tuttavia per una certa laconicità e per il non-detto rispetto a quanto affermavano.

    A livello più appariscente, il nuovo testo modificava la denominazione della Corte suprema, recuperando quella pre-comunista (Kúria). La questione se tale nuova denominazione di Kúria fosse meramente simbolica o implicasse la sostituzione della vecchia Corte suprema, di cui la Kúria era peraltro definita erede, con un nuovo organo giudiziario non era peregrina, se si pensa che la Legge fondamentale disponeva anche la nomina di un nuovo presidente dell’organo (nel quadro di un sistema giudiziario dove i presidenti di corte hanno un ruolo di particolare rilievo, ben più significativo che in Italia). A distanza di pochi mesi (legge n. 61 del 14 giugno 2011), erano poi introdotti nuovi requisiti per i candidati alla presidenza della Kúria. Ciò preannunciava la strategia di cattura della magistratura da parte della maggioranza parlamentare e avrebbe dato luogo a una controversia risolta (ma senza effetti sostanziali determinanti) dalla Grand Chamber della Corte europea dei diritti dell’uomo nella nota decisione Baka v. Hungary del 23 giugno 2016[3].

    András Baka, giurista di spessore nonché giudice per diciassette anni (fino al 2008) della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nell’ottobre 2011 (vale a dire pochi mesi prima della sua “rimozione” nel dicembre successivo) era stato anche eletto Presidente della Rete dei Presidenti delle Corti Supreme dell’Unione Europea, non soddisfaceva infatti il nuovo requisito tecnico dei cinque anni di servizio come giudice nazionale, essendo divenuto giudice presso la Corte regionale di Budapest solo nell’aprile 2008.

    A questa misura, una seconda ne era seguita che aveva permesso una vera e propria “epurazione” della magistratura, in massimo grado della suprema giurisdizione ordinaria. Ci si riferisce qui all’articolo 26, comma secondo della Legge Fondamentale che ha parificato l’età di pensionamento dei giudici, a esclusione del Presidente della Kúria, a quella generale dei lavoratori del pubblico impiego. La norma è stata poi integrata dalla Legge sulle Disposizioni transitorie approvata il 31 dicembre 2011, il cui articolo 12 ha previsto che tutti i giudici che avessero raggiunto il limite di età di 62 anni nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2012 andassero in pensione il 31 dicembre 2012, mentre per i giudici che avessero raggiunto il limite d’età prima del 1° gennaio 2012 si fissava il 30 giugno 2012.

    Fuori dai tecnicismi: una misura epurativa nella sostanza e ben nota nella storia della giustizia europea, la quale ha poco da invidiare al decreto con cui Luigi Napoleone, il primo marzo 1852, aveva revocato centotrentadue giudici. L’effetto delle misure prese dalla maggioranza del partito Fidesz è stata infatti la revoca di un quarto dei giudici della Corte suprema e circa metà dei presidenti di corte regionale o provinciale.

    Occorre ricordare, a evidenziare la portata della vicenda, il rilievo che in Ungheria, dove peraltro vige il principio dell’unicità della giurisdizione, assumono la Kúria e i presidenti di corte. La prima, tra le altre cose, può assumere decisioni con efficacia vincolante ai fini dell’uniformità del diritto (la non conformità alla decisione della Kúria è generalmente presa in considerazione nella valutazione dei giudici), e dispone di poteri di supervisione delle giurisdizioni inferiori attraverso i presidenti di sezione.

    3. La centralizzazione e la burocratizzazione del sistema di amministrazione giudiziaria

    L’articolo 25 della Legge Fondamentale aboliva poi (seppur tacitamente) l’organo espressione del principio di autonomia della magistratura, il Consiglio giudiziario nazionale (Országos Igazságszolgáltatási Tanács, OIT)[4]. Di questo, già menzionato nell’articolo 50 della Costituzione del 1989 quale organo che partecipa all’amministrazione di corti e tribunali, viene a mancare ogni riconoscimento nel nuovo testo costituzionale (il “non detto” prima evocato).

    È utile ricordare che l’OIT, operativo sin dal 1997, ha costituito uno dei primi organi di autonomia effettiva della magistratura in un Paese dell’area post-sovietica. In realtà, nel 2011 il Consiglio non è stato abolito ma solo de-costituzionalizzato, e gran parte delle sue competenze sono state trasferite all’Ufficio giudiziario nazionale (Országos Bírósági Hivatal, OBH), organo disciplinato dalle leggi n. 161 e n. 162 del 28 novembre 2011 rispettivamente sull’Organizzazione e l’amministrazione delle corti e sullo Status e la remunerazione dei giudici, entrate in vigore in coincidenza con l’entrata in vigore della Costituzione.

    L’OBH – che ha carattere monocratico e il cui vertice è di nomina parlamentare a maggioranza dei due terzi – è stato guidato fino al 2019 da Tünde Handó, un’esponente di Fidesz e consorte di uno dei (pochi) redattori della Legge Fondamentale, József Szájer. Al presidente dell’Ufficio giudiziario sono attribuiti poteri di rilevante impatto politico – è il caso della partecipazione alla definizione del bilancio giudiziario, dell’iniziativa legislativa in materia di organizzazione delle corti, della definizione di vere e proprie linee di politica giudiziaria sui procedimenti considerati di interesse generale, da trattare in via prioritaria – e soprattutto il potere di assegnare casi ad altre corti qualora ciò sia reso necessario dall’obbiettivo di garantire la durata ragionevole del processo.

    Dopo aver perso lo status di organo costituzionale, l’OIT è stato declassato al rango di organo consultivo e, pur formalmente dotato di una funzione di supervisione dell’OBH, è in realtà da questo dipendente: un corto-circuito istituzionale che interroga sulla razionalità di tale configurazione istituzionale. È d’obbligo ricordare come l’OIT, nonostante lo stravolgimento dell’assetto istituzionale della governance della magistratura e anche della sua composizione, sia sfuggito fino a oggi all’addomesticazione da parte delle forze di maggioranza. Basti a questo riguardo ricordare due recenti episodi.

    Il primo riguarda l’elezione del Presidente della Kúria, Zsolt András Varga, nell’autunno del 2020, la cui candidatura era stata ritenuta inadeguata dall’OIT con un parere reso a maggioranza schiacciante di tredici voti contro uno. Certo, eleggendo Varga, il Parlamento non aveva tenuto conto di tale parere negativo (non vincolante), ma l’OIT aveva avuto comunque la possibilità di esprimersi duramente. Ritenendo carente l’esperienza di Varga come giudice e in materia di amministrazione della giustizia in generale, si era spinto ad affermare che «[l]a nomina […] è stata resa possibile da due recenti modifiche legislative che vanno contro il requisito costituzionale di porre ai vertici della magistratura solo chi soddisfi il criterio dell’indipendenza dagli altri rami del potere». (Sulle modifiche evocate dall’OIT, si rimanda al quarto paragrafo del presente scritto). Professore universitario fino al 2012, in quell’anno Varga era stato infatti nominato dal Governo viceprocuratore generale e dal 2014 era giudice della “nuova” Corte costituzionale.

    Il secondo episodio riguarda un recente conflitto emerso a seguito di un incontro, il 27 ottobre 2022, tra due membri del Consiglio giudiziario nazionale – rispettivamente il responsabile per le relazioni internazionali e il capo ufficio stampa (Tamás  Matusik e Csaba Vasvári) – e l’ambasciatore degli Stati Uniti David Pressman. I due giudici sono stati oggetto di attacchi da parte di quotidiani filo-governativi e poi criticati dal Presidente della Kúria, András Varga; ciò ha determinato a sua volta una dura presa di posizione dell’OIT attraverso due comunicati stampa con cui si stigmatizzavano gli attacchi pubblici e anche le parole di Varga. 

    4. La (abortita) riforma della giustizia amministrativa

    A seguito dell’approvazione nel giugno 2018 del Settimo Emendamento alla Legge Fondamentale, veniva inserito nell’articolo 25 della Legge Fondamentale del 2011, che definisce la competenza delle corti e delinea la struttura giudiziaria, un comma relativo a organi giurisdizionali competenti in materia amministrativa. Il Governo ha quindi avviato un iter volto a creare un ordine separato con una Corte suprema amministrativa distinta dalla Kúria, quale parte di un progetto più ambizioso di riforma della Pubblica amministrazione (preannunciato dall’adozione di un codice generale di procedura amministrativa nel 2016).

    Molto si è speculato su una scelta che avrebbe messo fine all’unità dell’ordine giurisdizionale ungherese e che il Governo (e parte della dottrina nazionale: è il caso di Andras Patyi)[5] giustificava su basi storiche. Una giustizia amministrativa separata era esistita fino al 1949 e si era dimostrata efficiente nella tutela dei diritti dei cittadini. Secondo Renata Uitz, la legge costituiva molto chiaramente una tecnica di court-packing, sul solco di quanto realizzato sette anni prima con la giustizia ordinaria[6]. Come specificherò più avanti, l’intervento del 2011-2012 non si era infatti dimostrato sufficiente ad allineare completamente la magistratura alla volontà della maggioranza di Governo: la creazione di nuove corti amministrative – e di un nuovo corpo di giudici amministrativi – avrebbe risolto alla radice il problema.

    La legge n. 131 del 2018, nell’istituire il nuovo ordine, attribuiva al Ministro della giustizia il potere di nomina dei giudici, dietro parere non vincolante di un Consiglio della giustizia amministrativa. Ma soprattutto, i deboli requisiti per la nomina alle funzioni di giudice amministrativo delineavano la figura di un giudice “sprofessionalizzato”. Ciò riflette una precisa strategia di politica istituzionale che tocca l’ambito dell’amministrazione nel suo insieme ed è ben esemplificata dall’istituzione di un monopolio nella formazione dei funzionari pubblici attraverso l’istituzione dell’Università nazionale della funzione pubblica (NKE), volto ad accentuare nella cultura amministrativa l’adesione alla volontà legalisticamente espressa dell’apparato di governo più che l’indipendenza, con il rafforzamento del paradigma metodologico legalistico-formale e la svalutazione di quello razionalista weberiano, con la riduzione del giuridico a tecnica formale a discapito del suo contenuto razionale[7].

    E tuttavia, dopo solo un anno, ancor prima che il nuovo sistema fosse divenuto operativo, il Ministro della giustizia annunciava l’intenzione di mantenere un sistema unificato, per non esporre la giustizia amministrativa a controversie che avrebbero potuto incidere sulla sua indipendenza o sulla percezione della stessa. La legge n. 61 del 2019 tecnicamente posponeva l’entrata in vigore della legge n. 131 del 2018 che da allora rappresenta una normativa inoperativa ma parte dell’ordinamento giuridico ungherese. Al contrario, l’Ottavo Emendamento alla Legge Fondamentale approvato il 12 dicembre 2019 annullava le relative disposizioni del Settimo emendamento.

    La decisione di fare un passo indietro è stata determinata non tanto dalle resistenze europee, bensì dalla forte opposizione interna alla magistratura, per ragioni non solo ideali ma anche pratiche: la riallocazione di molti giudici delle preesistenti sezioni amministrative, dato il carattere meno centralizzato della geografia giudiziaria delle corti amministrative. Del resto, tale passo indietro non ha comportato la rinuncia a realizzare alcuni obiettivi che la creazione di un sistema di corti amministrative si proponeva. 

    5. L’ultimo capitolo della saga giudiziaria: la “legge insalata” del dicembre 2019

    Con l’approvazione in tempi molto brevi di un disegno di legge presentato lo stesso dicembre, il Parlamento ungherese introduceva una serie disposizioni di ordine procedurale e istituzionale che, nelle pieghe di una normativa eterogenea (legge omnibus, chiamata in maniera folkloristica “legge insalata”), mirava a obiettivi assimilabili a quelli dell’abortita riforma della giustizia amministrativa[8]. Tre aspetti si segnalano in particolare.

    Il primo attiene alla previsione di un ricorso alla Corte costituzionale da parte delle autorità pubbliche le cui competenze siano state lese: una specie di conflitto di attribuzione tra poteri che permette a organi dell’amministrazione di ricorrere alla Corte costituzionale contro decisioni delle corti ordinarie che abbiano annullato un atto amministrativo. Questo schema è costruito sulla base di un precedente della stessa Corte costituzionale, che aveva riconosciuto in via pretoria con decisione n. 23 del 28 dicembre 2018 il diritto della Banca nazionale ungherese di presentare un ricorso costituzionale contro una decisione della Kúria, che era stata poi ritenuta in violazione del principio dell’equo processo. Sostanzialmente, si individua nella Corte costituzionale un tutore delle corti ordinarie nei conflitti che interessino la Pubblica amministrazione.

    In secondo luogo, si prevede la possibilità per un giudice costituzionale di essere nominato, alla scadenza del mandato, come giudice ordinario, anche a ruoli direttivi. Non sono previsti a tal fine particolari requisiti. Anche qui, la Corte costituzionale si configura come un dispositivo indiretto di controllo della magistratura ordinaria e in particolare della suprema giurisdizione ordinaria. Ad alcuni mesi dall’adozione della legge, otto giudici della Corte costituzionale sono stati nominati giudici ordinari. Tra questi, il nuovo Presidente della Kúria András Varga di cui si è detto nel primo paragrafo di questo scritto.

    Infine, si rafforza la “verticale del potere” giudiziario con l’imposizione ai giudici inferiori di articolare i motivi per cui le interpretazioni adottate differiscano da quelle della Kúria, che è organo di revisione secondo il modello tedesco, e non di cassazione. Una deviazione ingiustificata rispetto all’orientamento giurisprudenziale di quest’ultima è presa in considerazione ai fini della valutazione professionale e disciplinare, in ultima istanza ai fini della carriera. Si tratta di un sistema che in maniera spuria si ispira al principio del precedente vincolante proprio dei sistemi di derivazione inglese.

    È opportuno segnalare che proprio da questa previsione ha avuto origine una nota vicenda relativa al procedimento disciplinare nei confronti di un giudice del Tribunale di Pest (Csaba Vasvári) che aveva sottoposto una serie di questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea relative all’indipendenza della magistratura. Il Procuratore generale ungherese aveva presentato ricorso “nell’interesse della legge” e la Kúria aveva ritenuto illegittimo il rinvio pregiudiziale. Dalla dichiarazione di illegittimità era in un secondo tempo derivata una procedura disciplinare nei confronti dello stesso giudice Vasvári, che già aveva visto invalidate dall’Ufficio giudiziario nazionale-OBH due procedure per la nomina alla Corte d’appello di Budapest per le quali aveva presentato candidatura. Vasvári a sua volta aveva operato ulteriore rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con riguardo alla procedura che aveva portato la Corte suprema a dichiarare l’illegittimità delle questioni pregiudiziali e alla procedura disciplinare attivata in conseguenza a tale dichiarazione di illegittimità. Con questo secondo rinvio, Vasvári chiedeva se fosse compatibile con il diritto europeo la dichiarazione di illegittimità da parte di un organo nazionale di una questione pregiudiziale e se fosse possibile sottoporre a procedura disciplinare un giudice per il fatto di aver operato un rinvio pregiudiziale. Come si può immaginare, la Corte di giustizia UE (C564/19) aveva concluso che «l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un procedimento disciplinare sia avviato contro un giudice nazionale per il fatto che quest’ultimo ha presentato alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale». Quello che preme qui evidenziare è però il grave conflitto istituzionale che ha coinvolto i vertici della magistratura ungherese e le corti inferiori.

    6. Conclusioni: la professionalità del giudice come baluardo dell’indipendenza

    Una visione d’insieme delle riforme qui richiamate ci offre l’immagine incrementale ed erratica di due ondate riformatrici successive (2011-2012 e 2018-2019) che riflettono il pragmatismo tipico dell’ideologia politica orbaniana e una concezione del diritto che, pur nel quadro di un apparato formale, appiattisce la dimensione giuridica sulla dimensione politica. Da questo punto di vista, se si ricorre alla tripartizione proposta da Ugo Mattei delle tradizioni e dei sistemi giuridici, il decennio segnala uno scivolamento dalla dimensione del rule of law a quello del rule of politics (by law).

    Alla base di questo scivolamento vi è chiaramente un orientamento ideologico relativo al rapporto tra poteri dotati di legittimazione democratica e contropoteri istituzionali. Nella sua prima esperienza da Primo ministro, tra il 1998 e il 2002, Viktor Orbán aveva del resto espresso simili intenzioni di modifica del modello di governo della magistratura, affermando pubblicamente l’intollerabilità di una configurazione istituzionale di autonomia organizzativa e amministrativa del corpo giudiziario che non rendesse possibile determinare in maniera coerente una politica del diritto governativa.

    Le soluzioni individuate in queste due ondate di riforme tradiscono anch’esse tale opzione ideologica. Ad esempio, la riforma dell’OIT e la creazione dell’OBH sono state giustificate con la scarsa efficienza del sistema di governo esistente e l’eccesso di corporativismo. In effetti, l’OIT si riuniva una sola volta al mese poiché i suoi membri, in particolare quelli togati, continuavano a esercitare le loro funzioni giurisdizionali. Ne derivava l’impossibilità da un lato di prendere decisioni tempestive, laddove necessario, nonché una concentrazione di fatto dell’attività ordinaria dell’organo sotto la responsabilità del suo ufficio direttivo. Si tratta di rilievi – bisogna dire – fondati e rispetto ai quali vi era una convergenza non solo tra gli attori politici ma anche tra gli osservatori critici delle iniziative della maggioranza Fidesz. Alla scarsa efficienza si sarebbe però potuto far fronte attraverso l’introduzione di forme di aspettativa per i giudici nominati membri dell’OIT o l’elezione di giudici che non ricoprissero funzioni direttive; al corporativismo si sarebbe potuto far fronte introducendo consiglieri che fossero rappresentativi di altre professioni giuridiche o della società: proposte evocate anche nel parere n. 663/2012 reso dalla Commissione di Venezia. Sicuramente, i limiti del sistema di governo della magistratura in vigore dal 1997, pur non giustificando le specifiche scelte riformatrici adottate, le hanno però in parte legittimate.

    Vi è poi una spiegazione sistemica che ha a che fare con la debolezza e i difetti della transizione ungherese, inclusa la sovraesposizione della dimensione giudiziaria nell’assunzione di decisioni di sicuro rilievo politico che riflettono un ruolo di supplenza rispetto a un sistema politico (e ai relativi organi di rappresentanza: Parlamento in primis) inefficiente[9]. Tale spiegazione porta a leggere le riforme descritte come reazione: il riaffermarsi del popular constitutionalism dopo una fase di sbilanciamento verso il legal constitutionalism e la difficoltà di trovare un equilibrio tra queste dimensioni. Si tratta, in questo caso, di un insegnamento rilevante per il nostro ordinamento.

    Venendo alla ratio, allo spirito delle riforme, si può dire che l’obiettivo perseguito non sia un controllo totalizzante degli organi giurisdizionali, anche perché il poter rivendicare un certo grado di indipendenza delle corti può essere esso stesso fattore di legittimazione per il sistema politico. Quello a cui si è mirato, in maniera chirurgica, è l’allineamento della magistratura soprattutto nei casi giudiziari più scottanti, laddove possibile. Esistono dunque isole di resistenza nel giudiziario ungherese, sebbene non sia chiaro quale sia la loro concreta estensione.

    Ho richiamato prima i conflitti tra tribunali inferiori e suprema giurisdizione e quelli coinvolgenti l’OIT nella sua nuova configurazione di organo consultivo. Ma prima della nomina di Varga alla presidenza della Kúria (e prima della riforma legislativa che tale nomina ha reso possibile) la stessa Kúria era stata in grado di avere un ruolo assertivo in casi delicati. Il caso relativo alla segregazione scolastica (nota come vicenda Gyöngyöspata) è significativo in tal senso.

    Si è richiamato a questo riguardo il noto paradosso del gatto di Schrödinger: la magistratura ungherese sarebbe allo stesso tempo viva e morta, e la sua reale condizione si manifesta solo una volta che venga aperta la scatola di acciaio. Certo, il biennio 2018-2019 ha costituito un ulteriore irrigidimento, con un aumento della probabilità di trovare il gatto esanime: ma anche in quel caso, rimane difficile dire se il gatto sia morto o solo svenuto.

    In conclusione, l’esame della vicenda più che decennale della riforma della giustizia in Ungheria conferma sia la rilevanza che il giudiziario ha nei sistemi contemporanei, tanto maggiore laddove le istituzioni rappresentative siano inefficienti, sia i rischi collegati a tale rilevanza. Nell’impossibilità di agire sugli elementi di sistema, uno dei modi per rendere il giudiziario più robusto di fronte ai potenziali attacchi esterni (ma anche interni) consiste nel rafforzamento della professionalità del giudice. Non è forse un caso che a questo tema sia stata posta particolare attenzione anche nel nostro ordinamento negli ultimi lustri. Il controllo della magistratura è infatti senz’altro determinato da incentivi di natura istituzionale relativi all’attivazione di forme di accountability – disciplinare, amministrativa relativa alla carriera, alla valutazione, etc. – ma è tanto più efficace quanto più il corpo oggetto di tale controllo si dimostri molle per assenza di un nucleo duro di etica professionale. È forse questa, in definitiva, la lezione più utile che può fornirci l’esame del caso ungherese.

     

    [1] G. F. Ferrari, La nuova Legge fondamentale ungherese, Torino, Giappichelli, 2012; A. Arato – G. Halmai – J. Kis (cur.), Contitution for a Disunited Nation. On Hungary’s 2011 Fundamental Law, Budapest, CEU Press, 2012.

    [2] S. Benvenuti, La riforma del sistema giudiziario ungherese tra recrudescenze autoritarie e governance europea, in Nomos. Le attualità nel diritto, 2012, 3, pp. 1-20.

    [3] D. Kosař – K. Šipulová, The Strasbourg Court Meets Abusive Constitutionalism: Baka v. Hungary and the Rule of Law, in Hague Journal on the Rule of Law, 2018, 10, pp. 83-110.

    [4] S. Benvenuti, La riforma del sistema giudiziario ungherese, cit., p. 8 ss.

    [5] A. Patyi, Rifts and deficits – lessons of the historical model of Hungary’s administrative justice, in Institutiones Administrationis. Journal of Administrative Sciences, 2021, 1, pp. 60-72.

    [6] R. Uitz, An Advanced Course in Court Packing: Hungary’s New Law on Administrative Courts, in Verfassungsblog, 2 gennaio 2019.

    [7] S. Benvenuti, Libertà accademica, politiche dell’istruzione superiore e processi costituzionali Riflessioni a partire dal caso ungherese, in G. Caravale – S. Ceccanti – L. Frosina – P. Pichiacchia – A. Zei, Scritti in onore di Fulco Lanchester, Napoli, Jovene 2022, pp. 157-176.

    [8] V. Z. Kazai – A. Kovács, The Last Days of the Independent Supreme Court of Hungary?, in Verfassungsblog, 13 ottobre 2020.

    [9] W. Sadursky, Constitutional Courts, Individual Rights, and the Problem of Judicial Activism in Postcommunist Central Europe, in J. Přibáň – P. Roberts – J. Young, Systems of Justice in Transition. Central European Experiences since 1989, Aldershot, Ashgate, 2003, p. 19, G. Halmai, Who is the Main Protector of Fundamental Rights in Hungary? The Role of the Constitutional Court and the Ordinary Courts, in J. Přibáň – P. Roberts – J. Young, Systems of Justice in Transition, cit., p. 50 ss. G. Halmai, The Transformation of Hungarian Constitutional Law, in A. Jakab – P. Takács – A. F. Tatham, The Transformation of the Hungarian Legal Order 1985-2005, Aalphen aan den Rijn, Wolters Kluwer, p. 5 ss.; A. Sajo, The Judiciary in Contemporary Society: Hungary, in Case Western Reserve Journal of International Law, 1993, 2, p. 293.

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