GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Contract e contracts nel diritto inglese: la rilevanza della buona fede*  di Mario Serio

    Sommario: 1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese ‒ 2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese ‒ 3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale ‒ 4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive.

    1. L’accezione plurale o singolare del contract inglese

    La questione dell'uso alternativo, se non contrapposto, del termine “contract” al singolare o al plurale nel common law inglese non sembra riflettere, secondo una diffusa opinione[1], il medesimo, stringente e fascinoso carattere che essa è solita rivestire nei principali ordinamenti del continente europeo. Ciò non toglie, tuttavia, che la questione stessa riemerga vivacemente con riferimento ad istituti e figure del law of contract rispetto ai quali il motivo dominante è rappresentato dalla loro possibile riconducibilità a criteri o principii di natura generale e dei quali si possa predicare un'immanente ed ineliminabile presenza nelle pieghe ordinamentali, come il tema della buona fede (good faith), di cui più avanti si tratterà, chiaramente dimostra.

    Ridotta al suo nucleo essenziale la dicotomia contract-contracts deve preliminarmente rispondere alla domanda che ne costituisce il logico presupposto, ossia come si configuri, ed a quali fini ubbidisca, una declinazione del termine al singolare, che ne rappresenterebbe la capacità di descrivere l'essenza della figura nelle potenziali esplicazioni dell'esperienza giuridica.

    Prima di accedere al territorio del contract, giova rimuovere il sospetto che anche in altre aree del diritto privato inglese di non minor rilevanza si registri un'analoga tendenza a lasciar convivere in esse, ed adottando un lessico familiare al giurista italiano, una parte generale (declinata al singolare) ed una parte speciale (declinata al plurale), allo scopo di rinvenire tra loro un rapporto bilanciato di vicendevole preminenza di una delle due declinazioni. È di ausilio al proposito il richiamo del fondamentale capitolo dedicato alla responsabilità civile, condensato attorno alla figura del tort, concepito come oggetto di un'apposita branca sia singolarmente sia pluralisticamente considerata (rispettivamente law of tort o law of torts). Nelle famose lezioni indiane di Tagore dei primi anni '30 del secolo scorso[2], uno dei più eminenti studiosi inglesi, Winfield, autore di uno dei più celebrati manuali in materia[3], si intrattenne memorabilmente attorno alla competizione tra i due modelli linguistici (che naturalmente celavano ben più profonde divaricazioni concettuali) cogliendo il fondamento del dilemma nella (da lui ritenuta) attitudine del common law alla elaborazione di una teoria generale della responsabilità da fatto illecito radicata su principii fondativi e sull'esistenza di una clausola generale per la relativa affermazione (il duty of care coevamente sancito dalla House of Lords nel fondamentale caso Donoghue v Stevenson[4]) in antagonismo con una concezione atomistica poggiante sull'autonomia disciplinare e strutturale delle singole figure, insuscettibili di attrazione in un unico recipiente. Visione, questa, che attrasse opposti orientamenti dottrinari e giurisprudenziali miranti ad esaltare la atipicità e la individualità delle singole figure di torts non attenuate dal comune riconoscimento della presenza di uno statuto basilare imperniato sulla accertata violazione del dovere di non recare ad altri un danno ingiusto. Dovere da coniugare, tuttavia, con ciascuno degli spicchi del caleidoscopio “tortious”, ciascuno contrassegnato da specificità irripetibili che largamente risentono degli attributi propri del singolo bene protetto.

    Questo si dice per segnalare non già una perfetta assimilabilità tra due delle principali componenti del diritto privato inglese, in effetti smentita da una tradizione di concentrazione dell'attenzione sulle singole figure di tort, quanto per sottolineare la ciclica riproposizione di un'indagine metodologica rivolta alla scoperta di un patrimonio comune ed autosufficiente di principi e regole di disciplina applicabili ad entrambe.

    Tornando al contract ben può dirsi che vige, soprattutto in dottrina, una concezione funzionalista diretta alla individuazione dei fini che la sua parte generale ed il correlato corteo di principii sono chiamati ad assolvere. Fini consistenti nel compimento di una molteplicità di operazioni logiche ed epistemologiche munite di idoneità contraddistintiva dell'istituto contrattuale: la identificazione dei requisiti del contract e degli elementi distintivi rispetto ad una promessa giuridicamente non vincolante (ma, in ipotesi, solo moralmente impegnativa); i criteri per pervenire alla definizione del suo contenuto; la disciplina delle conseguenze del mancato rispetto delle obbligazioni contrattualmente assunte e dei rimedi connessi. L'essenzialità e la relativa esiguità dei temi che concorrono a dar vita al “general law of contract” possono spiegarsi impiegando punti di osservazione diversi. In primo luogo, deve ritenersi, concordemente all'accreditato orientamento dottrinario imperante, che innegabile influenza sia stata esercitata dalla mancata recezione del modello romanistico e dalla conseguente ripulsa di una autonoma categoria concettuale rispondente alla denominazione di “special contracts”, accolta nei sistemi giuridici di civil law. In secondo luogo, ha contribuito alla solida costituzione di un plesso ordinamentale sorretto da pilastri di ampia portata la condivisa aggregazione di plurime regole operazionali sufficienti ad assicurare ordinariamente l'uniforme regolamentazione dell'archetipo contrattuale in sé considerato, indipendentemente dalle concrete raffigurazioni potenzialmente riscontrabili nelle singole figure di accordo negoziale vincolante. Basti al riguardo pensare all'omogeneo corpo normativo, tanto di origine giudiziale quanto di derivazione legislativa, che scandisce le evenienze più rilevanti nella vita fisiologica o patologica del contract, afferente, ad esempio, al processo della sua formazione, alla sua fase interpretativa, al momento dell'inattuazione, alle opzioni rimediali: esso è capace di universale applicazione alla categoria generale del contract, manifestando al contrario natura residuale ed eccezionale le ipotesi di adozione di uno statuto disciplinare dedicato a singole “species” (quali quelle di vasto impatto nel settore dei rapporti contrattuali ascrivibili al fenomeno consumeristico), reputate meritevoli di un trattamento particolare in ragione, ad esempio, delle condizioni soggettive delle parti e della correlata necessità di superare connaturali posizioni di squilibrio (come, ad esempio, è stato deputato ad assicurare il Consumer Rights Act del 2015). Seguendo questa logica è comunemente estranea al common lawyer la propensione euristica, tipica del suo omologo continentale, del “nomen iuris” da attribuire, a fini regolamentari, alla singola fattispecie contrattuale che gode nel common law del beneficio di una cornice adeguatamente ampia e capiente di principii e regole adottabili di norma nel singolo caso. Un campo in cui è peculiarmente avvertita la linea uniformatrice in questione è non accidentalmente quello delle tutele e dei rimedi garantiti nell’evenienza di inadempimento ad una platea pressoché globale di situazioni: ciò che ha indotto le Corti giudicanti a resistere alla tentazione di elevare una rigida barriera divisoria, sia in senso dogmatico sia nelle implicazioni pratiche, tra “special” e “general contracts”. Anche il terreno dell'ermeneutica contrattuale è avvinto alla medesima tensione unitaria, la cui manifestazione più evidente e sicura viene fornita dalla salda adesione al metodo informatore dell'accertamento della volontà delle parti secondo standard di pura oggettività piuttosto che in omaggio alla superiorità della “voluntas” sui “verba”. Allo stesso modo la possibilità dell'integrazione del contenuto contrattuale alla stregua di quel caratteristico modo di operare sussunto sotto il nome di “implication of terms” nelle sue varie dimensioni (giudiziale, normativa, consuetudinaria) viene esperita secondo precise ed omogenee regole che in via normale non soffrono apprezzabili deroghe con riferimento alle fattispecie contrattuali individuali. Inevitabili e logicamente conseguenti sono le forme di redazione dei testi contrattuali, usualmente calibrati secondo la prospettiva del loro assoggettamento ad un trattamento che scaturisce da un codice concettuale tendenzialmente uniforme.

    La descritta affezione del common law inglese ad una visione globale del contract (una delle cui esplicitazioni è rappresentata dal tradizionale uso del termine al singolare) e la diffidenza che ne discende nei confronti di una rigida categorizzazione anche in termini dogmatici dei singoli tipi contrattuali non comporta, tuttavia, che seri problemi non campeggino con riferimento alla possibilità di arricchire il catalogo dei principii generali integrandoli di loro controversi fattori esponenziali. Sorge, pertanto, il problema, tutto interno al “general law of contract”, di determinarne perimetro e componenti al fine di offrire un quadro affidabile e stabile all'osservatore esterno.

    In questa complessa e mai compiutamente risolta sfera definitoria si colloca certamente in posizione di assoluta importanza la vicenda della rilevanza ed ammissibilità, tra quelli caratteristici del “contract”, del principio di buona fede, concepito nella duplice veste soggettiva ed oggettiva cui gli ordinamenti di civil law sono avvezzi, rispettivamente secondo i parametri della correttezza e della ignoranza di circostanze perturbatrici della validità ed efficacia contrattuale.

    Ci si trova senza dubbio di fronte ad uno dei capitoli più tribolati e divisivi del diritto privato inglese, e di quello contrattuale in particolare, di cui è necessario tentare di cogliere brevemente genesi, occasioni di inveramento, soluzioni e linee prospettiche.

    2. La partecipazione della buona fede al sistema dei principii generali del law of contract inglese

    La storia della good faith quale parte integrante della teoria del contract inglese nonché dei suoi principii generali debutta sotto i più promettenti auspici in virtù di una pronuncia resa nel 1766 nel caso Carter v Boehm[5] da uno dei più noti e lodati Giudici che abbiano operato in quell'ordinamento, Lord Mansfield, di origini scozzesi. Il riferimento anagrafico non è privo di significato poiché ne denuncia ‒ in aderenza alla tradizione culturale dell'ordinamento del Paese di provenienza ‒ la spiccata vicinanza al mondo del civil law continentale e specialmente alle sue radici romanistiche, rendendo del tutto naturale la proclività a dare centrale rilievo alla buona fede in ambito contrattuale. Ed invero, decidendo su una controversia avente ad oggetto la condotta richiesta alle parti di un contratto di assicurazione in termini di disvelamento di circostanze refluenti sul consenso prestato alla conclusione del negozio, il Giudice ritenne che la disputa dovesse trovare governo secondo il canone della buona fede, in quanto applicabile ad ogni tipo di contratti ed accordi negoziali. Egli procedette anche ad una puntuale descrizione del contenuto di quello che veniva enunciato alla stregua di un obbligo di matrice contrattuale, chiarendo che esso proibisce a ciascuna delle parti di nascondere i fatti di cui sia a privata conoscenza onde non indurre l'altra, inconsapevole, ad una stipulazione cui non sarebbe altrimenti giunta, nel senso che l'impulso alla manifestazione del consenso era proprio dato dalla mancata conoscenza delle circostanze artatamente taciutegli[6].

    Un così felice esordio, che poneva il common law inglese in stretto connubio con i sistemi continentali, fu bruscamente contraddetto dal pensiero, proiettatosi soprattutto nei repertori giurisprudenziali, affermatosi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ovverosia nel periodo fondativo di una teoria del contract del tutto speculare a dottrine economiche volte a privilegiare l'assoluta libertà di scambio in una pretta logica individualista di perseguimento del profitto e del self-interest. Fu così che iniziarono a svilupparsi, perfezionarsi, consolidarsi, scolpirsi concezioni espulsive della good faith dalla tavola dei principi generali del contract, avvalorate da una serie di molteplici argomenti, nessuno dei quali completamente scomparso perfino dalla odierna scena.

    Le maggiori opere trattatistiche sul contract sono solite convenire, forti anche del concorde apporto giurisprudenziale, sull'elenco delle ragioni principali che hanno portato alla consueta affermazione secondo cui “there is no generale doctrine of good faith in the English law of contract[7], vuoi nella fase prodromica delle trattative, vuoi in quella esecutiva, vuoi, infine, in quella eventualmente modificativa dell'accordo originario. La rassegna degli ostacoli ad un riallineamento dell'esperienza inglese a quella degli ordinamenti continentali permeati dagli insegnamenti romanistici non può che porre al proprio apice un peculiare tratto di quell'ordinamento, in molti casi ingenerosamente enfatizzato a detrimento di una appropriata conoscenza critica del common law inglese, cui per questo è stata non convincentemente negata l'attitudine a nutrirsi di forme di conoscenza tassonomicamente orientate ed alimentate dal ricorso alle categorie mentali del fenomeno giuridico[8]. E tale severa opinione continua ad incontrare larga fortuna fra i giuristi stranieri, incoraggiati anche da talune posizioni inglesi che lambiscono addirittura l'autodenigrazione. Si tratta della diffusa riluttanza della giurisprudenza inglese ad accogliere nel proprio “legal reasoning” metodi argomentativi basati su generalizzazioni concettuali e principii astratti, classe definitoria cui apparterrebbe la buona fede. Può, tuttavia, osservarsi incidentalmente al riguardo che nelle sparute pronunce e nei non rari contributi dottrinali di apertura all'ingresso della good faith nel domain del contract si è sapientemente rifuggito il pericolo grazie ad una fruttuosa concretizzazione dei margini del suo possibile intervento nei vari casi di specie, ad esempio ancorandolo a postulazione di condotte delle parti contrattuali ispirate all'onestà o all'accettabilità nel mondo degli scambi giuridici o, ancora, all'obbiettivo di concorrere a conferire efficacia agli accordi commerciali. Si addebita poi al canone in parola l'alone di incertezza in ordine alla determinazione del preciso contenuto del connesso obbligo che da esso promanerebbe, con nocumento alla chiara circoscrizione dei rapporti tra le parti. Anche a diluizione di questo stigma si è levata alta e limpida l'autorevolissima voce del compianto Lord Bingham[9], campione del pensiero liberal-progressista, che, in una celebre sentenza della Court of Appeal del 1989[10]  fece immaginifico ricorso ad esemplificazioni vivide e tratte dalla quotidianità delle relazioni giuridicamente rilevanti per incanalare l'opera dell'interprete verso l'approdo definitorio della good faith in uno specifico ambito contrattuale poi degenerato nella sfera litigiosa. Difficilmente potrebbe pensarsi a prosa più duttile nella costruzione di un benefico ponte tra la pratica dimensione della vita umana e la sua valutazione in sede giudiziale: si esemplificò la natura dello spazio occupato dalla buona fede nella vicenda contrattuale attribuendole l'idoneità a convertirsi in precetti e regole semplici, quali il “fair play” comportamentale, il dovere di mantenere le “mani pulite” (clean hands) nel corso di ciascuna delle frazioni di cui si compone complessivamente il contract, l'esigenza di “giocare a carte scoperte”[11]. L'acume dell'intuizione è testimoniato dal credito costantemente accordatole dalla letteratura giuridica successiva

    Ed infine, la sommaria lista dei motivi dell'ostilità (tale essendo stata spesso esplicitamente proclamata) del common law inglese ‒ a differenza di quelli statunitense ed australiano  ‒  ad ospitare la buona fede all'interno della teoria generale del contract contempla l'accusa di incompatibilità con la genuina natura del legame che deve reggere i rapporti tra le parti: essa fu molto recisamente delineata nel 1992 dalla House of Lords nel caso Walford v Miles[12], per bocca di Lord Ackner ,da cui provennero parole del peso di macigni per confutare l'ipotesi dell'ingresso della good faith nella traiettoria del contract. Egli affermò con piglio intransigente che l'idea secondo cui le trattative contrattuali debbano ispirarsi al dovere di buona fede intrinsecamente ripugnerebbe alla posizione di antagonismo assunta dalle parti interessate al negoziato[13].

    È di innegabile evidenza la frattura tra questa posizione, condivisa da tutti gli altri componenti il collegio della House of Lords, ed il ragionamento arioso e sensibile ad una visione in senso solidaristico del rapporto contrattuale espressa da Lord Bingham: lungi dal provocare un’insuperabile situazione di stallo il conflitto ha animato apprezzabili riflessioni dottrinarie e rinnovate energie giurisprudenziali indirizzate al recupero del dialogo tra common law inglese e civil law.

    3. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinari inglesi favorevoli al (limitato) riconoscimento del principio di buona fede contrattuale

    Di tali contro-tendenziali posizioni va dato un sommario cenno per fugare la falsa impressione che le acque nel canale della Manica siano irrimediabilmente stagnanti, per quanto ancora tutt'altro che inarrestabilmente fluenti.

    Due esempi possono utilmente essere esibiti della vitalità tutt'altro che rassegnata di parte della dottrina e della giurisprudenza al destino dell'irreversibile incomunicabilità delle due principali famiglie giuridiche europee in relazione al principio della buona fede contrattuale in ognuno dei profili in cui la vicenda rapportuale è destinata a snodarsi.

    Perché, in effetti, alla radice delle concezioni favorevoli ad una tensione incrementale dei principi generali del contract inglese platealmente si scorge il dichiarato proposito ‒ sciaguratamente compromesso dagli esiti referendari del giugno 2016 ‒ di riconsiderare in senso armonioso il tessuto relazionale tra common law e civil law, restituendo fiducia all'idea della imprescindibilità del risultato nella prospettiva della edificazione di una prospera e duratura stagione di Koinè giuridica europea.

    Esattamente in questa fervida scia culturale si inserisce il pensiero di una delle più qualificate ed aperte menti giuridiche inglesi, Ewan Mc Kendrick[14], che, coltivando l'ottimismo della volontà, esclude l'esistenza di un abisso incolmabile tra i due sistemi ordinamentali a confronto. Nel denunciare come fattore impediente la radicata avversione del diritto inglese nei confronti dei principii generali, l'Autore considera, d'altro canto, che quell'ordinamento ha sempre intessuto un discorso al quale l'idea della buona fede non è stata sostanzialmente estranea.  Su questa scia un altro studioso[15] icasticamente scrive che i fondamenti della buona fede possono scovarsi tra la polvere del common law. In particolare, viene ridimensionata, se non addirittura rigettata, l'impressione che il law of contract inglese sia strutturalmente incapace di recepire, al di là dei vezzi nominalistici, il precipitato sostanziale della figura. Fanno fede di questa disponibilità all'assorbimento del contenuto effettivo del principio di buona fede contrattuale quale predicato negli ordinamenti continentali numerosi esempi di tipi contrattuali ai quali in modo naturale e pressoché meccanico corrisponde il crisma della loro disciplina secondo il canone della buona fede oggettiva. Ed infatti, sono note ed indiscusse figure contrattuali la cui conformazione è sempre stata concepita in funzione di indissolubile nesso con i contenuti essenziali della buona fede, tra i quali indubbiamente spicca il sostrato fiduciario che costituisce la linfa del solidissimo paradigma dei contratti “uberrimae fidei”, normalmente riferibili ai rapporti assicurativi, come la risalente pronuncia di Lord Mansfield decisivamente conferma.

    Ora, queste osservazioni suggeriscono la conclusione che il principio di buona fede debba proseguire il proprio cammino orientato al rafforzamento delle proprie basi in termini sia giuridici sia etici. Lungo questo speranzoso itinerario si innesta il pensiero di altro autorevole teorico, Hugh Collins[16], che esprime la convinzione, ovviamente spalmata nel non breve periodo, che il common law inglese alla fine debba essere costretto a cedere ad una concezione ideale maggiormente connotata in senso europeo, quale quella, emergente dalla direttiva comunitaria 93/13 in maniera pressoché letterale trasposta in quell'ordinamento[17] e dall'Unfair Contract Terms Act inglese del 1977, diretta all'equo bilanciamento dei rapporti tra consumatori e professionisti, altro terreno di elezione in vista della piena esplicazione delle robuste potenzialità della good faith contrattuale.

    Vagiti giurisprudenziali, che pure si è tentato di soffocare rudemente da parte dei gradi superiori di giurisdizione, vanno recentemente e con soddisfazione registrati, anche in ragione del prestigio del Giudice da cui provengono, nel frattempo promosso al rango di componente effettivo della United Kingdom Supreme Court, nelle prime istanze giudiziarie.

    Va, infatti, ricordata con il dovuto apprezzamento la sentenza pronunciata nel 2013 dall'oggi Lord Leggatt, che allora sedeva nella High Court (dalla quale fu elevato “per saltum” al grado finale di giurisdizione britannica), nel caso Yam Seng v International Trade Corporation Ltd[18]. In essa furono esaminati da un angolo visuale particolarmente affilato alcune delle maggiori questioni attorno alle quali si dipana il dibattito concernente la buona fede contrattuale.

    Nella fattispecie, l'oggetto della lite consisteva nella domanda tendente alla dichiarazione della sussistenza di un inadempimento legittimante la risoluzione di un contratto di distribuzione di prodotti di profumeria ed al risarcimento del danno: al fine della qualificazione delle circostanze dedotte quali indici dell'inadempimento stesso il Giudice adottò un criterio improntato al principio di buona fede oggettiva nel senso continentale di correttezza e lealtà comportamentale. La sentenza rivela la profonda consapevolezza di una persistente contrarietà del mainstream culturale inglese alla introiezione di un siffatto principio generale ed integra l'appena esposto impianto argomentativo dottrinario, del tutto condiviso, con due ulteriori, realistiche precisazioni. La prima si concentra sulla preferenza abitualmente accordata dalla giurisprudenza inglese a soluzioni meglio rispondenti alle necessità del caso concreto indipendentemente dal loro possibile inquadramento dogmatico: il che equivale a dar forza al concetto espresso da Mc Endrick circa una strisciante, seppur non dichiarata, presenza del principio di buona fede nelle pieghe del sistema e soprattutto nella prassi, almeno ogni volta che la sua affermazione serva la causa della giustizia del caso concreto da decidere. Il successivo passaggio analitico della pronuncia di Lord Leggatt punteggia con brillante sguardo di introspezione psicologico il problema. Esso allude ad un intimo contrassegno del contract inglese e delle aspettative che su di esso convergono ad opera delle parti per poi essere valorizzate in sede giudiziale: esplicitamente si parla dell'etica individualistica, che presiede agli scambi commerciali realizzati attraverso il veicolo contrattuale, fortemente sostenuta ed approvata dalla giurisprudenza che reiteratamente nel tempo mira alla preservazione degli accordi raggiunti per il soddisfacimento degli interessi individuali delle parti, con la sola eccezione ‒ che di per sé esclude la rilevanza del criterio della buona fede sia al momento della conclusione sia in quello dell'esecuzione del vincolo ‒ delle ipotesi di mancata osservanza, obiettivamente verificabile, delle clausole obbligatorie. In questo articolato e lucidamente illustrato contesto la sentenza si accosta con risolutezza ed evidente empito solidaristico al tema razionalmente collegato al mancato riconoscimento di un principio generale di buona fede contrattuale: la strada prescelta per colmare una lacuna giudicata inconciliabile con una veduta evoluta ed al passo con le altre esperienze giuridiche europee implicitamente circolanti nel testo è stata quella di scardinare la contraria blindatura concettuale con l'utilizzazione del prezioso meccanismo, già ricordato, dell'integrazione del contenuto mediante l'apposizione di patti impliciti (implied terms) nella misura e secondo la latitudine suggerite dalle particolarità del singolo caso. A ben vedere è stata data piena conferma, ospitandola nel corpo motivazionale della sentenza, all'arguta osservazione di Lord Bingham che, nel generoso tentativo di ammortizzare i perniciosi effetti di un inveterato atteggiamento negativo rispetto al principio generale di buona fede, poneva nel debito (e consolatorio) rilievo la sperimentata capacità del diritto inglese dei contratti di supplire a tale endemica carenza percorrendo la soluzione di statuirne la silenziosa, per quanto frammentaria, presenza laddove si fosse di fronte a dimostrate situazioni di sostanziale iniquità negoziale (ad esempio facendo leva sul criterio di ragionevolezza, come appropriatamente notato in linea generale da un nostro illuminato comparatista[19]), malgrado il ripudio del superiore principio che esige che le parti contrattuali debbano in ogni fase agire in buona fede[20]. Di fronte al prolungato inceppamento dello strumento della generosità mentale e dell'apertura al modello dell'Europa continentale la High Court si è spinta al passo di affermare che la presenza della buona fede ben può essere oggetto di ricognizione giudiziale in preciso rapporto al contesto negoziale ed agli effetti che ne discendono: contesto che deve indurre l'interprete a pretendere dalle parti un contegno onesto, in primo luogo palesato dalla ripulsa di qualunque forma di condotte astutamente decettive in danno dell'altra parte, quali il calcolato silenzio serbato relativamente a circostanze rilevanti, la mancata dolosa rivelazione di informazioni essenziali, con speciale riguardo alla categoria di contratti con originalità ‒ almeno per il common law inglese ‒ appellati “relational” come tributo alla loro intrinseca natura fiduciaria. La svolta concettuale impressa da Lord Leggatt ha comportato la redazione di un importante codicillo che la completa, donandole una anche maggior perspicuità: si dice, infatti, che il dovere comportamentale commisurabile al parametro della buona fede imposto alle parti contrattuali va ragguagliato al comune programma negoziale, cui non è, pertanto, consentito attentare adibendo la via obliqua di condotte arbitrarie, capricciose, irragionevoli, in una parola irrazionali.

    In questa sede è necessariamente postulato un doveroso tributo all'aria nuova che si respira e circonda la good faith, finalmente affrancata dalle strettoie dell'egoismo contrattuale, che l'avevano relegata all’angolo, e liberata verso un orizzonte prossimo ai valori della leale collaborazione anche nella sfera delle relazioni interindividuali: così, peraltro, raggiungendo un altro commendevole traguardo, quello dell'ingegnerizzazione di nuovi tramiti di collegamento tra common law e civil law, di sicuro foriera di stabilità e prevedibilità nei traffici internazionali.

    La nota dolente, ma non tanto da dover provocare sentimenti di sfiducia nell'affermazione di un moderno progetto di ripensamento dello strumento contrattuale in chiave di reciproco rispetto tra le parti, che va trascritta in questa sede è data dalla pronuncia adottata dalla Court of Appeal nel 2016 (annus horribilis, come prima detto) nel caso MSC Mediterranean Shipping Company v. Cottonex Anstalt[21]. Particolarmente acuminati e polemici sono stati gli aculei gettati nella propria opinione, ed evidentemente scagliati alla volta di Lord Leggatt (non ancora asceso alla Supreme Court: il che può fornire un'eloquente spiegazione della durezza verbale) dal Giudice Moore Bick, cui si sono associati gli altri due componenti il Collegio, nella propria opinione. Questa, infatti, non ha esitato ad additare i pericoli insiti nel riconoscimento di un principio generale di buona fede che, ove invocato, potrebbe alternativamente essere utilizzato dalle parti con l'obiettivo di indebolire l'impianto contrattuale o di proporne un'interpretazione corriva per piegarlo ai propri interessi. Pericoli definiti non dissimili da quelli generati da una concezione troppo liberale (e qui il riferimento critico alla posizione di Lord Leggatt è trasparente) dell'ermeneutica contrattuale condotta all'insegna dell'integrazione del contenuto delle clausole che sarebbe stata severamente respinta dalla Supreme Court nel caso Arnold v Britton del 2015[22], che però registrò una fiera opinione dissenziente di Lord Carnwath[23].

    Anche la recentissima, già citata, sentenza della Supreme Court (in una composizione che non comprendeva Lord Leggatt) nel caso Pakistan International Corporation v Times Travel[24] non lascia trasparire sostanziali modifiche della posizione appena riportata della Court of Appeal nel 2016. Tuttavia, un non trascurabile spiraglio non va ignorato nell'opinione di Lord Burrows, l'unico dei Giudici supremi di accreditatissima provenienza accademica. Egli, infatti, pur dichiarando di temere l'ingresso nel law of contract di un principio di buona fede ancorato al criterio dell'accettabilità nel mondo del commercio o della irragionevolezza delle condotte delle parti, ha ritenuto che le circostanze del caso concreto, di fronte alle quali era stata prospettata la possibile fruizione del canone di cui si discute, potessero trovare un'adeguata e soddisfacente risposta mediante l'applicazione delle regole proprie di altro istituto (quello della violenza economica o “economic duress”) quale efficace antidoto alla lamentata condotta prevaricatrice di una delle parti, così in pratica riproponendo il brillante metodo argomentativo di Lord Bingham che pone al centro della scena il bisogno di non lasciare prive di tutela rimediale le posizioni delle parti reputate meritevoli.

    4. Brevi considerazioni conclusive e riassuntive

    L'esposizione che precede indirizza verso un discreto numero di considerazioni a cerchi concentrici di differente diametro, dei quali si dà adesso in energica sintesi conto.

    Va, innanzitutto, ribadita perché assodata e resistente nel tempo la configurazione del diritto contrattuale inglese come ruotante attorno ad un nucleo agevolmente percettibile di principii e regole di generale applicazione, solo derogabili o integrabili a cagione di situazioni di speciale e contingente natura, di estensione tale, comunque, da non dar vita ad un autonomo corpo normativo o giurisprudenziale. Da qui sorge l'opportuno mantenimento di una declinazione al singolare della branca del diritto privato inglese in questione, cui va accreditato uno statuto ben strutturato e di sicura e vasta applicazione che non richiede la parallela formazione di uno “special law of contract(s)”. Destino, questo, che diversifica in maniera sensibile la disciplina del contract da quella, pluralistica e differenziata, dei torts e del loro apparato dogmatico e pratico.

    Del tutto rientrante nei confini tematici dei principi generali del law of contract inglese risulta, pertanto, l'indagine vertente sulla plausibilità dell'idea di ricondurvi una nozione, quale quella di buona fede, che reca l'indelebile marchio della risalenza storica agli ordinamenti di matrice romanistica. Sostanzialmente univoci sono i risultati, conseguiti anche sulla piattaforma della frequenza statistica, della ricerca, riassumibili nella trita proposizione ricavabile dal common law latamente inteso che stentoreamente rigetta l'esistenza di un generale principio di buona fede ascrivibile al law of contract. Di eguale, ripetitiva regolarità appaiono le ragioni addotte per giustificare quella che a buon titolo, desumibile dalla comparazione con gli ordinamenti di civil law europeo, può definirsi una posizione eccentrica. Se si volesse approdare ad una formula risolutiva ben si presterebbe quella che si impernia sulla strenua difesa che l'ordinamento inglese intende spendere, a causa della reiezione del “good faith principle”, al più augusto degli architravi del contract, quello che ne preserva la “sanctity”, nella accreditata accezione di santuario dell'autonomia negoziale privata inviolabile da incursioni esterne che siano intese ad una destrutturazione o anche ad una ristrutturazione indebita del suo contenuto. E tra i fattori potenzialmente nocivi per la tenuta del fortilizio viene costantemente annoverata la buona fede, cui viene conferito il temibile attributo della rimodellabilità in senso imprevedibile ed imponderabile del suo tessuto testuale. Corredano questa generica fobia ragioni minori ed ancillari, seppur dissimulate come di pari forza, rappresentate quali ulteriori baluardi per la salvaguardia dell'intangibile volontà delle parti. Questa sarebbe messa a repentaglio dalla vacuità delle implicazioni che potrebbero trarre origine dall'affermazione del canone della buona fede. Su questa linea da oltre un secolo e mezzo la giurisprudenza inglese, che ha potentemente condizionato buona parte del pensiero dottrinario, dimentica dei contrari precedenti dell'ultimo quartile del 1700, si è attestata in modo intransigente e chiuso.

    Tuttavia, crescenti raggi solari, favoriti dall'influsso dell'“exemplum” europeo vanno vantaggiosamente infiltrandosi nelle maglie finora ritenute impenetrabili dell'ostinato rifiuto di asilo alla osteggiata esule dal “legal discourse” inglese. La potenza di questa luce non va calcolata nel breve periodo ‒ come senza riserve ammettono gli stessi fautori di questo processo rinnovatore ‒ ma va auspicabilmente proiettata nel futuro in ragione della persuasività degli argomenti che la suffragano. Questi si distinguono non solo per la loro naturale inerenza alla promozione della dimensione extra-individuale del mezzo contrattuale e per la conseguente aderenza ad un progetto negoziale attento alla protezione di valori di fatto racchiusi nel corpo vivo della costituzione materiale inglese. Tali argomenti possiedono un pregio ancor più avvolgente ed edificante, tanto più apprezzabile nell'amaro tempo presente di disgregazione dell'unità istituzionale europea seguita alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europe con conseguenze globali allo stato difficilmente computabili. Resta, infatti, tuttora spianata e percorribile la strada del ravvicinamento giuridico, che la graduale recezione del principio di buona fede contrattuale nel common law inglese (coraggiosamente avallata anche da esemplari figure di Giudici e dalle loro indimenticabili opinioni individuali) certamente renderebbe più pervia e luminosa: direzione ormai da tempo e con sicurezza imboccata dagli ordinamenti statunitense ed australiano che non mostrano affatto segni di ravvedimento, premendo, al contrario, molto insistentemente sul confratello inglese perché salutarmente li emuli[25].


    *Il testo costituisce la rielaborazione della relazione tenuta all’Accademia dei Lincei il 29 novembre nel corso dell’incontro di studio "Il contratto o i contratti", organizzato dalla SSM.

    [1] J. Cartwright, Contract Law. An introduction to the English law of contract for the civil lawyer, London, 2016, p. 57 ss.

    [2] P. Winfield, The province of the law of tort, Cambridge, 1931.

    [3] Winfield & Jolowicz on Tort (20th ed), edited by James Goudkamp, Donal Nolan, UK, 2020.

    [4] [1932] AC 562.

    [5] [1766] S.C. 1 Bl. 593.

    [6] “Good faith forbids either party by concealing what he privately knows, to draw the other into a bargain, from his ignorance of that fact, and his believing the contrary”.

    [7] La suddetta affermazione è presente anche nel caso Times Travel, deciso dalla Supreme Court il 18 agosto 2021, su cui ci si soffermerà in seguito (infra, par. 3).

    [8] M. Serio, Il ricorso alle legal categories nell'esperienza del diritto privato inglese, in Europa e diritto privato, 2010, pag. 511 ss.

    [9] Autore di The rule of law (London, 2008) autentico manifesto della democrazia liberale inglese e della sua epifania giudiziale.

    [10] Interfoto Picture Library Ltd v Stiletto Visual Programmes Ltd [1989] QB 433 (CA) 439.

    [11]  “Putting one's cards face upwards on the table”.

    [12] [1992] 2 AC 128.

    [13]  “The concept of a duty to carry on negotiations in good faith is inherently repugnant to the adversarial position of the parties when involved in negotiations”.

    [14] E. Mc Kendrick, Good faith: a matter of principle, in Good faith in contract and property, a cura di A.D.M. Forte, Oxford, 1999, p. 39 ss.

    [15] M. Clarke, The common law of contract in 1993: is there a general doctrine of good faith?, in Hong Kong Law Journal, 1993, p. 318.

    [16]  H. Collins, Good faith in European contract law, in Oxford Journal of legal studies, 1994, p. 229 ss., ed in particolare p. 254.

    [17] Il riferimento è alle Unfair Terms in Consumer Regulations del 1999 (SI 1999/2083).

    [18] [2013] EWHC 111 (QB).

    [19] G. Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv.dir.civ., 1984, p. 709 ss., ed in particolare, p. 721 ss.

    [20] “English law has not committed itself to the overriding principle that in making and carrying out contracts parties should act in good faith: it has developed piecemeal solutions in response to demonstrated problems of fairness”.

    [21] [2016] EWCA Civ 789.

    [22] [2015] UKSC 36.

    [23]  Queste le parole del Giudice Moore Bick: “There is a real danger that if a principle of good faith were established it would be invoked as often to undermine as to support the terms in which the parties have reached agreement”.

    [24] [2021] UKSC 40.

    [25]  Si vedano, per il diritto statunitense, C. Perry (Good faith in English and US contract law: divergent theories, practical similarities, in Business Law International, 2016, p. 27 ss.) e, per il diritto australiano, L. E. Trakman, K. Sharma (The binding force of agreement to negotiate in good faith, in The Cambridge Law Journal, 2014, p. 598 ss.).

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