Le Sezioni Unite (sent.n.24413/2021) si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro
di Rita Russo
Sommario: 1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020 - 2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione - 3. Il giudizio di comparazione attenuato - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020
Con la sentenza depositata il 9 settembre 2021 (n. 24413) le sezioni unite della Suprema Corte tornano a pronunciarsi sulla protezione umanitaria, uno dei temi più complessi del sistema di asilo.
Con ordinanza n. 28316/2020 la sezione sesta (prima civile) aveva rimesso gli atti, evidenziando quale questione di massima di particolare importanza la configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, "quando sia stato allegato ed accertato il "radicamento" effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale, la cui radicale modificazione, mediante il rimpatrio, possa ritenersi idonea a determinare una situazione di vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello "sradicamento" che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili".
Le ragioni di tale rimessione sono riferite alla centralità assunta dall’art. 8 della Convenzione Edu (tutela della vita privata e familiare) e alle ricadute sistematiche delle modifiche introdotte dal D.L. 130/2020 che all'art.19 introduce un ulteriore divieto di respingimento “quando ciò comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”.
In altre parole ci si chiede se anche la “vecchia” protezione umanitaria, definita dal testo dell’art. 5 previgente alle modifiche introdotte dal D.L. 113/2018 e applicabile a tutte le domande proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) del medesimo decreto legge, debba essere oggi riletta, alle luce delle ultime modifiche legislative e assegnando all’art 8 della Convenzione Edu un particolare rilievo.
La questione non è di poco momento, perché se da un lato la giurisprudenza di legittimità è salda nell’attribuire rilevanza ai legami familiari ai fini della valutazione del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari[1], un approccio ermeneutico ancora più centrato sull’art. 8 consentirebbe di estendere la misura protettiva anche ad altri aspetti della vita privata che non costituiscono relazioni familiari e cioè a tutti quei casi in cui il radicamento del soggetto del territorio determina “una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8”.
Si consideri inoltre che, utilizzando il parametro dell’art. 8 della Convenzione Edu anche lo stesso concetto di relazione familiare si amplia, perché il riferimento non è solo alla idea di famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art 29 Cost. ma a quello più ampio e mobile dato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; ciò in particolare è rilevante per le famiglie di fatto, per le unioni same sex, e per i c.d. legami limping (come i rapporti tra genitori intenzionali e figli non biologici che non trovano riconoscimento giuridico, ma potrebbero comunque avere un solido rapporto de facto)[2].
L’ordinanza di rimessione, nell’ottica di una lettura unitaria della protezione residuale, propone, in sostanza, di intendere la vulnerabilità meritevole di protezione come perdita di ciò che lo straniero sarebbe costretto a lasciare in Italia, a nulla rilevando ciò che egli troverebbe nel suo Paese di origine.
Le sezioni unite, tuttavia scelgono di porsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza, precisando che per ricostruire i confini della protezione umanitaria (quella cioè definita dall’art 5 nella formulazione previgente al D.L. 113/2018) non possono utilizzarsi argomentazioni fondate sulla nuova disciplina (D.L. 130/2020) - quand'anche centrata sulle implicazioni sistematiche (invece che sui diretti effetti dispositivi) della stessa, diversamente si andrebbe contro l’espressa disposizione di legge che individua i procedimenti nei quali la disciplina dettata dallo stesso decreto trova applicazione. Si afferma così con estrema chiarezza che non è possibile ricostruire la disciplina applicabile ad una determinata fattispecie sulla base di disposizioni che a tale fattispecie risultino ratione temporis inapplicabili.
Ciononostante, le sezioni unite rendono importanti precisazioni sulla protezione umanitaria (nel testo dato dall’art 5 del D.lgs. 286/1998 anteriore al DL 113/2018) chiarendo in relazione a quali parametri debba accertarsi quella condizione di vulnerabilità idonea a fondare il rilascio del permesso di soggiorno.
2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione
Distinta dalla protezione internazionale in senso stretto, che comprende le misure del rifugio e della protezione sussidiaria, la protezione umanitaria è una protezione nazionale, e non è regolata dal diritto dell'Unione Europea, che si limita a lasciare agli Stati membri la facoltà di riconoscerla.
La Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.12.2008, all'art. 6, par. 4, prevede infatti che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, "per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura", un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare. L'art. 3 della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13.12.2011 (c.d. direttiva "qualifiche") consente l'introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.
Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha sottolineato come gli Stati membri possano riconoscere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa Europea, purché non modifichino i presupposti e l'ambito di applicazione della disciplina derivata dell'Unione[3].
È bene però chiarire che la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una protezione “caritevole”, ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale [4].
Si è quindi affermato che questa misura è una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, riferibile a un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia, senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria [5].
Nella elaborazione giurisprudenziale della protezione umanitaria segna uno spartiacque la sentenza della Suprema Corte n. 4455/2018, la quale elabora la regola del giudizio di comparazione, secondo il quale il giudice deve operare una valutazione comparativa al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[6].
Questo principio è stato poi confermato e ulteriormente precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 2945/2019, ove si rileva che nell’individuare i presupposti utili per il riconoscimento della protezione umanitaria non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l'alimentano. In particolare, osserva la Suprema Corte “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”[7]. Ne consegue che, l'apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni e che si tratta di una misura che le cui basi normative non sono affatto fragili, ma “a compasso largo” atteso che l'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell'art. 8 della Convenzione Edu, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione. Snodo fondamentale di questa sentenza pertanto è la presa di posizione contro la pretesa di rendere tipiche le misure di protezione, ma al tempo stesso il rigoroso richiamo ai diritti umani e non a qualsivoglia pretesa di stabilizzazione sul territorio.
Questi principi chiaramente segnano uno spartiacque rispetto alle prime prassi di riconoscimento di protezione umanitaria su base eccessivamente discrezionale per il solo fatto del radicamento, o solo in ragione delle criticità del paese di provenienza e legano la protezione umanitaria non solo all’art. 10, ma anche all’art. 2 Cost. Sicché dal 2018 in poi la protezione umanitaria seppure misura atipica, resta saldamente ancorata ai valori costituzionali e non a ragioni “caritatevoli” o a discrezione assoluta del giudice.
Nonostante questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.
Con il D.L. 113/2018 abolendo la dicitura “motivi umanitari” nell’art. 5 comma 6 del D.lgs. 286/1998 il legislatore ha chiaramente espresso un disfavore verso un eccessivo uso della discrezionalità, - pur se invero già destinata ad essere temperata dalla applicazione dei principi sopra enunciati - nel manifesto intento di tipizzare le misure di protezione complementare; tuttavia al tempo stesso l’autorevole richiamo del Presidente della Repubblica ha chiarito che lo Stato non si può esimere dalla tutela di diritti costituzionalmente protetti (o protetti da convenzioni internazionali).
Ed invero, un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non può considerarsi interamente attuativo dei principi costituzionali, con la conseguenza che all’indomani dell’emanazione del D.L. 113/2018 si è da molti ipotizzato un ritorno all’applicazione diretta dell’art 10 Cost. [8].
Sul punto è comunque nuovamente intervenuto il legislatore e nell’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., che non ripristina quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto” ma tuttavia richiama di nuovo espressamente gli obblighi costituzionali e internazionali, sembra superata l’idea della tassatività e tipicità legislative delle misure di protezione, sul presupposto che la varietà della situazioni umane comportano casi nei quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali e complementari tipizzate dal legislatore.
Se di una tipizzazione si può oggi parlare, essa deve intendersi come delimitata non strettamente dalle ipotesi legislative, ma dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie e dal paramento interposto della Convenzione Edu.
Nello stesso senso oggi si esprimono anche le sezioni unite, le quali con la sentenza in esame osservano che con la reintroduzione, nell'art. 5 T.U.I., della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, il D.L. n. 130 del 2020 ha rinforzato l'attuazione del diritto costituzionale di asilo di cui all'art. 10 Cost., comma 3. A questo richiamo infatti non può attribuirsi altro senso, se non lo si voglia degradare a mero orpello retorico, che quello di segnalare la possibilità di situazioni nelle quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali introdotte dal D.L. n. 113/2018 e incrementate dallo stesso D.L. n. 130/2020.
3. Il giudizio di comparazione attenuato
In questo quadro normativo così variegato, la sentenza in esame conferma - ai fini della interpretazione dell’art. 5 comma 6 cit. ratione temporis applicabile alle domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 - la validità del giudizio di comparazione, criterio già elaborato dalla prima sezione nel 2018, rendendo però delle importanti precisazioni.
Si è affermato che la necessità di una comparazione discende, nella prospettiva della sentenza n. 4455/2018, dal rilievo che "i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un'effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)" implicitamente valorizzando, e ciò nella medesima prospettiva successivamente recepita dal D.L. n. 130 del 2020, il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 della Convenzione Edu, quale prerequisito di una "vita dignitosa"; diritto, che peraltro è inscindibilmente connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell'art. 3 Cost., ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell'art. 2 Cost.
Così richiamati i parametri costituzionali, le sezioni unite hanno ulteriormente confermato l’orientamento già espresso nel 2019, e cioè il collegamento tra la tutela umanitaria e i diritti fondamentali riconosciuti alla persona umana dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.
Con la sentenza odierna tuttavia, si fa un ulteriore passo avanti, affermando che per centrare il focus della comparazione sul rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo quali definiti nelle Carte sovranazionali e nella Costituzione italiana, viene in primo luogo in rilievo il disposto dell'art. 8 della Convenzione Edu, centrale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e la condizione di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia.
L’art. 8 della Convenzione Edu non tutela solo le relazioni familiari ma anche la vita privata dell’individuo e come ha chiarito la Corte di Stasburgo[9], e tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono fanno parte integrante della nozione di "vita privata" ai sensi dell'art. 8, indipendentemente dall'esistenza o meno di una "vita familiare".
La protezione offerta dall'art. 8 concerne, dunque, l'intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali, come le esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato, le relazioni lavorative ma anche in genere le relazioni economiche (come i rapporti di locazione immobiliare). Tutti questi aspetti, che in una parola sola possono definirsi come “radicamento” nel contesto sociale, concorrono a comporre la "vita privata" di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, "sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Questa notazione consente alla Corte di recuperare il riferimento all’art. 2 Cost., nella necessaria considerazione della dimensione costituzionale nazionale del diritto alla protezione umanitaria, funzionale ad illuminare il senso della valutazione comparativa che i giudici di merito dovranno svolgere ai fini del riconoscimento del diritto al soggiorno per motivi umanitari.
Le indicazioni date dalla Suprema Corte ai giudici di merito sono piuttosto specifiche: si afferma infatti che deve essere valutato non solo il rischio di danni futuri - legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine - ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita.
Particolare attenzione merita poi il recepimento e l’ulteriore elaborazione di un orientamento che si era già affermato nelle sezioni semplici con riferimento ai soggetti che sono specialmente vulnerabili per avere subito esperienze traumatiche, anche nei paesi di transito[10]: la regola della comparazione attenuata o, come la chiamano le sezioni unite, la relazione di proporzionalità inversa. Le sezioni unite non si limitano a condividere il principio, ma lo sussumo in termini generali quale paradigma del giudizio di comparazione; la regola travalica quindi i confini della casistica legata ai traumi severi (violenze sessuali, torture) e diviene principio di diritto potenzialmente applicabile ad ogni caso in cui l’esperienza di radicamento si connoti per la sua intensità.
Si conferma dunque il principio che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato; con la precisazione, tuttavia, che tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alle condizioni soggettive e oggettive del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano.
Se vi è un radicamento forte sul territorio le condizioni soggettive e oggettive del paese di origine assumono una rilevanza minore; non va dunque considerato se le condizioni del paese di origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali in evidenza, ma se lo è il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che l’interessata ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe tornando nel paese di origine.
In sintesi il principio di diritto è formulato nel senso che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione Edu, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.
Non manca neppure una indicazione casistica, perché la Corte esemplifica cosa debba intendersi per radicamento. Il livello elevato d'integrazione effettiva nel nostro Paese è desumibile da indici socialmente rilevanti e tra essi la titolarità di un rapporto di lavoro, anche se a tempo determinato, la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento.
4. Considerazioni conclusive
Nella sentenza in esame si percepisce e si apprezza lo sforzo per dare indicazioni chiare ai giudici di merito sui presupposti per riconoscere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, elaborando dei principi che possono, con gli opportuni aggiustamenti, tornare utili anche nella futura applicazione della protezione complementare ai sensi dell’art 5 comma 6 come modificato dal D.L. 130/2020.
Sebbene la Corte esplicitamente dichiari che sta applicando la previgente normativa, senza considerare le ricadute sistemiche della modifica legislativa, è tuttavia evidente che il riferimento all'art. 8 della Convenzione Edu, bilanciato anche da un forte richiamo ai principi costituzionali nazionali, può costituire un trait d'union con le (future) elaborazioni giurisprudenziali sulla protezione complementare.
In sintesi, sono due i tratti salienti della sentenza: la conferma del criterio del giudizio di comparazione con la importante precisazione della regola della proporzionalità inversa, che opera in senso bidirezionale e cioè sia quando vi è un importante il radicamento sul territorio italiano, sia quando è grave la lesione dei diritti fondamentali che ricorrente rischia nel paese di origine; e la indicazione casistica sugli indici di integrazione sociale. In particolare merita attenzione l'affermazione che anche un contratto di lavoro a tempo determinato - poiché questa è la modalità odierna di accesso al lavoro più frequente - può costituire un indice di integrazione sociale, così come altri rapporti economici e non economici quali l'associazionismo o la titolarità di un contratto di locazione; particolare importanza poi, nell'ambito dei rapporti familiari, è data alle famiglie con figli, specie ove questi siano inseriti nel sistema scolastico nazionale, anche semplicemente per la scuola materna.
La sentenza rappresenta quindi uno snodo fondamentale per raggiungere una apprezzabile uniformità sui criteri da applicare alla protezione umanitaria, onde evitare da un lato una indiscriminata estensione della misura, che resta pur sempre uno strumento a tutela dei diritti fondamentali e non una forma di sanatoria degli ingressi illegali nel paese; dall’altro scongiurare l’eccessivo rigore, soprattutto nell’accertare la gravità della lesione dei diritti fondamentali nel paese di origine, con il conseguente rischio di sovrapporre la misura di protezione complementare alle protezioni c.d. maggiori, privandola così della sua autonomia.
[1] Cass. civ. sez. II Ord. n. 5506 del 26/02/2021; Cass. civ. sez. I, Ord. n. 1347 del 22/01/2021
[2] Si veda ad es. Corte EDU Paradiso e Campanelli c. Italia, 27/1/2015 e sullo stesso caso Corte EDU Grande Camera, 24/1/2017 entrambe in hudoc.echr.coe.int. La Corte riconosce che può essere tutelata anche la vita familiare di fatto tra uno o due adulti ed un minore, pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini (relazione familiare de facto) Sulle relazioni omoaffettive si veda Corte EDU 24/6/2010, Schalk e Kopf c. Austria, hudoc.echr.coe.int
[3] CGUE 9.11.2010, Germania c. B. e D., C-57/09, C-101/09, in https://curia.europa.eu
[4] Cass., sez. un., n. 19393 del 09/09/2009
[5] Cass. civ. sez. I, Ord. n. 23604 del 09/10/2017; Cass. civ. sez. I n. 28990 del 12/11/2018; Cass. civ. sez. I , Ord. n. 1104 del 20/01/2020.
[6] Cass. civ. sez. I n. 4455 del 23/02/2018.
[7] Cass. civ. sez. un. n. 29459 del 13/11/2019
[8] Sul punto si rinvia a R. Russo I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti, in questa Rivista, 10 gennaio 2020.
[9] Corte EDU EDU 14/02/2019 Narijs c. Italia, in hudoc.echr.coe.int
[10] Si veda Cass. civ. sez. I - Ord. n. 1104 del 20/01/2020, citata dalle stese sezioni unite: “Il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine deve essere effettuato secondo il principio di "comparazione attenuata", nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il "secundum comparationis", non potendo, in particolare, escludersi il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché determinatasi durante la permanenza nel paese di transito”. In senso conforme: Cass. civ. Sez. VI- I, Ord. n. 8990 del 31/03/2021; sez. I, Ord. n. 13565 del 02/07/2020; sez. I, Ord. n. 13096 del 15/05/2019; sez. VI -I, Ord. n. 12649 del 12/05/2021.