GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Bundesverfassungsgericht contro la Corte UE o contro l’Europa? A margine della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea di Marina Castellaneta

    Lo scontro tra gli Stati membri dell’Unione europea dovuto, da ultimo, agli interventi per sostenere l’economia dei Paesi UE colpiti dall’emergenza sanitaria provocata dal COVID-19, è diventato, in un solo giorno, da politico/economico a giudiziario. Questo come conseguenza della sentenza della Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht), depositata il 6 maggio che, accantonando senza troppi complimenti il bon ton istituzionale, non solo mette in discussione l’operato della Banca centrale europea (BCE), ma ancora di più giudica l’attività della Corte di giustizia dell’Unione europea, provando ad accaparrarsi un ruolo che non le spetta, almeno per le modalità con le quali lo ha esercitato.

    Un comportamento che ha spinto la direzione della comunicazione della Corte Ue a divulgare, l’8 maggio, una precisione con la quale sono stati chiariti alcuni punti che i giudici costituzionali tedeschi dovrebbero conoscere e – aggiungiamo – applicare, ossia che solo i giudici Ue sono competenti a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto Ue. Questo lo hanno stabilito gli stessi Stati nei Trattati – come ribadito nel comunicato – e questo serve a garantire la certezza del diritto e l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione che anche i giudici nazionali, come autorità degli Stati membri, devono garantire per assicurare l’effettiva efficacia del diritto dell’Unione.

    Passando all’esame della pronuncia, per quanto riguarda l'aspetto che, almeno nelle intenzioni dei giuristi ed economisti tedeschi che hanno presentato ricorso alla Consulta, era quello centrale, ossia l’illegittimità delle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea di Mario Draghi nel 2015, la Corte tedesca, con sede a Karlushe, ha salvato il sistema messo in campo dalla BCE con il Public Sector Purchase Programme (PSPP) stabilendo che le misure di Francoforte non servono a finanziare i singoli Paesi. Tuttavia, la Consulta tedesca – ed è questo il punto che desta allarme e sconcerto – ha “accusato” la Corte di giustizia dell’Unione europea di non aver controllato, evidentemente in modo adeguato, le misure della BCE sul punto, omettendo di effettuare il controllo di proporzionalità affermato dall’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea. E così – come garante supremo non solo della Costituzione tedesca, ma in generale del diritto – Karlushe emette un verdetto sull’operato della Corte Ue, scrivendo che nella sentenza dell’11 dicembre 2018 (causa C-493/17, Heinrich Weiss e altri) i giudici di Lussemburgo non hanno motivato il ragionamento sul rispetto del principio di proporzionalità delle misure e sul pieno rispetto della conformità del programma della BCE al principio di proporzionalità. Un inedito assoluto, perché, semplificando, i giudici interni dicono che gli eurogiudici non hanno fatto bene il proprio mestiere. Non una critica, ma un verdetto, senza una richiesta agli eurogiudici di tornare indietro o di valutare nuovamente, in uno spirito di collaborazione. Proprio per questo, la sentenza potrebbe non solo incidere sul consolidato e ormai non più messo in discussione principio del primato del diritto Ue su quello interno (del quale gli stessi giudici costituzionali dovrebbero essere garanti), ma anche sulla delimitazione delle competenze tra Stati membri e Unione e sul valore delle sentenze di Lussemburgo. Così come potrebbe aprire ad analoghi interventi delle Corti costituzionali di Paesi sovranisti come la Polonia e l’Ungheria che potrebbero ispirarsi al ragionamento della Consulta tedesca e applicarlo, in chiave ultrasovranista, in altre circostanze.

    Solo su un punto la Corte tedesca conferma l’operato dei giudici Ue ritenendo che il piano di acquisti di titoli di Stato attraverso il Quantitative easing (QE), funzionale a immettere liquidità per la crescita economica dell’eurozona, non è contrario al diritto dell’Unione proprio perché non è utilizzato per finanziare il debito pubblico degli Stati ed è, quindi, conforme all’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. La Corte Ue aveva stabilito che il programma di acquisti dei bond di Stato era in linea con il mandato della BCE, trattandosi, inoltre, di un meccanismo di politica monetaria per gli Stati della zona euro, di esclusiva competenza dell’Unione. Secondo la Corte di giustizia, che era stata investita della questione proprio dai colleghi tedeschi, il sistema attivato per arginare la grave crisi economica che aveva colpito la zona euro non era finalizzato a soddisfare le esigenze e i bisogni di specifici Stati membri e non era selettivo a vantaggio di singoli Paesi. La Corte di Lussemburgo aveva anche accertato che il principio di proporzionalità fissato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea era stato garantito. E su questo interviene la Corte costituzionale tedesca a giudicare il lavoro dei giudici della Corte Ue, sostanzialmente scrivendo che mancava la motivazione su tale conclusione. Così, la Banca centrale europea, entro 3 mesi dovrà motivare la scelta che ha portato nel 2015 all’acquisto dei titoli di Stato. Su questo punto, non c’è dubbio che la Corte costituzionale intacca il principio di indipendenza delle banche centrali rischiando che, anche in futuro, si presentino ricorsi analoghi su altri piani (inclusi, evidentemente, gli interventi decisi in questi giorni da Francoforte per fronteggiare la crisi economica procurata dal COVID-19, aspetto sul quale, va detto, una precisione nel senso di escludere effetti della sentenza in questo campo è stata fatta nel comunicato stampa, ma non nella pronuncia). Dimenticando che l’indipendenza della Banca centrale europea è essenziale per mantenere la politica monetaria libera da interventi politici diretti, accompagnata dall’obbligo per gli Stati membri di non esercitare un controllo o dare istruzioni alla BCE (articolo 130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). E che si tratti di un vero ultimatum risulta chiaro laddove la Corte di Karlushe prospetta subito le conseguenze di una mancata risposta: il Governo e il Parlamento tedesco, infatti, in questo caso, dovranno fermare la partecipazione di Berlino al sistema di acquisto di nuovi titoli e intervenire con misure concrete contro il QE “nella sua versione attuale”. Pertanto, per evitare ciò, la BCE deve fornire chiarimenti in modo rapido e con adeguate motivazioni.

    L’aspetto che, però, preoccupa di più riguarda proprio il giudizio della Corte costituzionale rispetto all’operato degli eurogiudici. Non si tratta, infatti, della possibilità di attivare i controlimiti per garantire la Costituzione tedesca, ma dei modi con i quali Karlushe lo fa, trasformando, in un attimo, il dialogo tra corti, che ha sempre caratterizzato il rapporto tra Lussemburgo e Corti costituzionali nazionali, in uno scontro frontale. Una strada, quest’ultima, che sembra proprio seguita con determinazione dalla Corte tedesca che ha avuto un atteggiamento ben diverso rispetto alla Corte costituzionale italiana. Quest’ultima, infatti, nella nota vicenda Taricco, a fronte di una pronuncia della Corte di giustizia (C-105/14, dell’8 settembre 2015) che non risultava chiara in alcuni punti e che poteva mettere in discussione alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento, aveva sollevato una questione di interpretazione (ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24) anche con riguardo ad alcuni aspetti della sentenza Ue e i giudici di Lussemburgo (C-42/17, sentenza del 5 dicembre 2017), accogliendo l’invito al dialogo dei colleghi italiani, avevano svolto un ragionamento idoneo a salvare primato del diritto Ue e tutela dei principi fondamentali contenuti nelle costituzioni degli Stati membri. E la Corte costituzionale, poi, a sua volta, proseguendo nella sua azione diplomatica volta a salvaguardare i principi costituzionali e l’impianto dell’Unione europea, che ha il suo fondamento nella stessa Costituzione, con la sentenza del 10 aprile 2018 n. 115 aveva correttamente delineato i rapporti tra ordinamenti mantenendo l’obbligo della stessa Consulta di tutelare i diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno (con riguardo al principio di legalità in materia penale) e la funzione della Corte Ue. Che aveva raggiunto una posizione di compromesso, appunto accettando il dialogo voluto dalla Corte costituzionale italiana. Pertanto, non è in discussione il diritto/obbligo dei giudici costituzionali di vigilare sul rispetto della Costituzione, ma l’iter seguito dalla Consulta tedesca che, rifiutando il dialogo con gli eurogiudici, sembra ergersi su un piedistallo e segnare con la matita rossa i presunti errori di Lussemburgo. Un comportamento che potrebbe avere effetti ad ampio raggio proprio sull’integrazione europea, costruita passo dopo passo, anche per gli interventi di giudici nazionali e giudici Ue. Integrazione che rischia di essere sepolta dalle 100 pagine della sentenza tedesca che, da un lato, riconosce a Lussemburgo la competenza volta ad assicurare “uniformità e coerenza del diritto dell’Unione” e l’obbligo di garantire che le rispettive funzioni giudiziarie siano esercitate in modo coordinato ma, d’altro lato, afferma che agli Stati membri non può essere impedito un esame sulla circostanza che un atto adottato nel contesto Ue e sul quale si sia già pronunciata la Corte di giustizia, sia ultra vires. In caso contrario – ammonisce la Consulta tedesca – sarebbe concessa alle istituzioni Ue un’autorità esclusiva anche quando un’interpretazione porta a un allargamento delle competenze fissate nei Trattati. Così, i giudici di Karlushe si riappropriano del potere di accertare se un atto che arriva da Francoforte è ultra vires: in questi casi non vi è alcuna copertura dell’articolo 19 (che si occupa della Corte di giustizia) del Trattato di Lisbona e l’adozione dell’atto diventa priva di legittimazione democratica, con la conseguenza, quindi, di un intervento della Corte costituzionale per assicurare il rispetto del principio di sovranità e di ripartizione di competenze. Quest’intervento, però, - scrivono i giudici tedeschi – “must be exercised with restraint, giving effect to the Constitution’s openness to European integration”, principio che non sembra poi essere stato seguito. La Corte, infatti, afferma che “If the CJEU crosses the limit set out above, its actions are no longer covered by the mandate conferred in Art. 19(1) second sentence TUE in conjunction with the Domestic Act of Approval”.

    E se certo la reazione della Commissione europea non si è fatta attendere nel riaffermare il primato del diritto dell’Unione e l’obbligo degli Stati membri di rispettare le sentenze della Corte di giustizia, non c’è dubbio che la pronuncia potrebbe rompere l’equilibrio nei rapporti tra giudici nazionali e Corte Ue, arrivando a compromettere proprio quel primato che la Commissione europea si è precipitata a ribadire.

    E questa volta, rispetto alla saga Taricco, non è detto che si arrivi all’happy end.

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