GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Energia, ambiente e semplificazione amministrativa (nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24 novembre 2020, n. 12464)

    Energia, ambiente e semplificazione amministrativa (nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24 novembre 2020, n. 12464)

    di Marco Calabrò

    Sommario: 1. La vicenda. – 2. La disciplina degli incentivi in materia energetica. - 3. Analisi critica delle ragioni poste a fondamento della pronuncia del T.A.R. del Lazio n. 12464/2020: la non perentorietà del termine per il rilascio della concessione degli incentivi. – 3.1. (segue): la riconducibilità del profilo del riconoscimento degli incentivi energetici alla materia “ambiente”. – 3.2. (segue): la sussistenza di un obbligo comunitario di concludere il procedimento con una decisione espressa. – 4. Riflessioni conclusive.

    1. La vicenda 

    Con una recente pronuncia il T.A.R. Lazio, Roma ha affrontato il tema della applicabilità degli istituti di semplificazione – con specifico riferimento al silenzio assenso – ai procedimenti in materia energetica. La vicenda da cui origina il contenzioso si inquadra nell’ambito dell’eterogeneo sistema di incentivazione alla produzione di energia da fonti rinnovabili, la cui disciplina ha conosciuto negli ultimi anni una notevole evoluzione, anche in ragione del necessario adeguamento alle disposizioni dell’UE che si sono avvicendate in materia. In particolare, nella fattispecie in esame, la società ricorrente aveva presentato al GSE (Gestore Servizi Energetici) una richiesta di concessione della tariffa incentivante riconosciuta, a determinate condizioni, ai produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili ai sensi del d.m. 5 maggio 2011 (c.d. Quarto Conto Energia). Dopo più di un anno, il GSE riscontrava la suddetta istanza invitando la società ad integrare la documentazione presentata, attraverso la produzione di una dichiarazione del Comune sede dell’attività di produzione energetica, attestante l’idoneità della d.i.a. alla esecuzione dei lavori per la realizzazione dell’impianto. A fronte della mancata presentazione della suddetta dichiarazione, il GSE concludeva il procedimento con l’emanazione di un atto di rigetto.

    Il ricorso presentato dalla società di produzione di energia si fonda, essenzialmente, su due ordini di motivi. Con il primo, che non sarà oggetto di approfondimento in questa sede, parte ricorrente contesta la legittimità della richiesta istruttoria, diretta ad ottenere la produzione di un documento attestante l’idoneità del titolo edilizio. In tal modo, infatti, il GSE avrebbe trasceso le proprie competenze (non contemplanti profili di ordine edilizio), generando un indebito aggravio procedimentale, contrastante con l’istituto stesso della d.i.a., peraltro regolarmente prodotta dal ricorrente e mai oggetto di provvedimenti inibitori[1]

    Il secondo motivo di ricorso, sul quale si concentreranno le riflessioni che seguono, si fonda sull’affermazione secondo cui – al di là dei profili di merito – il GSE non avrebbe potuto chiedere alcuna integrazione documentale, essendosi ormai formato il silenzio assenso sull’istanza presentata dal ricorrente. La disciplina procedimentale relativa al riconoscimento delle tariffe incentivanti di cui al d.m. 5 maggio 2011, infatti, prevede che entro quindici giorni dalla data di entrata in esercizio dell’impianto il soggetto responsabile faccia pervenire al GSE la richiesta di concessione della pertinente tariffa incentivante, e che il GSE, “verificato il rispetto delle disposizioni del presente decreto, determina e assicura al soggetto responsabile l’erogazione della tariffa spettante entro centoventi giorni dalla data di ricevimento della medesima richiesta”. Secondo parte ricorrente, pertanto – essendo decorso più di un anno dalla presentazione dell’istanza e trattandosi di un procedimento ad istanza di parte rispetto al quale nulla è espressamente previsto per le ipotesi di inerzia dell’amministrazione – troverebbe applicazione l’istituto generale del silenzio assenso di cui all’art. 20, l. n. 241/1990.

    Il T.A.R. Lazio, tuttavia, nel rigettare il ricorso, conclude per la non formazione, nel caso di specie, degli effetti del silenzio assenso sull’istanza presentata dalla società di produzione energetica, e ciò sulla base delle seguenti motivazioni: a) il carattere non perentorio del termine procedimentale di 120 giorni riconosciuto al GSE per riscontrare la domanda di concessione degli incentivi; b) la non invocabilità del regime del silenzio assenso, dovendo trovare piuttosto applicazione la deroga di cui al co. 4 dell’art. 20, l.n. 241/1990 in quanto l’incentivazione della produzione di energia da fonti rinnovabili rientrerebbe nella materia “ambiente”; c) la sussistenza di un obbligo di concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento espresso, derivante dalla corretta attuazione della normativa europea di settore[2].  

    2. La disciplina degli incentivi in materia energetica

    Prima di procedere all’esame delle ragioni che hanno indotto il T.A.R. Lazio a ritenere non formatasi la fattispecie del silenzio assenso, appare opportuno inquadrare brevemente il tema della incentivazione energetica, anche al fine di individuarne la ratio. Come noto, le c.d. energie rinnovabili rappresentano quelle fonti di energia – non esauribili o, comunque, in grado di rigenerarsi velocemente – alternative alle tradizionali fonti fossili. Lo sviluppo di tali forme di produzione – strumentale ad incrementare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, a stimolare la competitività del sistema produttivo ed a ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera[3] – ha imposto l’introduzione di strumenti di incentivazione, atteso il costo di produzione più elevato rispetto all’uso delle fonti energetiche tradizionali[4]

    Le principali forme di incentivazione, introdotte negli anni dal legislatore statale (spesso su stimolo dell’UE) sono rappresentate non da semplici sussidi, bensì da strumenti di mercato volti ad incoraggiare gli investimenti green[5], quali i Certificati verdi[6], i Certificati bianchi[7], la Tariffa omnicomprensiva[8] ed il c.d. Conto energia. Quest’ultimo, in particolare – oggetto della pronuncia in commento e relativo ai soli impianti fotovoltaici – configura un modello incentivante feed in premium che – a differenza del modello di prezzo amministrato feed in tariffs[9] – si concretizza nell’erogazione di un incentivo aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato[10]: permane, quindi, un margine di rischio in capo al produttore, nella misura in cui, a fronte della formazione di un prezzo di mercato molto basso, la parte incentivante potrebbe risultare insufficiente a rendere remunerativa l’operazione nel suo complesso[11].  

    Il sistema di incentivazione Conto energia nasce a seguito dell’emanazione della Direttiva 2001/77/CE, recepita con il d. lgs. n. 387/2003, il cui sistema di implementazione contemplava la successiva approvazione di decreti interministeriali (Ministero dello Sviluppo Economico e Ministero dell’Ambiente) che – definendo i criteri soggettivi ed oggettivi per poter beneficiare dell’incentivazione, nonché i relativi itinera procedimentali – hanno introdotto negli anni a seguire il I° Conto energia (d.m. 28/7/2005 e d.m. 6/2/2006), il II° Conto energia (d.m. 19/2/2007) ed il III° Conto energia (6/8/2010). Mediante tali strumenti, dal 2005 al 2011 si è registrato in Italia un notevole incremento della quota di elettricità prodotta da impianti alimentati mediante la conversione fotovoltaica della fonte solare, reso possibile proprio in ragione di adeguati investimenti pubblici, programmati e a lungo termine, presupposto indispensabile per garantire la necessaria convenienza economica agli operatori privati[12]

    Nel 2009, il legislatore europeo è nuovamente intervenuto in materia di promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, con l’emanazione di una nuova direttiva europea (dir. 2009/28/CE), mediante la quale si è inteso integrare il quadro regolatorio sottolineando, tra l’altro, la rilevanza della previsione di procedure trasparenti, semplici e celeri. In attuazione di tale direttiva è stato, quindi, emanato il d.lgs. n. 28/2011, che – volto a promuovere “l’efficacia, l'efficienza, la semplificazione e la stabilità nel tempo dei sistemi di incentivazione” (art. 23) – ha rappresentato il quadro regolatorio di riferimento per il IV° Conto energia (d.m. 5/5/2011) e per il V° Conto energia (d.m. 5/7/2012)[13]. Quest’ultimo, infine – avendo condotto al raggiungimento del tetto massimo di incentivazione prevista per il settore (6,7 miliardi di euro) – ha segnato la conclusione dell’applicazione del modello incentivante rappresentato dal Conto energia[14].  

    Attualmente il sistema di incentivazione della produzione di energia da fonti rinnovabili da parte del GSE prevede strumenti ulteriori, quali il sistema GRIN (Gestione Riconoscimento Incentivo) in sostituzione dei Certificati verdi, il c.d. Ritiro dedicato, lo Scambio sul posto[15]. La normativa di riferimento resta, tuttavia, il d.lgs. n. 28/2011, in attuazione del quale è stato di recente approvato il c.d. Decreto FER 1 (d.m. 4 luglio 2019), contenente la disciplina principale degli incentivi alle fonti rinnovabili per il triennio 2019-2021 e volto ad agevolare – in vista degli obiettivi di decarbonizzazione fissati al 2030[16] – la diffusione dei piccoli impianti fotovoltaici, eolici on-shore, idroelettrici e a gas di depurazione[17]. É bene sottolineare come proprio il d.lgs. n. 28/2011 – dal quale ha origine anche il IV° Conto Energia, oggetto della pronuncia in commento – abbia condotto ad un notevole contenzioso, essenzialmente dovuto alle incertezze applicative emerse fin da subito[18], il che ha spinto il legislatore ad intervenire in diverse occasioni in chiave semplificatrice e chiarificatrice[19]. Da ultimo, si segnala la recente riforma introdotta ad opera del d. l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), con il quale – al fine di incrementare il livello di certezza delle posizioni acquisite da parte delle imprese in buona fede – è stato stabilito che la decadenza dei benefici ottenuti in termini di incentivi può essere comminata dal GSE solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 21-noniesdella l. n. 241/1990[20].  

    3. Analisi critica delle ragioni poste a fondamento della pronuncia del T.A.R. del Lazio n. 12464/2020: la non perentorietà del termine per il rilascio della concessione degli incentivi

    Come già precisato, la pronuncia in esame concerne l’applicazione del d.m. 5 maggio 2011 (IV° Conto energia), il cui art. 10 prevedeva che l’operatore economico avrebbe dovuto, entro 15 giorni dall’avvio dell’esercizio dell’impianto, comunicare l’inizio dell’attività al GSE, il quale entro i successivi 120 giorni avrebbe provveduto a “determinare e assicurare la tariffa”, ovvero a pronunciarsi sulla riconoscibilità dell’incentivo. Prima di affrontare l’esame dei diversi profili di interesse della decisione in commento occorre una premessa di merito: nelle pagine che seguono si cercherà di dimostrare come il Collegio abbia erroneamente ritenuto non applicabile alla fattispecie de qua il regime del silenzio assenso, ma questo non perché si ritenga che tale istituto rappresenti un modello decisionale particolarmente efficace e preferibile rispetto all’emanazione del provvedimento espresso, tutt’altro. Si è pienamente consapevoli delle criticità che connotano l’attuale regime del silenzio assenso, tuttavia – anticipando quanto meglio si chiarirà nelle conclusioni – ciò che occorre assolutamente rifuggire è l’incertezza della “regola del caso”, il che si verifica proprio quando (come nel caso di specie) il giudice amministrativo (seppur perseguendo intenti anche condivisibili) effettui una forzata interpretazione della norma estendendo illegittimamente l’ambito di operatività della deroga al modello generale del silenzio assenso, frustrando così le legittime aspettative del privato.  

    Ciò premesso, la prima delle ragioni poste a fondamento della decisione giudiziaria che si commenta – con la quale, si ricorda, si è ritenuto di non poter considerare operativo il meccanismo del silenzio assenso nella fattispecie de qua – consiste nella affermazione secondo la quale il suddetto termine di 120 giorni riconosciuto al GSE per riscontrare l’istanza non avrebbe avuto carattere perentorio. 

    Il percorso argomentativo seguito dal T.A.R. Lazio appare, invero, viziato dal punto di vista logico, prima ancora che giuridico, laddove pretende di giustificare la propria affermazione dando per presupposto proprio ciò che egli stesso si prefigge di dimostrare: nel ragionamento condotto dal Collegio, infatti, la premessa maggiore è che “il termine non è perentorio”, la premessa minore è che “nelle ipotesi di silenzio assenso il termine è perentorio”, mentre la conclusione è che “non si tratta di una fattispecie di silenzio assenso”. Ma la premessa maggiore, in questo caso, non è dimostrata e, come è noto, affinché un sillogismo categorico sia valido occorre che entrambe le premesse siano incontestabilmente vere[21]. In altre parole, il Collegio avrebbe prima dovuto dimostrare la non applicabilità del silenzio assenso e solo in seguito avrebbe potuto conseguentemente affermare la natura ordinatoria del termine procedimentale; è evidentemente errato, dal punto di vista logico, ritenere di poter escludere che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di silenzio assenso affermando (ma non dimostrando) che il termine procedimentale non sia perentorio. 

    Sul punto della asserita non perentorietà del termine, i giudici – preso atto che la disposizione nulla dice su tale profilo – si limitano a richiamare il principio generale in base al quale “la perentorietà del termine di conclusione del procedimento sussiste solo quando vi sia una norma che espressamente lo qualifichi come tale, ovvero sancisca che allo spirare del termine si producano effetti giuridici incompatibili con la possibilità per l’Amministrazione di provvedere”[22]. In realtà, se è vero che, salve specifiche deroghe previste dalla legge, il termine procedimentale ha carattere ordinatorio e la sua scadenza non incide sulla sussistenza del potere di provvedere[23], ciò che è almeno opinabile è la circostanza che nel caso di specie non ci si trovi proprio di fronte ad una delle suddette ipotesi derogatorie. Il fatto che il d.m. 5 maggio 2011 non chiarisca la natura del termine non esclude ex se la perentorietà dello stesso, nella misura in cui – ribaltando la (indimostrata) premessa di partenza del Collegio – è il combinato disposto di cui agli artt. 2 e 20 della l.n. 241/1990 che conduce a ritenere perentorio il termine per tutte le ipotesi in cui operi il regime del silenzio assenso.

    Come noto, a seguito della recente riforma dell’art. 2 cit. ad opera della l.n. 120/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), nelle fattispecie di silenzio assenso l’emanazione di un provvedimento oltre i termini procedimentali legislativamente prescritti per la sua adozione determina l’inefficacia del provvedimento stesso, il che impone evidentemente di affermare la natura per l’appunto perentoria del termine stesso[24]. In realtà, anche prima della suddetta riforma si sarebbe potuto/dovuto sostenere la natura perentoria del termine finale nelle ipotesi di silenzio significativo: solo ritenendo non più esercitabile il potere di amministrazione attiva, una volta decorso il termine per provvedere, rinviene una sua coerente giustificazione il formarsi “silenzioso” degli effetti provvedimentali ex lege[25].

    In conclusione, sul punto, la mera affermazione assiomatica della natura ordinatoria del termine finale, non pare poter legittimamente fungere da supporto alla dimostrazione della non applicabilità del regime del silenzio assenso alla fattispecie procedimentale de qua. Tra l’altro considerare quel termine come non perentorio si rivela palesemente contraddittorio con quanto previsto nella direttiva di riferimento e nello stesso d.lgs. n. 28/2011, laddove si valorizza l’esigenza che la disciplina attuativa relativa allo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili sia connotata da procedure semplici, celeri e certe[26].   

    3.1. (segue): la riconducibilità del profilo del riconoscimento degli incentivi energetici alla materia “ambiente”

    Il secondo e principale argomento sul quale si fonda la decisione in commento è rappresentato dall’affermazione secondo la quale nella fattispecie de qua troverebbe applicazione la deroga all’istituto del silenzio assenso prevista al co. 4 dell’art. 20 della l.n. 241/1990 “per atti e procedimenti riguardanti l’ambiente, materia nella quale, come la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare, rientra a pieno titolo la disciplina invocata riferibile al settore degli incentivi per il risparmio energetico e al rispetto degli impegni internazionali sui cambiamenti climatici”. Secondo il Collegio, in altri termini, i procedimenti concernenti lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili andrebbero inquadrati nella materia della tutela dell’ambiente e, di conseguenza, sarebbe esclusa nei loro confronti l’operatività del regime del silenzio significativo.

    La pronuncia richiama, al riguardo, un orientamento del giudice amministrativo teso a leggere in chiave unitaria i due profili (ambiente ed energia) e, di conseguenza, (per quanto maggiormente rileva in questa sede) a sottrarre dall’applicazione del silenzio assenso di cui all’art. 20 cit. alcuni procedimenti in materia di energia. Invero, mentre le decisioni aventi ad oggetto procedimenti autorizzatori relativi alla realizzazione di un impianto FER giustificano l’esclusione dell’operatività del regime del silenzio assenso in ragione dell’impatto della realizzazione dei nuovi volumi “sull’ambiente, la salute ed il patrimonio paesaggistico”[27], con specifico riferimento ai procedimenti volti a riconoscere incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, le pronunce esaminate si limitano ad affermare che l’istituto delle tariffe incentivanti debba farsi rientrare nella materia “ambiente”, senza in alcun modo argomentare l’assunto[28]

    La sola pronuncia che si sofferma su tale profilo[29], a ben vedere, chiarisce innanzitutto che il procedimento in questione non ha ad esclusivo oggetto la tutela dell’ambiente, il che “non rende il detto meccanismo di per sé incompatibile con l’utilizzo del silenzio assenso”; essa, quindi, conclude comunque per l’applicazione della deroga di cui all’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 anche alle ipotesi di concessione di tariffe energetiche incentivanti, ma solo sulla base della (opinabile) considerazione secondo la quale dovrebbe “privilegiarsi un’esegesi che consenta di giungere all’adozione di un provvedimento esplicito”, in quanto il meccanismo del silenzio assenso “porterebbe a sacrificare in modo eccessivo quegli interessi sensibili di natura ambientale e derivazione europea che il procedimento intende perseguire”.

    In realtà, secondo l’impostazione tradizionale, il rapporto tra le materie “energia” e “ambiente” non avrebbe una connotazione di tipo armonico, fondandosi piuttosto su una “dialettica conflittuale”[30]: da un lato, la sempre maggiore necessità di sfruttamento delle risorse energetiche rappresenta una costante minaccia per la tutela delle risorse naturali; dall’altro lato, l’energia, intesa come bene economico, trova nel sistema vincolistico delle politiche ambientali un forte limite al proprio sviluppo. 

    La netta separazione tra ambiente ed energia rinviene conferma nell’attuale versione dell’art. 117 Cost., ove – a seguito della riforma del Titolo V – la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” non solo è indicata come autonoma rispetto alla materia “tutela dell’ambiente”, ma è anche posta in un elenco diverso, essendo inserita tra le materie per le quali è prevista la competenza concorrente tra Stato e regioni[31]. Il medesimo assetto è evincibile anche a livello Europeo, laddove l’energia configura una materia autonoma rispetto all’ambiente, con riguardo alla quale all’UE è riconosciuto una specifica sfera di intervento ai sensi dell’art. 194 TFUE[32].

    Certo, nell’occuparsi del particolare settore della produzione di energia da fonti rinnovabili, la descritta relazione di sostanziale autonomia è destinata in parte a mutare, ma, a ben vedere, anche in tale contesto non mancano profili di sostanziale conflittualità, se solo si pensa, ad esempio, al noto contrasto tra istanze di tutela dell’ambiente/paesaggio e politiche di sviluppo dell’energia eolica e fotovoltaica[33]. In una significativa pronuncia del 2011, la Corte di Giustizia UE – chiamata a decidere sulla legittimità di una disciplina interna che vietava l’installazione di impianti eolici in zone protette dalla normativa europea in materia di conservazione degli habitat naturali – ha chiarito come non sussista affatto un rapporto di coessenzialità, né, talvolta, di compatibilità, tra esigenze di tutela dell’ambiente e istanze di sviluppo di “energia pulita”[34]. Come è stato osservato, il giudice europeo ha in quella occasione fatto emergere come l’interesse ambientale possa trovarsi in conflitto con quello energetico “non soltanto nell’ipotesi più tradizionale di energie esauribili vs. ambiente ma anche in un’ipotesi, in verità più complessa, quale energie rinnovabili vs. ambiente”[35].  

    A conferma della suddetta autonomia giuridico/concettuale, la Corte costituzionale ha in più occasioni sottolineato come la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili – pur indubitabilmente interferendo con la materia della tutela dell’ambiente – appartenga in via primaria alla materia “energia”[36] e si innesti nel più ampio contesto di favor nei confronti delle FER, volto all’eliminazione della dipendenza dalle fonti fossili di energia. Da ciò ne consegue che “il bilanciamento tra le esigenze connesse alla produzione di energia e gli interessi ambientali impone una preventiva ponderazione concertata in ossequio al principio di leale cooperazione” tra Stato e Regioni[37].

    In effetti, dall’analisi dei numerosi documenti dell’UE in materia, si evince chiaramente come l’incentivazione dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabile risponda ad un fine primario diverso da quello della tutela dell’ambiente, consistente piuttosto nell’esigenza di limitare la dipendenza dell’Unione Europea dallo sfruttamento e dalle importazioni di combustibili fossili: l’incremento della popolazione mondiale ed il contestuale innalzamento della domanda di energia impongono il ricorso a forme di produzione alternative a quelle tradizionali, fondate su risorse esauribili. Lo sviluppo della produzione di energia “pulita” è volta, pertanto, in primo luogo, a rendere sostenibile nel suo complesso l’intero settore energetico, attraverso una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti e una netta riduzione delle importazioni di fonti energetiche tradizionali[38]

    Posti tali obiettivi primari, non si intende certo negare che il processo di valorizzazione della c.d. green energy comporta conseguenze anche in chiave di tutela dell’ambiente – in ragione della riduzione delle emissioni nocive generate dal consumo e dalla produzione di energia da fonti tradizionali – nonchè in termini di vantaggi economici, derivanti, da un lato, dal risparmio sul costo dell’acquisto di combustibili tradizionali e, dall’altro lato, dall’incremento delle esportazioni e dell’occupazione[39]. A ben vedere, tuttavia, pur essendo evidenti gli impatti che gli interventi in materia di energia pulita hanno sulle politiche di protezione ambientale, si intende rimarcare come ciò non esaurisca affatto il proprium di una politica di sviluppo (e incentivazione) di energie rinnovabili, ponendosi piuttosto come una delle conseguenze, insieme a quelle di carattere economico. Di qui l’erroneità dell’operazione ricostruttiva condotta dal T.A.R. del Lazio, tesa a prospettare l’esistenza di una automatica endiadi tra energia e ambiente. 

    E che il procedimento in esame non debba essere inquadrato all’interno della materia ambiente, lo si desume a contrario anche dall’analisi del d.lgs. n. 222/2016 (c.d. SCIA 2), la cui Tabella A, come noto, indica i regimi amministrativi dei procedimenti in diverse materie, tra le quali quella ambientale[40]. Ebbene, nella suddetta tabella, i procedimenti di incentivazione tariffaria non sono contemplati (trattandosi, evidentemente di materia “energia”) mentre i procedimenti volti al rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la realizzazione e l’esercizio di impianti alimentati da fonti rinnovabili non sono elencati all’interno della sezione “Ambiente”, bensì nella sezione “Edilizia”.

    Insomma, se è vero che è ormai pacifico che politiche ambientali efficaci debbano necessariamente fondarsi sul principio di integrazione, ovvero superare una prospettiva settoriale optando piuttosto per una logica sistemica che tenga conto, in un unico processo decisionale, dei diversi interessi emergenti[41] (tra i quali, evidentemente, le politiche energetiche nazionali), ciò non legittima affatto operazioni volte a rendere l’ambiente una “super-materia” nella quale far confluire interessi differenti e dotati di autonomia giuridica oltre che concettuale. 

    Tra l’altro, spostando l’attenzione dal profilo dell’inquadramento formale del procedimento de quo a quello della sua portata sostanziale, può osservarsi come nel caso di specie il GSE non sia chiamato a valutare l’impatto sull’ambiente dell’attività oggetto di concessione della tariffa incentivante, come invece accade nelle fattispecie decisorie aventi ad oggetto gli effetti della realizzazione fisica di un impianto alimentato da fonti rinnovabili. Il riconoscimento di incentivi alla produzione di energia “pulita” ha di per sé un effetto positivo sulle politiche di protezione ambientale: il GSE deve unicamente verificare la sussistenza o meno di presupposti per l’attribuzione di un beneficio implicitamente consonante con l’interesse alla tutela ambientale, il che conferma la piena compatibilità della fattispecie in esame con il regime del silenzio assenso. 

    In definitiva, in relazione ai procedimenti volti al riconoscimento di forme di incentivazione alla produzione di green energy manca (nella sostanza) l’esigenza di escludere l’applicazione del regime semplificato e (nella forma) la sussumibilità della materia energia nella materia ambiente: come si è dimostrato, infatti, queste ultime – seppur necessariamente correlate in numerose loro espressioni[42] – mantengono una sostanziale autonomia dal punto di vista regolativo, organizzativo e funzionale[43].  

    3.2. (segue): la sussistenza di un obbligo comunitario di concludere il procedimento con una decisione espressa

    Quale terzo, ed ultimo, elemento posto dal Collegio a fondamento del proprio convincimento circa la non applicabilità del regime del silenzio assenso al procedimento de quo, viene indicata la presunta “necessità che il procedimento debba concludersi con un atto espresso in base al diritto europeo”. 

    Come noto, in diversi contesti il legislatore Europeo richiede che un procedimento si concluda necessariamente con l’emanazione di un provvedimento espresso al fine di assicurare l’effettività delle previsioni comunitarie[44]. Ciò avviene, in sostanza, ogniqualvolta, un’autorizzazione tacita non possa considerarsi compatibile con le prescrizioni di una direttiva, o perché non in grado di consentire la realizzazione di controlli successivi per i quali occorrono parametri di riferimento indicati nel titolo, ovvero in quanto l’attività oggetto di autorizzazione necessita di prescrizioni evincibili unicamente dal provvedimento espresso[45].

    A sostegno del proprio convincimento, il Collegio richiama alcuni precedenti giurisprudenziali. Il primo fra questi, tuttavia, non appare conferente, avendo ad oggetto un procedimento diverso, ovvero la realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili e non il riconoscimento di incentivi tariffari alla produzione[46]. Come già osservato, le due fattispecie non sono affatto assimilabili: mentre la realizzazione di nuovi volumi a destinazione industriale può ovviamente avere un impatto sulle risorse ambientali, la semplice acquisizione di un beneficio avente carattere meramente economico è, rispetto a quelle risorse, del tutto indifferente. La pronuncia in commento richiama, poi, un secondo precedente, nel quale, in effetti, si afferma che tanto la direttiva di riferimento quanto la disciplina nazionale di attuazione imporrebbero l’adozione di un provvedimento espresso in materia di concessione degli incentivi “in quanto l’unico coerente con le finalità programmatorie e finalistiche in ambito nazionale […], con le garanzie di origine dell’elettricità prodotta […], nonché in grado di soddisfare le necessità di coordinamento della produzione dell’energia con le esigenze e le necessità dei gestori delle reti”[47]

    A ben vedere, la stessa giurisprudenza richiamata non afferma affatto (né avrebbe potuto) che la normativa eurounitaria preveda espressamente l’obbligo di concludere il procedimento de quo con un provvedimento formale, bensì si limita a sostenere che tale conclusione sarebbe l’unica “coerente” con l’assetto regolativo generale. I giudici, in altri termini, effettuano una non condivisibile operazione deduttiva laddove ritengono di poter trarre da una interpretazione di tipo sistematico ciò che la normativa eurounitaria non dice; il tutto a fronte del chiaro tenore dell’art. 20 cit., il cui co. 4 consente di derogare alla regola generale dell’applicazione del regime del silenzio assenso unicamente nei casi “in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali”. Il che, nel caso di specie, non è.

    La direttiva n. 2009/28/CE, infatti, nel disciplinare le procedure amministrative relative alle misure di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili, si limita a disporre che gli Stati membri assicurino l’adozione di procedure proporzionate e necessarie, semplificate ed accelerate (cfr. art. 13). In altri termini, il legislatore europeo non solo non impone affatto l’adozione di un provvedimento formale, ma – nell’individuare i principi di riferimento ai quali gli Stati membri sono tenuti ad adeguarsi nel definire l’iter funzionale alla concessione di incentivi per impianti da fonte rinnovabile – sembra indicare una netta preferenza per la previsione di procedimenti idonei a giungere ad una conclusione in forma semplificata, certa e celere, il che, evidentemente, appare compatibile con l’applicazione del regime del silenzio significativo, molto meno con la presunta imposizione di una decisione espressa da adottare anche oltre il termine procedimentale[48].

    Come noto, tra l’altro, il d.lgs. n. 59/2010, attuativo della Direttiva Bolkestein, nell’ambito di un più ampio intervento di liberalizzazione[49], dispone all’art. 17 che ai procedimenti autorizzatori o concessori concernenti l'esercizio delle attività di servizi economici “si segue, ove non diversamente previsto, il procedimento di cui all'articolo 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241”, chiarendo, altresì che solo “qualora sussista un motivo imperativo di interesse generale, può essere imposto che il procedimento si concluda con l'adozione di un provvedimento espresso”[50]. Nel caso di specie, pertanto, in assenza di una disposizione eurounitaria che chiarisca il motivo imperativo di interesse generale che imporrebbe la decisione espressa, non può che trovare applicazione l’istituto acceleratorio del silenzio assenso.

    Del resto, a ben vedere, anche la normativa italiana attuativa della direttiva del 2009 contempla un regime procedimentale semplificato, senza affatto prevedere l’obbligo di concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento formale. In particolare, l’art. 4 del d.lgs. n. 28/2011 dispone, in via generale, che “la costruzione e l'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono disciplinati secondo speciali procedure amministrative semplificate, accelerate, proporzionate e adeguate”[51]. Come è stato osservato, dunque, contrariamente a quanto avviene per gli “istituti del diritto ambientale, in cui tradizionalmente l’applicazione degli istituti di semplificazione risulta recessiva rispetto alla esigenza di garantire un completo sviluppo dell’iter procedimentale, nella materia in esame sembra prevalere il principio di non aggravamento procedurale al fine di assicurare l’efficacia dell’azione amministrativa”[52].

    Con specifico riferimento ai procedimenti relativi al riconoscimento di misure di incentivazione, l’art. 28 dello stesso d.lgs. n. 28/2011 rinvia a successivi decreti interministeriali per l’individuazione delle modalità con le quali il GSE provvede ad erogare gli incentivi. Come già osservato, il d.m. 5 maggio 2011 – contenente la disciplina del regime incentivante oggetto della pronuncia in commento – dispone che gli impianti accedono direttamente (o previa iscrizione ad un registro) alla tariffa    incentivante, fatto salvo l’onere di comunicazione al GSE dell’avvenuta entrata in esercizio entro 15 giorni dalla stessa (art. 6) e che il GSE, verificato il rispetto delle disposizioni del decreto, “determina e assicura l’erogazione della tariffa” (art. 10), riconosciuta a decorrere dalla data di entrata in esercizio dell’impianto (art. 12). Il soggetto che ne ha diritto, quindi, ottiene l’incentivo alla sola condizione che comunichi per tempo l’avvio della produzione di energia da fonte rinnovabile, e l’attività che il GSE è chiamato a porre in essere (determinazione e assicurazione dell’erogazione della tariffa) non richiede affatto l’emanazione di un provvedimento formale, consistendo nella mera applicazione di criteri predeterminati. Il GSE, in altri termini, è chiamato semplicemente ad effettuare una attività di controllo (circa la sussistenza dei requisiti necessari) e di definizione tariffaria, il tutto senza spendere alcun potere a carattere discrezionale, tanto da far legittimamente ritenere che l’unico ostacolo alla liberalizzazione della fattispecie sia rappresentato dalla previsione di un “contingente complessivo” massimo incentivabile, atto ad escludere l’applicazione del regime della s.c.i.a.

    La natura vincolata della funzione esercitata dal GSE è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza amministrativa, ove – nel ricostruire il regime degli incentivi concernenti la produzione di energia da fonti rinnovabili – ha affermato che esso si fonda sulle dichiarazioni che il soggetto titolare dell’impianto, sotto la propria responsabilità, fa pervenire al GSE e in base alle quali quest’ultimo determina la sussistenza, o meno della possibilità di accedere o di mantenere gli incentivi (salvi i controlli ex post)[53]. Il GSE, pertanto, “eserciterebbe un immanente potere di accertamento e controllo che, essendo volto essenzialmente a verificare quanto dichiarato dal beneficiario dell’incentivo, sarebbe privo di spazi di discrezionalità, avendo anzi, natura doverosa ad esito vincolato”[54]. Tale ricostruzione trova ulteriore conferma sia nella affermata applicabilità al procedimento de quo dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, atteso il “carattere vincolato della valutazione operata dal GSE”[55], sia nella qualificazione dei poteri di controllo ad esito negativo esercitati dallo stesso GSE non in termini di attività sanzionatoria o di autotutela, bensì di mera “decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva […] per il carattere vincolato del potere”[56].

    Ebbene, il carattere vincolato dell’attività esercitata dal GSE avvalora ulteriormente la possibile fine “silenziosa” del procedimento. È nota la tesi avanzata da una parte della dottrina e della giurisprudenza secondo la quale – al di fuori delle deroghe espresse di cui al co. 4 dell’art. 20 cit. – il regime del silenzio assenso non troverebbe comunque applicazione in relazione a fattispecie connotate da un ampio grado di discrezionalità, per le quali si ritengono imprescindibili le garanzie derivanti dalla cristallizzazione della decisione in un provvedimento formale[57]. Pur volendo aderire a tale (discutibile) indirizzo, il carattere sostanzialmente vincolato del procedimento volto al riconoscimento della tariffa energetica incentivante ne attesterebbe la piena compatibilità con il regime del silenzio assenso, non venendo in essere alcun elemento di criticità in merito all’eventuale mancata adeguata ponderazione degli interessi[58].

    Un ulteriore elemento che collide con la prospettata inammissibilità di una conclusione “silenziosa” del procedimento volto al riconoscimento degli incentivi energetici tariffari è rappresentato dalla circostanza che l’eventuale decisione espressa del GSE non avrebbe, in ogni caso, alcun contenuto conformativo, limitandosi a concedere la tariffa incentivante alla luce dei controlli effettuati. Come noto, una delle principali ragioni che non consentono l’applicazione del regime del silenzio assenso alle autorizzazioni in materia ambientale è che queste ultime sono connotate da un contenuto complesso, in quanto non si limitano a permettere l’esercizio di un’attività, ma contengono anche una serie di prescrizioni relative a come tale attività debba essere svolta, ai limiti da rispettare, agli accorgimenti da predisporre, ecc. Si tratta del c.d. carattere conformativo dell’atto, che discende dall’esigenza di “controllare” il privato non solo al principio (verifica dei requisiti), ma nel corso dell’intera durata dell’attività, obbligandolo a rispettare standard e modalità di esercizio necessari per garantire la sostenibilità ambientale dell’iniziativa[59]. Ebbene, nella fattispecie in esame tale esigenza non sussiste: l’atto con il quale si riconosce la tariffa incentivante si limita – una volta verificata la sussistenza dei presupposti richiesti – ad attestare che quella determinata impresa ha diritto a ricevere il sostegno economico per il quale ha presentato istanza, senza contenere alcuna specifica prescrizione pro futuro, il che conferma la piena compatibilità del regime del silenzio assenso.  

    Non secondaria, infine, la considerazione secondo cui sarebbe davvero paradossale sostenere che mentre per la realizzazione di un impianto FER (attività indubbiamente impattante sull’ambiente) è in alcuni casi contemplato un regime liberalizzato, assimilabile s.c.i.a., denominato Procedura abilitativa semplificata (PAS)[60], per accedere al sistema di incentivo tariffario (profilo puramente economico, privo di alcun impatto diretto) sarebbe inapplicabile il regime del silenzio assenso e sempre necessario il rilascio del provvedimento espresso.  

    4. Riflessioni conclusive

    La conclusione cui perviene la pronuncia in commento, laddove esclude che al procedimento volto al riconoscimento di una tariffa incentivante in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili possa applicarsi il regime del silenzio assenso, non convince sotto molteplici profili. Come si è cercato di dimostrare, nel caso di specie ci si trova innanzi ad un procedimento ad istanza di parte, avente ad oggetto una materia (l’energia) non rientrante tra quelle per le quali opera la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit., e rispetto alla quale la normativa eurounitaria non impone espressamente l’emanazione di una decisione formale. Di talchè, decorso il termine di 120 giorni, la corretta applicazione della disciplina generale di cui all’art. 20 cit. avrebbe dovuto far concludere per l’avvenuta formazione “silenziosa” degli effetti del provvedimento ad esito positivo, con la conseguenza che il GSE avrebbe potuto al massimo intervenire in sede di riesame[61].

    Non può tacersi, tuttavia, come il non condivisibile assetto di interessi determinato dal T.A.R. del Lazio sia il frutto di un contesto di grave incertezza regolativa[62] – derivante dalla assenza di un elenco tassativo dei procedimenti per i quali non opera il regime generale del silenzio assenso[63] – incertezza la cui rilevanza è evidente in un settore, quale quello degli incentivi energetici, per il quale la prevedibilità delle decisioni pubbliche assume un ruolo determinante in termini di stabilità e tutela delle legittime aspettative degli investitori privati[64]. Nella vicenda in esame, operandosi nella materia energia, l’impresa aveva in perfetta buona fede (e correttamente) escluso dovesse trovare applicazione la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit. e giammai avrebbe potuto immaginare che il giudice amministrativo avrebbe frustrato il suo legittimo affidamento[65] ritenendo legittimo un provvedimento del GSE emanato oltre un anno dallo spirare del termine procedimentale, senza, tra l’altro, configurare alcun tipo di responsabilità per il tardivo esercizio della funzione[66].

    Tra l’altro, appare ancora più paradossale la scelta del giudice di interpretare estensivamente la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit., a fronte della recente evoluzione che è possibile registrare nel bilanciamento tra semplificazione e tutela dell’ambiente[67]: tralasciando ogni ordine di valutazione di merito, è noto come sia ormai caduto il dogma della iper-tutela procedimentale degli interessi c.d. sensibili, se solo si pensa all’estensione del regime del silenzio assenso nei rapporti tra amministrazioni (c.d. silenzio assenso orizzontale) anche alle decisioni in materia ambientale[68], il che ha indotto la dottrina a parlare significativamente di “desacralizzazione” dell’ambiente[69].  

    In conclusione, l’analisi della pronuncia in commento conferma ulteriormente il sostanziale fallimento della scelta legislativa di rendere l’art. 20 cit. norma a carattere generale[70] e ciò non solo in ragione della conseguente dequotazione dell’esercizio della funzione pubblica[71], ma anche a causa dei molteplici profili di incertezza ai quali l’applicazione di tale istituto conduce[72]. Se da un lato, quindi, appare comprensibile una tendenza di tipo restrittivo da parte di una certa giurisprudenza, preoccupata dalle derive di una semplificazione “a tutti i costi”, dall’altro lato, non è ammissibile che le criticità evidenziate vengano risolte dal giudice amministrativo attraverso una perimetrazione dell’ambito di applicazione del silenzio assenso compiuta mediante un’interpretazione a dir poco forzata della norma, pena, come si è cercato di dimostrare, l’ulteriore aggravarsi del livello di incertezza regolativa cui deve far fronte il cittadino.

    Urge, piuttosto, un “ritorno al passato”, in termini di abbandono del modello della generalizzazione del silenzio assenso – introdotto nel 2005 e confermato nel 2010 con l’inserimento del silenzio assenso nel novero dei livelli essenziali delle prestazioni – restituendo a tale istituto il suo carattere derogatorio rispetto al generale dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso di cui all’art. 2, l. n. 241/1990. In tale ottica, del resto, sembra essersi già mosso il legislatore statale. Come è noto, l’art. 5 della l. n. 124/2015 (c.d. Legge Madia) ha delegato il Governo, tra l’altro, ad adottare uno o più decreti legislativi per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di silenzio assenso ai sensi dell’art. 20, l. n. 241/1990, in tal modo (almeno in apparenza) preludendo ad un ritorno alla tipizzazione delle fattispecie incluse nell’ambito di applicazione dell’istituto in esame[73]. La delega è stata in parte attuata con il d.lgs. n. 222/2016 (c.d. SCIA 2), cui è allegata una Tabella A dove sono indicate le diverse attività private assoggettate ad autorizzazione espressa, a silenzio assenso, a s.c.i.a. o a semplice comunicazione nei settori delle Attività commerciali, dell’Edilizia e dell’Ambiente[74].

    E’ auspicabile che tale processo di tipizzazione delle fattispecie assoggettate al regime del silenzio assenso interessi quanto prima anche la materia dell’Energia, tenendo anche conto del ruolo centrale dello sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili all’interno del più ampio processo di transizione energetica previsto nel recente Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC)[75], nonché nel Piano per la ripresa dell’Europa (c.d. Recovery Fund)[76]. L’obiettivo è quello di scongiurare che – nonostante negli ultimi anni si siano avvicendati (sia a livello internazionale che nazionale) atti di regolazione, atti di programmazione, linee guida, tutti convergenti verso la centralità della promozione della green energy – il tutto finisca per essere frustrato da decisioni amministrative (e giudiziarie) poco in linea con la programmata transizione ecologica[77].

       

    [1] Sul tema si rinvia a G. Giordano, Il sindacato sui titoli autorizzativi: il potere del g.s.e. S.p.A. tra controllo formale e sostanziale, in Giustamm, 2019. 

    [2] In senso analogo anche due successive pronunce dello stesso T.A.R. del Lazio, Sez. Terza Stralcio, 14 dicembre 2020, n. 13460 e 14 dicembre 2020, n. 13462.

    [3] Cfr. il Libro Verde UE: Una Strategia Europea per Energia Sostenibile, Competitiva e Sicura, COM (2006) 105 dell’8 marzo 2006 e la Comunicazione della Commissione 2010/639 del 10.11.2010 (Energia 2020: strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura). 

    [4] “Innegabile che la transizione del mercato energetico verso un sistema a basso tasso di CO2 richieda un intervento economico pubblico per promuovere gli investimenti nella produzione di energia e per la sicurezza delle forniture”, L. Ammannati, La transizione energetica nell’Unione Europea. Il nuovo modello di governance, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 11. Sul tema v. anche G. Landi, C. Scarpa, Il livello ottimale degli incentivi verso la grid parity, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell’energia. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 80 ss.

    [5] M. Clarich, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Dir. pubbl, 1/2007, 219 ss.; L. Ammanati, Le politiche di efficienza energetica nel quadro del pacchetto europeo clima-energia, in Amministrazione in cammino, 2013, 1 ss.; F. Fracchia, Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente. Principi, concetti, istituti, Napoli, 2013, 75 ss.

    [6] Mediante i certificati verdi il legislatore ha imposto ai produttori di energia l’obbligo di immissione di una certa quota di “energia verde”, obbligo ottemperabile sia riorientando parte della propria produzione verso le fonti di energia rinnovabile, sia acquistando certificati da un produttore terzo che ha prodotto energia rinnovabile in eccedenza rispetto a quanto impostogli. V. Colcelli, La natura giuridica dei certificati verdi, in Riv. giur. ambiente, 2/2012, 179 ss.

    [7] I certificati bianchi sono titoli di efficienza energetica che certificano il conseguimento di risparmi energetici e che i distributori di energia elettrica e di gas naturale sono obbligati ad acquisire, o promuovendo progetti di efficienza energetica, o acquistando i titoli dagli altri soggetti ammessi al meccanismo. E. Tedeschi, La regolazione dell’efficienza energetica, in Riv. amm. Rep. It., 2015, 261 ss.

    [8] Si tratta di una remunerazione ulteriore, calcolata sulla base della quota di energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile immessa in rete, destinata agli impianti qualificati come Impianti alimentati a fonti rinnovabili (IAFR) dal GSE. E. Manassero, Il passaggio dai certificati verdi alla tariffa onnicomprensiva, in Ambiente e sviluppo, 7/2013, 657 ss.

    [9] Tariffe incentivanti con cui il Gestore garantisce il ritiro dell’energia rinnovabile prodotta ad un prezzo prefissato che tenga conto della componente dell’incentivo e, pertanto, più elevato di quello di mercato. E’ stato osservato che “benché tale sistema garantisca certezza circa il ritorno dell’investimento, questo meccanismo presenta tuttavia il profilo critico per cui la fissazione di un prezzo predefinito in via amministrativa sottrae la sua formazione al mercato” (M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento, in Munus, 1/2014, 53).

    [10] Sulla applicabilità del regime degli aiuti di Stato alle diverse tipologie di incentivi alla produzione di energia da fonte rinnovabile v.Corte Giust UE, 13 Settembre 2017, C-329/15, nonchè la comunicazione (2014/C 200/01) della Commissione europea recante “Disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia 2014-2020”. Sul tema si rinvia anche a F.M. Salerno, F. Macchi, Recenti sviluppi della giurisprudenza europea su meccanismi di supporto della produzione di energia da fonti rinnovabili e disciplina europea degli aiuti di Stato, in Rivista della Regolazione dei mercati, 1/2018, 160 ss.

    [11] A. Marzanti, Semplificazione delle procedure e incentivi pubblici per le energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 5/2012, 499 ss.

    [12] M. D’Auria, La finanza pubblica e le energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 6/2009, 879 ss.

    [13] M. Ragazzo, Il d.lgs. n. 28/2011: promozione delle fonti energetiche rinnovabili o…moratoria de facto?, in Urb. e app., 2011, 638 ss.

    [14] Cfr. Pagina web istituzionale del GSE, nella parte dedicata al Conto Energia, disponibile al link: https://www.gse.it/servizi-per-te/fotovoltaico/conto-energia.

    [15] Una analitica descrizione di tali modelli di incentivazione energetica è presente in https://www.gse.it/chi-siamo/attivit%C3%A0/gse-per-le-energie-rinnovabili#Meccanismi.

    [16] Cfr. il Clean energy for all Europeans package (Commissione Europea, 2016), https://ec.europa.eu/energy/topics/energy-strategy/clean-energy-all-europeans_en, in attuazione del quale l’Italia ha adottato il Piano Nazionale Integrato Energia Clima (PNIEC), ove sono individuati gli obiettivi da raggiungere per il 2030, tra i quali la copertura del 32% dei consumi energetici finali lordi da energia da fonti rinnovabili. Per un’ampia analisi del documento Europeo e delle successive azioni poste in essere dall’UE si rinvia a M. De Focatiis, Il Clean Energy for all Europeans, in in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 39 ss. 

    [17] Non risulta ancora approvato, invece, il cd. Decreto FER 2, destinato a definire regole e incentivi relativamente alla produzione di energia attraverso fonti rinnovabili innovative, quali il biogas, il solare termodinamico e la geotermia.

    [18] Per un’analisi delle criticità applicative di cui al IV° Conto energia v. G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, in Il diritto dell’economia, 3/2013, 614-615.

    [19] Sottolinea come nel settore dell’incentivazione tariffaria degli impianti fotovoltaici, le modalità procedurali introdotte dai diversi decreti interministeriali si siano spesso rivelate in contrasto con i principi generali della normativa europea e nazionale di riferimento, ispirate ai principi della semplificazione e della celerità, M.A. Sandulli, La s.c.i.a. e le nuove regole sulle tariffe incentivanti per gli impianti di energia rinnovabile: due esempi di “non sincerità” legislativa. Spunti per un forum, in Federalismi.it, 6/2011, 18-19.

    [20] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, in Ambientediritto.it, 1/2021, 1 ss.

    [21] N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, Milano, 2012, 330 ss.

    [22] In termini v. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1 luglio 2019, n. 3575, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 2 aprile 2019, n. 4308, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 1 ottobre, 2015, n. 4599, ivi.

    [23] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, 2013, 236. Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 gennaio 2015, n. 313, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [24] Sul punto e, più in generale, sugli effetti della recente introduzione del regime dell’inefficacia del provvedimento tardivo ai sensi del nuovo co. 8-bis dell’art. 2, l.n. 241/1990, sia consentito rinviare a M. Calabrò, ll silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in www.giustiziainsieme.it, 2020. 

    [25] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034, in www.giustizia-amministrativa.it.; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 28 maggio 2018, n. 3493, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [26] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, cit., 606.

    [27] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712, in www.giustizia-amministrativa.it, e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 1 settembre 2015, n. 10980, ivi.

    [28] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 giugno 2019, n. 7222; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 7 giugno 2019, n. 7460; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 18 febbraio 2019, n. 2169, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.    

    [29] Cons. Stato, Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859 in www.giustizia-amministrativa.it.

    [30] G.D. Comporti, Energia e ambiente, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2015, 283.

    [31] Su tale aspetto, invero, occorre ricordare come – al fine di evitare che in un settore strategico quale quello dell’energia, allo Stato fosse affidata unicamente la fissazione dei principi fondamentali – la Corte costituzionale abbia in diverse pronunce fatto ricorso all’istituto della chiamata in sussidiarietà per legittimare interventi statali maggiormente invasivi (cfr. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 6, in Riv. corte conti, 3/2004, 283; Corte Cost., 14 ottobre 2005, n. 383, in Giur. cost., 2005, 5). Sul tema, si rinvia a A. Colavecchio, La materia “energia” tra “nuovo” e “nuovissimo” Titolo V della Costituzione, in Studi in onore di Francesco Gabriele, Bari, 2016, 358 ss.; F. De Leonardis, La Consulta tra interesse nazionale e energia elettrica, in Giur. cost., 2004, 146 ss.

    [32] Ai sensi dell’art. 194 TFUE, la politica dell’UE nel settore dell’energia è finalizzata a: a)garantire il funzionamento del mercato dell'energia; b) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nell'Unione; c) promuovere il risparmio energetico, l'efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; d) promuovere l'interconnessione delle reti energetiche. Per un’analisi della previsione di una autonoma base giuridica europea in materia energetica e sulle conseguenze circa il diritto di ciascuno Stato membro di determinare una propria politica energetica nazionale, v. G. De Maio, Cambiamento climatico ed energia rinnovabile decentrata: il ruolo delle politiche pubbliche in un’economia circolare, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 156-165.

    [33] L. Ammanati, L’incertezza del diritto. A proposito della politica per le energie rinnovabili, in Riv. quad. dir. amb., 2011, 26 ss.; V. Molaschi, Paesaggio versus ambiente: osservazioni alla luce della giurisprudenza in materia di realizzazione di impianti eolici, in Riv. giur. ed., 5-6/2009, 171 ss.; S. Amorosino, Impianti di energia rinnovabile e tutela dell’ambiente e del paesaggio, in Riv. giur. ambiente, 6/2011, 753 ss., chiarisce come ambiente, energia e paesaggio – pur nella loro indiscutibile affinità – configurino comunque concetti dotati di piena autonomia. L’Autore parla, in particolare, di “tre prismi, cioè concetti polisensi e complessi”, che si intrecciano talvolta correlandosi, tal altra opponendosi.

    [34] Corte Giust. UE, 21 luglio 2011, causa C-2/10, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 5/2011, 1264, con nota di G. Ligugnana, Corte di Giustizia, interessi ambientali e principio di proporzionalità. Considerazioni a margine della sent. 21 luglio 2011, C-2/10

    [35] M. Marletta, Il quadro giuridico europeo sulle energie rinnovabili, in Dir. dell’Unione Europea, 3/2014, 488.

    [36] Corte Cost., 15 aprile 2019, n. 86, in Le Regioni, 3/2019, 837, con nota di C. Pellegrino, Ambiente ed Energia: la Corte costituzionale conferma i suoi orientamenti e il suo ruolo di supplenza ermeneutica. In termini cfr. Corte Cost., 6 dicembre 2012, n. 275, in Foro it., 2013, 1070; Corte Cost., 29 maggio 2009, n. 166, in Foro it., 2009, 2296; Corte Cost., 9 novembre 2006, n. 364, in Riv. giur. ambiente, 2007, 304.

    [37] Corte Cost., 15 giugno 2011, n. 192, in Riv. giur. edilizia, 2011, 1140; Corte Cost., 3 marzo 2011, n. 67, in Giur. cost., 2011, 1025.

    [38] Cfr. le Comunicazioni della Commissione europea 1997/599 del 26 novembre 1997 (Energia per il futuro: le fonti energetiche rinnovabili), 2001/69 del 16 febbraio 2001 (Attuazione della strategia e del piano di azione della Comunità sulle fonti energetiche rinnovabili), 2007/1 del 10 gennaio 2007 (Una politica energetica per l’Europa) nonché, più recentemente, le direttive 2009/28/CE e 2018/2001/UE. 

    [39] S. Quadri, L’evoluzione della politica energetica comunitaria con particolare riferimento al settore dell’energia rinnovabile, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 3-4/2011, 839 ss.

    [40] L. Farronato, Il d.gs. 222/2016 c.d. “SCIA-2”, in Disciplina del commercio e dei servizi, 1/2017, 13 ss.; E. Boscolo, La Scia dopo la legge Madia e i decreti attuativi, in Giur. it., 12/2016, 2799 ss.

    [41] Cfr. art. 11 TFUE “Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. Sul principio di integrazione v. B. Caravita, L. Cassetti, A. Morrone, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2016, 89-90;.E. Frediani, Decisione condizionale e tutela integrata di interessi sensibili, in Dir. amm., 2017, 447 ss.

    [42] P. Dell’Anno, Funzioni e competenze nella vicenda energetico-ambientale e loro coordinamento, in Rass. giur. en. el., 1987, 955 ss.

    [43] F. De Leonardis, Il ruolo delle energie rinnovabili nella programmazione energetica nazionale, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell'energia 2013. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 131 ss. 

    [44] M. Lottini, Il mercato europeo: profili pubblicistici, Napoli, 2010, 306.

    [45] Cfr. Corte Giust. UE, 19 settembre 2000, C-287/98; Corte Giust UE, 28 febbraio 1991, C-360/87; Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2014, n. 4967, in Foro amm., 2014, 2530.

    [46] Si tratta di Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [47] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 2 aprile 2013, n. 3249, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [48] A conferma di tale opzione ermeneutica è possibile richiamare quelle pronunce della Corte Costituzionale con le quali è stata dichiarata l’illegittimità di disposizioni normative regionali che avevano introdotto ingiustificati aggravi per la realizzazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in ragione del “principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione Europea”, Corte Cost., 15 aprile 2019, n. 86, in Le Regioni, 3/2019, 837, con nota di C. Pellegrino, Ambiente ed Energia: la Corte costituzionale conferma i suoi orientamenti e il suo ruolo di supplenza ermeneutica. In termini v. anche Corte Cost., 30 gennaio 2014, n. 13, in Foro amm., 2014, 372; Corte Cost., 11 febbraio 2011, n. 44, in Giur. cost., 2001, 612.

    [49] N. Longobardi, Attività economiche e semplificazione amministrativa. La «direttiva Bolkestein» modello di semplificazione, in www.amministrazioneincammino.it, 2009.

    [50] V. Parisio, Direttiva «Bolkestein», silenzio-assenso, d.i.a., liberalizzazioni temperate, dopo la sentenza del Consiglio di Stato A.P. 29 luglio 2011 n. 15, in Foro amm.-TAR, 2011, 2978 ss.

    [51] In generale, sul difficile bilanciamento, in materia energetica, tra tutela ambientale e iniziativa economica privata nell’ottica della semplificazione v. A. Moliterni, La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra tutela dell’ambiente e libertà dell’iniziativa economica privata: la difficile semplificazione ammministrativa, in Federalismi, 18/2017.

    [52] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, cit., 606.

    [53] T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, 26 novembre 2020, n. 12631, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 11 agosto 2020, n. 9158 in www.giustizia-amministrativa.it.  

    [54] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, cit., 8.

    [55] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 9 aprile 2020, n.3856, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [56] Cons. Stato, Ad. Plen. 11 settembre 2020, n. 18, in www.giustizia-amministrativa.it. In termini anche T.A.R. Lazio, Roma, Lazio, sez. III, 23 marzo 2020, n.3569 in www.giustizia-amministrativa.it, ove si  afferma che “La potestà esercitata dal GSE S.p.A., a seguito della verifica della non corrispondenza tra la situazione reale e quella dichiarata al momento della domanda di incentivazione (quale potere immanente di verifica della spettanza dei benefici previsti per la produzione di energia elettrica), non ha connotazioni sanzionatorie, trattandosi piuttosto di un atto vincolato di decadenza accertativa assunto in ragione della mancanza ab origine dei requisiti oggettivi per l’ammissione all’incentivo pubblico”. Per una ricostruzione del dibattito sulla natura dei poteri esercitati di controllo e revisione esercitati dal GSE v. G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, cit., 6-9.

    [57] M. Andreis, La conclusione inespressa del procedimento, Milano, 2006, 61 ss.; P. Lazzara, I procedimenti amministrativi ad istanza di parte, Napoli, 2008, 326. In giurisprudenza v. Cons. Stato, Sez. V, 5 novembre 2019, n. 7557, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 9 maggio 2017, n. 2109, iviContra V. Parisio, Silenzio della pubblica amministrazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 5556; T.A.R. Veneto, Sez. III, 18 giugno 2008, n. 1799, in www.giustizia-amministrativa.it. Da ultimo, su tale profilo, v. G. Strazza, L’ambito di operatività del silenzio-assenso e le esigenze di certezza, in Riv. giur. edilizia, 4/2020, 864 ss.

    [58] Al riguardo si osserva, per inciso, come il regime del silenzio assenso si configuri in ogni caso pienamente compatibile con l’esercizio di un potere discrezionale, nella misura in cui la previsione di una ipotesi di silenzio significativo non comporta affatto il riconoscimento in capo all’amministrazione della libertà di non porre in essere l’attività istruttoria necessaria e di non farsi carico di valutare gli interessi concorrenti a quello affidato all’autorità procedente. Su tale aspetto sia consentito rinviare a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, 10/2020, 40-43. 

    [59] Sulle diverse ragioni che giustificano il carattere conformativo delle autorizzazioni ambientali e sulla portata nodale dei contenuti prescrittivi in un’ottica di maggiore efficacia delle politiche di tutela dei beni ambientali, si rinvia alle riflessioni di E. Frediani, La clausola condizionale nei provvedimenti ambientali, Bologna, 2019, 121 ss.

    [60] Ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28/2011, per la costruzione e l’esercizio degli impianti da fonti rinnovabili è previsto il rilascio di un’autorizzazione unica di competenza regionale. Il successivo art. 6 specifica, tuttavia, che tale disciplina generale non trova applicazione in relazione agli impianti con una capacità di generazione inferiore individuati nei paragrafi 11 e 12 delle linee guida adottate ai sensi dell'articolo 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, per i quali è prevista l’applicazione della procedura abilitativa semplificata (PAS). Sul tema si rinvia a M.T. Rizzo, Le fonti rinnovabili e l’autorizzazione unica, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 5/2014, 1136 ss. Per un’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale, tesa a dichiara l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali volte ad estendere l’ambito di applicabilità dei regimi semplificati, v. A. Colavecchio, Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di impianti da fonti rinnovabili, in Riv. quad. dir. amb., 1/2011, 106 ss.

    [61] Di recente la Corte costituzionale è intervenuta nel settore degli incentivi energetici proprio per ribadire la necessità che gli interventi decadenziali ex post del GSE rispondano maggiormente ai canoni di adeguatezza e proporzionalità (cfr. Corte Cost., 13 novembre 2020, n. 237, in www.cortecostituzionale.it

    [62] F. Manganaro, Cenni sulla (in)certezza del diritto, in Dir. e proc. amm., 2/2019, 297 ss.; AA.VV., Annuario 2014. L’incertezza delle regole. Atti del convegno annuale, Napoli, 2015.

    [63] Sul punto si segnala, invero, come il recente Regolamento operativo per l’accesso agli incentivi in materia energetica pubblicato dal GSE il 30 settembre 2020 chiarisca che – per quanto concerne i procedimenti di cui all’attuale sistema di incentivazione – è previsto il rilascio obbligatorio di un provvedimento formale, con espressa esclusione dell’operatività del regime del silenzio assenso (https://www.gse.it/documenti_site/Documenti%20GSE/Servizi%20per%20te/FER%20ELETTRICHE/NORMATIVE/DM%20FER%202019%20Regolamento%20Operativo%20per%20l%20Accesso%20agli%20incentivi%20con%20Allegati.pdf).

    [64] “La necessità di tutelare l’affidamento del cittadino sulla certezza delle statuizioni giuridiche assume com’è noto, in relazione al fenomeno dell’incentivazione economica, ossia dell’azione pubblica con una funzione promozionale verso l’ottenimento di determinate finalità «sociali», profili assai delicati perché incide sull’esplicazione della libertà d’iniziativa economica privata alla luce dell’art. 41 Cost”, M. Cocconi,Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento, cit., 58, la quale si sofferma ampiamente sui diversi profili di incertezza nell’an e nel quantum che hanno caratterizzato i diversi Conti energia succedutisi negli anni. Sul tema del ruolo centrale rappresentato dalla certezza regolatoria in un’ottica di sviluppo del Paese si veda, da ultimo, M. Clarich, Riforme amministrative e sviluppo economico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2020, 159 ss.

    [65] F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, in Dir. econ., 1/2019, 229 ss. Sul rapporto tra perseguimento dell’interesse pubblico e affidamento del privato in materia di incentivi energetici si sofferma anche A. Travi, il quale, nel suo I poteri di revisione del g.s.e., in P. Biandino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Torino, 2017, 119 ss., osserva che “la previsione di una incentivazione, che ha come obiettivo istituzionale quello di determinare condotte specifiche dell’operatore, introduce in modo più forte la necessità di una garanzia concreta dell’affidamento”, 135.

    [66] Sulla possibilità di configurare profili di responsabilità in capo all’amministrazione che, a causa del ritardo con il quale ha rilasciato l’autorizzazione all’installazione di impianti di energia da fonti rinnovabili, abbia negato di fatto all’impresa la possibilità di accedere ai regimi di sostegno economico, v. Cons. giust. amm., sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136, annotata in questa Rivista da M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria.

    [67] In generale, per una riflessione sui margini di compatibilità esistenti tra politiche di semplificazione amministrativa e adeguata tutela degli interessi ambientali si rinvia a F. Liguori, Tutela dell’ambiente e misure di semplificazione, in Riv. giur. ed., 1/2020, 3 ss.; M. Renna, Le semplificazioni amministrative (nel d. lgs. n. 152 del 2006), in Riv. giur. ambiente, 2009, 649 ss.; F. De Leonardis, Semplificazioni e ambiente, in AA.VV., Rapporto Italiadecide 2015, Bologna, 2015, 431 ss.; M. Renna, Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. edilizia, 2008, 37 ss.

    [68] Per una ampia analisi delle conseguenze derivanti dalla recente estensione – ai sensi della nuova formulazione dell’art. 14-bis e del nuovo art. 17-bis, l.n. 241/1990 – del c.d. silenzio assenso orizzontale anche alla materia ambientale si rinvia al lavoro monografico di R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020, spec. 155 ss. e 185 ss. Sul tema del rapporto tra decisione silenziosa e interessi sensibili v. anche M. Brocca, Interessi ambientali e decisioni amministrative, Torino, 2018, 108 ss.; G. Mari, Primarietà degli interessi sensibili e relativa garanzia del silenzio assenso tra PP.AA. e nella conferenza di servizi, in Riv. giur. ed., 5/2017, 306 ss.; A. Moliterni, Semplificazione amministrativa e tutela degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio, in Dir. amm., 4/2017, 699 ss.; E. Zampetti, Note critiche in tema di silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, in S. Tuccillo (a cura di), Semplificare e liberalizzare. Amministrazione e cittadini dopo la legge 124 del 2005, Napoli, 2016, 199 ss.   

    [69] E. Scotti, Semplificazioni ambientali tra politica e caos: la via e i procedimenti unificati, in Riv. giur. edilizia, 5/2018, 366, la quale dimostra come a tale “superamento dello statuto privilegiato dell’interesse ambientale” si accompagni la “dequotazione della tutela” dello stesso.

    [70] S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, 102 ss.; M.A. Sandulli, L’istituto del silenzio assenso tra semplificazione e incertezza, in Nuove autonomie, 2012, 453 ss.; M.R. Spasiano, Riflessioni sparse in tema di semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 2009, 75 ss.

    [71] M. R. Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003, 61 ss.

    [72] Su tale aspetto sia consentito rinviare a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: 

    le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, 10/2020.

    [73] G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della legge n. 124/2015, in Dir. amm., 2016, 144; A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condannaDir. proc. amm., 2/2017, 452.

    [74] Per una prima analisi della effettiva portata chiarificatrice di tale intervento normativo si rinvia a M. A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 2019, 13-15.

    [75] L. Pergolizzi, Il d.l. n. 76/2020 nel processo di attuazione del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, in Ambientediritto, 3/2020.

    [76] https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it.

    [77] Da ultimo, sottolinea come si possa ancora oggi registrare un grave atteggiamento ostativo da parte del decisore pubblico nei confronti dello sviluppo di produzione energetica da fonti rinnovabili, in aperta contraddizione con il processo di valorizzazione della green energy in atto sia a livello internazionale che europeo S. Amorosino, «Nobiltà» (dei proclami politici) e «miseria» (dell’amministrazione ostativa) in materia di impianti di energia da fonti rinnovabili, in Analisi giuridica dell’economia, 1/2020, 255 ss. 



    La Valutazione Ambientale Strategica: ratio, caratteristiche e peculiarità (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152)

    La Valutazione Ambientale Strategica: ratio, caratteristiche e peculiarità (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152)

    di Gianluigi Delle Cave

    Sommario: 1. La vicenda – 2. Brevi cenni normativi sulla Valutazione Ambientale Strategica – 2.1. (segue) la normativa regionale lombarda in materia di VAS – 3. Analisi critica della sentenza n. 6152/2021: i rapporti tra amministrazioni nel procedimento di VAS – 3.1. (segue) la VAS e la pianificazione urbanistica – 3.2. (segue) sulla c.d. “opzione zero” – 4. Conclusioni.     

    1. La vicenda

    Con un’articolata e densa pronuncia[1], il Consiglio di Stato ha evidenziato e ulteriormente chiarito alcuni aspetti relativi all’oggetto, al procedimento e allo scopo di un fondamentale istituto della disciplina ambientale, vale a dire la Valutazione Ambientale Strategica (per brevità “VAS”).  

    Anticipando quanto meglio si dirà nel seguito, scopo della VAS consiste nella verifica degli impatti derivanti sull’ambiente naturale da strumenti urbanistici generali: in particolare, l’aggettivo “strategica” evidenzia proprio l’aspetto caratterizzante dell’istituto, costituito dalla significativa anticipazione della valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative dell’azione amministrativa conseguenti alla progettazione e adozione di piani e dei programmi. Tale valutazione, come noto, ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione, dell’adozione e approvazione di piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile. Proprio in virtù di dette finalità, la VAS – rectius la funzione della Valutazione de qua – costituisce un atto di valutazione interno al procedimento di pianificazione, cioè una valutazione degli effetti ambientali conseguenti all’esecuzione delle previsioni ivi contenute.

    Ebbene, il Collegio, nella sentenza in commento, ha affrontato e sgranato diversi punti nodali in materia di VAS, ciò attraverso una ricostruzione certosina della complessa normativa di riferimento, al fine di (i) fornire una corretta interpretazione della stessa anche alla luce della disciplina comunitaria nonché (ii) meglio delinearne i rapporti con gli strumenti di programmazione e di pianificazione urbanistica nel complesso.  

    2. Brevi cenni normativi sulla Valutazione Ambientale Strategica

    La VAS trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, con il dichiarato obiettivo di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso[2]

    La finalità di salvaguardia e miglioramento della qualità dell’ambiente, nonché di protezione della salute umana e di utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, ne impone una lettura ispirata al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo. La VAS, dunque, – così come le altre procedure di valutazione in materia ambientale – è finalizzata alla piena realizzazione del principio dello sviluppo sostenibile delle attività economiche e costituisce espressione della politica ambientale dell’Unione Europea, cioè di quell'insieme di provvedimenti e di misure miranti alla tutela dell’ambiente e delle risorse naturali, necessarie a salvaguardare la crescente scarsità delle risorse e la qualità della vita[3]. A tal proposito, la VAS si accosta, senza identificarsi con gli stessi, ad altri strumenti di valutazione, come la Valutazione di Impatto Ambientale (per brevità, “VIA”) su singoli progetti e quella di incidenza (“VI”), riferita ai siti di Natura 2000, in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela[4]. La stretta compenetrazione tra i richiamati istituti trova riscontro anche nelle considerazioni della dottrina più accorta, che ha da tempo segnalato l’esigenza di sviluppare una reale sinergia tra VIA e VAS, rafforzando qualitativamente, mediante obiettivi di sostenibilità sorretti da specifici target, la seconda, così da accelerare la prima con riferimento ad opere incardinate in piani e programmi già attentamente valutati nella loro portata generale. 

    Per contro, il legislatore, nella continua ricerca di un giusto punto di equilibrio tra adeguato livello di tutela ambientale e accelerazione delle procedure delle opere di rilevante interesse pubblico, da ultimo riferite a quelle previste nel Piano nazionale integrato energia e clima (“PNIEC”) ovvero nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (“PNRR”), ha inteso incidere pressoché essenzialmente sulla VIA, ricalibrandone le fasi, ovvero comprimendone i tempi di perfezionamento[5].

    Al di là di tali ultime considerazioni (di cui meglio si dirà nel seguito), da un punto di vista squisitamente normativo, la suddetta Direttiva 2001/42/CE è stata recepita nell’ordinamento nazionale inserendo la disciplina della VAS nel d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 c.d. “Codice dell’Ambiente” (di seguito anche “Codice”)[6].  Più nel dettaglio, per quanto qui di interesse:

    (I) l’art. 4 del Codice chiarisce le finalità della Valutazione in esame: nello specifico, si stabilisce che la valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l’attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica[7];

    (II) l’art. 6 del Codice specifica l’oggetto della disciplina: la VAS riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale[8]. Giova evidenziare che “piani” e “programmi” nel settore ambientale, al pari degli altri ambiti, hanno in comune l’essenza della funzione programmatica dell’azione della P.A., diretta ad organizzare una serie di condotte e decisioni future degli stessi organi pubblici, in senso teleologicamente coordinato e convergente[9]. Ebbene, la VAS viene effettuata per tutti i piani e i programmi[10]: a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell’aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale[11] o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, l’area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, II-bis, III e IV del Codice[12]; b) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d’incidenza ex art. 5 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357. Per i suddetti piani e programmi che determinano l’uso di piccole aree a livello locale[13] e per le modifiche minori dei medesimi piani e programmi, la valutazione ambientale è necessaria qualora l’autorità competente valuti che producano impatti significativi sull'ambiente, secondo le disposizioni di cui all’articolo 12[14] del Codice e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell'area oggetto di intervento (si parla, in tal caso, di “VAS eventuale”)[15]. Viene chiarito, inoltre, al comma 12, che le modifiche dei piani e dei programmi elaborati per la pianificazione territoriale, urbanistica o della destinazione dei suoli conseguenti all’approvazione dei piani di difesa fitosanitaria, nonché a provvedimenti di autorizzazione di opere singole che hanno per legge l’effetto di variante ai suddetti piani e programmi, ferma restando l’applicazione della disciplina in materia di VIA, la VAS non è necessaria per la localizzazione delle singole opere[16];

    (III) il successivo art. 7 ha innanzi tutto distinto la procedura di VAS a livello statale da quelle riferibili ad ambiti regionali o locali, preoccupandosi poi esclusivamente della prima, anche in relazione all’indicazione dei soggetti competenti per le varie fasi della stessa. Per i casi di rilievo locale, invece, ha fatto rinvio alle disposizioni di legge regionale o delle Province autonome, evidenziando il limite di introdurre un’arbitraria discriminazione e ingiustificati aggravi procedimentali[17]. Ciò, inoltre, ha concretamente determinato lo sviluppo di un quadro ampio e articolato di legislazione regionale, primaria e secondaria, caratterizzato da una pluralità di approcci, soprattutto per quanto riguarda le modalità procedimentali, che è difficile ricondurre a sintesi. Su quest’ultimo punto, poi, come evidenziato nel Rapporto del 2017 redatto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sullo stato di attuazione dei procedimenti di VAS, le Regioni si sono per lo più orientate nel senso di delegare le funzioni di “autorità competente” a Province, Città metropolitane e Comuni, in quanto preposti alle scelte urbanistiche nell’ambito del proprio territorio di riferimento. Proprio le scelte di governo del territorio[18], infatti, sono tipicamente atti soggetti a VAS[19];

    (IV) l’art. 11 del Codice, poi, si occupa delle modalità di svolgimento della VAS, specificando che la fase di valutazione è effettuata anteriormente all’approvazione del piano o del programma, ovvero all’avvio della relativa procedura legislativa, e comunque durante la fase di predisposizione dello stesso;

    (V) l’art. 12 disciplina la c.d. “verifica di assoggettabilità” a VAS ovvero la VAS relativa a modifiche a piani e programmi già sottoposti positivamente alla verifica di assoggettabilità (limitata ai soli effetti significativi sull’ambiente che non siano stati precedentemente considerati dagli strumenti normativamente sovraordinati);

    (VI) infine, ai sensi dell’art. 15, comma 2, del Codice, l’autorità procedente, in collaborazione con l’autorità competente, provvede, prima della presentazione del piano o del programma, per l’approvazione e tenendo conto delle risultanze del parere motivato e dei risultati delle consultazioni transfrontaliere, alle opportune revisioni del piano o programma. 

    Alla luce delle coordinate normative e regolatorie appena ripercorse, la VAS si può sinteticamente definire, dunque, come un processo formale, sistematico e comprensivo di valutazione degli impatti ambientali di una politica, di un piano o programma, e delle sue alternative, i cui risultati devono essere resi pubblici e integrati nel processo decisionale. Come altresì rilevato in dottrina, in tale quadro concettuale, la VAS si pone non solo, e non tanto, come una semplicistica e settoriale analisi descrittiva di impatti sulle risorse ambientali del sistema di azioni, e di trasformazioni, che costituiscono l’attuazione di un piano, quanto, piuttosto, come un processo che accompagna, fin quasi all’identificazione, il processo decisionale ed attuativo del piano, quindi la sua dimensione strategica. La VAS, in sostanza, non è, quindi, ontologicamente legata ad un assessment dell’esito del processo decisionale in relazione al suo impatto sull’ambiente, quanto, piuttosto, “al processo di definizione della decisione, in cui gli obiettivi di sostenibilità devono integrarsi, fin dalle prime fasi del processo stesso, con quelli di sviluppo economico e sociale[20].

     2.1. (segue) la normativa regionale lombarda in materia di VAS

     La Regione Lombardia ha introdotto la Valutazione ambientale strategica dei piani fin dalla legge 11 marzo 2005, n. 12 (c.d. “Legge per il governo del territorio”), pur demandandone la disciplina di dettaglio a successivi atti attuativi[21]. Tali atti si identificano nella delibera del Consiglio regionale del 13 marzo 2007, n.VIII/351, di approvazione degli indirizzi generali per la Valutazione Ambientale di piani e programmi (VAS)[22] e in quella della Giunta regionale del 27 dicembre 2007, n. 6420, avente ad oggetto la determinazione della procedura di Valutazione ambientale di piani e programmi, che ha dettato disposizioni volte alla definitiva entrata in vigore della VAS nel contesto regionale. 

    La legge regionale n. 12/2005 non opera alcun distinguo né contempla adempimenti preliminari ai fini della sottoposizione a VAS degli atti cui fa riferimento[23]. Inoltre, in base a tale legge – che per la Regione Lombardia ha ridefinito l’intera materia urbanistica[24] – tutti i Comuni del territorio erano tenuti ad approvare il nuovo strumento di pianificazione territoriale generale (denominato, appunto, “PGT”) entro il 31 marzo 2009, data poi prorogata al 31marzo 2012. L’art. 4, comma 2, della legge de qua, individua, poi, espressamente gli atti da sottoporre a VAS, ovvero il piano territoriale regionale, i piani territoriali regionali d’area, i piani territoriali di coordinamento, nonché il Documento di Piano di cui al successivo art. 8 e, a certe condizioni, il Piano dei servizi[25]

    Secondo la legislazione regionale lombarda, l’obbiettivo ultimo, dunque, è assicurare la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente e successivi atti attuativi, e ciò (anche) tramite la valutazione ambientale degli effetti derivanti dall’attuazione dei già menzionati piani e programmi[26]. Essa, inoltre, dispone che la valutazione ambientale è effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all’avvio della relativa procedura di approvazione, fermo restando che nella VAS del documento di piano – dispone la legge de qua – è definito l’assoggettamento o meno ad ulteriori valutazioni in sede di piano attuativo[27]. La legislazione regionale, dunque, ammette, con un certo favore ed in varie forme, la VAS anche rispetto ad una fase propriamente attuativa dei piani urbanistici, in particolar modo qualora si registrino delle varianti agli strumenti urbanistici generali[28].  

    3. Analisi critica della sentenza n. 6152/2021: i rapporti tra amministrazioni nel procedimento di VAS

    Fermo restando il quadro normativo sopra brevemente riassunto con riferimento alla VAS, i giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in commento, hanno indugiato, in primo luogo, sul rapporto tra P.A. (“competente” e “procedente”) nel procedimento ambientale in esame. In particolare, il procedimento formativo dello strumento di pianificazione urbanistica – come scolpito dalla disciplina regionale lombarda – sembrerebbe attribuire alla Provincia una posizione predominante, in deroga alla disciplina di settore, che riserva al Comune il ruolo di ente esclusivamente competente in materia urbanistica[29]. E tuttavia, una lettura costituzionalmente orientata della norma non può relegare il Comune a ruolo di supina e meccanicistica acquiescenza, “ciò a maggior ragione nel momento in cui fra un atto (quello provinciale) e l’altro (quello comunale) si sia inserita proprio la disciplina della VAS, sì da imporre una specifica e aggiuntiva valutazione di impatto”. 

    A tal fine, non può tacersi del fatto che il sistema della pianificazione territoriale urbanistica successivo alla riforma costituzionale del 2001, caratterizzato dalle leggi regionali c.d. di “seconda generazione” si presenta in maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge urbanistica del 1942[30]. Esso risponde, infatti, ad una visione meno “gerarchica” e più armonica, che vede nella leale collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici principi ispiratori delle scelte. La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale sia provinciale, si connota pertanto per una natura “mista” relativamente a contenuti – prescrittivi, di indirizzo e di direttiva – e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sotto ordinati. La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più nel solo tradizionale piano regolatore generale (in Lombardia, come detto, dopo la legge del 2005, “PGT”), ma presenta un’articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota per l’intersecarsi di disposizioni volte ad una programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo socioeconomico dell’intero contesto. 

    In buona sostanza, l’atto rimesso alla competenza dell’Ente sovraordinato (tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito territoriale più ampio, non può che essere destinato “ad indirizzare per linee generali le scelte degli enti territoriali, nel pieno rispetto dell’allocazione delle stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce, rispondendo all’obiettivo di valorizzare le peculiarità storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare il principio di adeguatezza ed efficacia dell’azione amministrativa”. Pertanto, nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della pianificazione territoriale tipicamente strutturata su vari livelli, esso si colloca “a monte”, quale inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può prescindere[31]. Quanto detto è stato affermato, peraltro, anche in relazione al rapporto tra fonti formalmente normative, con riferimento alle quali si è egualmente parlato di un rapporto non gerarchico, ma di compenetrazione funzionale[32]. Del resto, ciò trova rispondenza: (i) sia nella configurazione multilivello dei procedimenti di definizione delle scelte urbanistiche, che vuole il coinvolgimento dei vari Enti territoriali astrattamente interessati, oltre all’acquisizione del contributo collaborativo dei cittadini formalizzato nelle relative osservazioni; (ii) sia nell’incidenza delle regole, dal generale al particolare, sul medesimo ambito territoriale, all’interno del quale l’area di riferimento di quelle di maggior dettaglio si pone come un cerchio concentrico.

    Sotto altro profilo, più complessa è invece la – contestata – convergenza nel medesimo Ente della funzione di controllante e controllore, terminologia peraltro di per sé foriera di equivoci concettuali circa il corretto inquadramento dell’apporto di ciascuno alla definizione del procedimento di VAS.

    Ebbene, secondo i giudici di Palazzo Spada, dalle definizioni oggi contenute nell’art. 5 del Codice di “autorità competente” e “autorità procedente” risulta chiaro solo che entrambe sono “amministrazioni”, non che le stesse debbano essere diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in un diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente). Più in generale, secondo il Consiglio di Stato, non è condivisibile l’approccio ermeneutico che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità (i.e. competente e procedente) dalla implicita convinzione che la VAS costituisca una sorta di momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità proponente[33]. Detto approccio, infatti, è smentito dall’intero impianto normativo nella materia de qua, il quale invece evidenzia che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico, in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale[34]. In particolare, secondo i giudici amministrativi, ciò si ricaverebbe, testualmente, dall’art. 11 del d.lgs. n. 152 del 2006, che – secondo l’opinione preferibile – costruisce la VAS non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso[35], concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima[36]. Ai fini della conformità del diritto interno ai principi della Direttiva comunitaria 42/2001/CE, non rilevano, dunque, i meccanismi concretamente escogitati dagli Stati membri, bensì unicamente che essi siano idonei ad assicurare il risultato voluto di garantire l’integrazione delle considerazioni ambientali nella fase di elaborazione, predisposizione e adozione di un piano o programma destinato a incidere sul territorio[37]

    La suddetta ricostruzione parrebbe pure confermata dalle più recenti modifiche normative in materia del diverso procedimento di VIA[38]. Dette modifiche, infatti, declinano sì l’esigenza di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale, alle competenti autorità[39] ma senza incidere sulla previgente previsione in forza della quale qualora nei procedimenti di VIA o di verifica di assoggettabilità a VIA (cui la novella si riferisce specificamente) l’autorità competente coincida con l’autorità proponente di un progetto, esse provvedano a separare in maniera appropriata, nell’ambito della propria organizzazione delle competenze amministrative, le funzioni confliggenti in relazione all’assolvimento dei compiti derivanti dal Codice dell’Ambiente. Ciò militando, dunque, verso l’astratta possibilità di ridetta concentrazione di funzioni (addirittura da preferire)[40].

    3.1. (segue) la VAS e la pianificazione urbanistica 

     In linea generale, per effetto del d.lgs. n. 152/2006 e della sua integrazione contenuta nel d.lgs. n. 4/2008, devono essere sottoposti a VAS, come detto, tutti gli atti di pianificazione territoriale e di destinazione dei suoli, ovviamente in una fase preliminare alla loro approvazione. Il legislatore, dunque, ha configurato un sistema articolato da piani, programmi e progetti per i quali rispettivamente la VAS è obbligatoria, piani per i quali la VAS è soltanto eventuale, piani esclusi dall’applicazione della procedura in questione[41]

    Peraltro, dal momento che la procedura ambientale de qua è volta a garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente, sì da rendere compatibile l’attività antropica con le condizioni di sviluppo sostenibile e ad integrare le scelte discrezionali tipiche dei piani e dei programmi[42], è del tutto ragionevole che essa venga esperita prima dell’approvazione del piano, piuttosto che alla data della adozione, per far sì che la verifica dell’incidenza delle scelte urbanistiche sugli aspetti di vivibilità ambientale del territorio avvenga nel momento in cui tali scelte stanno per divenire definitive[43]. La necessaria contestualità tra la formazione dei piani e la VAS ha indotto la dottrina[44] a sostenere una lettura “integrazionista” della VAS nelle pianificazioni, rispetto ad una lettura “separazionista”, “a canne d’organo”. La procedura ambientale de qua, infatti, è co-fondativa dei piani ed è un istituto applicativo dei principi di precauzione e di sostenibilità. La particolarità, e difficoltà, è che nella VAS i principi di precauzione e di sostenibilità si applicano ad “oggetti” – come i piani territoriali – molto complessi, che ineriscono, in vario modo, ad ambiti spaziali molto vasti. Ciò spiega perché il risultato di evitare i rischi di incidenze negative sull’ambiente sia perseguibile meglio “con un intreccio ab initio tra l’elaborazione tecnica del piano, sulla base di indirizzi politico-amministrativi, e la VAS, a partire dalla delibazione dei possibili impatti sull'ambiente delle macro scelte, in corso di definizione, del piano stesso[45]. Coerentemente, quindi, con lo scopo ad essa assegnato, di valutare l’attività oggetto del piano anche sotto il profilo ambientale e non solo sotto quello, spesso in conflitto col primo, della immediata opportunità e convenienza, la VAS va compiuta – come altresì chiarito dal Consiglio di Stato – “contestualmente” all’elaborazione del piano o programma[46]. Difatti, la VAS è volta garantire che gli effetti sull’ambiente di determinati piani e programmi siano considerati addirittura durante l’elaborazione e comunque prima dell’adozione degli stessi, così da anticipare nella fase di pianificazione e programmazione quella valutazione di compatibilità ambientale[47] che, se effettuata sulle singole realizzazioni progettuali, non consentirebbe di compiere un’effettiva valutazione comparativa, mancando in concreto la possibilità di disporre di soluzioni alternative per la localizzazione degli insediamenti e, in generale, per stabilire, nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, le modalità di utilizzazione del territorio[48]

    In tale contesto, quindi, si colloca la VAS nei riguardi della pianificazione territoriale, con la quale, in buona sostanza, si passa dalla “conformità” del piano urbanistico rispetto a disposizioni contenute in altri piani di settore ovvero di un piano rispetto ad un altro, alla “compatibilità” di tutti gli interessi coinvolti dalle pianificazioni. La VAS, quindi, valuta la compatibilità di un piano in fieri e verifica che il bilanciamento degli interessi compiuto dal pianificatore sia coerente con una protezione ottimale dell’ambiente nelle sue sfaccettature effettuando un esame caso per caso[49]. Come evidenziato in dottrina, nella fase di formazione del piano, quindi, la VAS costituisce il principiale se non unico strumento operativo di cui i Comuni dispongono per fissare, in corrispondenza ad una gerarchizzazione tra le plurime valenze del territorio, rigidi valori soglia rispetto alle potenzialità espansive dei piani e soprattutto rispetto al profilo cruciale del consumo del suolo che costituisce il principale tema di fondo nella stagione di passaggio verso piani meno inflattivi proprio in quanto atti a riflettere una piena consapevolezza delle valenze ambientali[50]. Ed ancora, la norma demanda alla VAS anche la verifica che l’attività di trasformazione avvenga nel rispetto dell’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica. Invero, essa deve assicurare che l’attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, il che include un’analisi di fattibilità economica[51]; pertanto, essa non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa la astratta compatibilità ambientale del piano, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socioeconomica, tenuto conto anche delle alternative possibili, vagliando quindi tutte le possibili interrelazioni che la scelta urbanistica può arrecare alla salute umana, al paesaggio, all'ambiente in genere, al traffico ed anche all’economia di tutto il territorio coinvolto. 

    A tal proposito – anche con riferimento al decisum pronuncia in commento – di particolare interesse è il caso dei piani attuativi (o comunque degli strumenti attuativi in genere) dello piano regolatore generale (o PGT): con riferimento ad essi e alla loro ricomprensione nell’ambito applicativo della valutazione ambientale de qua, non pochi elementi di giudizio depongono nel senso sfavorevole alla tesi ermeneutica della loro ricomprensione qualora si sia in presenza di particolari presupposti soggettivi e oggettivi in ragione dei quali è possibile l’assoggettabilità di detti piani alla verifica di sostenibilità ambientale[52]. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, la VAS, può ritenersi non necessaria solo qualora il piano attuativo sia sostanzialmente riproduttivo delle previsioni della pianificazione sovraordinata[53]. Sul punto, l’art. 16, ultimo comma, della l. n. 1150/1942 (aggiunto dall’art. 5,comma 8, D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 12 luglio 2011, n.106) prevede espressamente che lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a VAS non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l’assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti planivolumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste. Nei casi in cui lo strumento attuativo di piani urbanistici comporti variante allo strumento sovraordinato, la valutazione ambientale strategica e la verifica di assoggettabilità sono comunque limitate agli aspetti che non sono stati oggetto di valutazione sui piani sovraordinati[54]. In sintesi, se è pur vero che le norme surrichiamate parlano genericamente e in generale di piani e programmi, senza includere i piani di tipo attuativo, non è possibile da ciò inferire che i piani di attuazione non rientrano nella categoria dei piani per i quali la VAS è obbligatoria e neppure tra i piani per i quali la procedura di che trattasi è esclusa ex lege. Nondimeno in base all’ordito normativo come congegnato dal legislatore, non si può escludere che i piani attuativi possono essere sottoposti a VAS in presenza di particolari presupposti sia di tipo soggettivo sia di carattere oggettivo in ragione dei quali, appunto, è possibile l’assoggettabilità di detti piani alla verifica di sostenibilità ambientale. Ed infatti, le norme passate in rassegna (v. amplius §2) prevedono pur sempre che i piani e programmi che nel settore del governo del territorio e della gestione dei suoli possono avere un impatto significativo sull’ambiente e sul patrimonio culturale, vanno sottoposti a VAS: pertanto, con riferimento ai piani attuativi, occorre effettuare una verifica in concreto dell’assoggettabilità o meno a VAS, con riferimento a due imprescindibili elementi: a) l’espressa volizione dell’Amministrazione a voler sottoporre alla procedura de qua tale tipo di piano[55]b) l’attitudine dal punto di vista oggettivo del piano ad incidere concretamente sui profili ambientali delle aree interessate[56].

    3.2. (segue) sulla c.d. “opzione zero” 

     In merito alla possibilità che nel procedimento di VAS si consideri anche la c.d. “opzione zero”, pare doveroso premettere che la Direttiva 2001/42/CE prevede che, una volta individuati gli opportuni indicatori ambientali, debbano essere valutate e previste sia la situazione attuale (scenario di riferimento), sia la situazione ambientale derivante dall’applicazione del Piano in fase di predisposizione, sia le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma (art. 5, comma 1). Come evidenziato dai giudici amministrativi, il testo non dice cosa debba intendersi per “ragionevole alternativa” a un piano o a un programma. È evidente, dunque, che la prima considerazione necessaria per decidere in merito alle possibili alternative ragionevoli deve tenere conto degli obiettivi e dell’ambito territoriale del piano o del programma. 

    Non essendo chiarito se si intendano piani o programmi alternativi, o alternative diverse all’interno di un piano o di un programma, è plausibile accedere ad entrambe le ipotesi ermeneutiche[57]. A tal proposito, l’Allegato I alla Direttiva, alla lettera b), richiede espressamente che tra le indicazioni a corredo della VAS figuri la “evoluzione probabile [del contesto ambientale] senza l’attuazione del piano o del programma”. La relativa dicitura è stata mutuata alla lettera dal legislatore nazionale che l’ha trasposta nell’allegato VI alla Parte II del Codice, laddove vengono declinati i contenuti del rapporto ambientale di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 152/2006. Con riferimento alla VIA, l’art. 22, comma 3, lett. d), del Codice menziona espressamente, quale contenuto essenziale dello studio di impatto ambientale, la c.d. “alternativa zero”, con indicazioni delle ragioni principali alla base dell’opzione scelta, prendendo in considerazione gli impatti ambientali[58]

    Al contrario, per la VAS la necessità di valutare anche l’opzione zero viene desunta dai riferimenti testuali richiamati, che in realtà richiedono di configurarsi preventivamente lo scenario conseguente alla mancanza non del piano ex se, ma della sua concreta attuazione. In buona sostanza, secondo i giudici di Palazzo Spada, “essa è intrinseca nella stessa scelta di programmazione, seppure in termini generali e astratti”. Alla luce di quanto sopra, va da sé che il concetto di opzione zero nella VAS non può identificarsi con la sostanziale pretesa di annullare la scelta urbanistica comunale, vanificando tutti gli atti pregressi, ciò in quanto il necessario sviluppo senza soluzione di continuità delle scelte di governo del territorio impone infatti a ciascuna di quelle sopravvenute di acquisire le risultanze (e gli impegni) rivenienti da quelle precedenti, attuandole, rivedendole, adattandole o innovandole, ma senza poterle certo completamente ignorare[59].

    Va peraltro ricordato come l’attuazione in concreto delle idee racchiuse negli atti di programmazione urbanistica generale sia talvolta rimessa a provvedimenti dotati di maggiore specificità, ad iniziativa pubblica o privata. In tali ipotesi, le singole progettualità di cui essi si compongono si concretizzano solo se e quando si addivenga a detta pianificazione attuativa, che diviene la necessaria cinghia di trasmissione fra la generalità delle scelte e la loro concreta realizzazione[60]. La doverosa e auspicabile compenetrazione tra gli uni e gli altri, nell’ottica di una visione complessiva dello sviluppo del territorio, rende non solo legittima, ma addirittura opportuna la posticipazione della valutazione dell’impatto ambientale a tale seconda ed eventuale fase. Da un lato, cioè, anche per evitare ai privati investimenti inutili, si afferma una astratta compatibilità con le scelte di programmazione; dall’altro, si rinvia alla loro concezione concreta l’effettività della disamina, diversamente connotata da eccesso di genericità. Sul punto, non può tacersi peraltro del fatto che – alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità – la VIA non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa l’astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socioeconomica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa “opzione zero”. Orbene, se tali principi operano in materia di VIA (procedura che si riferisce a singoli intervenuti) essi sono a fortioripredicabili con riguardo alla VAS, che per sua stessa natura si colloca nel momento, anteriore, in cui l’Amministrazione è chiamata a compiere le scelte strategiche in tema di assetto del territorio, valutando comparativamente i costi e i benefici delle diverse alternative pianificatorie. Ne deriva che una valutazione che si limiti a riscontrare la compatibilità ambientale dei singoli ambiti di trasformazione e gli effetti migliorativi che si reputano attribuibili a ciascuna delle trasformazioni previste, individualmente considerate, senza valutare effettivamente il costo ambientale delle stesse, e senza ponderare effettivamente le alternative praticabili, appare de facto carente[61].  

    4. Conclusioni

    Alla luce di quanto sopra esposto, si evince come la VAS si ponga quale processo partecipativo, cooperativo ed incrementale, avente come obiettivo il continuo miglioramento della qualità e dell’efficacia del piano.  Si tratta di un processo partecipativo in cui tutti i settori della P.A. aventi competenze e responsabilità dirette o indirette si confrontano e definiscono obiettivi, procedure e politiche[62]. La VAS, entro il procedimento di pianificazione urbanistica, funge quindi da asse attorno a cui si riallineano queste letture a scale diverse e costituisce la figura mediante la quale si afferma in concreto il primato della tutela del bene ambiente sulle esigenze fruitive e di trasformazione[63]. Detta valutazione ambientale, dunque, costituisce il principale strumento operativo di cui i Comuni dispongono per fissare, in corrispondenza ad una gerarchizzazione tra le plurime valenze del territorio, rigidi valori soglia rispetto alle potenzialità espansive dei piani e, soprattutto, rispetto al profilo cruciale del consumo di suolo, che costituisce il principale tema di fondo nella stagione di passaggio verso piani meno inflattivi “proprio in quanto capaci di riflettere una piena consapevolezza delle valenze ambientali e paesaggistiche del territorio[64]. Per effetto della VAS, quindi, nessun piano può più omettere la considerazione o, quanto meno, sottovalutare tutti questi interessi, in senso ampio, ambientali. Sul punto, inoltre, non pare possa incidere il fatto che la VAS sia compiuta da un soggetto eventualmente esterno ovvero dalla stessa autorità che procede all’approvazione del piano; ed infatti “l'intervento nella procedura di pianificazione di un soggetto chiamato a occuparsi specificamente degli interessi ambientali potrebbe costituire una garanzia per l’ipotesi (tutt’altro che remota) che questi interessi non fossero stati adeguatamente considerati, e, per così dire, adeguatamente introiettati, da parte del soggetto competente ad approvare il piano o il programma[65], fermo restando il fatto che, ai sensi delle coordinate normative già richiamate, è prescritto uno stretto rapporto di collaborazione tra autorità procedente e autorità competente alla valutazione. Proprio l’insistenza delle norme sul significato collaborativo del rapporto che deve unire autorità preposta all’elaborazione del piano e autorità competente alla VAS sembrerebbe confermare l’esclusione della VAS quale mera verifica formale di rispetto di scelte ambientali altrove compiute, con conseguente responsabilizzazione di tutti i pianificatori, e quindi anche di quelli che si occupano di assetto urbanistico[66]. A tal proposito, le esigenze di coordinamento tra autorità e semplificazione procedimentale in materia di VAS – nonché di procedure maggiormente “co-decisorie”, all’interno delle quali confluiscano non già interessi antagonisti ma interessi che nell’ambiente trovino composizione – sono state recentemente, e nuovamente, affrontate proprio nell’ambito del PNRR (in specie, dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, il cui art. 28, per l’appunto, ha apportato diverse modifiche in materia di rapporto preliminare, consultazione del pubblico e monitoraggio ambientale). E tuttavia – ancora una volta – non può non evidenziarsi come il legislatore continui a preferire, nella materia ambientale, interventi atomistici di inserimento/eliminazione di singole (e a volte isolate) disposizioni, con una gravosa stratificazione di discipline che si avvicendano anche a distanza di breve tempo, vanificando, spesso, proprio quelle esigenze di coordinamento e semplificazione bramose di riforme organiche.

    [1] La vicenda, in sintesi, trae origine dal ricorso (n. r. g. 1455/2009 e successivi motivi aggiunti) con cui l’Associazione Legambiente Onlus – e altri – impugnava innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Milano, la delibera del Consiglio comunale di Lodi n. 34 del 14 marzo 2009, avente ad oggetto la ratifica del terzo “Accordo di programma per il completamento di strutture per l’Università di Milano e la realizzazione di un Polo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico per la zootecnia e il settore agroalimentare di livello europeo”. Oggetto di rilievo, ex aliis, era la mancanza di VAS a corredo dell’Accordo di programma, che pure produce gli effetti di una variante urbanistica; secondo la ricorrente, poi, la valutazione che ha preceduto il PGT a sua volta, avendo recepito acriticamente le scelte precedenti, violava asseritamente le regole di cautela sottese all’istituto essendo priva di contenuti effettivi, come dimostrato dalla omessa considerazione della c.d. “opzione zero”. Essa, inoltre, era stata effettuata da un soggetto che, in quanto interno al medesimo Comune di Lodi, non godeva della necessaria autonomia decisionale che deve connotare la figura dell’“Autorità competente”, sicché la cornice normativa posta alla base della relativa scelta organizzativa avrebbe dovuto essere rimessa alla Corte di Giustizia UE per valutarne la conformità alla Direttiva 2001/42/CE ai sensi dell’art. 267 TFUE. Lo strumento urbanistico, infine, era da considerare inefficace per violazione del termine perentorio di 90 giorni prescritto per la sua approvazione all’esito dei rilievi della Provincia dall’art. 13 della l.r. n. 12 del 2005. 

    Il T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 20 ottobre 2014, n. 184 in giustizia-amministrativa.it, dichiarava, quindi, improcedibile il ricorso introduttivo della lite, essendo stato il contenuto dell’Accordo di programma superato da quello del nuovo Piano di governo del territorio nonché respingeva le ulteriori censure proposte con motivi aggiunti, ritenendo non provati gli eventuali profili di contrasto ambientale della VAS del PGT, effettuata prima della sua approvazione, sulla base del parere espresso dal responsabile di un settore comunale diverso da quello preposto alla redazione della proposta, e ciò in conformità con la disciplina comunitaria in materia. 

    [2] Si veda S. Grassi, Procedimenti amministrativi a tutela dell'ambiente, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, 2017, Milano, 1522 ss.; M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell'ambiente, come sistema complesso, adattivo, comune, 2007, Torino, 279 ss.; R. Rota, Profili di diritto comunitario dell'ambiente, in P. Dell’Anno, E. Picozza (a cura di), Trattato di diritto dell'ambiente, 2012, Padova, 216 ss.; E. Boscolo, La VAS nel piano e la VAS del piano: modelli alternativi di fronte al giudice amministrativo, in Urb. e app., 2010, 1108 ss. 

    [3] Si veda Cons. Stato, sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4200, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 8, 2020 ss.; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 2858, in giustizia-amministrativa.it.

    [4] Cfr. R. Dipace, A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), Impatto ambientale e bilanciamento di interessi. La nuova disciplina della Valutazione di impatto ambientale, 2018, Napoli; A. Barone, Dopo la V.I.A.: la sicurezza “sostenibile” del d.lgs. n. 104/2017, in Riv. giur. ed., 2018, 5, 291 ss.; V. Parisio, Associazioni ambientali e procedimento di valutazione dell'impatto ambientale, in Riv. giur. amb., 1991, 1, 100 ss. 

    [5] Si vedano le modifiche apportate al d.lgs. n. 152 del 2006, già ampiamente novellato con d.lgs. n. 104 del 2017, di recepimento della Direttiva 2014/52/UE, dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella l. n. 120 del 2020, ispirate anche dall’esigenza di superare la procedura di infrazione n. 2019/2308, nonché, ancor più di recente, dal d.l. n. 77 del 2021, convertito dalla l. n. 108 del 2021. 

    [6] In tema di VAS, ex plurimis, si veda F. Fracchia, I procedimenti amministrativi in materia ambientale, in A. Crosetti, R. Ferarra, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Diritto dell'ambiente, 2018, Bari, 403 ss.; G. Pagliari, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. giur. ed., 2014, 3, 202 ss.; P. Stella Richter, Diritto urbanistico. Manuale breve, 2014, Milano; E. Boscolo, Il piano regolatore comunale, in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice commentato di edilizia e urbanistica, 2013, Torino, 189 ss.; A. Milone, La valutazione ambientale strategica a seguito del d.lgs. n. 128/2010, in Riv. giur. ed., 2011, 2, 104 ss.; E. Boscolo, La valutazione ambientale strategica di piani e programmi, in Riv. giur. ed., 2008, 3, 222 ss.; L. Casini, L'equilibrio degli interessi nel governo del territorio, 2005, Milano.

    [7] In tale ambito, prosegue l’art. 4 del Codice, la valutazione ambientale di piani e programmi che possono avere un impatto significativo sull'ambiente “ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di detti piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile”.

    [8] A titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha rilevato come il Piano di zonizzazione acustica costituisce un piano avente efficacia precettiva e prevalente sulla strumentazione urbanistica comunale, in tutto e per tutto sussumibile in quegli atti e provvedimenti di pianificazione e di programmazione comunque denominati elaborati e/o adottati da un’autorità a livello nazionale, regionale o locale oppure predisposti da un’autorità per essere approvati, mediante una procedura legislativa, amministrativa o negoziale e previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, per i quali il Codice prevede il previo svolgimento della VAS (Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2015, n. 1278, in Foro amm., 2015, 3, 726 ss.).

    [9] In tale ambito, l’attività programmatica della P.A., esplicandosi nel quomodo, ovvero nell’indicare le modalità di come procedervi per le finalità di cui sopra e non nel realizzarle direttamente, si presenta eventuale nell’an, non cogente, non obbligatoria, facoltativa (cfr. A Gratani, La VAS travolge il PRG e le sue modifiche, in Riv. giur. amb., 2012, 6, 737 ss.; C. Viviani, Piani e programmi ricompresi nell'ambito di applicazione della direttiva 2001/42/ce in materia di VAS. L'interpretazione della corte di giustizia, in Amb. e svil., 2020, 10, 807 ss.; A. Rallo, Contributo allo studio della comunicazione dell'atto amministrativo: profili strutturali e valori procedimentali, 2008, Napoli).

    [10] Secondo la CGUE, in considerazione della finalità della direttiva in esame, consistente nel garantire un livello elevato di protezione dell'ambiente, le disposizioni che delimitano il suo ambito di applicazione e, in particolar modo, quelle che enunciano le definizioni degli atti ivi previsti devono essere interpretate in senso ampio (CGUE, sez. II, 7 giugno 2018, causa C-671/15, in Foro amm., 2018, 6, 937 ss., che richiama anche la sentenza 27 ottobre 2016, C-290/15, punto 40 e giurisprudenza ivi citata). L’obiettivo principale perseguito consiste nel sottoporre a valutazione ambientale i “piani e programmi” che possono avere effetti significativi sull’ambiente durante la loro elaborazione e prima della loro adozione (in tal senso, sentenza del 28 febbraio 2012, C-41/11, in Foro amm., 2012, 3, 344 ss., punto 35 e giurisprudenza ivi citata). Ai sensi della giurisprudenza comunitaria sopra richiamata, ai fini dell’obbligo di sottoposizione alla VAS, la nozione di “piani e programmi” si riferisce a qualsiasi atto che, definendo norme e procedure di controllo applicabili al settore interessato, fissi un insieme significativo di criteri e di modalità per l’autorizzazione e l’attuazione di uno o più progetti idonei ad avere un impatto notevole sull'ambiente e, pertanto, pure vi rientra un regolamento urbanistico regionale, che contiene determinate prescrizioni per l'esecuzione di progetti urbanistici, quali prescrizioni relative al riassetto di aree adiacenti agli immobili e altri spazi liberi, zone di passaggio, cortili e giardini, alle recinzioni, all’allacciamento degli edifici alle reti e alla fognatura, alla raccolta delle acque piovane e alle diverse caratteristiche delle costruzioni.

    [11] In materia di commercio, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 06 maggio 2013, n. 2446, in Foro amm.- C.d.S., 2013, 5, 1278 ss.) ha evidenziato come la previsione dell'obbligo di VAS per la costruzione di centri commerciali di cui al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 deve comprendere anche i casi di adibizione a centro commerciale di una struttura esistente, in relazione alle problematiche di natura ambientale e/o di carico urbanistico che detta tipologia di immobili comportano; ciò anche con riferimento alle ipotesi di "centro commerciale naturale" (aggregazione spontanea di esercizi commerciali). Sotto diversa prospettiva, non si può comunque sostenere che qualsiasi incremento di carico urbanistico determini la necessità di sottoporre il piano a VAS, ma solo se esso determina un significativo impatto sull’ambiente (v. T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 07 dicembre 2020, n. 737, in giustizia-amministrativa.it).

    [12] Per quanto riguarda il significato dell'espressione “quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, l’area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, III e IV del presente decreto”, secondo l’interpretazione invalsa in sede europea, non è richiesto che “determinati progetti costituiscano esplicitamente o implicitamente oggetto del piano o del programma”, essendo all'uopo sufficiente che vengano assunte “decisioni che possono influire sulla successiva autorizzazione di progetti, specialmente con riguardo all'ubicazione, alla natura, alle dimensioni e alle condizioni operative o attraverso la ripartizione delle risorse” (così ad esempio il punto 67 delle Conclusioni dell'avvocato generale Kokott del 4 marzo 2010, nelle cause riunite C-105/09 e C-110/09). In tal senso è peraltro esplicito l’art. 6 del Codice, per il quale è sufficiente che il piano contenga una disciplina idonea a regolare anche solo la futura “area di localizzazione” di uno di tali interventi. Questo è ad esempio il caso del piano regolatore generale che, secondo la legge urbanistica fondamentale nazionale, “deve considerare la totalità del territorio comunale” (art. 7, comma 1, l. n. 1150 del 1942).

    [13] Con riferimento alla nozione di “piccole aree a livello locale”, la CGUE, chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’art. 3 della direttiva 2001/42, con la sentenza, sez. III, n. 444/2016, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 234 ss., ha affermato che detta nozione “deve riferirsi alla superficie interessata, a condizione che il piano o il programma sia elaborato o adottato da un'autorità locale, e non da un'autorità regionale o nazionale, e che tale area costituisca, all'interno dell'ambito territoriale di competenza dell'autorità locale, e proporzionalmente a detto ambito territoriale, un'estensione minima” (si veda, sul punto, anche Cons. Stato, sez. II, 16 dicembre 2019, n. 1234, in giustizia-amministrativa.it).

    [14] Si tratta delle disposizioni relative alla c.d. “verifica di assoggettabilità” a VAS.

    [15] L’art. 6 cit. specifica, al comma 4, che sono comunque esclusi dal campo di applicazione del Codice (e della VAS): a) i piani e i programmi destinati esclusivamente a scopi di difesa nazionale caratterizzati da somma urgenza o ricadenti nella disciplina di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni; b) i piani e i programmi finanziari o di bilancio; c) i piani di protezione civile in caso di pericolo per l’incolumità pubblica; c-bis) i piani di gestione forestale o strumenti equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovra-aziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regioni o dagli organismi dalle stesse individuati; c -ter) i piani, i programmi e i provvedimenti di difesa fitosanitaria adottati dal Servizio fitosanitario nazionale che danno applicazione a misure fitosanitarie di emergenza. 

    [16] Detta disposizione, secondo la giurisprudenza amministrativa, deve interpretarsi nel senso che “quando la modifica al Piano, derivante dal progetto, sia di carattere esclusivamente localizzativo, la VIA è sufficiente a garantire il principio di sviluppo sostenibile, non essendo necessaria una preliminare fase strategica che evidenzi altre opzioni localizzative. Logico corollario è che qualora la localizzazione proposta dovesse essere, secondo la VIA, pregiudizievole per l'ambiente nonostante ogni cautela, il progetto andrà incontro ad una mera inibizione” (Cons. Stato, sez. II, 20 maggio 2014, n. 2569, in Foro Amm., 2014, 5, 1418 ss.). La Sezione ha anche chiarito che tale soluzione normativa “avendo principalmente ad oggetto il progetto (e non il Piano da variare), è caratterizzata da un approccio ‘non’ preventivo, ossia non finalizzato alla ricerca di opzioni localizzative alternative (com'è tipico dell’approccio concomitante e collaborativo della VAS), ma focalizzato esclusivamente alla valutazione dell'impatto ai fini di un'alternativa si/no”. In sintesi, detta previsione ha ragion d’essere solo “laddove il singolo progetto importi varianti relative alla sola ubicazione dell'impianto potenzialmente pregiudizievole per l'ambiente nell'ambito territoriale considerato dallo strumento pianificatorio di settore”, non essendo, per contro, “consentito apportare alla pianificazione settoriale alcuna modifica della destinazione di un sito in esso compreso, attraverso il rilascio in sede di esame di singoli progetti di autorizzazioni concernenti attività antropiche estranee al novero di quelle considerate nella prodromica attività di pianificazione”. In sostanza, modifiche alla pianificazione attraverso scelte progettuali non prefigurate dalla prima possono essere legittimate dalla VIA, senza la necessità di rinnovare quella ambientale strategica, solo se dette modifiche abbiano carattere “esclusivamente localizzativo” mentre, per contro, non è consentito apportare alla pianificazione settoriale alcuna modifica della destinazione di un sito in esso compreso, attraverso il rilascio in sede di esame di singoli progetti di autorizzazioni concernenti attività antropiche estranee al novero di quelle considerate nella prodromica attività di pianificazione (si veda, sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1164, in Foro Amm., 2020, 2, 247 ss.). 

    [17] Ciò in ossequio all’art.3 quinquies del Codice, non a caso rubricato “principio di sussidiarietà e di leale collaborazione”.

    [18] Secondo CGUE, 22 marzo 2012, C-567/10, in federalismi.it, la VAS trova applicazione anche in caso di modifica o abrogazione, totale o parziale, dello strumento di pianificazione. Ciò in quanto anche il venir meno dell'efficacia, integrale o parziale, della strumentazione di pianificazione in essere o una sua modifica, può comportare la genesi o l'aumento degli effetti significativi sull'ambiente. Di conseguenza, una nuova VAS deve essere immediatamente apprestata prima di procedere a deliberare le varianti della pianificazione in essere.

    [19] Come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa (v., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152, in giustizia-amministrativa.it), la delega de qua non può non risolversi, al pari del resto di quanto avviene con riferimento alla tutela del vincolo paesaggistico, ove egualmente demandata a tali Amministrazioni, nella concentrazione delle attività istruttorie e di quelle valutative nel medesimo contesto organizzativo, sicché le relative scelte “devono farsi carico di garantire una reale separazione e autonomia di giudizio tra le articolazioni interne indicate come competenti in concreto”. Non a caso, nel medesimo Rapporto ministeriale, si evidenzia anche come la frammentazione dei procedimenti conseguita a tali deleghe si sia risolta in un onere aggiuntivo per le Regioni, chiamate a monitorare i procedimenti attivati sul territorio, garantendo la necessaria unitarietà della governance. Essa ha altresì fatto emergere intuibili problematiche di compatibilità della possibilità di sostenere in modo efficace la valutazione e il monitoraggio ambientale di strumenti di pianificazione territoriale caratterizzati da quadri ambientali complessi o destinatari di particolari misure di tutela e salvaguardia, con la capacità tecnica ed economica dei comuni demograficamente più piccoli. Per contro, l’analisi della giurisprudenza amministrativa, costituzionale e comunitaria, nonché dei contenuti delle procedure di infrazione semplicemente avviate, ha portato ad escludere qualsivoglia incompatibilità con la richiamata cornice ordinamentale della normativa nazionale in ordine ai soggetti a vario titolo coinvolti nel procedimento (si veda, in dettaglio, i contenuti del paragrafo 2.2 del Rapporto in esame, rubricato “Rispetto della normativa comunitaria e nazionale”).

    [20] C. Zoppi, F. Isola, C. Pira, Valutazione ambientale strategica e programmazione dello sviluppo urbano come attuazione della pianificazione strategica dei comuni della Sardegna, in Rass. it. di val., 2013, 2, 234 ss. Gli autori, in particolare, rilevano come la VAS sia “intrinsecamente legata al paradigma della sostenibilità, in quanto si pone come piano della sostenibilità, rappresentato dagli obiettivi della tutela dell’ambiente, che diventa momento e parte del processo di piano”. Essa, quindi, si configura come una sorta di “coscienza critica fondata sulla sostenibilità delle azioni di piano, che si esplicita in una parte del sistema degli obiettivi del piano”.

    [21] Si veda E. Boscolo, Le regole dell'urbanistica in Lombardia, 2006, Milano, 114 ss.; P. Urbani, Territorio e poteri emergenti. Le politiche di sviluppo tra urbanistica e mercato, 2007, Torino, 172 ss.

    [22] Precisamente, in tali indirizzi, il legislatore regionale ha precisato che la normativa in materia di VAS ha comportato un significativo cambiamento nel modo di elaborare i piani ed i programmi, in quanto si rende ora necessario “accompagnare i P/P – i.e. piani e i programmi – in tutta la sua vita utile ed oltre attraverso un’azione di monitoraggio”, di talché la “VAS va intesa come un processo continuo, che si estende lungo tutto il ciclo vitale del P/P”. Detti indirizzi generali, poi, dispongono la VIA per tutti i P/P elaborati per i settori “della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli” (art. 4, comma 2), i quali poi vengono indicati in un elenco “meramente compilativo e non esaustivo” (art. 4, comma 3), disponendo che “l'integrazione della dimensione ambientale nei P/P deve essere effettiva, a partire dalla fase di impostazione fino alla sua attuazione e revisione, sviluppandosi durante tutte le fasi principali del ciclo di vita del P/P”. Ancora, viene specificato che “il filo che collega le analisi/elaborazioni del P/P e le operazioni di VAS appropriate per ciascuna fase rappresenta la dialettica tra i due processi e la stretta integrazione necessaria all'orientamento verso la sostenibilità ambientale” (art. 5, comma 2). Infine, è stabilito che nella fase di attuazione di gestione debba essere prevista anche la valutazione dei possibili effetti ambientali delle varianti di P/P, sicché la gestione del P/P può essere considerata come “una successione di procedure di screening delle eventuali modificazioni parziali del P/P, a seguito delle quali decidere se accompagnare o meno l'elaborazione delle varianti con il processo di VAS” (art. 5, comma 19).

    [23] Sul punto, giova evidenziare che l’immediata precettività delle disposizioni in materia contenute nella fonte primaria è già stata affermata in via pretoria (ex aliis. v. Cons. Stato, sez. IV, 29 aprile 2019, n. 2698 in giustizia-amministrativa.it), ove si è rilevato come l’art. 7 del d.lgs. n. 152 del 2006 (nella versione antecedente alla riforma introdotta con il d.lgs. n. 4/2008) “sottoponeva a VAS i piani e i programmi della pianificazione territoriale anche se non soggetti a VIA, solo se possono avere effetti significativi sull’ambiente; pertanto l’autorità competente all’approvazione del piano o del programma deve preliminarmente verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente secondo i criteri di cui all’Allegato II alla parte seconda del presente decreto (i.e. il Codice)”.

    [24] Per un’accorta e sintetica analisi della normativa regionale, si rinvia a S.R. Masera, La VAS del piano attuativo conforme allo strumento urbanistico generale, in Urb. e app., 2013, 5, 560 ss.

    [25] Si segnala che il Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, ha rilevato come tale indicazione sarebbe già di per sé sufficiente a sconfessare le tesi volte ad escludere il PGT dalla valutazione ambientale in esame. Ed infatti, ai sensi dell’art. 7 della l.r. cit., il Piano di governo del territorio è articolato in un “Documento di Piano”, un “Piano dei servizi” e un “Piano delle Regole”: “è evidente quindi che, anche dando rilievo alla formulazione letterale della norma, la previsione della sottoposizione a VAS del Documento di Piano, in combinato disposto con la definizione dello stesso quale componente essenziale dello strumento, ne implica il vaglio in termini di compatibilità ambientale”. I giudici di Palazzo Spada hanno, inoltre, rilevato come l’elencazione di cui al citato comma 2 dell’art. 4 abbia portata solo “esemplificativa”, funzionale cioè all’obiettivo di scongiurare, con specifico riferimento agli atti programmatori espressamente menzionati, letture restrittive della previsione generale contenuta nel comma 1 dell’art 4 sopra citato, laddove si richiamano genericamente e in maniera onnicomprensiva (tutti) i piani e programmi di cui alla direttiva 2001/42/CEE.

    [26] In dottrina, si veda V. Parisio, E. Boscolo, La Lombardia: innovazioni in attesa della riforma, in E. Ferrari, P. Portaluri, E. Sticchi Damiani (a cura di), Poteri regionali ed urbanistica comunale, 2005, Milano, 179 ss.

    [27] Peraltro, nei casi in cui lo strumento attuativo del piano di governo del territorio (PGT) comporti variante, la VAS e la verifica di assoggettabilità sono comunque limitate agli aspetti che non sono già stati oggetto di valutazione (così il comma 2 ter dell’art. 4 della l. r. n. 12/2005).

    [28] La giurisprudenza amministrativa lombarda, sul punto, ha osservato che la finalità della VAS è quella di considerare l’impatto sull’ambiente di piani e programmi, per cui l’obbligo di ripetere la VAS può ragionevolmente prospettarsi solo a fronte di modificazioni, apportate allo strumento adottato, tali da determinare un maggior impatto sull’ambiente delle scelte di piano, mentre nessuna necessità di reiterare la procedura valutativa può ravvisarsi laddove, in sede di approvazione, si introducano misure finalizzate a incrementare le misure di tutela ambientale previste nel piano (così T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 04 ottobre 2016, n. 1803, in giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 08 ottobre 2018, n. 2228, in Foro amm., 2018, 10, 1712 ss.). 

    [29] L’art. 13, comma 5, della l.r. 12/2005 prevede, infatti, che l’approvazione dello strumento urbanistico comunale (PGT) debba essere preceduta dalla sottoposizione del “Documento di Piano” (cfr. art. 13, comma 5) all’esame della Provincia per il vaglio di compatibilità con il PTCP.

    [30] Il riferimento è alla l. n. 1150 del 17 agosto 1942.

    [31] Sul punto, si veda Cons. Stato, sez. II, 15 ottobre 2020, n. 6263 in Riv. giur. ed., 2020, 6, 1604 ss., ove si chiarisce che la funzione urbanistica appartiene al Comune, per cui è da escludersi alcun effetto automatico delle modifiche dei piani. In particolare, nella fattispecie ivi descritta, i Comuni, dunque, “sono sì tenuti a adeguarsi alle disposizioni contenute nel piano regolatore del consorzio a.s.i., ma, qualora ciò non avvenga, va escluso ogni effetto automatico di conformazione dell'uso del territorio, potendo i consorzi a.s.i. reagire unicamente con gli ordinari strumenti giurisdizionali avverso il loro inadempimento. Pertanto, in assenza di recepimento delle prescrizioni dei piani regolatori dei consorzi a.s.i. nell'ambito dei piani regolatori comunali successivamente adottati, dette prescrizioni non sono rilevanti come parametro di legittimità di atti amministrativi” (si veda anche T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 01 dicembre 2010, n. 26452, in Foro amm.-T.A.R., 2010, 12, 3953 ss.).

    [32] Da ultimo, specificamente in tema, Corte cost., 16 luglio 2019, n. 179 in Foro Amm., 2020, 10, 1818 ss., richiamata da Cons. Stato, sez. II, 20 ottobre 2020, n. 6330 in giustizia-amministrativa.it, ove si chiarisce che nel sistema delle fonti pluralistico che governa l’attuale ordinamento, con specifico riguardo al rapporto sussistente fra la funzione di pianificazione urbanistica ed edilizia, di cui è titolare il Comune, e le norme regionali, “è improprio assumere a parametro di riscontro il principio di gerarchia, e ciò in quanto la risoluzione degli ipotetici contrasti fra le diverse fonti normative riposa in apicibus sul principio di competenza, costituente il portato giuridico del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost.”.

    [33] Come evidenziato da Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133, in Riv. giur. ed., 2011, 4, 940 ss., l’autorità competente alla VAS non deve essere necessariamente individuata in una pubblica amministrazione diversa da quella avente qualità di “autorità procedente”. Tale conclusione “appare confortata dalle modifiche apportate al Codice dal d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, laddove già a livello definitorio si distingue tra il ‘parere motivato’ che conclude la fase di VAS e il ‘provvedimento’ di VIA: a conferma che solo nel secondo caso, e non nel primo, si è in presenza di una sequenza procedimentale logicamente e ontologicamente autonoma”.

    [34] Come evidenziato in dottrina, (E. Boscolo, op. cit.) la norma statale prevede una sorta di sessione preliminare dedicata all'affinamento metodologico (si potrebbe parlare di “metavalutazione”) da svolgersi in contraddittorio tra l’amministrazione proponente e l’autorità preposta alla VAS, nella quale si assumeranno le misure necessarie a garantire un percorso integrato del procedimento di piano e della procedura di VAS e si fisseranno (in termini stipulativi) le coordinate operative (criteri, indicatori, calendario della partecipazione, etc.). Nella prassi, l’avvio effettivo della VAS viene tuttavia ordinariamente a coincidere con tale prima “conferenza di verifica” tra amministrazione procedente e autorità competente circa le impostazioni meramente metodologiche del redigendo rapporto ambientale. 

    [35] La VAS – come processo endogeno e partecipato/inclusivo – si caratterizza proprio per un continuo feedback sulle politiche di piano, in cui tutti i soggetti coinvolti migliorano la propria conoscenza dei fenomeni territoriali, che il piano si propone di interpretare ed orientare, e la propria attitudine cooperativa nel rapportarsi reciprocamente (cfr. S. Lai, C. Zoppi, Un’ontologia dei processi di valutazione ambientale strategica per i piani urbanistici, in Italian Journal of Regional Science, 2012, 1, 131 ss.). 

    [36] La conformità di tale lettura alla ratio ispiratrice della retrostante disciplina comunitaria è già stata affermata in giurisprudenza: ex plurimis, si veda Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133 in Riv. giur. amb., 2011, 3, 530 ss., ove si chiarisce che poiché la VAS non è configurata come un procedimento o un subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione è legittima e anzi quasi fisiologica l’evenienza che l’autorità competente alla VAS sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa autorità procedente.

    [37] Né soccorrerebbe a diversa lettura l’art. 97 della Costituzione, ovvero, la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello stesso (art. 117, lett. g). Il principio di separazione tra politica e gestione, infatti, “costituisce il cardine dell’ordinamento dirigenziale e non può essere messo in discussione dalla valenza necessariamente politica nel senso etimologico del termine delle scelte di governo del territorio. Eventuali condizionamenti capaci di incidere sulla legittimità delle scelte tecniche attengono alla patologia dei rapporti interistituzionali, di certo non alla loro fisiologica e regolare dialettica”.

    [38] Pare opportuno evidenziare, sinteticamente, che la differenza sostanziale fra VAS e VIA risiede nel fatto che la prima prende in esame l’incidenza che i piani e i programmi urbanistici, paesaggistici, etc., possono avere su un’area vasta. Questo perché un PRG o uno qualsiasi degli altri piani e programmi indicati dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 implicano un potenziale stravolgimento dell'intero territorio al quale il piano o programma si riferisce. La VAS analizza quindi tutte le possibili interrelazioni che simili decisioni possono arrecare alla salute umana, al paesaggio, all'ambiente in genere, al traffico, all'economia, etc. di tutto il territorio coinvolto dal piano. La VIA, al contrario, analizza l’impatto ambientale del singolo progetto, il che vuol dire che essa prende in esame impatti inevitabilmente più circoscritti – perché il progetto riguarda una porzione del territorio in ogni caso più ridotta rispetto a quella investita dal piano –  ma maggiormente valutabili perché il progetto, rispetto al piano, si basa su dati concreti, necessariamente definiti e più attuali rispetto a quelli avuti presenti in sede di redazione del piano e quindi di effettuazione della  VAS (sul punto, sia consentito il rinvio a G. Delle Cave, Le politiche pubbliche ambientali. Strumenti, diritto, prospettive, 2015, Roma). In estrema sintesi, dunque, la VIA interviene sull’attività a valle della pianificazione, cioè rispetto ai provvedimenti amministrativi di assenso necessari per realizzare il singolo progetto, rispetto ai quali l’attività pianificatoria costituisce un presupposto. Al contrario della VIA, la VAS viene in considerazione allorquando l’intervento che deve essere valutato chiama in causa i poteri pianificatori e programmatori della parte pubblica. In giurisprudenza, si veda C.G.A.R.S., 31 dicembre 2020, n. 1217 nonché T.A.R. Marche, sez. I, 06 marzo 2014, n. 291, entrambe in giustizia-amministrativa.it.

    [39] Si veda l’art. 50, comma 1, lett. c), punto 3, del d.l. n. 76 del 2020, che ha modificato sul punto l’art. 7 bis, comma 6, del d.lgs. n. 152/2006.

    [40] Secondo i giudici amministrativi, “ciò è talmente vero che nel prendere atto dell’avvenuto trasferimento di molte competenze in materia di VAS statale al neo istituito Ministero della transizione ecologica si è altresì previsto che la valutazione dell’impatto ambientale venga rilasciata dall’Autorità competente nell’ambito del procedimento autorizzatorio”. Del resto, come riportato dalla relazione illustrativa del d.l. n. 77 del 2021, “si tratta di una importante semplificazione, tenuto conto che con l’istituzione del Ministero della transizione ecologica ai sensi dell’articolo 2 del decreto legge n. 22 del 2021, convertito con modificazioni, dalla legge n. 55 del 2021, le competenze in materia di autorizzazione di numerosi impianti sono state trasferite dal Ministero dello sviluppo economico al Ministero della transizione ecologica, di talché in questi casi la procedura autorizzativa e quella di valutazione di impatto ambientale, pur se esercitate da distinte Direzioni generali, fanno capo al medesimo Ministero”.

    [41] Come evidenziato in giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 08 settembre 2015, n. 4194, in giustizia-amministrativa.it) i presupposti che rendono necessaria la VAS sono esclusivamente oggettivi e riposano semplicemente nel ricadere o meno di un certo progetto fra le tipologie per le quali la normativa contenuta nel d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 o nelle leggi regionali contempla la verifica d'impatto ambientale, potendo differenziarsi soltanto fra le ipotesi in cui tale verifica è obbligatoria “ex lege” e quelle in cui è meramente facoltativa, imponendo il legislatore soltanto una preliminare verifica di assoggettabilità (c.d. screening) intesa appunto ad accertare se l'intervento debba o meno essere assoggettato alla verifica ambientale.

    [42] V.C. Videtta, Interessi pubblici e governo del territorio: l'ambiente come motore della trasformazione, in Riv. giur. ed., 2016, 2, 393 ss.; F. Cangelli, Piani strategici e piani urbanistici. Modelli di governo del territorio a confronto, 2012, Torino. 

    [43] Cons. Stato, sez. IV, 26 settembre 2019, n. 6438, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui la procedura di VAS, quale passaggio endoprocedimentale, non deve avvenire al momento dell’adozione del piano o programma, ma dovrà essere esperita prima del varo finale dello stesso, consistente, per l’appunto, nell’approvazione, affinché la verifica dell’incidenza delle scelte urbanistiche sugli aspetti di vivibilità ambientale del territorio avvenga nel momento in cui tali scelte stiano per divenire definitive. In termini, Cons. Stato, sez. IV, 26 settembre 2017, n. 4471, in Foro amm., 2017, 9, 1822 ss. In dottrina, si veda F. Fracchia, F. Mattasoglio, Lo sviluppo sostenibile alla prova: la disciplina di VIA e VAS alla luce del D.Lgs. n. 152/2006, in Riv. trim. dir. pubbl., 2008, 3, 121 ss.; G. Manfredi, VIA e VAS nel codice dell'ambiente, in Riv. giur. amb., 2009, 3, 63 ss.

    [44] R. Boscolo, VAS e VIA: limiti e potenzialità degli strumenti applicativi del principio di precauzione, in Urb. e app., 2008, 5, 541 ss.; S. Amorosino, La valutazione ambientale strategica dei piani territoriali ed urbanistici e il silenzio assenso di cui al nuovo art. 17 bis l. n. 241/1990, in Urb. e app., 2015, 12, 1245 ss. 

    [45] S. Amorosino, op. cit.

    [46] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 giugno 2016, n. 2921, in giustizia-amministrativa.it

    [47] A tal proposito, giova evidenziare come – anche sulla scorta della giurisprudenza amministrativa – l’art. 11 del Codice costruisce la VAS non già come un procedimento o sub-procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell'espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima sicché, stante la sua natura endoprocedimentale, il relativo provvedimento non è immediatamente ed autonomamente impugnabile, prima della definizione del procedimento pianificatorio (ex aliis, T.A.R. Liguria, sez. I, 21 novembre 2013, n. 1404, in Foro amm.- T.A.R., 2013, 11, 3335 ss.). 

    [48] T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 26 febbraio 2014, n. 359, in Foro amm., 2014, 2, 598 ss. In termini, Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4926, in Foro amm.- C.d.S., 2012, 9, 2289 ss.

    [49] Sul punto, si rinvia a R. Leonardi, La valutazione ambientale strategica (VAS) e i piani urbanistici di dettaglio (PUD): quella linea sottile tra conformità e compatibilità. A proposito della sentenza della Corte costituzionale n. 118/2019, in Riv. giur. ed., 2019, 4, 888 ss.

    [50] In particolare, F. Mattassoglio, I costi ambientali del costruire: VIA, VAS e AIA, in E. Boscolo, M.A. Cabiddu (a cura di), Il governo del territorio, 2020, Torino, 254 ss.; P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, 2012, Milano; G. Cartei, Il problema giuridico del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 3, 1261 ss.

    [51] Si veda T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 19 dicembre 2012, n. 5256, in Foro amm.- T.A.R., 2012, 12, 3980 ss., ove si evidenzia che “lo scopo della VAS consiste nella verifica degli impatti derivanti sull'ambiente naturale da strumenti urbanistici generali; in particolare, l'aggettivo ‘strategica’ evidenzia l'aspetto caratterizzante dell'istituto, costituito dalla significativa anticipazione della valutazione delle possibili conseguenze ambientali negative dell'azione amministrativa conseguenti alla progettazione e adozione di piani e dei programmi […]. Tale valutazione ha quindi la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e approvazione di piani e programmi, assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile”. In termini, T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, 28 dicembre 2016, n. 1874, in giustizia-amministrativa.it;

    [52] Cons. Stato, sez. IV, 31 novembre 2012, n. 5715, in Riv. giur. ed., 2012, 6, 1472 ss., ove si evidenzia che, ai sensi dell’art. 4 e ss. d.lgs. n. 152/2006, devono essere sottoposti a VAS i piani e programmi che possano avere un impatto significativo sull'ambiente e sul patrimonio culturale; non è allora escluso che anche i piani attuativi possano essere sottoposti a VAS in presenza di particolari presupposti da verificarsi in concreto, quali l’espressa volontà della P.A. a sottoporre a detta procedura tale tipo di piano e all’attitudine del piano stesso a incidere sui profili ambientali delle aree interessate. 

    [53] Ex multis, si veda Cons. Stato, sez. IV, 07 agosto 2020, n. 4974, in giustizia-amministrativa.it.

    [54] La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che, mentre il piano attuativo in variante è sicuramente sottoposto a VAS, non sussiste un obbligo analogo per il piano attuativo conforme al piano generale, ove quest’ultimo sia stato sottoposto a VAS. Se ne inferisce che, nei casi in cui il piano attuativo è conforme al piano sovraordinato ma quest’ultimo non è stato sottoposto a VAS, la valutazione in ordine all’assoggettamento o meno a valutazione ambientale strategica dovrà essere effettuata in concreto, tenendo conto del contenuto del piano e del suo ambito di incidenza (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 9 maggio 2013, n. 1203, in giustizia-amministrativa.it).

    [55] Sul punto non può non evidenziarsi che se, da un lato, la possibilità della P.A. di porsi limiti nell’esercizio del potere (amministrativo) ulteriori rispetto a quelli già previsti ex lege è vista con favore, nel caso delle valutazioni ambientali l’esigenza di incrementare i profili di tutela ambientali (tramite vincoli ulteriori rispetto a quelli già previsti dalla legge) deve confrontarsi con esigenze altrettanto importanti, ad esempio connesse con la semplificazione procedimentale (cfr. M. Renna, Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. ed., 2008, 3, 37 ss.).

    [56] Cons. Stato, sez. IV, 13 novembre 2012, n. 5715 cit.

    [57] In tal senso, del resto, si è espressa anche la Direzione generale dell’Ambiente della Commissione europea in un documento esplicativo destinato ad aiutare gli Stati membri, gli Stati candidati e i Paesi in via di adesione a capire pienamente gli obblighi contenuti nella direttiva e ad assisterli nel recepimento nel diritto nazionale e, altrettanto importante, a creare o a migliorare le procedure che daranno effetto agli obblighi giuridici. Con specifico riferimento ai piani per la destinazione dei suoli o di quelli per la pianificazione territoriale si è altresì chiarito che “le alternative ovvie sono usi diversi di aree designate ad attività o scopi specifici, nonché aree alternative per tali attività”.

    [58] Ciò ha comportato che ne è stata ritenuta essenziale la presenza ai fini della correttezza e compiutezza dell’istruttoria, dovendo la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull’ambiente del progetto unitariamente considerato essere effettuata proprio “alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. opzione-zero”, onde ponderare il sacrificio imposto all’ambiente rispetto all’utilità socioeconomica perseguita (sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2016, n. 1225 in giustizia-amministrativa.it).

    [59] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 17 giugno 2021, n. 1489, in giustizia-amministrativa.it, ove, in relazione ad un’opera viaria già prevista non in via meramente indicativa, si legge che “la presenza della progettata arteria stradale avrebbe dovuto essere presa in considerazione in ogni caso nell'ambito della VAS. Si tratta, infatti, indubbiamente di un elemento che, anche laddove già previsto da un precedente atto pianificatorio, presenta di per sé un rilevante impatto sull'assetto urbanistico comunale ed è quindi necessariamente chiamato a comporre - se non altro - il quadro dei dati conoscitivi rilevanti ai fini dello svolgimento della VAS”. In buona sostanza, la VAS non è infatti volta a ponderare, atomisticamente, le singole trasformazioni introdotte dal nuovo piano, prevedendo eventuali mitigazioni ad esse soltanto relative. Al contrario, essa è “specificamente finalizzata a fornire al pianificatore tutti gli elementi necessari per valutare le complessive ricadute ambientali dell'insieme delle scelte operate nel contesto territoriale esistente”. Ne deriva che “la circostanza stessa che la VAS non faccia menzione di un'importante infrastruttura viaria, destinata a lambire l'abitato e ad attraversare un ambito attualmente agricolo, costituisce di per sé indice di carenza della relativa istruttoria”. E infatti, anche laddove la scelta di realizzare la strada sia riconducibile a un precedente strumento urbanistico, l’omessa considerazione delle sue previste ricadute ambientali non potrebbe consentire al soggetto pianificatore di tenere conto dell'impatto dell’arteria stradale de qua al fine di effettuare le ulteriori scelte specificamente riferibili al nuovo piano.

    [60] Sul punto, si evidenzia che non è necessaria la VAS laddove il singolo progetto, assentito in sede di VIA, importi varianti relative alla sola ubicazione dell'impianto potenzialmente pregiudizievole per l’ambiente nell’ambito territoriale considerato dallo strumento pianificatorio di settore. Non è per contro consentito apportare alla pianificazione settoriale alcuna modifica della destinazione di un sito in esso compreso, attraverso il rilascio, in sede di esame di singoli progetti, di autorizzazioni concernenti attività antropiche estranee al novero di quelle considerate nella prodromica attività di pianificazione. Come detto, infatti, pur rispondendo alla medesima logica, la valutazione ambientale strategica e quella di impatto ambientale si collocano in snodi differenti dell'esame delle possibili ricadute sull'ecosistema di attività potenzialmente nocive: la prima attiene alla verifica dei possibili impatti derivanti dall'attuazione di piani, mentre la seconda è circoscritta al singolo progetto. Conseguentemente, la prima sarebbe vanificata laddove possano essere apportate variazioni sostanziali connesse ad attività non considerate (sul punto, si veda Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 263, in giustizia-amministrativa.it).

    [61] In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV, 30 novembre 2012, n. 5715 cit.; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 27 febbraio 2015, n. 576, in giustizia-amministrativa.it.

    [62] Come evidenziato in dottrina, il processo, endogeno, di VAS configura un processo cooperativo ed inclusivo “ad intra” cioè rivolto all’interno della pubblica amministrazione, cui deve far riscontro ed accompagnarsi un analogo processo “ad extra”. Condizione per l’efficacia della VAS, nello spirito della Direttiva UE, è, dunque, “la sua attitudine cooperativa, a livello istituzionale, tra autorità competenti per il processo pianificatorio e autorità preposte al processo valutativo, e, anche, la sua attitudine inclusiva, cioè il suo orientamento a favorire, e, anzi, a catalizzare la partecipazione delle comunità locali, del ‘pubblico’, al processo pianificatorio-valutativo”. (S. Lai, C. Zoppi, op. cit.).

    [63] La funzione del piano urbanistico quale strumento di tutela dell’ambiente trova conferma anche nella progressiva centralità assunta, nel dibattito sui contenti dei piani, dal tema del consumo del suolo e, segnatamente, dalla configurazione di questo come “bene comune ambientale”. Si è rilevato, infatti, come tutto ciò prefigurerebbe un “rovesciamento del tradizionale rapporto tra l'urbanistica (ed il diritto urbanistico) e le c.d. tutela parallele”: sarebbe, infatti, proprio l'urbanistica “a riconoscere lo statuto di bene ambientale del suolo e a profilare i primi proto-dispositivi di tutela di una fondamentale risorsa” (E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in Urb. e app., 2014, 2, 131 ss.).

    [64] E. Boscolo, La VAS nel piano e la VAS del piano: modelli alternativi di fronte al giudice amministrativo, in Urb. e app., 2010, 9, 1104 ss.

    [65] G. Manfredi, op. cit.

    [66] C. Videtta, Interessi pubblici e governo del territorio: l'“ambiente” come motore della trasformazione, in Riv. giur. ed., 2016, 4, 393 ss. ove si rileva che la VAS introduce l’ambiente come “interesse a bilanciamento necessario”, realizzando conseguentemente – proprio a fronte dell’implementazione di tale tipo di valutazione ambientale – una sorta di controspinta in senso centripeto, restituendo almeno in parte gli interessi ambientali al bilanciamento discrezionale (anche) della pianificazione locale.


    La vis expansiva della sanatoria edilizia e il limite delle aree naturali protette (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152)    di Marco Brocca

    La vis expansiva della sanatoria edilizia e il limite delle aree naturali protette (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152)  

    di Marco Brocca

    Sommario: 1. La fisionomia della sanatoria edilizia. 2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette. 3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici. 4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo.

    1. La fisionomia della sanatoria edilizia

    È noto che la cd. sanatoria edilizia costituisca una manifestazione – tra le più eloquenti – del potere dell’amministrazione di regolarizzare ex post un’attività del privato che è contra ius, perché posta in essere senza il supporto del titolo abilitativo prescritto dall’ordinamento ovvero in difformità del titolo rilasciato per quella fattispecie. Si tratta di potere con forza sanante che differisce dalla sanatoria amministrativa propriamente detta, la quale è espressione del potere di autotutela attraverso cui l’amministrazione emenda i provvedimenti amministrativi viziati, con l’effetto di convalidarli e di conservarne l’efficacia. Si è in presenza di potestà differenti, ma accomunate dall’effetto sanante prodotto nei confronti di attività contra ius, di privati in un caso e dell’amministrazione nell’altro, che condividono un ulteriore profilo. La capacità sanante non è possibile in relazione a qualsivoglia vizio invalidante, in quanto possono essere emendati solo vizi formali e non sostanziali. Questa distinzione ha fornito tradizionalmente un’utile chiave di lettura per affrontare la questione dell’ammissibilità di siffatti poteri in assenza di esplicita copertura legislativa. Questione che ha portato la dottrina e la giurisprudenza ad ammettere in termini generali la sanatoria amministrativa e altri provvedimenti di secondo grado, come la convalida, perché emanazione dell’autotutela amministrativa, a sua volta ritenuta immanente al potere amministrativo e connaturata all’imperatività e all’inesauribilità del potere stesso, nonché in applicazione del principio di conservazione dei valori giuridici con i corollari dell’economicità dell’azione amministrativa e del divieto di aggravio procedimentale. Al contempo, l’applicabilità della sanatoria amministrativa e di altri provvedimenti ad esito conservativo è stata ristretta alla presenza di vizi formali e non sostanziali, in assenza di diversa statuizione normativa. 

    La medesima impostazione è stata seguita in relazione all’attività di privati posta in essere senza i necessari titoli abilitativi. Esemplare è l’ambito dell’attività edilizia: la questione dell’ammissibilità di un titolo edilizio postumo, sorta all’indomani della legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150), introduttiva dell’obbligo di licenza edilizia, e corroborata dalla cd. legge ponte del 1967 (legge 6 agosto 1967, n. 765) che ha esteso l’obbligo agli interventi da realizzare sull’intero territorio comunale, è stata affrontata proprio secondo il discrimen tra abusi formali e abusi sostanziali. In altre parole, non appariva ragionevole l’applicazione delle medesime sanzioni agli interventi realizzati senza il titolo abilitativo, ma conformi alla disciplina urbanistica e a quelli sprovvisti di autorizzazione e, in ogni caso, contrari alle previsioni urbanistiche. Si sosteneva, altresì, l’irrazionalità e l’antieconomicità di un’azione amministrativa, prima applicativa delle sanzioni (anzitutto quella demolitoria) e poi permissiva del medesimo intervento, perché conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda. Inoltre, si evidenziava che la ratio del potere di vigilanza edilizia non è tanto quella del controllo meramente formale e strumentale dell’attività costruttiva, quanto quella di assicurare la tutela dell’assetto del territorio e il suo ordinato sviluppo come configurato dagli strumenti urbanistici, di cui anzi l’intervento realizzato è attuativo se è accertata la sua conformità, sia pure ex post. Insomma, l’inversione dell’ordine ‘atto amministrativo di assenso-attività del privato’ non è da considerare inficiante e sanzionabile in termini assoluti e aprioristici, qualora l’amministrazione accerti, sebbene ex post, la conformità dell’intervento[1].

    Questo ragionamento ha trovato formalizzazione normativa dapprima con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 13[2], poi con il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico dell’edilizia), art. 36, che hanno configurato la sanatoria edilizia[3]in termini di istituto generale e permanente, tipizzandone al contempo i presupposti: tra questi rileva, come noto, la necessità per l’autore dell’abuso edilizio di dimostrare la conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento che a quello della presentazione della domanda di sanatoria (cd. doppia conformità)[4].

    2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette

    L’approccio tradizionalmente seguito dal legislatore nella regolazione del territorio è quello di massimizzare i diversi interessi emergenti (uso del suolo, protezione della natura, gestione forestale, difesa dell’assetto idrogeologico, tutela del paesaggio, ecc.) con apposite normative, con l’effetto di creare un sistema multiplo di disciplina del territorio, che, se da un lato denota lo sforzo del legislatore di cogliere e curare molteplici esigenze connesse al territorio, dall’altro suscita un problema di sovrapposizione di regole che pretendono, ma nella pratica difettano di adeguate forme di coordinamento e integrazione. Gli effetti, come noto, sono moltiplicatori e quasi mai eliminatori, di frantumazione e dispersione delle competenze, di complicazioni e incertezze procedurali, di performance amministrative inefficienti, di dispersione dei controlli, di annacquamento delle responsabilità, di aggravi non sempre preventivabili per gli operatori privati, di conflittualità processuali[5].

    Alla logica delle tutele parallele risponde anche la disciplina sui parchi, la cui normativa di riferimento a livello statale è rappresentata dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394. Si tratta di legge-quadro sulle aree naturali protette che ha sancito un deciso cambio di rotta nella protezione della natura: l’opzione non è più quella di promuovere la realizzazione di “sacrari” ambientali, destinati a una musealistica ed elitaria contemplazione, quali erano i primi parchi nazionali (istituiti negli anni ‘20 e ‘30)[6], bensì quella di istituire aree in cui la finalità della «conservazione di specie animali o vegetali» si concilia con l’«applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale» (art. 1, comma 3, lett. a-d).

    In altre parole, il parco è concepito quale locus di confluenza e integrazione di vari interessi, ovvero, come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale, come «centro di imputazione di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali, educativi e ricreativi, in una corretta e moderna concezione dell’ambiente»[7].

    Sul fondamento che l’elemento antropico concorra alla formazione del patrimonio naturale e del suo carattere dinamico anziché esserne un elemento di disequilibrio, la legge non assoggetta il territorio protetto a un indistinto sistema di tutela statico-conservativa, ma ne articola il regime secondo un criterio di gradualità e differenziazione che fa corrispondere alla diversa qualificazione delle zone – «riserve integrali», «riserve generali orientate», «aree di protezione», «aree di promozione economica e sociale», «aree contigue» – differenti regimi (art. 12). Come è stato detto, la sfida proposta dalla legge è ambiziosa, quella di rendere i parchi “preziosi laboratori in grado di coniugare la conservazione rigorosa delle risorse naturali con lo sviluppo delle popolazioni locali”[8].

    L’ottica di un “uso multiplo” delle aree protette ispira l’impianto complessivo della normativa ed è rinvenibile espressamente in disposizioni, quali l’art. 7 sulle misure di incentivazione per gli enti locali (restauro dei centri storici, opere di risanamento dell’acqua, dell’aria e del suolo, attività sportive compatibili, ecc.), gli artt. 11-12-25 sul regolamento e sul piano del parco, quali strumenti preposti alla disciplina dell’«esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco» e l’art. 14 di promozione di «iniziative atte a favorire lo sviluppo economico e sociale delle collettività eventualmente residenti all’interno del parco e nei territori adiacenti».

    La massimizzazione dell’interesse naturalistico si traduce in un regime di tutela speciale sul piano organizzativo e funzionale. Dal primo punto di vista basti pensare all’istituzione di un’apposita struttura amministrativa, l’ente parco, quale organo gestore dell’area protetta, titolare di poteri di regolazione, gestione e controllo delle attività potenzialmente in grado di incidere sul territorio. La sua una composizione è di tipo “misto”[9], espressiva di più interessi e competenze, quelle propriamente tecnico-scientifiche e quelle di portata più generale, di provenienza statale e locale, canalizzate attraverso le tradizionali rappresentanze politiche e amministrative, nonché per il tramite delle associazioni ambientaliste.

    Sul piano funzionale rilevano peculiari strumenti di tipo regolamentare (il regolamento del parco, art. 11), programmatorio/pianificatorio (il piano del parco, art. 12; il piano pluriennale economico e sociale, art. 14) e autorizzatorio (il nulla osta, art. 13).

    La presenza anche in questo settore ambientale del regime autorizzatorio e la sua estensione su ambiti di attività vasti e variegati riflette bene un profilo essenziale della configurazione giuridica dell’ambiente. Quello che muove dalla considerazione per cui gli interventi pregiudizievoli, se non impediti, comportano effetti spesso irreversibili: ne consegue la centralità di principi come quelli di prevenzione e precauzione e l’essenzialità di controlli preventivi dell’amministrazione secondo un parametro, quello ambientale, rafforzato e prioritario.

    Il regime autorizzatorio compare nella gran parte della legislazione settoriale e il dato che emerge è la sommatoria dei diversi controlli amministrativi, che evocano competenze e procedimenti distinti. Questo è particolarmente evidente per le aree naturali protette. Salvo ulteriori e peculiari situazioni, un intervento modificativo in area protetta impone la previa acquisizione di tre distinti titoli abilitativi: il titolo edilizio (ai sensi del d.P.R. 380/2001), l’autorizzazione paesaggistica (in quanto il parco è bene paesaggistico secondo il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio) e il citato nulla osta dell’ente parco.

    La compresenza di questi regimi abilitativi suscita non poche difficoltà applicative, legate soprattutto alla natura delle relazioni tra i diversi atti di assenso (se di autonomia, presupposizione, unificazione, fungibilità, ecc.). La questione affrontata dai giudici amministrativi nella vicenda in esame riguarda proprio il collegamento tra il titolo edilizio comunale e il nulla osta di competenza dell’ente parco. 

    3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici

    A seguito di accertato abuso edilizio e di ingiunzione di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi i ricorrenti, autori dell’abuso, hanno presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 380/2001. L’area interessata dagli interventi abusivi rientra in un parco nazionale (Parco nazionale del Vesuvio) e, per questo, l’amministrazione comunale, competente per l’accertamento di conformità, ha richiesto i pareri di accertamento della compatibilità paesaggistica alla soprintendenza che rispondeva positivamente, e all’ente parco, per l’accertamento della conformità naturalistico-ambientale, che invece si esprimeva dapprima con un’ordinanza di sospensione dei lavori in corso e di ingiunzione di demolizione delle opere abusive e poi con un parere negativo.

    Le determinazioni dell’ente parco sono state impugnate per molteplici profili, ma la questione giuridica principale – e preliminare – riguarda l’ammissibilità della sanatoria edilizia in aree naturali protette. Infatti, nell’ambito delle aree perimetrate a parco, l’art. 36 d.P.R. 380/2001, che, come visto, disciplina l’accertamento di conformità (prodromico al rilascio del permesso edilizio in sanatoria), va coordinato con l’art. 13 legge 394/1991 secondo cui il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere è subordinato al preventivo nulla osta dell’ente parco che ne verifica la conformità con la tutela dell’area naturale protetta (comma 1).

    La questione è se il nulla osta previsto dal citato art. 13, con la necessaria “previetà” del suo rilascio, vada interpretato nel senso di ritenerlo riferito soltanto agli interventi ancora da realizzare ovvero anche rispetto a opere già realizzate. Detto altrimenti, la lettura combinata delle due disposizioni evoca due possibili ‘scenari’: 1) all’interno di un’area protetta un’opera abusivamente realizzata è sanabile secondo la procedura dell’art. 36 testo unico dell’edilizia anche qualora non sia stato previamente acquisito il nulla osta dell’ente parco di cui all’art. 13 legge 394/1991, per il cui rilascio può innestarsi un sub-procedimento nell’ambito del procedimento edilizio; 2) l’opera abusiva non è sanabile neanche se sussistono i presupposti dell’art. 36 citato qualora l’intervento, prima della sua realizzazione, non sia stato supportato dal nulla osta dell’ente parco. 

    Secondo la prima tesi il nulla osta dell’ente parco può essere acquisito anche successivamente alla realizzazione dell’opera nell’ambito del procedimento di sanatoria edilizia; per la seconda tesi l’acquisizione previa alla realizzazione dell’opera del nulla osta dell’ente parco è condicio iuris per l’accertamento di conformità edilizia, con l’effetto che l’applicabilità di quest’ultimo istituto si sterilizza in assenza, appunto, del rilascio del titolo abilitativo dell’ente parco prima della realizzazione dell’intervento edilizio.

    Alla prima tesi ha aderito il giudice di primo grado (Tar Campania, Napoli, sez. III, 16 aprile 2019, n. 2160), alla seconda il Consiglio di Stato con la sentenza qui annotata.

    Il Tar opta per la prima interpretazione richiamando “ragioni di ordine sistematico e funzionale”: in particolare, i giudici osservano che “con l’espressione ‘previa’ riferita al rilascio del nulla osta adoperata nel citato art. 13 si è inteso evidenziare il carattere necessariamente strumentale e funzionale assolto dal nulla osta (pur nella sua testuale ‘immediata’ impugnabilità) nell’ambito di un più ampio procedimento teso al rilascio di concessioni o autorizzazioni evidentemente al fine di condizionarne il contenuto”, nella consapevolezza che l’ente parco deve esprimere la propria valutazione in modo autonomo e esclusivo, in quanto attributario di un interesse distinto da quello proprio delle altre amministrazioni coinvolte nella vicenda amministrativa (comune e soprintendenza). Concludono i giudici che “per assolvere ad una tale funzione, il nulla osta deve avere carattere necessariamente preventivo (non rispetto alla realizzazione dell’opera abusiva, ma) in funzione del rilascio del permesso in sanatoria, altrimenti non comprendendosi come sarebbe in grado di influenzare un provvedimento (l’accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 380/2001) che, per definizione, deve essere emesso soltanto in sanatoria”.

    Più articolato è l’iter argomentativo seguito dal Consiglio di Stato per affermare la natura esclusivamente preventiva del nulla osta di cui all’art. 13 della legge sulle aree protette, con il corollario dell’inapplicabilità della sanatoria edilizia con riferimento a interventi realizzati nell’ambito di aree protette qualora non supportati, sin dall’inizio, dal nulla osta dell’ente parco. 

    4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo

    Il ragionamento del Consiglio di Stato muove da una considerazione, ritenuta insuperabile e dirimente: la “differenziazione di ambiti” che connota la disciplina dei parchi, rispetto alla quale quella che può essere considerata la disciplina generale (la normativa urbanistico-edilizia) deve confrontarsi e, ove inevitabile, arrestarsi.

    Richiamando giurisprudenza dell’Adunanza plenaria[10] e della Corte costituzionale[11], ricorda il Consiglio di Stato che il legislatore italiano con la legge-quadro sulle aree protette ha voluto introdurre per determinare aree uno “speciale regime di tutela e di gestione”, riconoscendo i parchi “come aree di protezione integrale della natura nelle quali vale il principio della c.d. ecologia profonda che implica la conservazione integrale della natura e limitati interventi di antropizzazione”. L’approccio differenziato si traduce in una serie di “strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco”, che sono atti sia generali (regolamento del parco) e pianificatori (piano del parco) e valgono a disciplinare ex ante “in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale»”; sia di natura provvedimentale, il nulla osta dell’ente parco, che “si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un’area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento”.

    Ricorda il Consiglio di Stato inoltre che la specialità della materia si manifesta parimenti sul piano organizzativo, con la previsione di un ente di scopo, l’ente parco, titolare, tra l’altro, di un generale potere di controllo a presidio dell’interesse naturalistico e ambientale di cui è attributario. 

    Un ulteriore passaggio compiono i giudici attraverso il richiamo della rilevanza costituzionale dell’interesse naturalistico massimizzato dalla legge-quadro, in quanto sussumibile in quello ambientale, che – come ricordano i giudici – assurge al rango di “valore costituzionalmente rilevante”. Questa qualificazione induce i giudici a due approdi: da un lato, la primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale che comporta l’autonomia, nonché l’irriducibilità e l’infungibilità, del regime speciale dei parchi rispetto alla disciplina generale urbanistico-edilizia, cui consegue il corollario per cui il nulla osta dell’ente parco costituisce atto non solo autonomo e preliminare rispetto al titolo edilizio, ma anche sempre preventivo rispetto agli interventi e alle opere edilizie. In altre parole, il nulla osta dell’ente parco non mutua caratteri e attitudini di altri titoli abilitativi, come la possibile acquisizione postuma, né si adatta ad altri regimi amministrativi, come quello di accertamento di conformità ex art. 36 testo unico dell’edilizia. Conclude il Consiglio di Stato che “si ritiene corretta l’interpretazione rigorosa dell’art. 13 della legge sulle aree protette, che ammette solo nulla osta preventivi”, con l’effetto che “non rileva in alcun modo l’istituto dell’accertamento di conformità che rimane di applicazione generale”, ma non nell’ambito dei parchi rispetto ai quali sussistono “ragioni di tutela così ampie [che] non ammettono sanatorie su opere realizzate senza titolo”. 

    Il richiamo del piano costituzionale vale ai giudici anche per esprimersi su una questione correlata, benchè non invocata dai ricorrenti. Il modello sancito dalla legge quadro potrebbe essere derogato a livello regionale, nel senso che potrebbero sussistere disposizioni regionali che ammettono l’acquisizione del nulla osta dell’ente parco anche in via postuma: osservano i giudici che simili disposizioni permissive “sarebbero comunque da sottoporre a vaglio costituzionale, perché la tutela dell’ambiente spetta allo Stato”. L’inciso evoca evidentemente la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui la disciplina dei parchi deve intendersi espressione dell’esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s, Cost., con la specificazione che la legislazione regionale può soltanto determinare livelli di maggior tutela, in virtù della natura primaria e trasversale dell’interesse ambientale[12]

    A fondamento delle conclusioni i giudici richiamano due ulteriori argomentazioni. La prima muove dalla considerazione fattuale e dalla correlata finalità di “evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia)”.

    La seconda richiama la disciplina paesaggistica (applicabile anche per le aree protette, che come visto costituiscono beni paesaggistici vincolati ex lege). Nella normativa di riferimento, il d.lgs. 42/2004, è espressamente sancito il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (art. 146, comma 4), ma la statuizione si completa con la previsione, del tutto eccezionale e limitata alle fattispecie tipizzate, per cui l’autorizzazione paesaggistica postuma è ammessa per specifici interventi di lieve entità (cd. abusi minori, art. 167, comma 4)[13]. Ebbene, osserva il Consiglio di Stato che “nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell’ambito dei parchi”.

    Come si vede, la considerazione della specialità della materia dei parchi e della primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale sotteso ispira e fonda l’intero percorso argomentativo e le conclusioni del Consiglio di Stato.

    La chiave di lettura adoperata dai giudici evoca indirettamente una delle questioni, classiche e perenni, del trattamento giuridico dell’interesse ambientale: la tensione tra la necessità di un regime differenziato, che implica la resistenza rispetto all’applicazione di istituti generali, come quelli di semplificazione o ad efficacia sanante, ovvero la permeabilità e idoneità (se non utilità) a recepire i medesimi istituti generali. Una tensione, che come noto, caratterizza la genesi e l’evoluzione di tutta la legislazione ambientale, ma anche e prima, della legge generale sui procedimenti amministrativi: si tratta di una ‘storia’ che ha conosciuto alterne vicende con un dato normativo che oscilla tra i due poli con accentuazione ora di una opzione ora dell’altra secondo disegni non sempre razionali. Peraltro, la direzione che sta prevalendo è nel senso di un’attenuazione della differenziazione dei regimi e questo dato è emerso dapprima nella legislazione speciale (si pensi all’accontamento del parere soprintendizio nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004 ovvero all’applicazione del silenzio assenso in alcune procedure relative alla gestione dei rifiuti, come quelle di cui agli artt. 214 e 221 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, testo unico dell’ambiente, nonché al rilascio del nulla osta dell’ente parco, esaminato nel presente commento) poi in quella generale (si pensi al silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, anche quelle esponenziali di interessi sensibili, secondo il nuovo art. 17-bis legge 7 agosto 1990, n. 241).

    L’approccio seguito dal Consiglio di Stato che enfatizza la specialità della materia può essere utile per comprendere l’evoluzione di un altro istituto a efficacia sanante, il condono edilizio, anch’esso al centro di traiettorie divergenti – peraltro più delicate e controverse perché innervate da preliminari questioni sulla ‘tollerabilità’ dell’istituto –  quando si discute del suo accostamento con gli interessi sensibili.

    Il condono edilizio, come noto, vale per legittimare interventi abusivi non sanabili e risponde a una logica, come chiarito dalla Corte costituzionale, “contingente e del tutto eccezionale”, è istituto ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” e il suo fondamento giustificativo va individuato nella “necessità di ‘chiudere un passato illegale’ in attesa di poter infine giungere ad una repressione efficace dell’abusivismo edilizio, pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche ‘ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria’ ”[14]. Un istituto, dunque, da considerare come extra ordinem e destinato a operare una tantum nell’ottica di un definitivo superamento di situazioni di abuso. L’istituto è stato introdotto con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, poi confermato con la legge 23 dicembre 1994, n. 724, quindi ribadito con il decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326.

    La legislazione sul terzo condono ha previsto condizioni di applicabilità dell’istituto più restrittive, proprio con riferimento alle aree vincolate. Infatti, la prima legislazione sul condono (quella del 1985, ribadita nel 1994) ammette che «le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione» «[s]ono suscettibili di sanatoria» (art. 32, comma 2, legge 47/1985) in presenza di determinate condizioni, indicate nel comma 2 del medesimo art. 32 e che per esse «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria [...] è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso» (comma 1). Inoltre, l’art. 33 della legge 47/1985 stabilisce che «non sono suscettibili di sanatoria» le opere che siano in contrasto con vincoli posti «a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici», «qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse». Quindi, secondo la prima legislazione il condono è possibile anche per interventi abusivi realizzati in aree vincolate, come i parchi: la differenziazione di regime rispetto al condono edilizio in area non vincolata è garantita dalla previsione dell’obbligo di acquisizione di parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela dell’area vincolata e dall’avvertenza dell’inapplicabilità nel caso di vincolo che comporta l’inedificabilità assoluta, con l’ulteriore precisazione che deve trattarsi di vincolo preesistente alla realizzazione dell’intervento.

    La legislazione del 2003 sul terzo condono sancisce l’inapplicabilità del condono edilizio nell’ambito delle aree vincolate prevedendo che «le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, nel caso in cui: [...] d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli [...] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici» (art. 32, comma 27); peraltro, dispone la permanente vigenza della normativa precedente (più favorevole) ai fini dell’esame delle istanze di condono presentate in base alle leggi del 1985 e del 1994 (art. 32, comma 43-bis).

    Il superamento della precedente distinzione tra inedificabilità assoluta e relativa con il corollario dell’effetto ostativo al condono anche dei vincoli che comportano inedificabilità relativa, si comprende in ragione dell’attenzione prestata dal legislatore agli interessi sensibili implicati, che sono, secondo le parole della Corte costituzionale, “per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi”[15].

    Il nuovo assetto normativo ha suscitato diverse questioni, come quella dell’ammissibilità di soluzioni legislative, di fonte regionale, che estendono il suddetto effetto ostativo al caso di vincoli sopravvenuti. È questa l’opzione seguita ad esempio dal legislatore laziale secondo cui non sono condonabili le opere abusive eseguite su immobili sottoposti a vincolo ambientale “realizzate, anche prima della apposizione del vincolo” (art. 3, comma 1, lett. b, l.r. Lazio 8 novembre 2004, n. 12), norma che è stata portata recentemente all’attenzione della Corte costituzionale per questioni legate, più che al consueto parametro dell’art. 117 Cost.[16], alla tenuta della norma rispetto ai principi di ragionevolezza e certezza del diritto[17]. La Corte ha ritenuto la disposizione regionale pienamente legittima perché “il regime più restrittivo introdotto dalla legge regionale ha come obiettivo la tutela di valori che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici, ambientali, idrogeologici e archeologici, sicché non è irragionevole che il legislatore regionale, nel bilanciare gli interessi in gioco, abbia scelto di proteggerli maggiormente, restringendo l’ambito applicativo del condono statale, sempre restando nel limite delle sue attribuzioni”[18].

       

    [1] Sulla genesi della sanatoria edilizia e sulla sua legittimità in assenza di un’espressa previsione legislativa v., soprattutto, F. Saitta, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 863 ss.; A. Crosetti, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2004, 434 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, 580 ss.; V. Milani, Commento dell’art. 36, in S. Battini – L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale, Codice di edilizia e urbanistica, Torino, 2013, 1397 ss.; V. Brigante, Accertamenti di conformità: tracce di una controversa evoluzione, in Riv. giur. edil., 2018, 173 ss.

    [2] Una prima ipotesi era prevista dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10 (cd. legge Bucalossi), art. 15, che limitava il permesso in sanatoria ai casi di annullamento della concessione edilizia e di varianti non essenziali.

    [3] L’art. 36 del testo unico dell’edilizia denomina l’istituto come «accertamento di conformità», che va considerato come la “condicio iuris” per l’emanazione del permesso in sanatoria. In altre parole, l’accertamento di conformità costituisce “l’atto di valutazione tecnico-giuridica della rispondenza dell’intervento realizzato alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, su cui si deve fondare il titolo abilitativo de quo”, con l’effetto della “configurazione del permesso in sanatoria come provvedimento vincolato” rispetto all’accertamento di conformità: così G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 586-587.

    [4] Per questa via la sanatoria edilizia si pone a metà strada tra il permesso di costruire e il condono edilizio. Rispetto al titolo abilitativo ex ante, la sanatoria edilizia si differenzia non solo per l’obbligo della doppia conformità, ma anche sul piano dell’onerosità per il pagamento del contributo di costruzione maggiorato a titolo di oblazione. Dal punto di vista procedimentale rilevante è anche il distinto significato attribuito dalla legge all’inerzia della p.a. rispetto all’istanza del privato, in quanto nel caso del procedimento di rilascio del permesso di costruire il silenzio vale assenso, mentre la mancata pronuncia sull’istanza di sanatoria edilizia è qualificata come silenzio diniego (sul punto rileva l’ordinanza del Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 22 luglio 2021, n. 8854, di rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità, segnalata da M.A. Sandulli, Addenda 2021 a “Principi e regole dell’azione amministrativa”, in www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2021). Rispetto al condono edilizio la sanatoria si differenzia perché si tratta di un istituto generale e permanente, mentre il condono ha carattere temporaneo ed eccezionale e vale a regolarizzare opere abusive insanabili, su cui v. infra par. 4. Il criterio della doppia conformità tipizzato dalla legge con l’istituto dell’accertamento di conformità ha suscitato la questione della sopravvivenza di un’ulteriore ipotesi di sanatoria, cd. impropria o giurisprudenziale, che richiederebbe la sola conformità dell’opera abusiva alla disciplina vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo. Ipotesi che denota la vis expansivadell’istituto in nome dei principi di buon andamento, ragionevolezza ed economicità dell’azione amministrativa, ma che appare recessiva in ragione del preciso modello impresso dal legislatore e, dunque, in ossequio al principio di legalità (per tutti, v. A. Travi, La sanatoria giurisprudenziale delle opere abusive: un istituto che non convince, in Urb e app., 2007, 339 ss.).

    [5] Per un’analitica descrizione della situazione normativa attuale in termini di «tutele parallele e concorrenti», a seconda cioè delle intersecazioni o meno della disciplina (generale) relativa al governo del territorio con quelle (speciali) per la tutela dell’ambiente, si rinvia, tra gli altri, a F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, 257 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 877 ss.; A. Crosetti, Le tutele differenziate, in A. Crosetti – R. Ferrara – F. Fracchia – N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Roma-Bari, 2018, 271 ss.; Id., Il rapporto autorità-libertà nei modelli di tutela dell’ambiente, in S. Perongini (a cura di), Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Torino, 2017, 358 ss.: P. Chirulli, I rapporti tra urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca – P. Stella Richter – P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, I, Torino, 2018, 20 ss. Il problematico confronto non è solo “esterno” nei rapporti tra la disciplina generale e quella/e speciale/i, perché possono verificarsi situazioni di conflittualità “interna” nel confronto tra discipline speciali (ad es. tra la tutela del paesaggio e la promozione di fonti energetiche rinnovabili, come nel caso dell’installazione di pale eoliche su dorsali collinari vincolati), su cui vale la felice metafora della “lotta tra giganti dai piedi di argilla” formulata da F. Salvia, Emergenza e tutela ambientale, in P. Dell’Anno – E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. Tutele parallele norme processuali, III, Padova, 2015, 17 ss. Il sistema multiplo delle tutele evoca anche la questione istituzionale, su cui rileva la considerazione di R. Ferrara, Precauzione e prevenzione nella pianificazione del territorio: la “precauzione inutile”?, in Riv. giur. edil., 2012, 63, secondo il quale si tratta di categorie «troppo spesso costruit[e] come semplici paraventi con i quali schermare il caos irrisolto delle relazioni intersoggettive fra lo Stato ed il sistema delle autonomie territoriali». Sottolinea che tra le tutele differenziate quella del paesaggio costituisca una delle espressioni più concrete ed emblematiche del pluralismo istituzionale ed amministrativo A. Crosetti, Paesaggio e natura: la governance in uno Stato multilivello, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. La tutela della natura e del paesaggio, III, Milano, 2014, 163; similmente P. Marzaro, Epistemologie del paesaggio: natura e limiti del potere di valutazione delle amministrazioni, in Dir. pubbl., 2014, 865.

    [6] Si tratta dei parchi nazionali: Gran Paradiso, r.d.l. 3 dicembre 1922, n. 1584; Abruzzo, r.d. 11 gennaio 1923, n. 257; Circeo, legge 25 gennaio 1934; Stelvio, legge 24 aprile 1934, n. 740. Nel senso che i parchi di prima generazione erano posti “a presidio di un interesse specifico la cui realizzazione determina la neutralizzazione degli interessi che non ricadono nelle finalità di conservazione della natura”, G.F. Cartei, La disciplina del paesaggio tra conservazione e fruizione programmata, Torino, 1995, 37. In dottrina, peraltro, si sottolinea che l’approccio di tipo statico e vincolistico sotteso alla legislazione iniziale dei parchi appare, più che funzionale a un obiettivo primario ed esclusivo di tutela della natura, “soprattutto come un’operazione di supporto economico alle iniziative turistiche” (U. Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Roma, 2002, 192-193. Per analoghe considerazioni v. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, 1975, 30 ss.).

    [7] Corte cost., 15 luglio 1994, n. 302, in Giur. cost., 1994, 2589.

    [8] C.A. Graziani, Le ragioni del convegno, in Id. (a cura di), Le aree protette e la sfida della biodiversità, Atti del XV Convegno annuale del Club dei Giuristi dell’Ambiente (Pescasseroli, 14 settembre 2013), Roma, 2018, 13. Ancora, secondo l’Autore (Id., Le aree naturali protette, in N. Ferrucci, a cura di, Diritto forestale e ambientale. Profili di diritto nazionale ed europeo, Torino, 2020, 137, “i parchi rappresentano dei veri e propri laboratori in cui anche per gli esseri umani si sperimentano modelli di vita nel segno dell’armonia con la natura. Dimostrare che oggi è ancora possibile uno sviluppo diverso, non più aggressivo nei confronti della natura, ma in armonia con essa: è questa la grande missione affidata ai parchi”. Peraltro, l’Autore denuncia la deriva economicistica cui si ispirano i più recenti disegni di legge di riforma della legge-quadro, “segno di una visione aridamente mercantile del territorio, perfino delle aree più sensibili”, p. 143).

    [9] Nel senso che la presenza di un ente di scopo e la sua peculiare strutturazione garantiscano l’obiettivo della “quadratura del cerchio” in quanto le decisioni sono assunte “dagli organi preposti al perseguimento degli interessi protezionistici, ma sempre sulla base di una concordanza espressa con aspettative e finalità rappresentate dalla comunità locale”, D. Borgonovo Re, Parchi naturali e regionali, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 600; in senso sostanzialmente positivo anche C. Desideri, Alla ricerca dell’ente parco, in C.A. Graziani (a cura di), Un’utopia istituzionale. Le aree naturali protette a dieci anni dalla legge quadro, Milano, 2003, 66. Per la qualificazione dell’ente parco come organo misto, nell’accezione di forma di cooperazione strutturale Stato-regioni-enti locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, v. G. Sciullo, Pianificazioni ambientali e pianificazioni territoriali nello Stato delle autonomie, in F. Bassi – L. Mazzarolli (a cura di), Pianificazioni territoriali e tutela dell’ambiente, Torino, 2000, 24-25. Sottolinea il delicato equilibrio tra la componente tecnico-scientifica e quella politica nella gestione del parco, di cui evidente espressione è data dalla composizione degli organi dell’ente parco, G. Cordini, Aree protette vent’anni dopo. L’inattuazione “profonda” della legge n. 394/1991, in Riv. quadr. dir. amb., 2011, 29 ss., il quale denota negativamente il progressivo espandersi della politica, con l’effetto di erodere l’impostazione originaria della legge quadro della protezione integrale della natura. Esprime rilievi critici verso l’assetto organizzativo delineato dalla legge 394/91, in quanto “espressione di un principio tecnocratico e non democratico” e in cui è rinvenibile “un così massiccio spostamento di potere a favore di entità tecniche e a discapito delle collettività locali”, B. Caravita, Potenzialità e limiti della recente legge sulle aree protette, in Riv. giur. amb., 1994, 10-11. Il dato organizzativo è, peraltro, tutt’altro che assestato: si veda il d.P.R. 16 aprile 2013, n. 73, di riordino degli enti parco, che ha modificato, tra l’altro, la composizione del consiglio direttivo nella direzione del ridimensionamento della componente scientifica, su cui si rinvia alle considerazioni critiche di C.A. Graziani, Le aree naturali protette, cit., 144.

    [10] Cons. Stato, ad. plen., 8 giugno 2016, n. 17, in Riv. giur. edil., 2016, 742.

    [11] Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 429, in Foro it., 2005, 1311.

    [12] Ex pluribus, Corte cost., 6 luglio 2020, n. 134, in Foro amm., 2021, 13; 27 dicembre 2019, n. 290, in Giur. cost., 2019, 3292; 16 luglio 2019, n. 180, in Giur. cost., 2019, 2102; 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. cost., 2018, 1359; 11 febbraio 2011, n. 44, in Foro amm. CdS, 2011, 3045; 18 marzo 2005, n. 108, in Foro amm. CdS, 2005, 679.

    [13] La preclusione del rilascio del permesso di costruire in sanatoria in caso di vincolo paesaggistico e in assenza di previa autorizzazione paesaggistica (salvi i limitati casi di autorizzazione postuma) è affermazione ricorrente in giurisprudenza: ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2007, n. 5203, in Riv. giur. edil., 2008, 368; Tar Campania, Napoli, sez. III, 3 maggio 2001, n. 2925, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 21 gennaio 2010, n. 268, in www.giustizia-amministrativa.it.

    [14] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, in Foro it., 2005, 327; Corte cost., 10 maggio 2002, n. 174, in Giur. cost., 2002, 1421; Corte cost., 12 settembre 1995, n. 427, in Giur. cost., 1995, 3333; Corte cost., 28 luglio 1995, n. 416, in Giur. cost., 1995, 2978; Corte cost., 31 marzo 1988, n. 416, in Foro it., 1989, 3383.

    [15] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, cit.

    [16] La disposizione non viola infatti il riparto di competenze legislative tra Stato e regioni in materia di «governo del territorio», in quanto, per consolidata giurisprudenza costituzionale, il legislatore regionale può adottare una disciplina più rigorosa e restringere l’ambito applicativo del condono.

    [17] La questione della rilevanza del vincolo sopravvenuto alla realizzazione di un’opera urbanisticamente abusiva è stata già affrontata dai giudici amministrativi, da altra visuale: il procedimento congegnato dall’art. 32 legge 47/1985 che implica il parere favorevole dell’amministrazione titolare di interesse sensibile ha suscitato la questione se l’amministrazione comunale competente a esaminare l’istanza di condono edilizio debba richiedere il suddetto parere anche in caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area interessata. Questione su cui la giurisprudenza amministrativa si è divisa al punto da richiedere la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (dec. 22 luglio 1999, n. 20, in Foro amm., 1999, 1423), la quale ha affermato che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo”, la questione deve essere risolta privilegiando la normativa “vigente al tempo in cui la funzione si esplica (tempus regit actum)”, ossia quella di controllo edilizio in sede di esame della domanda di condono, essendo la più idonea alla “cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione”.Ha poi aggiunto che, “[q]uanto alla preoccupazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, […] l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’Amministrazione inerte”.

    [18] Corte cost., 30 luglio 2021, n. 181, in www.giurcost.it.

     

    Paesaggio e ricerca scientifica (nota a TAR Lazio - Roma, sez. II quater, n. 1080/2021)

    Paesaggio e ricerca scientifica (nota a TAR Lazio - Roma, sez. II quater, n. 1080/2021)

    di Giovanna Iacovone

    Sommario: 1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa - 2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione -  3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica.

    1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa

    La sentenza in commento consente di riflettere sulle molteplici declinazioni concettuali e normative del paesaggio mettendo a confronto l’evoluzione del concetto nei suoi diversi approdi evolutivi, tanto della legislazione quanto, alla luce di questa, della dottrina e della giurisprudenza.

    Una sentenza che costituisce un ulteriore tassello, insieme alle diverse pronunce intervenute negli ultimi dieci anni a risolvere le numerose controversie aventi ad oggetto la messa in atto di un processo di tutela dell’intera Campagna romana, nella definizione di un quadro interpretativo di principi funzionali all’applicazione delle novità introdotte dal codice dei beni culturali e del paesaggio[1].

    Fa da sfondo, ma anche da chiave di volta, nella decisione del Tar Lazio  il pensiero critico nei confronti della logica che si potrebbe definire dell’“ipervincolo” cui si connette il rischio «di vincolare tutto per non tutelare nulla», e quindi la necessità di una gradazione di valore e del giusto discernimento tra vincoli utili e vincoli che possono essere non solo inutili ma talvolta anche produrre danni non giustificati in termini di proporzionalità e ragionevolezza, in un contesto di ponderazione di interessi.

    Emerge l’intento di superare quella cultura che affida la qualità paesaggistica ad un gioco tutto difensivo e fondato sulle procedure vincolistiche, cercando di interpretare al meglio il contesto normativo e giuridico che nel corso dell’ultimo decennio è andato delineandosi.

    La sentenza, dunque, offre una importante opportunità per contribuire al dibattito in corso circa i presupposti culturali e normativi con cui si produce, si tutela e si pone in valore il paesaggio di una nazione, così come di qualunque ambito territoriale e/o urbano.

    Il contenzioso ha ad oggetto un vincolo paesaggistico di area vasta (di 1600 ettari)  comprensivo di alcune aree di proprietà dell’Università della Tuscia su cui sono localizzati l’Orto Botanico, in cui si svolge l’attività istituzionale di didattica,  di ricerca e di divulgazione scientifica, in particolare di coltivazione di specie vegetali da ogni parte del mondo (circa 20.000 esemplari di circa 2.500 specie) l’azienda Agraria Didattico-Sperimentale, (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture[2].

    La lesione prospettata dalla ricorrente a causa delle limitazioni imposte dal vincolo imposto, riguarda la preclusione delle proprie attività istituzionali e il cui svolgimento richiederebbe la trasformazione dell’area sia in termini di lavori (arature profonde) sia in termini di opere (demolizione e ricostruzione di un manufatto) funzionali alla ricerca[3].

    L’ingiustizia del pregiudizio lamentato è ravvisata nella insussistenza, con riguardo alle aree di proprietà dell’Università, delle “caratteristiche tipiche del paesaggio agrario tradizionale della piana di Viterbo” idonee a postulare la dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136, comma 1, lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004.

    Il Tar ha annullato il provvedimento di vincolo in quanto affetto da un «deficit motivazionale» ravvisato nella non utilizzabilità dei principi posti a presidio della tutela del paesaggio inteso come “forma del territorio”, e richiamati dall’Amministrazione resistente ai fini della giustificazione del vincolo, in quanto non idonei a dar conto «delle caratteristiche prescritte dall’art. 136 del Codice»  e che costituiscono la “causa”  «che giustifica l’assoggettamento del bene ad un particolare regime giuridico», in ragione «del loro interesse pubblico paesaggistico di grado “notevole” (giudizio di valore)».

    Inoltre, trattandosi di un vincolo di area vasta, occorre dimostrare l’unitarietà del complesso paesaggistico vincolato, ossia un «nesso di continuità percettiva che giustifi[chi] l’assoggettamento a vincolo di un’enorme porzione di territorio». Infatti, secondo il giudice «un vincolo di tale estensione può essere ritenuto legittimo, non esorbitante, solo ove risulti “necessario” per non infrangere quel rapporto delle singole parti con l’insieme di appartenenza, che costituisce l’unicum oggetto di tutela».

    Nel caso di specie, invece, non vi ha ravvisato «la sussistenza di quell’unitarietà di contesto paesaggistico affermata in modo generico ed assiomatico dall’Amministrazione, e non confortata dalla rappresentazione dei luoghi stessi».

    In proposito il Tar rinvia a quella giurisprudenza che, nel caso di assoggettamento al vincolo paesaggistico di area vasta intende in senso molto rigoroso l’onere motivazionale[4].

    Il Tar, in particolare, non ha ritenuto conforme ai richiamati requisiti motivazionali la mera affermazione secondo cui lo stralcio avrebbe comportato “una destrutturazione dell’area  e una sottrazione non coerente con gli obiettivi prefissati” a fronte di una situazione di fatto caratterizzata  da «terreno totalmente pianeggiante» non identificabile, pertanto, alla stregua di  “bellezza naturale” nei termini di cui all’art. 136 lett. d) che ivi prevede “le bellezze panoramiche [considerate come quadri] e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

    Né si è ritenuta «evincibile la presenza di elementi che possano indurre a ravvisarvi quel “complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, contemplato dall’art. 136 lett. c)  del Codice, risultando i luoghi […] come un insieme di appezzamenti geometrici di terreno, variamente coltivati, che si “caratterizzano” per il comune aspetto di “campi coltivati come tanti” presenti nella campagna laziale, privi di peculiarità specifiche o di evidente pregio intrinseco». 

    Ulteriore illegittimità del provvedimento di vincolo è stata ravvisata nella mancata ponderazione, in termini di ragionevolezza e proporzionalità, del contrapposto interesse pubblico perseguito dall’Università, che verrebbe ad essere totalmente sacrificato dall’assoggettamento a vincolo di aree mediante le quali realizza scopi istituzionali di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica.

    Un interesse tanto più rilevante in quanto connesso alla persistenza della qualità di paesaggio agrario che «proprio a causa del vincolo, potrebbe rischiare di perdere quelle qualità […] “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni».

    Significativamente si osserva che tale ponderazione è implicitamente richiesta proprio dal legislatore allorquando «esige, per la sottrazione del bene alla sua naturale destinazione, che questo rivesta non solo interesse paesaggistico come “bellezza naturale” secondo le categorie declinate dalla stessa disposizione, ma che questo sia presente in grado “notevole” (come già indicato dal legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940), proprio perché il “sacrificio” imposto ad altri interessi (in questo caso di rilevante interesse pubblico essi stessi) deve trovare una “ragione adeguata” nell’esigenza di assicurare la tutela di un bene giuridico di valore preminente, che non può essere offerta altrimenti, e che costituisce la “giusta causa” del provvedimento di vincolo».

    Dalla ricostruzione che precede emerge che le questioni rilevanti intorno alle quali il Tar ha focalizzato la riflessione ai fini del decidere sono sostanzialmente due, ma strettamente connesse ai fini dell’iter logico-argomentativo.

    Innanzitutto viene in rilievo l’ormai acquisita distinzione giuridica tra regole di salvaguardia e di tutela relative, rispettivamente, alla presupposta differenziazione tra paesaggio e beni paesaggistici, questi ultimi a loro volta articolati a seconda della loro riconducibilità alle “bellezze di natura”, ai sensi dell’art. 136 del codice, o ai beni ambientali-culturali di cui all’art. 142 (c.d. beni paesaggistici diffusi, tutelati ex lege).

    L’ulteriore tema affrontato dal giudice amministrativo riguarda la ponderazione valutativa secondo i canoni della proporzionalità[5] e ragionevolezza[6] che avrebbe dovuto guidare l’Amministrazione resistente nella considerazione degli interessi in gioco per giungere alla sottrazione del bene dichiarato di notevole interesse pubblico alla sua «naturale destinazione».

    Di entrambi i profili si cercherà di dare specificamente conto nei paragrafi seguenti.

    2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione

    La dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004, classifica le aree in contestazione come “Paesaggio dell’Insediamento storico diffuso” e “Paesaggio agrario di rilevante valore” integrando, in sede di vestizione del vincolo, le prescrizioni del P.T.P.R. adottato con diverse prescrizioni con l’obiettivo di «conservarne l’originaria destinazione d’uso, salvaguardare le aree circostanti, i tipi e i metodi di coltivazione tradizionali e le attività compatibili con le tradizioni tipiche[7]».

    Il Tar, proprio avvalendosi dei riferimenti all’art. 131 del d.lgs n. 42  del 2004 su cui indugia il MiBAC nella sua relazione generale al vincolo, fonda gran parte della decisione sulla differenziazione tra paesaggio inteso come “forma del territorio”, la cui identificazione e obiettivi di salvaguardia con i relativi principi sono rimessi dal legislatore all’art. 131, commi 1,2,4,5 e 6 del codice, e beni paesaggistici espressamente riconosciuti al comma 2 dello stesso articolo ed elencati all’art. 134, nonché meglio specificati agli artt. 136 e 142 del codice medesimo.

    Preliminarmente all’esame del merito, infatti, il giudice amministrativo, accogliendo l’evoluzione delle riflessioni della dottrina sul tema, si sofferma in una lunga e densa premessa interpretativa delle norme appena richiamate, rilevando in primo luogo che l’art. 131 del codice ha accolto preliminarmente un concetto di paesaggio inteso come “forma del territorio “come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”, che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità”.

    Il paesaggio, dunque, come luogo utile e dinamico, «che si interroga cioè sui nuovi comportamenti umani che stabiliscono centralità e identità nella vita di una collettività»[8].

    Così inteso, conformemente ai principi sottoscritti nella Convenzione europea[9], il paesaggio deve intendersi come luogo fortemente creativo ed innovativo, che sperimenta materiali e tecniche nella ricerca di nuove sintassi e nuove grammatiche per rimettere in gioco ambienti altrimenti perduti e destinati al degrado[10].

    Il paesaggio come processo in ininterrotta evoluzione, come corpo vivente, frutto del rapporto tra territorio e società e dunque, sotto tale profilo, espressione dell’identità culturale della comunità di riferimento, era stato configurato sin dal 1985 dalla l. n. 431 che aveva ottenuto al riguardo l’avallo della Corte costituzionale[11].

    Come noto, un fondamentale ruolo, nello scardinare interpretazioni consolidate e nell’anticipare l’evoluzione legislativa, ha rivestito l’intuizione di Predieri che avvalendosi della preziosa contaminazione tra saperi e discipline diverse giunge ad affermare che «la  tutela del paesaggio…non è solo la conservazione delle bellezze naturali…, ma la più ampia tutela (non limitata alla conservazione) della forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata, come continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente, e quindi volta alla tutela dello stesso ambiente naturale modificato dall’uomo, dato che in Italia, quasi dappertutto, al di fuori di ristrettissime aree alpine o marine, non può parlarsi di un ambiente naturale senza presenza umana»[12].

    La lettura innovativa di Predieri, subito condivisa dalla dottrina[13] e più tardi ripresa dalla giurisprudenza[14], appare molto utile, ai fini del presente commento, anche con riguardo ad un’altra implicazione accolta dal giudice amministrativo, ossia l’abbandono della nozione di tutela limitata alla mera tutela statica e conservativa di alcuni coni visuali fissi, oggetto di contemplazione, da esprimersi attraverso divieti e limitazioni. 

    Una specificazione, quest’ultima, tenuta in particolare considerazione dal Tar nel caso in esame, in cui il compendio immobiliare è stato assoggettato a vincolo ai sensi dell’art. 136 lett.c) del Codice (oltre che dell’art. 136, lett. d) come bellezza panoramica o punto di vista panoramico, per sottolineare una presa di posizione in favore della distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici.

    Infatti, nella direzione delineata dalla dottrina e dalla giurisprudenza il giudice di primo grado ha ricostruito il vigente quadro normativo attraverso una interpretazione volta ad uscire da eventuali residue ambiguità applicative del codice sul paesaggio, retaggio di posizioni abbandonate sul piano delle definizioni, ma ancora presenti in una cultura che stenta ad accettare, nella sostanza, quell’idea dinamica di salvaguardia che non è strettamente dipendente dall’apposizione del vincolo, bensì da quell’uso consapevole del territorio di cui al 6° comma dell’art.131 che va oltre il l’impostazione conservativa della tutela paesaggistica solo attraverso il vincolo.

    Al riguardo, infatti, il Tar afferma che «L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del “principio dello sviluppo sostenibile”, rischia di risultare controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio – in particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle forze della natura – che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni.

    Pertanto, se da un lato si valorizza l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva, imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno dell’abbandono dei campi. Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili….».

    Conseguentemente, il provvedimento giurisdizionale è molto chiaro nell’affermare che il valore identitario proprio del concetto di “paesaggio” «non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” (nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo stesso paesaggio-territorio privo di qualità).  […] E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza, quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136 lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi “valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito, dovendo il giudizio sul notevole interesse

    paesaggistico soddisfare non solo il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di requisiti cumulativamente richiesti.[…]. È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” - cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione agricola” - nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del “rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo, scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR».

    Sembra dunque di poter affermare che il valore identitario costituisca il minimo comune denominatore, quel filo rosso che unisce il paesaggio e il bene paesaggistico, in un rapporto tra genere e specie. La distinzione, invece, consisterebbe nella “causa” del vincolo costituita dalle «ragioni dell’estetica», rilevanti anche per stabilire il grado di valore del bene protetto e per differenziare la gravosità del regime giuridico vincolistico grazie alla disciplina contenuta nella c.d. “vestizione”.

    Il valore identitario dei luoghi, ove riferito ai beni paesaggistici, costituirebbe, secondo l’orientamento giurisprudenziale in commento, «un motivo “aggiuntivo”, incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale, mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi, ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini)».

    Particolare interesse riveste, altresì, proprio la necessità di graduare il regime vincolistico attraverso le specifiche prescrizioni d’uso per evitare di incorrere in quegli “eccessi di tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela perseguite.  

    3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica

     Viene in rilievo, così, l’ulteriore essenziale profilo sopra anticipato, ossia il richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, strettamente connessi e fondanti il complessivo ragionamento che ha condotto il Tar ad annullare il vincolo.

    I due principi costituiscono un essenziale supporto, nelle loro diverse declinazioni, alle argomentazioni della sentenza volte a mettere in discussione il percorso logico seguito dalla pubblica Amministrazione metodologicamente incentrato sulla coerenza e congruità del bilanciamento di interessi.

    Il tema riveste particolare interesse proprio in quanto riferito ad un provvedimento di vincolo paesaggistico, in cui quindi la valutazione è svolta sulla base di parametri classicamente afferenti la discrezionalità tecnica. 

    Il giudice amministrativo, infatti, costruisce il suo orientamento valorizzando, ai fini dell’operatività di tali principi, quel profilo “soggettivo” nel cui ambito vengono annoverate tematiche attinenti all’esito del processo decisionale, riguardanti l’accertamento e la valutazione dei dati di fatto rilevanti, la scelta oculata e la ponderazione degli interessi, nonché (ma non meno rilevante) la individuazione concreta del fine in rapporto alle peculiarità del caso da decidere.

    In particolare, si sottolinea nella sentenza, proporzionalità e ragionevolezza sono apparsi rilevanti ai fini del decidere «in quanto hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136 ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso, indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della “valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) – cioè a “verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di valore” e non di “giudizio di fatto”) - e la successiva fase della “gestione del vincolo” – che attiene propriamente alle “scelte d’azione” – in cui si ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale” anche di altri interessi co-primari concomitanti». 

    Ed infatti i principi di ragionevolezza e proporzionalità sono stati primariamente considerati quali criteri, e relativi parametri di giudizio, idonei a svolgere una valutazione funzionale a graduare la disciplina limitativa in relazione alla gravosità del vincolo, cercando così di dare un senso reale ed una effettiva utilità, in termini di efficacia ed efficienza, a quelle “prescrizioni d’uso” (il c.d. vincolo vestito) che il legislatore richiede in relazione al giusto grado di incidenza degli effetti, sia sfavorevoli che favorevoli, della disciplina medesima sugli interessi coinvolti.

    In stretta sintonia si pone l’ulteriore considerazione, «in una prospettiva di ragionevolezza e proporzionalità», secondo cui la preesistenza di altri vincoli incombenti su aree adiacenti a quella oggetto del contenzioso, lungi dall’avallare la legittimità del provvedimento, avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione resistente ad una attenta valutazione  dell’operatività dei vincoli già esistenti  al fine di «stabilire se e quanto consentano di assicurare un’adeguata tutela al bene in contestazione, approfondendo, in un’ottica comparativa delle diverse misure alternative possibili, se e come la nuova misura risulti a tal fine “necessaria” (secondo test di proporzionalità), non potendo la stessa finalità essere conseguita con la misura di protezione alternativa più lieve (cioè come zona di interesse archeologico). 

    Infine, ma in realtà determinante in quanto assurto con la sentenza in commento al ruolo di “terzo test di proporzionalità”, dunque quale “giusto punto di equilibrio degli interessi in gioco”, la mancata considerazione da parte dell’Amministrazione deputata alla tutela del paesaggio delle conseguenze discendenti dall’aggravamento del regime del vincolo sull’interesse pubblico perseguito dall’esercizio dei compiti istituzionali dell’Università, ossia la didattica e la ricerca che dall’assoggettamento al vincolo paesaggistico verrebbero irrimediabilmente sacrificati.

    La peculiarità riguarda proprio la tipologia di interessi di cui il Tar ha dovuto constatare la concreta contrapposizione, la ricerca scientifica e il patrimonio culturale, che in quanto garantiti dalla medesima norma costituzionale non dovrebbero, in astratto, confliggere in quanto orientati al perseguimento di un fine unitariamente considerato dal costituente e dunque immanentemente affini, “consanguinei”.

    Sembrerebbe di assistere ad una vicenda analoga a quella che talvolta ha visto entrare in collisione la nozione di paesaggio con quella di ambiente, seppure entrambe riconducibili entro l’egida dell’art. 9 della Costituzione, come ad esempio avviene sovente quando si tratta di valutare la compatibilità paesaggistica di impianti di produzione di energia rinnovabile che rispondono ad esigenze di tutela delle matrici ambientali, ma che possono risultare conflittuali con la tutela del paesaggio inteso nel senso identitario culturale[15].

    Si potrebbe così essere indotti a pensare ad un confronto dagli incerti equilibri e dai variabili rapporti di forza che rischia di rendere a loro volta instabili i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, mettendone in discussione il ruolo di categorie del diritto amministrativo.

    In realtà, se è vero che la Corte costituzionale ha individuato nel paesaggio un valore primario, in quanto tale «insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»[16], è altrettanto vero che la portata della primarietà e assolutezza  sono state specificate affermando che «questa primarietà non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni»[17].

    Sul punto, infatti, il Tar non rinuncia a sottolineare che l’area in questione, «proprio a causa del vincolo potrebbe perdere quelle qualità di paesaggio agrario “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni» determinato dalla impossibilità di continuare a svolgere quell’attività di ricerca e di didattica la cui libertà nei contenuti è, peraltro, ugualmente tutelata dalla Costituzione.

    Sembra dunque di poter concludere che nel caso di specie, il giudice amministrativo abbia ritenuto che  la qualitas di valore primario e assoluto non solo include, le due “anime” della nozione di paesaggio, ma risale al macro valore della cultura, al cui interno eventuali contrasti non avrebbero potuto che essere risolti sul piano della ragionevolezza attraverso un bilanciamento in sede procedimentale, «luogo elettivo di composizione tra i diversi interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti»[18].  

       

    [1] Ne dà atto S. Amorosino, Il T.A.R. Lazio legittima il maxi vincolo paesaggistico sull'Agro Romano (nota alle sentenze n. 33362, 33363, 33364 e 33365/2010), in Riv. giur. edilizia, fasc.5, 2011, p. 187 ss.

    [2] La localizzazione e la consistenza dei terreni interessati dal vincolo in contestazione, nonché il carattere e l’aspetto che ne caratterizzano la morfologia, sono esattamente evincibili dalla Relazione di accompagnamento al vincolo e dalla relativa documentazione, da cui si evince, come attestato in sentenza « la scomposizione dell’area in quattro parti unitarie: quella della sorgente del Bullicame – con le caratteristiche puntualmente evidenziate nella Relazione di accompagnamento al vincolo - al di sotto della quale è sito l’orto botanico – del pari descritto nella medesima Relazione -; dallo stesso lato del Bullicame è sita l’azienda agricola – non oggetto di specifica descrizione nel predetto documento – adeguatamente inquadrabile per la sua caratteristica di terreno pianeggiante, geometricamente diviso in particelle separate, destinate alle diverse coltivazioni, dall’aspetto “comune” dei tanti campi coltivati nella nostra Regione. Sull’altro lato della strada, sorge la collina di Riello, con la necropoli etrusca e la presenza della romana Sorrina Nuova, oggetto di particolare attenzione nella Relazione in parola. In sostanza l’azienda agricola è sita tra il Bullicame (a sinistra) e la collina di Riello (a destra), e l’esattezza della sua collocazione, la sua conformazione e la sua consistenza trovano conferma nelle immagini delle riprese satellitari disponibili su google maps e dalla visione dei luoghi tramite la funzione street view, che induce ad escludere eventuali errori per quanto riguarda la percezione dello stato dei luoghi».

    [3] A p. 3 della sentenza in commento si legge che «l’Azienda Agraria Didattico-Sperimentale, attiva dal 1981 (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture, con necessità di opere di adattamento del terreno (con aratura in profondità anche superiore a 40 cm concimazione, esecuzione di buche per l’impianto di strutture di sostegno) e modifiche (con creazione di pendenze per studiare fenomeni di deflusso ed erosione mediante simulazioni di pioggia), allestimento di strutture metalliche di raccolta e studio delle precipitazioni, stazione per la misura dei dati climatici etc.».

    [4] Si richiama, in particolare, Cons. St., sez. VI, n. 2309 del 2018 che ha annullato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’ambito meridionale dell’Agro romano condividendo la non adeguatezza argomentativa del MIBAC nel rigettare le osservazioni avverso l’imposizione del vincolo. 

    [5] Tra tanti e importanti contributi al tema, S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.

    [6] Sulla ragionevolezza quale canone decisionale della pubblica amministrazione P.M. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, Cedam, 1993.

    [7] Cfr. p. 1 delle norme allegate al decreto di vincolo del 25 luglio 2019, oggetto del gravame.

    [8] F. Zagari, Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma, 2006, p.80.

    [9] Art. 2 della Convenzione europea del paesaggio e, più in generale il riferimento contenuto nel Preambolo sia ai paesaggi della vita quotidiana, sia agli importanti fattori di trasformazione, tra cui le tecniche di produzione agricola. Sul tema, D. Sorace, Paesaggio e paesaggi nella Convenzione Europea, in Convenzione Europea del paesaggio e governo del territorio a cura di GF Cartei, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 18-22.

    [10] E. BOSCOLO, in Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. app n. 7/2008, p. 798

    [11] Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151, in www.giurcost.org. Si veda in proposito M. Immordino, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, p. 986, in cui l’Autrice rileva l’innovatività di tale configurazione, delineata con largo anticipo sulla previsione contenuta nell’art. 131, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004.

    [12] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in ID., Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Giuffré, Milano, 1969, part. 3-6, i cui risultati, nei termini riportati in testo, furono sintetizzati e ribaditi dall’A. in La regolazione giuridica degli insediamenti turistici e residenziali nelle zone alpine, in Foro amm., 1970, III, p. 360, nonché nella voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 503.

    [13] Si pensi a G. Ghetti, Prospettive giuridiche della tutela del paesaggio negli ordinamenti regionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, p. 1527; F. Merusi, Commento all’art. 9 della Cost., in G. Branca ( a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zanichelli – Roma, Soc. ed. del Foro italiano, 1975, pp. 434-460; F. Levi, Italia, in ID. (a cura di), La tutela del paesaggio. Studi di diritto pubblico comparato, Torino, 1979, pp. 1-45. Tale tesi, poi definita integrale (V.G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio, (art.9 Cost.), in S. Battini, L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, I Codici commentati, Torino, 2013, p.33) ha finito con il sostituire la c.d. tesi “statica” o “storico-riduttiva” e su cui A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in  Riv. giur. ed., II/1967

    [14] Oltre alla sentenza n. 151 del 1986, cit., qualche mese prima la Corte costituzionale, con la sentenza n. 39 del 3 marzo (in www.giurcost.org.) aveva affermato che la nozione di paesaggio «è comprensiva di ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio». Sul tema M. A. Sandulli, Il paesaggio nel Codice dei Beni Culturali: prospettive di riforma, in Atti del convegno AIDU svoltosi a Parma il 18 novembre 2005, Napoli, 2006.

    [15] Si veda sul punto P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urb. e App., 2005, n. 8, p. 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2008, p. 326 ss.

    [16] Corte cost., 24 giugno 2004, n.196, in www.giurcost.org.

    [17] Corte cost., ult. cit., nella parte in diritto.

    [18] Corte cost.,5 aprile 2018, n. 69, 6.1; sui criteri che presiedono al bilanciamento, Corte cost., 23 marzo 2018, n. 58, p.1 e 3.2.

     

    Paesaggio, ambiente e transizione ecologica

    Paesaggio, ambiente e transizione ecologica

    di Paolo Carpentieri, Consigliere di Stato

    Sommario: 1. Premessa2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”5. I punti essenziali della distinzione6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea7. Unificazione o differenziazione delle competenze8. Decarbonizzazione e paesaggio9. Conclusioni.

    Abstract

    Sulla premessa della ancora valida – ma non da tutti condivisa – distinzione giuridica tra “ambiente” e “paesaggio”, lo scritto si domanda se l’idea della “transizione ecologica” (oggi inveratasi nella trasformazione del Ministero dell’ambiente, già “dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”, in, per l’appunto, “Ministero della transizione ecologica”) non rischi di “fagocitare”, nell’inseguimento di chimerici obiettivi su scala “globale” di lotta ai gas climalteranti, la funzione (naturalmente “locale”) di tutela del paesaggio, presa nella trappola logica del “pensare globale – agire locale” (lo slogan degli ambientalisti industriali), in forza della quale si sacrifica quied ora, concretamente e attualmente, la bellezza dei paesaggi italiani, in nome di una speranza di riduzione su scala globale - eventuale, indiretta, futura e incerta - dei gas ad effetto serra, e dietro la quale agiscono in realtà molto concreti e potenti interessi economici locali delle imprese del settore (finanziati con lauti incentivi statali, a carico della finanza pubblica e delle bollette dei consumatori).

    La conclusione è che – ferma restando l’urgenza della lotta al mutamento climatico, la condivisibilità dell’idea dell’economia circolare[1], etc. – sarebbe auspicabile evitare che questa transizione ecologica finisca per tradursi in un ulteriore pregiudizio per la qualità dei paesaggi italiani e in un ulteriore depauperamento delle risorse ecosistemiche (e non solo alimentari) dell’agricoltura. 

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    1. Premessa.

    Il Green Deal europeo e l'avvio della transizione ecologica, sotto la spinta soprattutto del diritto dell’Unione europea, con la creazione, nel nostro Paese, del nuovo Ministero della transizione ecologica, chiamato a svolgere un ruolo cardine nel piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), riattualizza la distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” e, lungi dal ricucire e ricomporre, allarga il contrasto che oggettivamente divide questo due campi di materia, che esprimono visioni delle cose molto diverse, anche se a tratti complementari.

    Vale la pena, dunque, tornare con alcune brevi annotazioni su questo tema, per indagare le ragioni profonde di questa distinzione e per derivarne alcune considerazioni di più attuale interesse.

    2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”.

    L’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” rispetto a quella di “ambiente”, dopo la Convenzione europea del paesaggio di Firenze del 2000 e dopo il codice di settore del 2004, non richiede (forse) di essere riaffermata, né qui illustrata[2].

    Tale autonomia, se può dirsi sostanzialmente acquisita sul piano dogmatico-ricostruttivo, non è tuttavia condivisa e unanimemente accettata sul piano delle conseguenze ordinamentali del quadro distributivo delle competenze.

    Essa, inoltre, non è compresa (e viene spesso criticata) dalle professioni non giuridiche che si occupano di territorio, di urbanistica, di paesaggio, che oppongono alle distinzioni giuridiche la comprensione olistica del territorio nelle sue varie componenti e nei suoi diversi aspetti e interessi, che (a loro dire) non possono essere compresi e gestiti se non in modo unitario. 

    Sennonché è proprio del diritto e della logica giuridica distinguere e separare (de-cidere). Nel diritto il concetto segue il regime giuridico, mentre nelle altre scienze sociali il concetto è frutto della sintesi, che segue l’analisi. In tanto si può introdurre un concetto autonomo, nel diritto, in quanto vi sia un regime giuridico unitario ed omogeneo che ne giustifichi la posizione. Nelle altre scienze sociali che si occupano di paesaggio, invece, è la pluralità dei dati dell’esperienza che conduce a formare, nella sintesi, un concetto, che dunque deriva dalla considerazione unitaria delle interrelazioni tra i diversi approcci e punti di vista. Nel diritto è il bisogno di tutela e sono i modi per il suo soddisfacimento che definiscono gli istituti giuridici. E, per il paesaggio, il bisogno di tutela e i modi per il suo soddisfacimento sono in tutto e per tutto omologhi a quelli che caratterizzano il regime di tutela dei beni culturali. 

    Non ci si deve meravigliare più di tanto, dunque, del dissidio strisciante tra la visione giuridica del paesaggio e quella degli architetti pianificatori e degli urbanisti. I tecnici vedono le interrelazioni e le connessioni. I giuristi vedono i diversi valori-beni-interessi in conflitto e devono fornire strumenti di decisione per stabilire un criterio di prevalenza (nessun valore è neutro; i valori valgono solo se prevalgono[3]; non ci sono pasti gratis in questo conflitto[4]). Per gli architetti pianificatori e gli urbanisti il territorio è uno e una deve essere la sua disciplina e l’autorità chiamata a farla applicare[5]. Per i giuristi il territorio è sede di una molteplicità di interessi (di usi alternativi) in conflitto tra loro e la sintesi – che pure deve essere trovata – non è sempre facile da definire. La nota tesi delle “tutele parallele degli interessi differenziati[6] resta valida, anche se va corretta nella formula delle “tutele convergenti degli interessi differenziati”.

    Se la nozione lata e onnicomprensiva di “ambiente” (da amb – ire, andare intorno; ciò che ci sta intorno, che ci circonda) può andar bene per le scienze della natura, nella sua eccessiva ampiezza di denotazione essa si rivela inutile per il giurista, che da sempre ne ha cercato utili specificazioni e distinzioni, sin dal fondamentale contributo di Massimo Severo Giannini del 1973, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici[7].

    Si osserva in senso contrario che grazie a un’inedita convergenza di scienze umane e scienze naturali che si va delineando in questi ultimi anni, la parola chiave sarebbe, oggi, “interconnessione”. “Antropologi e biologi, genetisti e filosofi riconoscono nel disegno della natura e in quello della storia una potente tendenza all'interconnessione (interconnectedness è la parola-chiave, che - è vero - è diventata di moda, ma con ottime ragioni dato quel che esprime)[8]. Si ricorda l’idea goethiana della cultura come “seconda natura[9], per cui “dobbiamo partire dalla cultura, intesa non come somma di inclusioni – ambiente, paesaggio, patrimonio, salute – ma come interconnessione fra questi diversi aspetti[10]. Si aggiunge che “Ormai salute, economia e cultura scientifico-umanistica sono un tutt’uno sistematico” e che “La verità è nell’holon, che in greco significa «tutto», ovverossia l’ambiente[11]. Le Encicliche di Papa Francesco, ad esempio, parlano di una ecologia integrale. Tutto vero, niente da obiettare. C’è però il rischio di cadere in tal modo nell’indiscernibile, nell’uno/tutto (“l’uno non è[12]), ciò che rischia di portare – specialmente quando si tratta di individuare il regime giuridico applicabile – alla confusione, alla notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere[13], a un unico regime giuridico indifferenziato per tutte le cose, ciò che è la negazione dell’utilità dei concetti e degli istituti giuridici.

    Si sostiene, da parte di autorevoli Autori, che la separazione delle competenze, soprattutto a livello statale, legata alla distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” (ma anche e soprattutto con riguardo alla materia dell’urbanistica – governo del territorio), sia la causa prima e più grave del fallimento della tutela e della complicazione burocratica che caratterizza negativamente lo svolgimento di tali funzioni[14]. Da più parti si auspica pertanto l’unificazione delle competenze (e, si badi, sia da parte di chi sinceramente si erge a paladino della tutela e ne persegue e rivendica il potenziamento e il miglioramento, sia da parte di chi mira a depotenziare il ruolo della tutela nell’ottica della semplificazione e della sburocratizzazione, spesso intesa come abolizione dei controlli ambientali). 

    Occorre tuttavia ricordare che la sintesi e la riconduzione sotto un unico centro decisionale di ambiente e di paesaggio è una sintesi che non si fa a somma zero, ma che comporta necessariamente il ridimensionamento o il sacrificio degli uni aspetti rispetto agli altri (o viceversa). Resto pertanto convinto, contro l’opinione dominante, che sia preferibile il modello della differenziazione e del contraddittorio tra gli interessi pubblici in conflitto, per evitare che alcuni di questi interessi (i più deboli politicamente) siano fagogitati da quelli più forti (quelli più vicini alla tecnica e agli interessi industriali della crescita e dello sviluppo). Chi indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale, non si avvede che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica sopraffà e annulla la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone, poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio.

    D’altra parte la distinzione – culturale e storica, per certi aspetti, come vedremo, anche epistemologica – che separa “ambiente” e “paesaggio” è testimoniata dallo stesso dibattito sull’esigenza (da taluni avvertita, da altri avversata) di aggiungere la tutela dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione, a fianco alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione[15].

    3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”.

    È dunque utile (forse) spendere ancora qualche parola sul tema della distinzione tra “paesaggio” e “ambiente”, che non è affatto scontata e, come si è visto, mostra profili problematici. 

    Vorrei in particolare evidenziare che questa distinzione, come ho sostenuto in un mio recente contributo[16], affonda le sue radici (per così dire) nel jus, ossia in una risalente e ricca tradizione, culturale prima ancora che giuridica, sostanzialmente diversa rispetto a quella da cui è germogliata (più di recente) l’idea della tutela ambientale (e la nozione giuridica di “ambiente”), sicché, anche al di là della lex scripta (oggi nel codice del 2004 e nella Convenzione di Firenze del 2000), l’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” e la sua distinzione da quella di “ambiente” riceve una sua speciale legittimazione “forte” proprio nella diversità e specialità dell’humus storico-culturale da cui si è generata l’una, rispetto all’altra. 

    Insomma, si tratta a ben vedere di due linee di pensiero e di due tradizioni culturali marcatamente differenti tra loro. Ed è proprio in questa diversità genetica che vanno ricercate le cause dell’attuale assetto giuridico, complicato, forse, più che complesso, della materia, così come le ragioni profonde dei ricorrenti e irrisolti conflitti.

    La tutela del paesaggio nasce, in sostanza, da un movimento di idee più antico rispetto a quello, più recente, che sta alla base della tutela dell’ambiente-ecosfera e dell’odierno diritto dell’ambiente. Il paesaggio nasce e vive – pressoché esclusivamente – nell’ambito delle scienze umane e mantiene (nonostante il materialismo storicistico e l’antropo-sociologismo imperanti nella seconda metà del Novecento) un nucleo essenziale estetico[17]. L’ambiente, invece, nasce e vive pressoché esclusivamente nell’ambito delle scienze esatte e della tecnica. Il paesaggio esprime un profilo qualitativo, mentre l’ambiente esprime un punto di vista soprattutto quantitativo. Naturalmente queste affermazioni costituiscono delle generalizzazioni affrettate, qui consapevolmente proposte solo per sintesi e per chiarezza espositiva, poiché le cose sono in realtà molto più complicate e le distinzioni non sono mai così nette e marcate. Così come è vero, alla stessa stregua, che la dicotomia “scienze umane “comprendenti” vs. scienze esatte”, pur essendo superata in ambito epistemologico, rimane tuttora valida euristicamente in ambito giuridico[18] e non è scalfita dalla nota e ricorrente considerazione che la quasi totalità del paesaggio italiano è paesaggio antropico e che la distinzione tra natura e cultura va relativizzata e rivista (poiché, come già osservato, la cultura in Italia è in realtà una “seconda natura” e l’uomo, da quando Prometeo gli ha regalato il fuoco, non ha fatto altro che addomesticare la natura rendendola un ambiente artificiale adatto a sopperire alle sue carenze innate[19], secondo il mito raccontato nel Protagora di Platone)[20].

    Per evidenziare questa radice “culturale” della nozione di paesaggio è ricorrente il richiamo – quasi ormai un luogo comune nelle trattazioni della materia – della lettera del Petrarca del 1336 sull’ascesa al Monte Ventoso, che costituirebbe una delle prime attestazioni di una nozione autonoma di “paesaggio”. Altrettanto comune è in tal senso il richiamo degli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena (quello di Guidoriccio da Fogliano, attribuito a Simone Martini, e quelli dell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti)[21].

    In realtà l’idea di “paesaggio” affonda le sue radici nel topos, nell’archetipo junghiano del giardino dell’Eden, comune a molte cosmogonie e religioni nel mondo, quale luogo mitico di un’origine di equilibrio e di purezza e nel contempo fine ultimo cui tendono le speranze dell’uomo di redenzione e di raggiungimento di un orizzonte escatologico di pace e di ri-equilibrio, dopo l’alienazione terrena. Un archetipo, si deve notare, che reca in sé un’impronta estetica, insita naturalmente nell’immaginazione mitica e nella contemplazione religiosa. “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”, recita la Bibbia[22]. Ma è un’immagine comune alla più antica mitologia delle civiltà mesopotamiche e a molte religioni orientali[23]. Analoga è l’immagine dei campi elisi della cultura greca, come analogo è l’atteggiamento spirituale sotteso al culto, diffusissimo in tutta l’antichità greca e romana, dei boschi sacri a ninfe o altre divinità, un’idea, un modo di essere dello spirito che ha ricevuto successive elaborazioni poetiche e che si può compendiare sotto il nome riassuntivo del mito dell’Arcadia, che ritroviamo in Esiodo, poi in Virgilio, in Ovidio e in tanti altri poeti dell’antichità e, risalendo nei secoli, fino al suo ritorno rinascimentale[24], nel romanticismo, nello spirito dei viaggiatori del Grand Tour e nelle scuole dei paesaggisti dell’800 (dalla maniera del paesaggio ideale e del “ruinismo” di Claude Lorrain e Nicolas Poussin alla scuola di Barbizon in Francia, da Caspar David Friedrich a Carl Blechen in Germania, da Constable e Turner e dai Preraffaelliti in Inghilterra ai macchiaioli e divisionisti in Italia[25]), fino – guardando alla storia recente italiana - al Bel Paese dell’abate Stoppani, al Touring Club Italia e al CAI[26], o all’iniziativa dei “luoghi del cuore” del FAI (che esprime, in fondo, un’idea estetico-soggettiva di godimento di luoghi capaci di evocare sentimenti, ricordi, sensazioni piacevoli, legata all’elaborazione culturale e alla conoscenza).

    Sullo stesso piano di una fruizione estetico-intellettuale si colloca anche un altro filone spirituale che alimenta l’idea di paesaggio, quello della nostalgia per la wilderness, che pure ha rivestito un rilievo di primo piano nello sviluppo dell’idea della tutela paesaggistica[27], in contrappunto all’ideale del giardino governato e conchiuso, un piccolo eden in cui l’uomo può ritrovare la serenità e astrarsi dai traffici vacui del mondo[28].

    Il sentimento estetico è dunque essenziale nella nozione di “paesaggio” ed è stato un errore quello dello storicismo materialistico degli ultimi settanta anni, che ha voluto imporre una visione “oggettivante” socio-antropologia del paesaggio e ha preteso di “depurare” la nozione di “paesaggio” dall’elemento estetico, pur così essenziale, tacciato di vieto “idealismo crociano”[29], che pure aveva caratterizzato l’approccio all’ambiente fino a tutta la prima metà del Novecento. Un punto di vista, questo, forse ingiustamente e troppo frettolosamente accantonato nel secondo dopoguerra con l’affermarsi dell’egemonia del punto di vista storico-sociale, di impronta marxiana, che ha condotto anche, parallelamente, all’evoluzione della nozione di “bene culturale”, da “cosa d’arte” alla antropologistica “testimonianza avente valore di civiltà”)[30].

    Insisto dunque nella mia critica alla Convenzione di Firenze del 2000, che nega questo dato essenziale e assume una visione socio-antropologica di “paesaggio” per cui tutto il territorio è paesaggio, ossia, come già detto, nulla è paesaggio. Certamente, come ci spiega molto bene sempre Edgar Morin[31], l’estetica generalizzata odierna mescola insieme il bello e il brutto, per cui anche la periferia degradata, a modo suo, ha un pregio estetico (del resto la street art è posta oggi, un po’ assurdamente, al vertice dell’interesse e del canone artistico contemporaneo). Ma una cosa è la democratizzazione del canone estetico e la sua evoluzione, contro ogni pretesa elitaria, ad abbracciare punti di vista più ampi e meglio diversificati, altra e diversa cosa è il rifiuto del punto di vista estetico, che resta invece essenziale e ineliminabile nella nozione di “paesaggio”, anche del paesaggio “identitario” delle periferie degradate e compromesse (che esprimono e rappresentano, a loro modo, una nuova e diversa potenzialità estetica)[32]. Va bene, dunque, il così detto “paesaggio identitario”[33], ma non dobbiamo dimenticare, né sottovalutare il nucleo estetico della nozione.

    Questo naturalmente non significa un impossibile ritorno al 1922 o al 1939. L’apporto – fondamentale – dell’antropologia e dello storicismo, con i concetti di “beni culturali-ambientali” della Commissione Franceschini del 1966 e di paesaggio “integrale” come forma del territorio di Alberto Predieri[34] del 1969, restano irrinunciabili e costituiscono un necessario completamento e arricchimento della comprensione della nozione polisemica di “paesaggio”. Per non dire della già più volte richiamata Convenzione europea di Firenze del 2000. Ma – questo è il punto che vorrei sottolineare – questo arricchimento non deve andare a discapito del nucleo essenziale estetico, in senso gnoseologico, del “paesaggio”, altrimenti si rischia di perdere il nocciolo duro della nozione, il suo cuore pulsante, e si apre a inevitabili confusioni (verso l’urbanistica-governo del territorio o la nozione onnicomprensiva di “ambiente”, per l’appunto).

    Tornando alla nostra veloce carrellata sullo sviluppo dell’idea di “paesaggio”, dando uno sguardo alla storia del pensiero, vale la pena di ricordare che nell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert il paesaggio, nella voce redatta da Louis Chevalier de Jaucourt, era presentato come un “genere di pittura che rappresenta le campagne e gli oggetti che vi s’incontrano[35], mentre per Alexander von Humboldt il paesaggio è l’impressione complessiva di un luogo[36].

    Anche guardando ai principali paesi esteri, in particolare all’esperienza tedesca, francese, anglosassone e nordamericana, è possibile ricostruire una linea unitaria che, già a partire dal ‘700 e, soprattutto, dall’800, lega la prima sensibilità “ambientale” a un’idea lato sensu “romantica”, a tratti anti-modernista e di critica al macchinismo industriale, incentrata dunque su un’idea di “ritorno alla natura”, di nostalgia per la wilderness e di ricerca del sublime, su un’ideale di conservazione del volto amato della Patria e di tutela della casa (oikos[37]), una sensibilità nella quale la componente estetica della bellezza svolge un ruolo spesso centrale[38].

    Si pensi a Goethe, a Humboldt e a Burckhardt in Germania, dove si è sviluppata l’idea dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste, che pone i monumenti della natura sullo stesso piano di quelli della cultura e della storia (idea poi recepita nell’art. 150 della Costituzione di Weimar); si pensi, sempre con riguardo alla Germania, al movimento giovanile dei Wandervogel, a Ernst Rudorff, che coniò il concetto di Heimatschutz, come tutela del paesaggio tedesco[39]. Si pensi, guardando alla Francia, a Victor Hugo[40], alla nostalgia per la natura incontaminata nel Rousseau dell’Emilio e delle Fantasticherie di un passeggiatore solitario[41], ad Antoine Quatremére de Quincy[42], alla filosofia contadina di Gustave Thibon. Si pensi, guardando all’Inghilterra, a Edmund Burke, a John Evelyn, a Gilbert White (fondatore della Selborne Societynel 1885), ai movimenti che condussero alla fondazione nel 1907 del National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty e della Campaign to Protect Rural England del 1926. Si pensi, infine, guardando agli Stati Uniti, a Henry David Thoreau, a John Ruskin, John Muir, John Burroughs e George P. Marsh, a Ralph Waldo Emerson e Theodore Roosevelt[43].

    Guardando al profilo giuridico, questa vera e propria “Repubblica europea dello Spirito[44]espresse un comune sentire che produsse frutti anche sul piano legislativo, come bene ricordato dal Pres. Severini nei contributi citati[45].

    Anche l’emersione di un “bisogno” di tutela, nella storia più recente, che data alla fine dell’800 e ai primi del ‘900, appare legato, non solo in Italia, soprattutto a una percezione estetica delle bellezze paesaggistiche, a partire dal momento in cui presero a esser frequentate e amate da una cerchia sempre più ampia di persone, grazie alle prime forme di turismo “di massa” (o, forse, non più solo elitario)[46].

    Non è dunque un caso se, sin dalle prime leggi dell’Italia unita sul patrimonio culturale dei primi del Novecento, le misure di tutela dei beni culturali e dei beni paesaggistici si siano conformate entro il medesimo stampo logico-giuridico (che noi oggi chiamiamo della “eccezione del patrimonio culturale”, e che può variamente declinarsi in termini di limiti al diritto di proprietà, di dominio eminente pubblico giustapposto a quello utile privato, oppure, più di recente, nella logica dei così detti “beni comuni”). Le une e le altre misure rispondono, infatti, a un medesimo bisogno di tutela e presentano modalità analoghe di soddisfacimento di tale bisogno. E non è un caso che l’art. 9 della Costituzione parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (e non parla di “ambiente”).

    La logica di fondo degli strumenti di tutela a tal fine forgiati è la stessa: rispondere a un bisogno di conservazione di un patrimonio estetico-identitario minacciato di dispersione e di distruzione. È la logica della legge Rava del 1905 sulla tutela della pineta di Ravenna e già il Presidente della Cassazione Mariano D’Amelio[47] aveva chiarito, in un contributo del 1912, come la legge Rosadi del 1909, benché “monca” delle disposizioni sul paesaggio (proposte, ma non approvate per l’opposizione del Senato), fosse in realtà senz’altro applicabile anche al “paesaggio storico” italiano, e ciò proprio in forza della stretta commistione, sul territorio, tra monumenti culturali e naturali, tra cose di interesse storico, artistico e architettonico e cose di interesse paesaggistico[48]. È significativo, d’altra parte che la legge “Croce” 11 giugno 1922, n. 778 fosse intitolata “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico” e avesse ad oggetto non solo “le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale” e le “bellezze panoramiche”, ma anche le cose immobili meritevoli di tutela per la “loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”.

    4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”.

    Affatto diversa pare essere invece la genesi del concetto giuridico di ambiente e della tutela ambientale. 

    Il punto di partenza dell’attuale diritto dell’ambiente-ecologia si può forse rinvenire nel famoso rapporto sui limiti dello sviluppo redatto dal Club di Roma (fondato nell'aprile del 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali). Il rapporto, elaborato sulla base della prima riunione, svoltasi a Roma, presso la sede dell'Accademia dei Lincei, venne commissionato al MIT dal Club di Roma e fu pubblicato nel 1972, a cura di Donella Meadows. 

    Si inaugura in tal modo una linea di pensiero che mostra un approccio soprattutto quantitativo-matematico alle tematiche ambientali, incentrato sul calcolo dei limiti alla crescita (il rapporto era basato sulla simulazione al computer per predire le conseguenze della continua crescita della popolazione sull'ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana)[49].

    Ma già nel 1961 era stato fondato il WWF (World Wildlife Fund, Fondo mondiale per la vita selvatica), con la finalità di “bloccare la degradazione dell'ambiente naturale del pianeta e di costruire un futuro in cui l'uomo vivrà in armonia con la natura”, preservando la biodiversità, favorendo la sostenibilità dell'utilizzo delle risorse naturali, promuovendo misure dirette alla riduzione dell'inquinamento e degli sprechi di risorse.

    E già il libro del 1962 Silent Spring, di Rachel Carson, comunemente ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista, presentava un approccio che avrebbe voluto essere scientifico e che si concentrava sull’esame degli effetti nocivi degli inquinanti (basandosi su ricerche e analisi scientifiche relative ai danni provocati dal DDT e dai fitofarmaci)[50].

    Nel 1971 inizia le sue pubblicazioni la rivista Ecologia fondata e diretta da Virginio Bettini[51]. Nel 1972 venne organizzata a Stoccolma la prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, su iniziativa di Olof Palme, in dialogo con Barry Commoner[52] e un gruppo di scienziati ed ecologisti. È del 1973 la Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, promossa dall’Eni e prodotta dalla società Tecneco[53]. Nel 1979 viene fondata la Lega per l’Ambiente dell’ARCI, che farà proprio lo slogan “pensare globale, agire locale[54]. Al 1987 risale la presentazione del rapporto Brundtland[55], che introdusse il concetto di “sviluppo sostenibile”, che è divenuto l’architrave del pensiero ambientalista scientifico (concetto non a caso non particolarmente apprezzato dai paesaggisti, che hanno sempre nutrito una profonda diffidenza verso questo termine, profondamente ambiguo, forse un ossimoro, una contraddizione in termini[56]). L’impostazione culturale dell’IPPC (International Panel on Climate Change, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, emanazione dell’ONU) è marcatamente scientifica[57]. Anche un non recente contributo italiano degli anni ’70 del secolo scorso (A. Todisco, Breviario di ecologia, Milano, 1974), si segnala per aver posto (forse per la prima volta in Italia) il tema del bilancio ambientale.

    Ma, ben vedere, già l’origine della parola “ecologia” è legata a un contesto squisitamente scientifico. Ernst Haeckel (al quale pare si debba l’introduzione del termine “ecologia” nel 1866), era infatti un importante biologo e scienziato prussiano, che coniò il termine “ecologia” per significare lo studio scientifico della natura in quanto oikos, casa, ambiente degli uomini[58]

    Insomma, “La tutela dell’ambiente può essere gestita dagli scienziati che, rilevando e interpretando i risultati delle analisi, individuano le misure da adottare per eliminare le disfunzioni. Esistono degli incaricati di misurare i parametri ambientali dell’acqua, del suolo, dell’aria, nonché di elaborare strategie per mantenersi all’interno di essi. Il territorio è ripartito tra questi enti per l’acqua e il terreno che sono monitorati da scienziati specializzati. Dunque la tutela dell’ambiente è l’obiettivo delle moderne scienze ingegneristiche e naturali[59]

    L’idea scientista e globalista si è poi vieppiù affermata e rafforzata in ambito ambientalista sull’abbrivio della nota teoria di Gaia, il pianeta vivente, attribuita a James Lovelock[60], ma presente già da molto tempo in illustri Autori meno recenti[61].

    Anche questa, va sottolineato, è una differenza profonda di approccio, che contribuisce a spiegare molti dei conflitti tra ambiente e paesaggio: l’ambiente pensa globale e agisce locale; il paesaggio pensa locale e agisce localmente, legato alla dimensione territoriale.

    La politica europea in materia ambientale nasce su questo tronco culturale e ne costituisce una prima sintesi ed elaborazione giuridica[62]. È nota la centralità della spinta del diritto comunitario per lo sviluppo del diritto dell’ambiente e non è certo questa la sede per una sua trattazione. Si parla in proposito di una “progressiva evoluzione di un vero e proprio “diritto costituzionale europeo dell’ambiente[63]. Ma non deve dimenticarsi, né sottovalutarsi l’imprinting mercatista del diritto ambientale europeo, nato come standardizzazione dei costi ambientali internalizzati nella produzione (“chi inquina paga”) per scopi di garanzia della concorrenza e del buon funzionamento del mercato comune[64]. Oggi il principio generale contenuto nell’art. 11 del TFUE (ex articolo 6 del TCE, per cui “Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”) è significativamente confermato dall’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali, collocato nel Capo IV, sulla Solidarietà.

    Più in generale, nel diritto internazionale la progressiva genesi e formazione del concetto – oggi oramai onnipresente, quasi “infestante” nella sua incontrollata diffusività – di “sviluppo sostenibile”, come è stato acutamente osservato[65], è stata fondata sui tre pilastri, ambientale, sociale ed economico, lasciando fuori ogni riferimento alla cultura (e, dunque, alla nozione di paesaggio, se e in quanto non ridotta a un sottoinsieme dell’ambiente).

    L’approccio soprattutto quantitativo-scientifico del diritto dell’ambiente è rivelato dalla (e racchiuso nella) nozione di inquinamento, centrale nella legislazione di tutela ambientale, oggi contenuta nella lettera i-ter) dell’art. 5 del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006), dove è così definita: “l'introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell'aria, nell'acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell'ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell'ambiente o ad altri suoi legittimi usi”.

    La legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente, costituisce l’approdo istituzionale di questo percorso.

    5. I punti essenziali della distinzione.

    La sopra sunteggiata evoluzione di distinte elaborazioni culturali ci rafforza nella conclusione che il paesaggio è percezione, è elaborazione culturale che l’uomo fa dell’ambiente che lo circonda, e non è mai puro e semplice sostrato fisico-chimico-biologico[66]. L’esaminato retroterra filosofico culturale ci porta a dire che il paesaggio è qualcosa che attiene, per così dire, alla res cogitans, più che alla res extensa, alla semiosfera, più che alla ecosfera, riguardando la comprensione identitaria del contesto, più che la tutela delle matrici ambientali. Il paesaggio si collocherebbe (volendo operare un richiamo alla nota teoria dei tre mondi di Popper[67]), nel “mondo 3” (il mondo dei contenuti oggettivi di pensiero), piuttosto che nel “mondo 1” (il mondo degli oggetti e degli stati fisici). Il senso più profondo della distinzione “paesaggio-ambiente” può essere esplicitato nella differenza di prospettiva tra i punti di vista della prima e della terza persona, per cui l'ambiente costituisce la prospettiva della terza persona - le cose, il mondo fisico che descriviamo in modo oggettivo - mentre il paesaggio rappresenta la prospettiva della prima persona - il significato del territorio per come lo percepiamo in modo soggettivo[68]. Il paesaggio è il significato che io-noi percepiamo nel territorio, per le sue caratteristiche significanti (come bene evidenziato nella stessa definizione data dall’art. 131 del codice di settore). La nozione giuridica di paesaggio nasce, dunque, non (solo) per un atto positivo d’autorità normativa (lex), ma come prodotto della confluenza e della sintesi di diverse tradizioni e nozioni metagiuridiche sul tema e vanta pertanto profonde radici epistemiche e logiche, oltre che storiche (ius).

    Esiste, dunque, alla base della distinzione tra paesaggio e ambiente, una diversità sostanziale di orientamento di pensiero: un punto di vita soggettivo (proprio delle scienze dello spirito), e qualitativo, dal lato del paesaggio; un punto di vista oggettivo e quantitativo (proprio delle scienze esatte e della tecnica) dal lato dell’ambiente-ecologia. C’è anche una componente antilluministica e antiscientista nella genesi culturale del concetto di paesaggio[69], che si contrappone al modello illuministico-tecnologico che condurrà poi all’ambientalismo industriale. 

    Ciò nondimeno – ed è, questo, il retroterra culturale della Convenzione europea del paesaggio del 2000 – la comprensione del paesaggio deve mettere insieme tutti i diversi saperi e punti di vista che concorrono alla sintesi dell'azione di fattori naturali, umani e delle loro interrelazioni che, come recita l’art. 131 del codice di settore (riprendendo la formulazione della Convenzione europea del 2000), contribuiscono a dare la nozione complessa e plurivoca di “paesaggio”[70].

    6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea.

    È noto che nell’ultimo scorcio del secolo scorso la Corte costituzionale (dopo avere forgiato, nei decenni precedenti, il concetto della primarietà del valore estetico-culturale, ex art. 9 Cost., come limite alle competenze regionali in materia urbanistica[71]) ha introdotto (nonostante le avvertenze di autorevole Dottrina circa i diversi aspetti giuridici della nozione di ambiente[72]) una nozione unitaria di “ambiente”, comprensiva anche del paesaggio, con l’idea dell’endiadi unitaria, per cui “la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria[73]. In altre pronunce coeve[74] la Consulta ha poi proposto una nozione di paesaggio più ampia, comprensiva di “ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio”, fino all’affermazione[75] che la tutela del paesaggio va intesa nel senso lato della tutela ecologica e si identifica con la conservazione dell’ambiente. Parimenti orientata nella direzione di una sostanziale unitarietà delle nozioni di ambiente e di paesaggio è l’ulteriore giurisprudenza costituzionale[76] sulla tutela del paesaggio improntata a globalità e integralità.

    La Corte costituzionale, dunque, se, da un lato, nel dirimere i conflitti di competenza tra lo Stato e le Regioni, ha introdotto riflessioni e concetti utili alla distinzione (sentenze n. 359 del 1985, n. 151 del 1986, n. 183 del 1987, n. 417 del 1995, n. 262 del 23 luglio 1997), dall’altro lato ha sempre posto l’accento sulla necessaria unitarietà e sintesi di visione (con la sentenza n. 478 del 26 novembre 2002, richiamando le precedenti sentenze n. 85 del 1998 e n. 378 del 2000). Più di recente, a partire dalla sentenza n. 367 del 2007[77], la Corte ha meglio distinto i diversi campi di materia («Sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali»). In plurime sentenze ha altresì qualificato in termini di norme di grande riforma economico-sociale le previsioni del codice in tema di aree vincolate ex lege (art. 142), di co-pianificazione paesaggistica (art. 143), di preminenza gerarchica del piano paesaggistico (art. 145) e di autorizzazione paesaggistica (art. 146).

    Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di recente di ammettere la distinzione giuridica tra ambiente – materia nella quale l’Unione ha una sua propria competenza – e paesaggio – materia nella quale, invece, l’Unione è priva di una sua competenza. Con la sentenza della Sez. decima, 6 marzo 2014, nella causa C-206/13, nel dichiararsi "incompetente", perché non attinente con il diritto dell'Unione, sulla questione del possibile conflitto dell’art. 167, comma 4, lett. a), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. e con il principio di proporzionalità, ha respinto la prospettazione del remittente (Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), secondo la quale la nozione di “ambiente”, rilevante ai fini del diritto europeo, includerebbe anche il paesaggio. La Corte UE ha invece ritenuto la materia della tutela del paesaggio sostanzialmente estranea all'ambito di operatività del diritto dell'Unione ("né le disposizioni dei trattati UE e FUE richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano. Gli obiettivi di tali normative e del decreto legislativo n. 42/2004 non sono i medesimi, anche se il paesaggio è uno degli elementi presi in considerazione per valutare l’impatto ambientale di un progetto, ai sensi della direttiva 2011/92, e rientra tra gli elementi presi in considerazione dalle informazioni in materia di ambiente, di cui alla Convenzione di Aarhus, al regolamento n. 1367/2006 e alla direttiva 2003/4")[78].

    7. Unificazione o differenziazione delle competenze

    Sul tema – di centrale rilievo - della differenziazione delle competenze mi permetto di rinviare per sintesi a un mio non recente contributo[79] nel quale ho sostenuto la tesi che, nell’ambito del confronto dialettico tra più interessi pubblici coinvolti in un affare amministrativo, il principio di differenziazione di cui all’art. 118 Cost. (che non si appiattisce su quello di adeguatezza, ma presenta una sua propria e autonoma rilevanza) si coniuga con il principio del contraddittorio, enunciato nell’art. 111 Cost. e ormai riferibile anche al procedimento amministrativo (sempre più processualizzato, come processual-procedimento[80]). Con la conseguenza che i “tre diversi aspetti” in cui si declina la nozione lata e onnicomprensiva di ambiente - ossia il paesaggio, l’ambiente/ecosfera e l’urbanistica/governo del territorio - devono avere ciascuno un proprio rappresentante, un soggetto che esprima e dia voce al diverso punto di vista di ciascuno di questi “aspetti” e che sappia difenderlo nel caso, frequente, di conflitto. Questa impostazione si lega poi all’idea, che pure sostengo da anni, che il Comune – ma penso soprattutto ai piccoli Comuni – non è il posto giusto per fare tutela, poiché il principio di prossimità e di sussidiarietà verticale vale solo per l’amministrazione erogatrice di beni e servizi, non anche per l’amministrazione di tutela, che deve mantenere una fisiologica “distanza” dal conflitto politico locale. 

    Se scorriamo l’indice del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006) vediamo che la gran parte dei settori e degli ambiti materiali in esso ricompresi presentano un’evidente caratterizzazione tecnico-scientifica e non pongono particolari problemi di sovrapposizione diretta e di possibile confusione con il campo materiale proprio del paesaggio. È sufficiente a questo scopo leggere l’art. 1 del così detto “codice ambiente”, che definisce il suo Ambito di applicazione: “Il presente decreto legislativo disciplina . . . le materie seguenti: a) le procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC); b) la difesa del suolo e la lotta alla desertificazione, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche; c) la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti contaminati; d) la tutela dell'aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera; e) la tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente”.

    Certamente, è ovvio, tutti gli interventi che si realizzano sul territorio – un depuratore, il movimento delle terre per la bonifica di un sito inquinato, etc. - possono avere una qualche incidenza paesaggistica, ma queste interferenze indirette non alterano la nitida distinzione dei concetti (e, in tesi, delle possibili competenze).

    Vi sono, sì, anche alcuni punti di maggiore e più frequente contatto tra “paesaggio” e “ambiente”, che sono costituiti dalla VIA e dalle aree naturali protette. Alla complessità delle relazioni tra ambiente e paesaggio corrisponde l’emersione e la presenza di una pluralità di conflitti. 

    La stessa, ampia e onnicomprensiva tematica del contenimento del consumo di suolo e del suo uso razionale, che pure potrebbe dare l’occasione di una sintesi virtuosa e di un ritorno all’unità, si presta a due diverse declinazioni, una più “ambientale” – incentrata sull’impermeabilizzazione, il Soil Sailing – l’altra più “paesaggistica” (o, se vogliamo, anche urbanistica) – incentrata sull’uso del suolo, sulla sua occupazione e trasformazione antropica, il Land Take.

    8. Decarbonizzazione e paesaggio

    Sicuramente il settore che ha dato luogo a maggiori conflitti tra ambiente e paesaggio e che rende più immediatamente percepibile la diversità di approccio di questi due campi di materia, confinanti, ma distinti, è quello dello sviluppo degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: eolico, fotovoltaico, biomasse, mini-idroelettrico.

    Soprattutto l’eolico ha generato forti conflitti e vede normalmente su fronti opposti i difensori del paesaggio (soprattutto del paesaggio appenninico) e i difensori della lotta al mutamento climatico, che oggi si chiama “decarbonizzazione”. Ma questo discorso vale anche per il fotovoltaico, quando, anziché essere realizzato su gray field, su aree industriali, su capannoni aziendali, su aree già impermeabilizzate, aggredisce terreni verdi sottraendoli all’agricoltura e sostituisce ai girasoli o ai campi di grano ettari di pannelli fotovoltaici.

    È un conflitto che è stato avvertito sin dall’inizio, da quando sono scattate le norme di incentivo alla realizzazione dei vari obiettivi proclamati in sede europea e internazionale (l’obiettivo del 20-20-20), e che mostra in assoluta evidenza la divaricazione culturale che separa il “pensare globale, agire locale” dell’ambientalismo globalista industriale dalla tradizione di conservazione dei paesaggi, che è alla radice dell’odierna tutela paesaggistica.

    Ho personalmente sviluppato queste considerazioni in miei non recentissimi contributi, che però mi sembrano ancora attuali e ai quali mi permetto perciò di rinviare, per non appesantire ulteriormente il discorso[81].

    Ricordiamo che il d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 qualifica (art. 12) le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio di tali impianti, quali opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti (previsione già contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, recante Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia), aggiungendo che gli impianti possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, così spianando la strada all’espropriazione per pochi soldi delle aree agricole.

    Il punto centrale delle mie precedenti riflessioni si compendiava nella critica – che sembra oggi ancor più valida a attuale - di tre evidenti illogicità: l’illogicità del sistema della negoziazione (a livello europeo) e della definizione (a livello di piani energetici nazionali) a priori e in astratto di quote, di percentuali, di obiettivi quantitativi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili senza una preventiva istruttoria tecnica e verifica sul campo su dove e come realizzare questi impianti; l’illogicità degli incentivi indifferenziati, “ciechi” e “muti” riguardo agli impatti negativi indotti sui territori e concessi al di fuori di ogni logica di pianificazione razionale; l’illogicità di una certa giurisprudenza, che sembrava prendere corso nei primi casi applicativi del decreto legislativo, secondo la quale l’interesse sotteso alla realizzazione del “parco eolico” (o del campo fotovoltaico) fosse non già quello economico imprenditoriale del soggetto privato a realizzare un investimento produttivo, bensì quello “pubblico” di tutela ambientale, con conseguente bilanciamento non tra l’art. 9 e l’art. 41 della Costituzione, ma tra l’art. 9 e la tutela ambientale, soprattutto nella sua declinazione eurounitaria e internazionalistica, capace di dare a tale valore – la lotta al climate change – una forza maggiore ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost.

    Questo modo di ragionare incappa in un evidente errore logico, prima ancora che giuridico, poiché pone a raffronto termini (e valori-concetti) evidentemente non comparabili perché collocati su scala diversa: la "speranza", futura, eventuale, incerta e del tutto indiretta, che (un domani) il fotovoltaico o l'eolico possano contribuire alla lotta (globale) ai gas climalteranti, da un lato; dall'altro lato, il danno certo, immediato, reale, attuale al paesaggio, che si realizza qui ed ora. 

    L’errore logico, dunque, si risolve nella comparazione di fenomeni che si collocano a scale (spaziali e temporali) del tutto diverse e non seriamente comparabili. Proporzionare le valutazioni alla scala corretta di riferimento è un principio che non vale solo per il diritto, ma per tutti i campi della conoscenza umana. Anche nella fisica, in attesa della Grande Teoria unificante (che è di là da venire), coesistono tre teorie diverse (forse tra loro integrabili o forse contraddittorie), che si applicano alle diverse scale quantitative dei fenomeni osservati: la teoria dei quanti per il microcosmo delle particelle subatomiche, la teoria newtoniana (semplice e chiara) per la scala umana, la teoria dello spazio-tempo a quattro dimensioni della relatività generale einsteiniana per il macrocosmo[82]. Ma nessuno si sognerebbe di spiegare il flusso del traffico veicolare su un’autostrada con la teoria dei quanti o con la curvatura spazio-temporale. La nostra giurisprudenza, invece, pretende di bilanciare i concetti-valori-interessi in campo raffrontando il pensare globale della lotta al cambiamento climatico – che si colloca sulla scala futura dell’intero pianeta – con la tutela dei nostri paesaggi italiani (che si colloca alla scala locale e attuale delle specifiche porzioni territoriali interessate dai progetti di trasformazione antropica).

    Qui assistiamo – in una maniera davvero chiarissima ed emblematica – allo scontro tra due visioni opposte delle cose: da un lato, l’ambientalismo industriale globalista, che vede all’attacco imprese industriali che, sventolando il vessillo di Kyoto e della lotta al mutamento climatico, perseguono loro immediati e concreti ritorni economici di profitto e mirano a realizzare parchi eolici sull’Appennino e campi di pannelli fotovoltaici nelle pianure; dall’altro lato chi ama e difende la qualità dei paesaggi agrari e montani italiani, insieme alle comunità di heritage territoriali, che faticosamente vorrebbero riscoprire e rivalutare le loro radici culturali, la loro identità, legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri tradizionali, e che puntano a un tipo di sviluppo diverso, più equilibrato, basato sulla filiera eno-gastronomica di eccellenza, sull’agriturismo, sullo sviluppo di modi nuovi di abitare, sulla rivitalizzazione degli antichi borghi, e perciò difendono il contesto paesaggistico che esprime e rispecchia questa cultura tradizionale. È in questi ambiti che si manifesta in tutta la sua evidenza la scivolosità del concetto evanescente e intrinsecamente contraddittorio di “sviluppo sostenibile”. Ed è qui che i valori in campo confliggono, poiché bisognerebbe capire quale “sostenibilità” si intende perseguire, se la sostenibilità di uno sviluppo locale autentico, legato alle comunità di heritage di cui parla la Convenzione di Faro, fondata sulla riscoperta della autentica e profonda identità culturale di quei territori, o di una sostenibilità “globale” che, intanto, qui ed ora, si concretizza nello stravolgimento di una tradizione culturale locale.

    Purtroppo si riscontra una scarsa percezione di questi problemi nella giurisprudenza attuale, forse ancora affascinata dall’idea della transizione ecologia e della lotta al climate change. Dalla Corte costituzionale[83], che persiste nel voler difendere il “principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili” e nel negare - contro ogni logica - il potere regionale di razionale pianificazione del territorio mediante la previsione di limiti generali, al Giudice amministrativo[84], che insiste nel pretendere una motivazione rafforzata quando si oppongano valori di tutela paesaggistica alla realizzazione di impianti FER, esigendo “una severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi”, che “non può ridursi all'esame dell'ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ciò in quanto la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici”.

    9. Conclusioni.

    Ricapitolando brevemente gli snodi principali del ragionamento sin qui svolto, si è osservato in primo luogo che la distinzione – culturale e giuridica – tra “ambiente” e “paesaggio”, pur ormai acquisita nell’opinione prevalente, tuttavia si confronta e si scontra, ancora oggi, con un’opposta visione, che potremmo dire “integrale”, “unitaria”, o “olistica” del territorio, che indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale.

    Questa visione però sembra non avvedersi del rischio che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica possa inglobare e annullare la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone (poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, ma anche gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio).

    Peraltro, al di là di alcuni segmenti che presentano una evidente sovrapposizione (parchi, VIA), la distinzione tra i due campi di materia appare abbastanza netta e chiara già sul piano epistemologico (la tutela delle matrici ambientali dagli inquinamenti si occupa, come è noto, prevalentemente di quantità fisico-chimiche e dei loro effetti biologici sull’ecosistema da un punto di vista oggettivo; la tutela del paesaggio opera prevalentemente a livello di percezione e di interpretazione da un punto di vista soggettivo). 

    La distinzione poggia, dunque, sulla natura della logica interna – e dunque sulla natura del tipo di discrezionalità (tecnica) - che connota lo svolgimento delle funzioni di tutela paesaggistica rispetto a quella che caratterizza lo svolgimento delle funzioni di tutela ambientale, inquadrandosi le une in un contesto di logica formale proprio delle scienze comprendenti dello spirito, le altre in un contesto di logica formale proprio delle scienze “esatte” matematizzanti. 

    Tale diversità della logica interna determina rilevanti conseguenze sul regime giuridico delle decisioni amministrative “paesaggistiche” rispetto a quelle “ambientali”, sia sul piano del tipo di semplificazione possibile (si possono autocertificare i fatti, non le opinioni), sia sul piano della tutela giurisdizionale (in termini di ambito e di tipo di sindacato possibile) 

    Queste riflessioni non costituiscono un astratto esercizio classificatorio o dogmatico, ma hanno ricadute operative ed effettuali di straordinario rilievo, in particolare oggi, nel momento in cui la politica è chiamata a decidere come articolare e declinare il Green New Deal e la così detta “transizione ecologica” verso la “decarbonizzazione”, se in una logica puramente industrialista e globalista (che vedrebbe le esigenze paesaggistiche soccombere al dilagare dei campi fotovoltaici, dei parchi eolici, delle dighe nei fiumi e nei torrenti, etc.) o in una (più equilibrata) logica di attenzione (locale) alla qualità dei territori, orientata soprattutto nella direzione della manutenzione dei territori, di una rigenerazione delle aree compromesse e degradate delle periferie urbane, della prevenzione del dissesto idrogeologico e del risanamento e recupero dei borghi appenninici nelle aree interne.

    È significativo (e allarmante) il fatto che nella copiosa produzione normativa e para-normativa dell’Unione europea sul Green New Deal non siano menzionati neanche una volta il paesaggio e il patrimonio storico e artistico e che l’attenzione sia interamente assorbita dalla linea di pensiero dell’ambientalismo industriale[85]. Ma non ci si può certo meravigliare di questa impostazione, che si pone in perfetta coerenza con la genesi e la storia del diritto comunitario dell’ambiente, che, come detto, è nato come forzoso “ritaglio” nel quadro delle competenze della Comunità in materia di concorrenza e di mercato. 

    Si ha, in conclusione, la sensazione che la “transizione ecologica” finirà come al solito per risolversi in un grande greenwashing del vecchio refrain della “Crescita&Sviluppo”, con sacrificio ulteriore dei paesaggi del già “Bel Paese”[86].

    La questione di fondo, come al solito, è culturale: forse la transizione ecologica “vera” non è quella della così detta green economy, che è totalmente organica e interna alle vecchie logiche del profitto e della crescita del PIL, ma è prima di tutto quella, mentale e culturale, basata su un nuovo modo di pensare e di guardare al mondo, su un nuovo stile di vita, sul recupero del senso del limite e su un profondo ripensamento della scala dei valori, con l’abbandono del consumo fine a se stesso e del falso slogan contradditorio dello “sviluppo sostenibile”, nella ricerca di un equilibrio stabile e duraturo. La vera transizione ecologica è probabilmente quella che porta i giovani a tornare alla terra, non quella che usa la terra per togliere l’agricoltura e mettere i pannelli solari per alimentare il business dell’auto elettrica. Ma questa visione nuova sembra essere completamente al di fuori della portata del comune pensiero politico attuale.

       

    [1] F. de Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in L. Carbone, G. Napolitano e A. Zoppini, La disciplina della gestione dei rifiuti tra ambiente e mercato, Bologna, Il Mulino, 2018, 23 ss. M. Cocconi La regolazione dell’economia circolare. Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2020

    [2] La Convenzione europea del paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000, ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, impone, come è noto, agli Stati parte della convenzione (art. 5, lett. a), di “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” e definisce il paesaggio (art 1, lett. a) come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Tale nozione è stata quindi tradotta e recepita dall’art. 131, commi 1 e 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.

    [3] C. Schmitt, La tirannia dei valori, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2008.

    [4] “Non si distribuiscono pasti gratis” è la quarta delle quattro leggi fondamentali dell’ecologia indicate da Berry Commoner (Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano, 1972).

    [5] P. Stella Richter, I principi fondamentali del diritto urbanistico, Giuffrè, Milano, 2002; Id., I principi del diritto urbanistico, 2^ ed., Giuffré, Milano, 2006, par. 42 dal titolo “Un territorio, un piano”, 168 ss.

    [6] V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 389 e 427 ss.; P. Urbani, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi differenziati, in Regioni, 1986, 665; Id., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell’assetto territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urb., 1990, 609; V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, 2^ ed., Torino 1994, 210 ss.; P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 1/2015, 51 ss. Id., I rapporti tra disciplina urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, vol I, 20 ss.

    [7] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, 15 ss. Contrapposta alla tesi gianniniana è quella di A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1985, 33 ss., secondo il quale era necessario pervenire a una nozione unitaria di “ambiente”, nella logica del diritto soggettivo alla salubrità ambientale a livello individuale. Su questi profili si veda, di recente, P. Colasante, La ricerca di una nozione giuridica di ambiente e la complessa individuazione del legislatore competente, in Federalismi.it, 24 giugno 2020.

    [8] Così S. Settis, La Carta di Roma. La città del futuro è testa e popoloIl Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2020, pagg. 1 e 17.

    [9] J. W. Von Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano, 1983 (ristampa 2010), 122 (“Salito a Spoleto, mi sono recato all’acquedotto che fa da ponte tra una montagna e l’altra . . . Una seconda natura, intesa alla pubblica utilità, questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto”). Sul tema cfr. S. Settis, Architettura e democrazia, Einaudi, Torino, 2017, cap. IV, Eine zweite Natur, 97 ss.

    [10] Così A. Carandini, La bellezza abbracciata alla «salute», in Il Sole 24 OreDomenica, 18 ottobre 2020, XVII, che parla di “una prima e una seconda natura mai da contrapporre ma da bilanciare e ricomporre alla radice” e sottolinea l’esigenza, sempre più avvertita, di recuperare “il senso del contesto e quindi del tutto, composto sia dalle scienze della natura che da quelle della storia: due culture oggi ancora così divise, che trattano ambiente e cultura come universi estranei” (concetti sviluppati dall’Illustre A. in La forza del contesto, Laterza, Laterza, Roma-Bari, 2017).

    [11] A. Carandini, La potenza culturale della nostra ItaliaDomenica de Il Sole 24 Ore del 28 febbraio 2021, pag. XI. Su queste idee si insiste nel XXV convegno del Fondo ambiente italiano (Fai) del 20 marzo 2021. Il già citato Presidente del Fai, Carandini, ad esempio, afferma che “Il Fai concepisce l’ambiente come un tutto . . . [il Fai è] votato a riequilibrare la storia e la natura, a promuovere la coscienza di luogo tramite racconti e altre concrete azioni riguardo a educazione e pianificazione” e che “C’è una formazione per integrare la cultura della natura e quella del paesaggio, della storia e dell’arte”. Aggiunge (Alberi e colonne meritano davvero uguale attenzione, in Domenica de Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2021, XII) “Insomma, a ciascuno il suo, a seconda della vocazione e della missione, ma tutti uniti per cui, tramite i vari spicchi, possiamo ricomporre l’arancio intero”.

    [12] Alain Badiou, L’essere e l’evento, trad. di G. Scibilia, a cura di P. Cesaroni, M. Ferrari e G. Minozzi, Mimesis, Edizioni, Milano – Udine, 2018. Osserva M. Aime (Classificare, separare, escludere, Einaudi, Torino, 2021, 14 e 15) che “Di fatto ogni cultura è un tentativo di conferire un certo ordine alla natura e al mondo che ci sta intorno” e che, con riguardo soprattutto alla mente occidentale (C. Bollas, La mente orientale (Psicoanalisi e Cina), trad. it. di M. P. Nazzaro, Milano, 2011), “Una delle prime operazioni di riordino del mondo è stata la divisione netta tra natura e cultura”.

    [13] Ho svolto questa critica sia a proposito della Convenzione europea del paesaggio, sia della Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società: dire che “tutto è paesaggio” – o che tutto è patrimonio culturale – equivale a dire, sul piano giuridico, che nulla è paesaggio (e che nulla è patrimonio culturale). Si vedano P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G. F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007, 135 ss.; IdLa Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, n. 4/2017, 22 febbraio 2017, al sito http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=33604, e, da ultimo, G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro «sul valore del patrimonio culturale per la società»: politically correct vs. tutela dei beni culturali?, in Federalismi.it, n. 8/2021, 24 marzo 2021.

    [14] S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino, 2014, 97; Id., Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2010, 222 ss. (cap. VI, L’Italia si fa in tre: paesaggio, territorio, ambiente). Il Presidente del Tar di Lecce, A. Pasca, un tribunale particolarmente impegnato sulle tematiche paesaggistiche e ambientali, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, in data 20 marzo 2021, ha osservato come “L’inscindibile relazione che lega il paesaggio all’ambiente, nonché le frequenti ipotesi di conflitto degli interessi tra le due succitate materie, conducono ad auspicare una sintesi delle competenze sotto un unico centro decisionale”.

    [15]. Si veda da ultimo il disegno di legge costituzionale A.S. 1203 recante Modifica dell'articolo 9 della Costituzione in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, protezione della biodiversità e degli animali, promozione dello sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni, discusso nella 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) del Senato in sede referente congiuntamente ai disegni di legge A.S .83, 212,.1532, 1627, 1632, 938 e 2160 nella seduta del 14 aprile 2021.

    [16] P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, 8 giugno 2018, al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/paesaggio-dir-amm_%28Diritto-on-line%29/).

    [17] Estetico in senso letterale (dal greco αἴσθησις, “sensazione”, αἰσθάνομαι, “percepire attraverso i sensi”) e in senso gnoseologico [nel senso del trattato Aesthetica del 1750 di Alexander Gottlieb Baumgarten (Lezioni di estetica, Aesthetica edizioni, 2020), cui si deve l’introduzione della “gnoseologia” come teoria della conoscenza (distinta in logica ed estetica), e nel senso dell’“estetica trascendentale” come dottrina della percezione sensibile nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant o del così detto “più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco” (attribuito a Hegel, ma forse di Holderlin o Shelling), datato 1797, secondo il quale “l’idea che unifica tutte le altre, l’idea della bellezza, assumendo il termine nel più alto significato platonico. Io sono ora convinto che l’atto supremo della ragione, in quanto abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che verità e bontà solo nella bellezza sono congiunte”; o nel senso dell’Estetica di Hegel e di Friedrich Schiller (i cui scritti sull’estetica sono stati ora raccolti nel volume L’educazione estetica, Aesthetica edizioni, 2020)]. Una declinazione della nozione di “paesaggio” in chiave soprattutto estetica in R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, Giannini, Napoli, 1973; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, Bulzoni, Roma, 1981.

    [18] Resta sottinteso – in quanto ovvio – che la distinzione tra “scienze esatte” e “scienze deboli”, come quella storicistica tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, è una distinzione ormai superata nel dibattito filosofico (si veda, ad esempio, H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004). Essa, tuttavia, presenta ancora un profilo euristicamente fecondo sia ai fini della riflessione sulle diverse matrici storico-culturali del diritto dell’ambiente-cultura (paesaggio) rispetto al diritto dell’ambiente-natura (ambiente-ecosfera), sia ai fini di una migliore comprensione della logica formale interna del sillogismo che viene ad essere costruito nell’esercizio delle funzioni e nelle determinazioni amministrative di tutela ambientale (accertamenti tecnici). Questa impostazione è approfondita in P. Carpentieri, Interesse paesaggistico e procedimenti autorizzativi, in Riv. giur. urb., n. 2 del 2015, e, più di recente, Id., La decisione amministrativa discrezionale. Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale, in Giust.Amm.it, n. 1 - 2020 [6096], 19 gennaio 2020.

    [19] L’idea che la minorità fisica e naturale dell’uomo sia stata la condizione necessaria per lo sviluppo adattivo della memoria dell’esperienza e, quindi, della riflessione, fino alla conoscenza e al linguaggio, consentendo all’uomo di creare un ambiente a sua misura, dominando il mondo con la tecnica; è stata sviluppata soprattutto da A. Ghelen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, a cura di V. Rasini, trad. it. di E. Tetamo, Mimesis, Milano, 2016, ma è già in Samuel Pufendorf, 1672, De iure naturae et gentium libri octo, così come in Bacone, in Herder (secondo cui l’uomo supplisce alla mancanza dell’istinto con la riflessione), nonché in Max Sheler, Helmut Plessner, Hans Georg Gadamer

    [20] Sul superamento della dicotomia “natura-cultura” si veda il recente contributo di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau, L’istituzione della natura, a cura e con un saggio di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata, 2020. Andy Clark e David Chalmers, The Extendend Mind, in Analysis, vol. LVIII, n. 1, 1998, sostengono che quando le nostre tecnologie si adattano a noi in modo attivo, automatico e continuo, così come noi ci adattiamo a loro, allora la linea che separa lo strumento dal suo utilizzatore diviene incerta. Rifiutano l’identificazione ontologica ed epistemologica tra mentale e cerebrale. Rifiutano l’identificazione tra biologico e naturale da un lato e tra tecnologico e artificiale dall’altro. Tutto questo ha a che vedere anche con il “modello della mente estesa” della più recente scienza della mente, secondo la quale “la mente non è all’interno del cervello, ma si diffonde nel corpo e nell’ambiente” (M. Di Francesco, L’io esteso. Il soggetto tra biologia e cultura, in M. Di Francesco, M. Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano, 2009, 170.

    [21] Sulla lettera del Petrarca sull’ascesa al Monte Ventoso cfr. da ultimo A. Vedaschi, R. Grazzi, Il paesaggio e il consumo del territorio: dalla tutela alla valorizzazione, in S. Lo Nardo e A.Vedaschi (a cura di), Consumo del territorio, crisi del paesaggio e finanza locale, Gangemi, Roma 2011, 105-124, nonché H. Küster, Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, 2010, 4. Sui paesaggi storici italiani si veda l’ampia rassegna di Arnold Esch, Viaggio nei paesaggi storici italiani, trad. di Flavia Paoli, Leg Edizioni, Gorizia, 2020 (il paesaggio toscano del ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli nella cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, gli sfondi delle opere del Pollaiolo con la valle dell’Arno, la Crocifissione di Antonello da Messina conservata al Koninkdijk Museum di Anversa, con lo sfondo del paesaggio dello Stretto, etc.).

    [22] Genesi, 2, 6, 15 (La sacra Bibbia della CEIeditio princeps, 1971, ristampa 2006, RCS Quotidiani s.p.a., Milano, Antico TestamentoPentateuco I, parte I, 56). Illuminante sul punto la prolusione tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della prima giornata degli Stati generali del paesaggio, il 26 ottobre 2017, in Roma, intitolata «Pose l’uomo nel giardino per coltivarlo e custodirlo. Paesaggio, spiritualità e cultura». Temi, questi, sviluppati in modo più ampio in G. Ravasi, Il Grande Libro del Creato. Bibbia ed Ecologia, Edizioni San Paolo, 2021.

    [23] È noto che l’immagine dell’Eden è presente già nella tradizione sumera del dio Enki, nel poema assiro-babilonese Enuma Elish e nel mito di Gilgamesh e dell'ultimo uomo sopravvissuto al diluvio, Utnapishtim, sul quale si veda di recente R. Calasso, La tavoletta dei Destini, Adelphi, Milano, 2020. Sulla diffusione di questo archetipo in molte religioni orientali cfr. A Graf, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, Loescher, Roma, 1892-1893, ora riedito in versione integrale a cura di C. Allasia e W. Meliga, prefazione di M. Guglielminetti, saggi introduttivi di E. Artifoni e C. Allasia, Bruno Mondadori, Milano, 2002.

    [24] Si pensi alla ripresa del mito virgiliano dell’Arcadia come paesaggio spirituale, dal ciclo dei dipinti del Guercino (Et in Arcadia ego) all’Accademia fondata nel 1690 in Roma dal Crescimbeni attorno a Cristina di Svezia (sul movimento poetico letterario nel XVIII sec. si vedano M.L. Doglio, M. Pastore Stocchi, Rime degli Arcadi I-XIV, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020, e AA.VV., Canoni d’Arcadia, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020). Ma si pensi anche all’idea di paesaggio del progetto della “Platonopoli” plotiniana del circolo mediceo riunito nella villa di Careggi, come disegno razionale del territorio secondo schemi ideali superiori. Un ruolo centrale, un file rouge continuo, che lega insieme tutto lo sviluppo storico dell’idea di paesaggio, è costituito dall’idea del giardino, dell’eden, dalla Roma antica (ma dalla Mesopotamia) fino ad oggi.

    [25] Si ricordino, tra i pittori di paesaggio tedeschi, oltre a Carl Blechen (Le rocce di Tiberio a Capri, 1828-29), Carl Feuerbach, Hans Thoma, Franz von Lenbah. Sul ruinismo cfr. Alain Schnapp, Une histoire universelle des ruines. De origines aux Lumières, Edition du Seuil, 2021.Tra i Preraffaelliti John Everett Millais, James Tissot, Dante Gabriel Rossetti, George Frederic Watts, John Singer Sargent ed Edward Burne-Jones, Lawrence Alma-Tadema.

    [26] L’espressione il “Bel Paese” risale a Dante («del bel paese là dove 'l sì suona», Inferno, canto XXXIII, verso 80) e Petrarca («il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe», Canzoniere, CXLVI, versi 13-14). Su questi profili si vedano i fondamentali contributi chiarificatori di G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, 59 ss., soprattutto 60-61 e nota n. 2, in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Atti del Convegno «Il “paesaggio” di Alberto Predieri. A cinquant’anni dal “Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio», svoltosi a Firenze l’11 maggio 2018, Passigli Editore, Firenze, 2019, nonché IdCulturalità del paesaggio e paesaggi culturali, in Federalismi.it, 27 maggio 2020, rielaborazione della relazione tenuta al 65° Convegno di Studi amministrativi, Dall’urbanistica al governo del territorio: valori culturali, crescita economica, infrastrutture pubbliche e tutela del cittadino, Varenna, 19-20-21 settembre 2019, in corso di pubblicazione anche nei relativi “Atti”. Si veda anche P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Garzanti, Milano, 1992. Illustra bene il rapporto di reciproco influsso tra una certa idea di paesaggio e lo sviluppo di un primo turismo di massa il saggio L’Orco, il Monaco e la Vergine. Eiger, Mömch, Jungfrau e dintorni. Storie dal cuore di ghiaccio d’Europa, di P. Paci, Corbaccio, Milano, 2020, che descrive lo sviluppo del turismo inglese nell’Oberland bernese nell’Ottocento. Sulla nascita, alla fine del Settecento, del culto delle Alpi, con il diffondersi della moda del viaggio a scopi estetici, cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 130.

    [27] La nostalgia per la wilderness è spesso nostalgia per una natura più selvaggia, legata a un ideale romantico (Ch, Thacker, The Wilderness Pleases, London-Camberra, New York, 1983). Per H. Küster (Piccola storia del paesaggio, cit., 94) il culto della wilderness non era biologia ma desiderio di un paesaggio “più selvaggio”. Si veda anche R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, 2008.

    [28] Sull’interesse di Goethe per i giardini (che partecipò allo sviluppo del parco di Weimar e dell’orto botanico di Jena) cfr. R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), Il Mulino, Bologna, 2020, 278. Sul ruolo centrale che l’estetica del giardino ha rivestito nello sviluppo dell’idea di paesaggio si vedano C. Moore, W. Turnbull jr, W.J. Mitchell, The poetics of gardens, Cambridge (Mass.), London 1988, nonché Culture and nature. International legislative texts referring to the safeguard of natural and cultural heritage, ed. C. Añón Feliú, Firenze 2003, quinto volume dedicato a Giardini e paesaggio. Traggo queste citazioni da F. Zagari, voce Paesaggio, in X Appendice dell’Enciclopedia Italiana, volume secondo, L-Z, Roma, 2020, 249.

    [29] L’estetica di Croce coglie dunque un elemento centrale della nozione di “paesaggio”, e questo aspetto andrebbe rivalutato, valorizzando le origini “crociane” della nostra legislazione nella materia, a partire dalla fondamentale legge 11 giugno 1922, n. 778. È noto che per Croce l’estetica è una disciplina filosofica, anzi è uno dei pilastri della filosofia, che coglie uno dei modi della conoscenza, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Autonomia dell’arte orientata alla bellezza nell’autonomia dell’arte, che non ha scopi utilitaristici, concettuali o moralistici, ma ha un carattere contemplativo e disinteressato e viene fuori dalla sintesi a priori tra forma e contenuto: l’arte è, infatti, intuizione pura (B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. Teoria e storia, 1965).

    [30] La commissione Franceschini, nella dichiarazione XXXIX della relazione finale, definiva i beni culturali ambientali come “le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività” (F. Franceschini, Relazione della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 119, nonché in Per la salvezza dei beni culturali, Roma, 1967).

    [31] E. Morin, op. cit., 27 ss.

    [32] Non necessariamente un’estetica del “brutto” (Karl Rosenkranz Estetica del brutto, Aesthetica edizioni, Sesto San Giovanni, Milano, 2020). In Rosenkranz il brutto assume un ruolo di mediazione nella dialettica realizzativa del bello. Si veda, in tema, anche R. Bodei, Le forme del bello, cit., soprattutto 141 ss.

    [33] E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati’, in Riv. giur. urb., 2009, Id., Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. e app., 2008, n. 7, 797 ss.

    [34] Sul fondamentale contributo di Alberto Predieri (A. Predieri, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, nonché Id., voce Paesaggio in Enc. Dir., vol. XXXI, Milano, 1981, pag. 514.) si veda il già richiamato volume a cura di G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit.

    [35] C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, 2007, 35.

    [36] H. von Humboldt, Quadri della natura, trad. di G. Melucci, La Nuova Italia, Firenze, 1999.

    [37] Roger Scruton definisce oikophilia l’amore per la casa (Beauty: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford, 2009 - citazione tratta da F. Giubilei, op. cit., 102). Per un esame di queste posizioni cfr. S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012, 153 ss.

    [38] R. Scruton, Beauty: A Very Short Introduction, cit; G. Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma, 2006; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, cit.; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, cit.; P. D’Angelo, Filosofia del paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2010; C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Roma, 2005; R. Milani, L’arte del paesaggio, Il Mulino, Bologna, 2001; Id., L’arte della città, Il Mulino, Bologna, 2015; I. Baldriga, Estetica della cittadinanza. Per una nuova educazione civica, Le Monnier, Firenze.

    [39] Sul modello tedesco dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste si veda S. Settis., Architettura e democrazia, cit., 31 ss., nonché, da ultimo, anche con riferimento alla legislazione francese, con la consueta profondità e completezza, G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Su Ernst Rudorff (Heimatschutz, Erstdruck, 1897) cfr. C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., 57. Su Humboldt cfr. A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, Luiss Univ. Press, Roma, 2017

    [40] Il richiamo a Victor Hugo è tratto da G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit., nota n. 3.

    [41] Su questi profili si veda R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), cit., cap. VII, Solitudine e oblio, 211 ss. Sulla nozione di “sublime” nell’evoluzione dell’estetica cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 122 ss.

    [42] Essai sur la nature, le but et les moyens de l'imitation dans les beaux-arts, 1823. Il testo del 1815 Considérations morales sur la destination des ouvrages de l'art, ou de l'influence de leur emploi sur le génie et le goût de ceux qui les produisent ou qui les jugent contribuì agli sviluppi del dibattito in Francia intorno alla legittimità delle spoliazioni e della raccolta di beni in Francia, dibattito che è probabilmente alle origini della nascita della nozione di patrimonio culturale, come chiarito da S. Settis, Paesaggio, costituzione, cemento, cit., 88 ss.

    [43] A Henry David Thoreau – autore del famoso Walden; or, Life in the Woods, 1854 (Walden. Vita nel bosco, trad. it. di S. Proietti, Donzelli, Roma, 2005) – sembra si debba il topos del paesaggio come “volto amato della patria”. John Muir (1838 – 1914) è il fondatore nel 1892 del Sierra Club, uno dei primi movimenti ambientalisti, ed è considerato il padre dei primi parchi nazionali degli USA (nel 1903 convinse Theodore Roosevelt ad avviare la costituzione dei parchi nazionali, Yosemite Park e Sequoia Park, lungo i quali ancora oggi c’è il Muir Trail, fino alla cima del monte Whitney; di Muir è uscita di recente una nuova edizione del libro Andare in montagna è andare a casa, Piano B Edizioni, Prato, 2020). George P. Marsh, primo ambasciatore nel Regno d’Italia degli Stati Uniti, è famoso per il suo Man and Nature, del 1864, tradotto in italiano dallo stesso Autore nel 1870.

    [44] Una vera e propria “Repubblica delle Lettere” per il paesaggio, espressione di un unico milieu culturale omogeneo, nel quale il paesaggio è prima di tutto storia e identità culturale (mutuando, si licet, l’idea di una “Repubblica delle Lettere”, che costituì già nel tardo Medioevo e nel Seicento la vera forza di coesione dell’Europa,temi sui quali si veda Marc Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, trad. it. di G. Cillario e M. Scotti, Milano, 2005, Autore scomparso a Parigi il 24 giugno 2020, ricordato da Carlo Ossola su La Domenica del Sole 24 Ore del 28 giugno 2020, che ricorda come Fumaroli parlasse di “diplomazia dello spirito”, come l’insieme delle credenze che fanno di una popolazione una comunità naturale).

    [45] G. Severini, soprattutto in L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, cit, dove l’illustre A. richiama l’omogeneità della visione europea della tutela del paesaggio agli inizi del Novecento, espressa in Italia dalla legge sulla pineta di Ravenna n. 411 del 1905 e dalla legge Croce del 1922, in Francia nella legge Beauquier 21 aprile 1906 sui paesaggi pittoreschi, «organisant la protection des sites et monuments naturels de caractère artistique», in Prussia dall’analoga legge 15 luglio 1907 «gegen die Verunstaltung von Ortschaften und landschaftlich hervorragenden Gegenden» (contro le deturpazioni degli abitati e dei paesaggi eccellenti), anticipata da quella del 2 giugno 1902 e da norme degli Stati germanici.

    [46] Il punto, di grande rilievo, direi essenziale per la comprensione della nascita e dell’evoluzione della tutela paesaggistica e ambientale in Italia, è ricostruito da G. Severini in Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Si veda anche F. Giubilei, Conservare la natura (Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori), Giubilei Regnani, Roma-Cesena, 2020, 3096-97, che riconnette a questi primi movimenti turistici la spinta verso la costituzione dei primi parchi nazionali, quello dell’Abruzzo (1921), del Circeo (1934) e dello Stelvio (1935). Alla lista deve ovviamente aggiungersi il Parco nazionale del Gran Paradiso, nato nel 1922.

    [47] M. D’Amelio, La tutela giuridica del paesaggio, in Giur. It., 1912, 129 ss.

    [48] Non può non ricordarsi, infine, in questo discorso, che la legge Rava – Rosadi n. 411 del 16 luglio 1905 era intitolata “per la conservazione della Pineta di Ravenna” e si proponeva, quale suo scopo precipuo, la difesa dei luoghi cantati da Dante nella Divina Commedia [“la divina foresta spessa e viva” del Canto XXVIII del Purgatorio, luogo narrativo poi ripreso anche dal Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti del Decamerone (V, 8)]. Si veda in proposito, il volume di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti, la legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, ed. del Senato della Repubblica, Bologna, 2003, 435 e 436. Sulla legge “Croce” n. 778 del 1922 si veda la bella prolusione di S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio, tenuta il 3 ottobre 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, reperibile al sito http://www.unive.it/media/allegato/infoscari-pdf/Croce-Ca_Foscari1.pdf.

    [49] Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update, è stato pubblicato il 1º giugno 2004 dalla Chelsea Green Publishing Company. L’aggiornamento si apre sottolineando che l'impronta ecologica (tecnica introdotta da Mathis Wackernagel e altri nel 1996) ha iniziato a superare intorno al 1980 la capacità di carico della Terra e la supera attualmente del 20%. Cfr. J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013.

    [50] N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard Univesity Press, Boston, 1971, introdusse il concetto di bioeconomia (traggo il riferimento da F. Giubilei, op. cit., 71).

    [51] Virginio Bettini (1942 – 2020) è stato un politico italiano, esponente dei Verdi Arcobaleno e della Federazione dei Verdi. A lui si deve la prima critica alla “ideologia borghese dell’ecologia”, la “ecologia delle contesse”, ossia a quella tradizione, fondamentalmente elitaria, che vedeva la tutela ambientale come tutela del volto amato della Patria, dei bei paesaggi e del Belpaese.

    [52] Barry Commoner, biologo ed ecologo statunitense (New York 1917- 2012), professore di fisiologia vegetale all’Università di Washington, ha applicato un rigoroso approccio scientifico ai problemi ambientali ed ha fondato nel 1966 il Center for biology of natural system di New York.

    [53] Sulla Relazione Tecneco e sulla sua impostazione “panurbanistica”, intesa a ricondurre la materia “ambiente” nelle competenze regionali, con vis actractiva sul paesaggio, cfr. S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., 225 ss. ed ivi un’attenta analisi dei testi dei primi statuti regionali del 1970 – 1971 e dei riferimenti in essi contenuti alla tutela dell’ambiente.

    [54] In Wikipedia si legge che “La frase originale "Think global, act local" è stata attribuita all’urbanista scozzese e attivista sociale Patrick Geddes. Anche se la frase esatta non appare in Geddes, 1915, libro 'Le città in evoluzione' . . . Il primo uso della frase in un contesto ambientale è contestata. Alcuni dicono che è stato coniato da David Brower, fondatore di Friends of the Earth, come uno slogan per FOE quando è stata fondata nel 1969, anche se altri lo attribuiscono a René Dubos nel 1977. Il "futurista" canadese Frank Feather ha anche presieduto una conferenza chiamata "pensare globalmente, agire localmente" nel 1979 e ha rivendicato la paternità dell'espressione. Altri includono tra i creatori possibili il teologo francese Jacques Ellul”. Sul cortocircuito del fenomeno “glo-cal”, tra globale e locale, cfr. G. Marramao, Kairòs, Apologia del tempo debito, ed. ampliata, Bollati Boringhieri, 2020, Torino, Prefazione alla nuova edizione, 19 (che richiama Marshall McLuhan, che “aveva caratterizzato il «villaggio globale» come contrassegnato da una dinamica ambivalente: di unificazione planetaria e di «decentralizzazione tribale»”).

    [55] Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED,) istituita nel 1983, introdusse, nel rapporto «Our common future», l’idea del «sustainable development», con un’impostazione sostanzialmente recepita nel 1989 dall’Assemblea generale dell’ONU.

    [56] Ho sostenuto che il concetto di “sviluppo sostenibile” sia un ossimoro in un mio non recente contributo (La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, n. 3/2006, 99 ss.). Apprendo da F. Giubilei, Conservare la natura, cit., 155, che questa considerazione sarebbe stata formulata da Alain de Benoiste e da Serge Latouche, nell’ambito della teoria della decrescita felice. Una critica analoga anche in E. Goldsmith, The Earth Report, Mitchell Bezley, Londra, 1992. Per certi aspetti l’idea di sviluppo sostenibile sembra rievocare echi hegeliani, nel richiamo dei “pilastri” fondamentali della dialettica: contraddizione e sviluppo, storia orientata verso un fine lontano, sacrificio del presente in favore del futuro (R. Bodei, Scomposizioni, cit., 389, il quale osserva anche – ivi, 287 - come l’ideale della Bildung e della metafisica dello sviluppo siano sorti in funzione dell’oltrepassamento dei limiti). Da ultimo E. Comelli, E. Bianchetti, Tocca a noi, Siamo stati il problema, possiamo essere la soluzione, Edizioni Ambiente, 2020, osservano condivisibilmente che al posto del concetto di “sviluppo sostenibile” occorrerebbe parlare di “equilibrio”, poiché quella di “sviluppo sostenibile” è una “definizione che ha fatto il suo tempo e che porta in sé tutta l’ambiguità in cui ci siamo cullati negli ultimi decenni”, e che certamente non può continuare a essere inteso nel senso praticato finora, come “crescita a tutti i costi, fatturato, PIL, remunerazione, ricchezza”.

    [57] L’8 agosto 2019 l’IPCC ha pubblicato un nuovo rapporto sul clima, approvato a Ginevra dalle delegazioni di 195 Paesi.

    [58] Per Haeckel l’ecologia è “la scienza complessiva delle relazioni di un organismo con l’ambiente circostante” (così riferisce G. Ieranò, Le parole della nostra storia, Marsilio, Venezia, 2020, 188).

    [59] H. Küster, op. cit., 102.

    [60] J. Lovelock, La rivolta di Gaia, Rizzoli, 2006. Riprende la teoria di Gaia Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, prefazione di Luca Mercalli, trad. di Donatella Caristina, Meltemi, 2020.

    [61] Forse una radice di questa teoria è da ricercare in Alexander Von Humboldt, il quale, nella narrazione dei suoi viaggi in America del Sud (Personal Narrative, letto e ammirato da Darwin) sviluppò l’idea che la Terra fosse un unico grande organismo vivente in cui tutto è interconnesso (come evidenziato da A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, cit.). La teoria di Gaia – come, del resto, molti temi ambientalisti di oggi – sembra trovare peraltro illustri antecedenti in Spinoza, Shelling e, forse, in Anassimene di Mileto (546-525 a.C.), filosofo della scuola Ionica, discepolo di Anassimandro, secondo il quale il mondo è un animale gigantesco che respira. La base filosofica migliore del pensiero ambientalista va ricercata nel libro di Hans Jonas Il principio responsabilità, che è del 1979 (H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Torino, 2009). Habitat è la terza persona singolare del verbo Habitare (habitus, da cui abitudine, che ne è il participio passato). La oikos di economia e di ecologia, nella sua radice etimologica che richiama il concetto di “casa”, è in qualche modo alla base sia del paesaggio, sia dell’ambiente-ecologia, solo che per il primo la casa da difendere è questa, dei nostri territori, nei quali noi siamo insediati e attraverso i quali edifichiamo la nostra identità; quella dell’ambiente-ecologia, soprattutto negli ultimi decenni, è invece quella globale e si identifica con il mondo intero, Gaia, il pianeta vivente.

    [62] Sulla stretta derivazione delle politiche comunitarie dalle scienze e dalle tecniche ambientali cfr. M. Cecchetti, La Corte costituzionale davanti alle “questioni tecniche” in materia di tutela dell’ambiente, in Federalismi.it. 13 maggio 2020. Più in generale, osserva condivisibilmente l’A. che “che la produzione pubblica del diritto dell’ambiente consiste pressoché sempre – e, soprattutto, nei suoi contenuti più tipici e qualificanti – in un’attività di “normazione tecnica”, ossia nella produzione di “regole tecniche” in senso stretto, ovvero di regole giuridiche elaborate sulla base o in funzione di presupposti e di dati conoscitivi di natura “tecnico-scientifica”, per cui “non ci si può occupare del diritto ambientale se non facendo i conti con le elaborazioni delle c.d. “scienze dure”.

    [63] M. Cecchetti, Le politiche ambientali tra diritto sovranazionale e diritto interno, in Federalismi.it, n. 7/2020, 27 marzo 2020.

    [64] Si rinvia in proposito alla più diffusa manualistica di diritto dell’ambiente (Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno ed E. Picozza, vol. I, Principi generali; A. Gustapane, Tutela dell’ambiente (dir. interno), in Enc. Dir., Milano 1992, 413 ss.; P. Dell'Anno, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1998; A. Crosetti, R. Ferrara, N. Olivetti Rason, Diritto dell'ambiente, Laterza, Bari, 2002; B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna 2005; F. Fonderico, Ambiente (Dir Amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Giuffré, Milano 2006, 204 ss.; Id., Ambiente (tutela dell’). I) Diritto amministrativo, in Enc. Giur., Agg., XVI, Roma 2008; L. R. Perfetti, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv. giur. ambiente, 2009, 1 ss.; F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in M. Renna e F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, 433 ss.

    [65] C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro, Torino, 2018.

    [66] La polisemia della nozione (metagiuridica) di paesaggio è, come noto, arricchita da numerosi apporti, provenienti da i più vari e diversificati ambiti culturali. Per una efficace panoramica sull’ampiezza ed eterogeneità della nozione metagiuridica di paesaggio si vedano A. Clementi (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Roma, 2002; L. Scazzosi (a cura di), Politiche e culture del paesaggio (esperienze internazionali a confronto), Roma, s.d., ma 1999; E Turri., Antropologia del paesaggio, Milano, 1974; Id., Semiologia del paesaggio italiano, Milano, 1979;  C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., che ripercorre in sintesi i diversi apporti rinvenibili nella storia, a partire dalla pittura murale e dalla cultura dei giardini di età romana fino al Rinascimento italiano, da Ruskin a Mérimée, da von Humboldt a Buckhardt, da Carl Ritter a Ratzel, fino all’idea del territorio come sedimento storico dell’Università di Lipsia del Meitzen; dall’Heimatschutz di Ernst Rudorff alla storiografia anglosassone di Marc Bloch e alla geostoria di Braudel; dagli studi di Vittorio Sereni sul paesaggio agrario fino alla strutturalismo di Biasutti e Gambi; dalla teoria dei sistemi fino all’ermeneutica di Joachim Ritter, Massimo Quaini, Rosario Assunto, etc. Fondamentale è anche il richiamo - 94 e 95 – alla scuola italiana del restauro di Roberto Longhi e Giovanni Urbani, che, sin dalla metà del Novecento, aveva posto l’accento sulla necessità di tutelare il bene culturale nel suo contesto ambientale, tesi ora ripresa da Bruno Zanardi, che propone un Piano nazionale per la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all’ambiente, sulla premessa teorica per cui il detto patrimonio costituisce una componente ambientale antropica – Giovanni Urbani, 1982 – costituente “una totalità indissolubile dalla totalità dell’ambiente”.

    [67] K. R. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero, Bologna, 2012.

    [68] R. Scruton, Il volto di Dio, Milano 2013, 37, in particolare cap. V, Il volto della terra, 113 ss. Per H. Küster, op. cit., 11, “al paesaggio appartiene sempre anche una dimensione riflessiva”. Küster sottolinea anche il valore metaforico del paesaggio (op. cit. cap. V, Il paesaggio come metafora, 70 ss.).

    [69] Uno dei “campioni” dell’anti-illuminismo, Johann Georg Hamann, era contemporaneo e amico di Goethe.

    [70] Sul punto sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, cit., e ai contributi contenuti in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit. H. Küster, Piccola storia del paesaggio, cit., 113, osserva che “Paradossalmente, lo studio scientifico del paesaggio ha avuto inizio proprio nel periodo in cui le discipline che avrebbero dovuto collaborare all’analisi di questo tema sono state separate e associate alle facoltà umanistiche e a quelle delle scienze naturali. Questo accadeva nel XIX secolo. Oggi è evidente che la divisione delle scienze in due regni non ha giovato allo studio complessivo del paesaggio. Per legittimare la scienza del paesaggio come disciplina c’è bisogno di saperi che afferiscono a entrambi i campi: la storia, l’estetica e la storia dell’arte, la filosofia, la geografia, la geologia, l’ecologia, la sociologia, l’economia, le scienze agrarie, la pianificazione del territorio e l’architettura paesaggistica”.

    [71] Sentenze 1° aprile 1985, n. 94; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 22 luglio 1987, n. 183; 28 luglio 1995, n. 417; 23 luglio 1997 n. 262; 25 ottobre 2000, n. 437 (tutte le pronunce della Corte costituzionale richiamate in questo contributo sono consultabili sul sito ufficiale della Corte o sul sito Consulta on line).

    [72] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridicicit.

    [73] Sentenza 26 novembre 2002, n. 478 (che richiama la precedente n. 378 del 2000).

    [74] Sentenze 27 luglio 2000, n. 378, nonché nn. 39 e 153 del 1986 e n. 529 del 1995.

    [75] Sentenze 3 ottobre 1990, n. 430 e 11 luglio 1989, n. 391.

    [76] Sentenza 20 febbraio 1995 n. 46 che richiama la legge “Galasso” del 1985 e richiama le precedenti sentenze 359 del 1985, 67 del 1992, 269 del 1993.

    [77] Seguita da una coerente serie numerosa di pronunce successive: nn. 180 e 232 del 2008; n. 164 del 2009; nn. 101 e 193 del 2010; nn. 235 e 309 del 2011; n. 66 del 2012; nn. 139, 211 e 238 del 2013; nn. 197 e 210 del 2014; nn. 64 e 99 del 2015; nn. 11 e 210 del 2016; n. 103 del 2017.

    [78] Per una disamina critica dell’ordinanza di remissione del Tar Sicilia, sopra citata, cfr. P. Carpentieri, Paesaggio e Corti europee (in margine a Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), nella rivista on line Giust.Amm.it (al sito http://www.giustamm.it), 3 maggio 2013.

    [79] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 3 del 2007, 71 ss. Per una visione opposta si veda soprattutto P. Stella Richter, da ultimo in Relazione generale al Convegno AIDU 29-30 settembre 2017 (Udine) La perequazione delle disuguaglianze tra paesaggio e centri storici, in Id. (a cura di), Studi del XX Convegno nazionale AIDU, Giuffré, Milano, 2018, 1 ss., nonché in Il principio comunitario di coesione territoriale, in G. De Giorgi Cezzi, P.L. Portaluri (a cura di), La coesione politico-territoriale, in L. Ferrara, D. Sorace (a cura di), A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana – Studi, vol. II, Firenze, 2016, 468.

    [80] E. M. Marenghi, Giusto procedimento e processualprocedimento, in Dir. proc. amm., n. 4 del 2008, 961.

    [81] P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urbanistica e Appalti, n. 8 del 2005, 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 1 del 2008, 322 ss. La giurisprudenza che ha subito chiamato in causa, contro l’interesse paesaggistico, le finalità di interesse pubblico di riduzione delle emissioni di gas serra in esecuzione del Protocollo di Kyoto è citata nel primo dei due scritti ora citati (Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2005, n. 971; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 4 febbraio 2005, n. 150). Più di recente si veda la sintesi, su questi temi, di M. Santini, Ambiente e paesaggio tra conflitti valoriali ed istituzionali, in Urbanistica e Appalti, n. 3 del 2020, 302 ss.

    [82] “Nonostante la nostra ricerca di leggi fisiche universali, i limiti del riduzionismo ci fanno intravedere che a volte il mondo si comporta in maniera molto diversa a scale diverse, e per descriverlo e spiegarlo dobbiamo usare il modello e la teoria appropriati. A esempio, sulla scala dei pianeti, delle stelle e delle galassie, la gravità domina su tutto: controlla la struttura del cosmo. Ma non ha alcun ruolo pratico su scala atomica” (Jim Al-Khalili, Il mondo secondo la fisica, trad. di L. Servidei, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 40).

    [83] Corte cost. 3 dicembre 2020, n. 258, nonché sentenze n. 106 del 2020, n. 286 del 2019, n. 148 del 2019, n. 86 del 2019 e n. 177 del 2018.

    [84] Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3696 (in tema di eolico); Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2983 (in tema di fotovoltaico, secondo la quale la comparazione non avverrebbe tra tutela del paesaggio “rispetto ad un mero interesse economico, bensì con riferimento all’interesse pubblico alla realizzazione degli impianti FER”).

    [85] Pe un’analisi puntuale di questi documenti si veda G. Severini, U. Barelli, Gli atti fondamentali dell’Unione europea su “transizione ecologica” e “ripresa e resilienza”: prime osservazioni, pubblicato nel sito della Giustizia amministrativa, 22 aprile 2021. I sei indicatori ambientali e il principio «non arrecare un danno significativo» enunciati nel regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili non hanno nessun riferimento al paesaggio e al patrimonio storico e artistico. Principi, questi, fatti propri dal regolamento (UE) 2021/241 che “istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”.

    [86] È significativo il fatto che il progetto di riforma normativa per la razionalizzazione del consumo di suolo sia praticamente già fallito. Il testo unificato dei disegni di legge recanti Misure per la rigenerazione urbana A.S. n. 1131, 985, 970, 1302, 1943, 198AS n. 1131 è bloccato nelle commissioni riunite 9ª (Agricoltura e produzione agroalimentare) e 13ª (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato. Rigenerazione urbana, Ddl sommerso da critiche e 2mila emendamenti, titola Il Sole 24 Ore del 27 aprile 2021, pag. 9, e riferisce che “il Ddl era stato sommerso da critiche delle imprese (Confindustria, Ance, Assoimmobiliare), della Conferenza delle Regioni e dell'Anci. Critiche anche Inu e Legambiente”. È evidente che la politica non ha nessuna intenzione seria di limitare il consumo di suolo. È al contrario probabile che, dopo il Covid-19, l’idea sia quella di alimentare e di spingere la ripresa e la crescita con la solita espansione dell’edilizia e del consumo di territorio e di paesaggio.

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