GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La legge 130 del 2022: lineamenti generali

    La legge 130 del 2022: lineamenti generali (*)

    di Giuseppe Melis

    Sommario: 1. Una riforma “pandemica”. - 2. L’assetto ordinamentale delineato dalla L. 31 agosto 2022, n. 130. - 2.1. Le linee generali. - 2.2. Il transito. - 2.3. I concorsi. - 2.4. Il tirocinio. - 2.5. La collocazione nell’ambito del MEF. - 2.6. Il mancato accesso in cassazione. - 2.7. Il cambio di denominazione. - 2.8. Considerazioni conclusive. - 3. Le nuove disposizioni processuali. - 3.1. Premessa. – 3.2. La testimonianza scritta. - 3.3. L’accelerazione della fase cautelare. - 3.4. L’onere della prova e la consistenza della prova. - 4. Conclusioni. 

    1. Una riforma “pandemica”.

    La Pandemia verrà ricordata dai cultori del diritto tributario per aver contribuito definitivamente a tirare fuori la riforma della giustizia tributaria dalle secche in cui si era da tempo arenata.

    Nonostante le istanze di riforma si fossero fatte sempre più pressanti e persino versate in numerose e puntuali proposte legislative – solo al Senato, ben sette erano i disegni di legge presentati, di cui quattro relativi a questioni ordinamentali (ddl Vitali, ddl Romeo, ddl Fenu, ddl Misiani), due a questioni processuali (ddl Caliendo e ddl Marino) ed uno a entrambe (ddl Nannicini) – sino all’avvento del PNRR, che alla crisi pandemica ha appunto inteso rappresentare una risposta organica e di sistema, sembrava infatti che la situazione non si dovesse mai sbloccare.

    Nell’ambito della più generale riflessione contenuta nel PNRR sulle criticità del “Sistema Paese” e sulle riforme “di contesto” necessarie per superarle, si collocava in effetti naturalmente – oltre a quella relativa alla pubblica amministrazione, alla semplificazione della legislazione e alla promozione della concorrenza – anche quella relativa alla giustizia, stavolta tuttavia, rappresentando la vera novità, riguardante non solo i soliti “nodi strutturali” del processo civile e penale e dell’organizzazione degli uffici giudiziari, ma anche «interventi volti a ridurre il contenzioso tributario e i tempi della sua definizione».

    Certo, l’impressione che si ricavava in prima battuta da tale riferimento era che la preoccupazione principale del PNRR riguardasse essenzialmente lo snellimento dello stock (“deflazione”) e la (anche conseguente) maggiore velocità del giudizio (“tempi”), tant’è che si leggeva nella parte del PNRR specificamente dedicata a “La riforma della giustizia tributaria”, come il compito della Commissione interministeriale per la riforma da poco nominata consistesse nell’«elaborare proposte di interventi organizzativi e normativi per deflazionare e ridurre i tempi di definizione del contenzioso tributario». Ed il pensiero non poteva che correre al “tappo” del giudizio di legittimità, potendosi dire il giudizio di merito tendenzialmente veloce – ancorché, talvolta, con marcate differenze territoriali – sia pure grazie anche ad una struttura assai snella del processo esaurentesi tipicamente in una sola udienza ([1]).

    Sennonché, lungi dal ridursi ad interventi i) di mera introduzione di nuovi istituti aventi siffatte specifiche finalità – si pensi, ad es., al giudice monocratico o alla conciliazione sul modello dell’art. 185 c.p.c. – ii) di mero rafforzamento di istituti esistenti – si pensi, ad es., all’innalzamento del limite di valore per la mediazione, iii) e/o di natura meramente estemporanea – si pensi, ad. es., alla riedizione dei provvedimenti di definizione delle liti esistenti e di rottamazione dei ruoli – si è virato con forza in direzione della più ambiziosa previsione di una magistratura professionale e specializzata, assunta per concorso. Direzione, peraltro, condivisa dai sopra richiamati ddl, tutti “imperniati” sull’obiettivo, ancorché variamente perseguito, di istituire una quinta magistratura tributaria con un corpo autonomo di giudici specializzati e professionali, assunti per concorso, dedicati a tempo pieno alla materia tributaria.

    Così facendo, gli obiettivi di deflazione e di riduzione dei tempi venivano collegati anche ad un innalzamento della qualità complessiva della giurisdizione, qui identificata nella disponibilità di giudici a tempo pieno assorbiti dalla sola materia tributaria ed assunti all’esito di un pubblico concorso per titoli ed esami orali, ai sensi dell’art. 97, quarto comma, della Costituzione.

    Soprattutto, si veniva così a delineare la scelta di lavorare “dall’interno” della giurisdizione speciale, scartando così l’idea di attribuire la giurisdizione tributaria ad altre già esistenti, né a quella contabile – come pure a suo tempo qualcuno aveva proposto, suscitando un coro di reazioni negative ([2]) – né a quella ordinaria, considerata già oberata di lavoro e comunque ritenuta meno idonea ad affrontare con la necessaria conoscenza tecnica una materia piuttosto lontana da quelle tradizionalmente trattate. Insomma, si è ritenuto di lasciare la giurisdizione tributaria una giurisdizione di controllo dell’esercizio del potere di applicazione dei tributi, portatrice di una cultura speciale della giurisdizione ed idonea a proporsi come giudice dei profili patrimoniali dell’imposizione al contempo in grado di valutare i profili di legittimità dell’azione impositiva ([3]).

    Dal complesso dei disegni di legge sopra richiamati emergeva peraltro, come accennato, un’attenzione anche per le questioni di tipo processuale. Sennonché, le scadenze pressanti del PNRR si ponevano di traverso a qualsiasi intervento “organico” sulla disciplina processuale, sollecitando, semmai, una scelta “politica” su quali specifiche tematiche eventualmente intervenire con l’occasione.

    Sennonché, non erano tutte rose e fiori.

    La Commissione della Cananea si era infatti divisa, direi quasi lacerata, sulla questione se l’art. 102 della Costituzione consentisse di istituire un ordine giudiziario autonomo aggiuntivo rispetto a quelli già esistenti e anche le autorevolissime audizioni a tal fine disposte si erano espresse al riguardo in modo dissonante. Così, da un parte, vi era chi sosteneva la necessità di istituire una magistratura interamente professionale e specializzata composta da giudici assunti per concorso e pertanto a tempo pieno; dall’altra parte, chi, invece, rilevando anche le difficoltà pratiche connesse alla realizzazione nel breve periodo di un tale assetto, riteneva più utile rafforzare sin da subito la fase di appello consentendo il transito di giudici togati nelle Commissioni tributarie, onde incrementare la qualità delle sentenze di appello e così renderle maggiormente “resistenti” alla impugnazione presso la Corte di Cassazione, ormai “seppellita” da una montagna di ricorsi che solo in tempi recenti – grazie ad un impressionante tour de force e con l’aiuto di taluni provvedimenti deflativi – aveva registrato una prima inversione di tendenza, tuttavia pur sempre rallentata da un numero di ricorsi introitati mai in diminuzione.

    Ma le stesse proposte di modifica di natura processuale non venivano condivise tra tutti i componenti della Commissione, riportando così nella relazione finale i nominativi dei soli componenti che le avevano intese supportare.

    Si rendeva pertanto necessario per il Governo nominare una nuova e più ristretta commissione, la quale avrebbe dovuto rassegnare le proprie conclusioni entro il 15 aprile 2022.

    Sennonché, l’output che ne è derivato, secondo modalità che ai più sono rimaste imperscrutabili, non è stata una nuova relazione contenente una proposta di legge delega unitaria, come pur ci si sarebbe attesi, bensì direttamente un disegno di legge di iniziativa governativa nella specie recante «Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributario», che veniva prontamente trasmesso al Senato per avviarne l’esame.

    Se già la “forma” destava perplessità – è indubbio che con una legge delega si sarebbe pervenuti ad un risultato di portata sistematica e qualitativa ben diversa – il relativo contenuto, ordinamentale e processuale, non era meno problematico.

    Il ddl di iniziativa governativa, infatti, pur finalmente avviando il percorso di professionalizzazione e specializzazione dei giudici tributari di cui si è detto, rappresentava, sotto il profilo ordinamentale, una malriuscita sintesi delle citate posizioni emerse in seno alla Commissione della Cananea, e, sotto il profilo processuale, un autentico pastrocchio.

    È dunque merito dello straordinario lavoro svolto dalle Commissioni Finanze e Giustizia del Senato il miglioramento assai significativo – soprattutto, vedremo, per quanto attiene ai profili processuali – che si apprezza tra il testo definitivamente approvato e il ddl di iniziativa governativa.

    Nonostante, secondo le originarie indiscrezioni, il ddl avrebbe dovuto essere approvato in gran fretta e con marginali modifiche pur di realizzare a qualsiasi costo l’obiettivo indicato nel PNRR, le indicate Commissioni, davvero lodevolmente, si sono prese tempo per un serio ed approfondito esame del testo, ripetutamente posticipando il termine conclusivo per la presentazione degli emendamenti, e sono così pervenute ad un testo alquanto migliorativo, seppur come detto bisognevole, in parte già nell’immediato, di ulteriori interventi soprattutto sul piano ordinamentale.

    2. L’assetto ordinamentale delineato dalla L. 31 agosto 2022, n. 130.

    2.1. Le linee generali.

    Si giunge così all’approvazione con L. 31 agosto 2022, n. 130 della riforma della giustizia e del processo tributari che per un verso interviene sull’assetto ordinamentale, e per altro verso altro tocca, anche profondamente, taluni istituti “nevralgici” del processo tributario.

    Come noto, è il primo assetto ad aver sollevato le perplessità più rilevanti, in quanto ai pur lodevoli fini perseguiti si sono accompagnate modalità “esecutive” talvolta al limite del naif quando non direttamente in contrasto con gli obiettivi perseguiti.

    Come noto, le Corti tributarie risultavano composte in quel momento da circa 2.800 giudici, di cui poco più della metà togati e dunque già incardinati in altre magistrature e per il resto non togati di diversa estrazione, tra cui circa 560 giudici iscritti ad albi professionali (e tra questi 9 tra architetti, agronomi e periti agrari), circa 250 tra dipendenti pubblici e privati, circa 300 pensionati e un centinaio di docenti, di cui la metà di scuola secondaria e la metà universitari. Ad oggi, sembrerebbe peraltro che i giudici in servizio siano meno di 2.400, sicché il dato di partenza risulta già adesso assottigliatosi.

    Nel passaggio da questo assetto a quello prefigurato “a regime” dal legislatore, si poneva il problema centrale della sorte degli attuali giudici tributari, togati e non, rispetto al quale i ddl di iniziativa parlamentare si dividevano tra chi intendeva fare tabula rasa e chi, invece e più realisticamente, riteneva dovessero salvaguardarsi le professionalità esistenti, con modalità più o meno inclusive, sia pure inquadrandole nella nuova “cornice” ([4]).

    Ebbene, in questo contesto, il ddl governativo ha disegnato il seguente assetto ordinamentale.

    In primo luogo, ha ritenuto doversi procedere alla formazione immediata di uno “zoccolo duro” di magistrati togati mediante opzione per il transito dalla magistratura di appartenenza (ordinaria, amministrativa, contabile, militare) alla nuova magistratura tributaria.

    In secondo luogo, ha previsto l’assunzione mediante concorso di nuovi magistrati tributari, per un totale di 576 unità tra giudizio di primo grado e di secondo grado (comprensive delle indicate 100 unità “transitate”), con una quota di posti da riservare nei concorsi agli attuali giudici tributari non togati in servizio.

    In terzo luogo, ha previsto il mantenimento in servizio di tutti gli attuali giudici in ruolo, togati e non, anticipando però l’età di cessazione dal servizio da 75 a 70 anni, con effetto immediato (1.1.2023).

    Il tutto lasciando invariata la “collocazione” dei giudici, nuovi e vecchi, sotto il MEF.

    Sennonché, ciascun punto presentava – e presenta tuttora, considerata la scansa incisività dell’intervento sulla parte ordinamentale attuato nel passaggio parlamentare a motivo delle notevoli resistenze ivi incontrate – rilevanti problemi.

    Vediamoli nel dettaglio.

    2.2. Il transito.

    Per quanto riguarda il “transito”, esso riguarda come detto magistrati attualmente “in ruolo” nel loro ordinamento di appartenenza, che svolgono già funzione di giudice tributario, cui viene concessa l’opzione per il transito nella nuova magistratura tributaria «previa individuazione e pubblicazione dell’elenco delle sedi giudiziarie con posti vacanti, prioritariamente presso le commissioni tributarie regionali e di secondo grado». Sono emersi sin da subito rilevanti dubbi sulle effettive chances di successo di questa previsione, sol che si pensi alle relative conseguenze: (i) sulla progressione di carriera nella magistratura di appartenenza; (ii) sul venir meno del doppio emolumento percepito in relazione al ruolo di giudice tributario, mediamente pari a 20.529 euro annui ([5]); (iii) sulla possibilità di diventare giudice di Cassazione, preclusa ai nuovi giudici tributari, salva la possibilità di futura riammissione nella giustizia ordinaria per come prevista dall’art. 211 del R.D. n. 12 del 1941 (“Legge di ordinamento giudiziario”); (iv) sugli incarichi “extra” eventualmente connessi alla magistratura di appartenenza; (v) sulla eventuale nuova destinazione “territoriale”.

    A ciò si aggiungeva l’irrazionale distribuzione dei posti disponibili tra i giudici ordinari da un lato, destinatari del 50% dei posti pur rappresentando essi l’86% circa dei giudici togati in servizio; e i restanti giudici (amministrativi, contabili, militari) dall’altro, destinatari dell’ulteriore 50% pur rappresentando solamente il restante 14% circa dei giudici togati in servizio e, soprattutto, provenendo da plessi giurisdizionali che ben difficilmente si sarebbero abbandonati (Tar, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Tribunali militari).

    La netta impressione, con l’auspicio naturalmente di essere smentiti, è dunque che l’interpello da poco avviato per consentire il transito sia destinato all’insuccesso.

    A ciò deve aggiungersi che:

    a) per un verso, la legge indirizza questi giudici “prioritariamente” alle Corti di giustizia tributarie di secondo grado, mentre nell’ottica dell’obiettivo di deflazionare il giudizio in Cassazione, sarebbe stato auspicabile che essi venissero destinati “esclusivamente” alle Corti di giustizia tributarie di secondo grado: è noto, infatti, agli addetti ai lavori, che tra i principali vizi delle sentenze di appello dominano le omesse pronunce e le motivazioni apparenti, sicché una maggiore attenzione già alla “completezza” della pronunzia in fatto e in diritto avrebbe indubbiamente contribuito a ridurre il contenzioso di legittimità;

    b) per altro verso, l’Interpello, volendo tenere conto del diverso parametro delle effettive carenze di organico delle singole sedi, ha persino aggravato la situazione, destinando la maggior parte dei giudici transitati al giudizio di primo grado (70 su 100) anziché al grado di appello; sicché l’obiettivo di rafforzare le sentenze di appello ne esce notevolmente ridimensionato;

    c) per altro verso ancora, non sono previsti meccanismi che consentano di “reintegrare” tale “quota-100”.

    Forse, se l’obiettivo era di avere sin da subito uno “zoccolo duro” di magistrati a tempo pieno, avrebbe dovuto destare maggiore attenzione ed approfondimento, anche in relazione alla compatibilità con l’art. 106 Cost., la disposizione del ddl Misiani che prevedeva la possibilità che a questo “zoccolo duro” concorressero giudici non togati di lunga anzianità previo concorso per soli titoli, previsione pertanto destinata ad una cerchia non particolarmente estesa di soggetti di lunga esperienza e con prospettive temporali di mantenimento in ruolo tutto sommato limitate; mentre, come noto, ai non togati è stata riservata solo una quota di posti su un concorso con caratteristiche certamente più adatte a giovani chiusi in casa a studiare, che a giudici aventi un’età media di circa 60 anni.

    2.3. I concorsi.

    Per quanto riguarda l’organico “a regime” indicato nel ddl in 576 unità – compresi, come detto, i 100 magistrati destinati al transito – esso è rimasto invariato a seguito del passaggio parlamentare.

    Come emerge dalla relazione tecnica, il numero dell’organico a regime è stato determinato partendo dal dato di circa 215.000 definizioni annue, calcolato sulla media del triennio 2017-2019, e sulla base dell’assunto secondo cui ciascun giudice dovrebbe decidere annualmente 374 sentenze.

    Si tratta di un numero di sentenze all’evidenza abnorme, aggravato dalla circostanza che esso è stato ottenuto semplicemente riproporzionando la “produttività” in relazione al tempo medio attualmente dedicato da ciascun magistrato “onorario”, al tempo che dovrebbe adesso dedicare alla funzione un magistrato a tempo pieno, utilizzando a tal fine un coefficiente pari a 4,5 ([6]). Il che significa che l’assunto di base è che il tempo dedicato a “singola sentenza” dai nuovi giudici sia lo stesso dei “vecchi” giudici, in piena antitesi con l’esigenza di qualità insita nella scelta di un giudice a “tempo pieno”, che vorrebbe al contrario che a ciascuna sentenza venga dedicato un tempo maggiore. Il numero di sentenze “di partenza” è peraltro ampiamente sottostimato – secondo i miei calcoli, almeno di un terzo – alla luce dell’avvenuto rafforzamento ed accelerazione dalla fase cautelare di cui diremo appresso, che impone di decidere sull’istanza cautelare in tempi brevissimi e separatamente dal merito.

    Quanto poi alle regole concorsuali, anche qui il passaggio parlamentare non ha consentito alcun significativo progresso rispetto al ddl. A fronte di una sostanziale omogeneità delle materie rispetto al concorso in magistratura – fatta eccezione per la contabilità aziendale ed il bilancio, di cui peraltro il ddl prevedeva la conoscenza dei soli “elementi”, mentre il testo approvato in via definitiva ne richiede adesso la piena conoscenza – è, infatti, da attendersi la partecipazione di buona parte degli oltre 6.500 candidati che hanno partecipato all’ultimo concorso in magistratura, cui si aggiungeranno coloro che non possedevano i titoli necessari per parteciparvi (adesso, dopo il passaggio parlamentare, anche i laureati in economia, pure ammessi a partecipare al concorso per giudice tributario) e/o che possiedono competenze tributarie per via del lavoro che quotidianamente svolgono. Ciascuno consegnerà tre compiti scritti – che potrebbero così superare facilmente la decina di migliaia – che dovrebbero poi essere corretti da una commissione composta da appena dieci persone di cui metà professori universitari. I tempi di conclusione saranno pertanto “biblici” e il nuovo meccanismo transitorio di “décalage” per l’uscita dal servizio lungo il periodo 2022-2026 prevista, a seguito del passaggio parlamentare, in sostituzione dell’originario taglio “con l’accetta” a 70 anni dal 1.1.2023 prefigurata dal ddl, non sarà in grado di impedire un sensibile svuotamento delle Corti di giustizia tributarie.

    Al cospetto dell’importante riforma approvata, i problemi di organico appena evidenziati potrebbero apparire tutto sommato secondari. Ma poiché la qualità della giustizia e le esigenze di tutela del contribuente non possono prescindere da un organico di giudici adeguato anche in termini quantitativi, è da auspicare che il legislatore possa rimediare quanto prima a questo palese difetto di “progettazione” normativa. Resta in ogni caso l’impressione di un testo particolarmente punitivo nei confronti dei giudici non togati.

    2.4. Il tirocinio.

    Oltre alle importanti questioni appena segnalate, ve ne erano tuttavia altre non meno importanti, a cominciare dal tirocinio.

    Il ddl prevedeva, infatti, che i nuovi magistrati tributari sarebbero entrati in ruolo senza svolgere alcun tirocinio, né veniva prevista per essi una formazione continua, la cui importanza è forse massima nella materia tributaria per via dell’incessante produzione normativa e giurisprudenziale, nazionale e sovranazionale che la contraddistingue rispetto ad altre.

    Il passaggio parlamentare ha consentito di porre un rimedio a tali carenze, prevedendo sia il tirocinio che la formazione continua, estesa peraltro anche ai giudici attualmente in servizio e della cui organizzazione il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria si sta già occupando.

    2.5. La collocazione nell’ambito del MEF.

    Il problema “ordinamentale” più rilevante riguarda, tuttavia, la perdurante collocazione dei giudici nel MEF, come detto non toccata dal ddl governativo e sopravvissuta anche al passaggio parlamentare.

    Già con riferimento al previgente assetto normativo erano stati versati fiumi di inchiostro per stigmatizzare l’assenza di una piena indipendenza dei giudici dal MEF e non è un caso che tutti i disegni di legge di riforma di iniziativa parlamentare convergessero univocamente nel collocare i nuovi giudici sotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con parole anche particolarmente dure ([7]).

    La Commissione della Cananea aveva invece ritenuto che «le argomentazioni addotte a sostegno della collocazione dei giudici tributari presso il Ministero della giustizia o la Presidenza del Consiglio dei Ministri (…) non appaiono conclusive», senza tuttavia neanche fare cenno al motivo.

    Rispetto al passato, peraltro, la situazione è diventata ancor più grave, perché i nuovi giudici, così come i togati che già transiteranno alla magistratura tributaria per effetto dell’interpello, diventeranno direttamente dipendenti del MEF. Sicché, in ultima analisi, il contribuente si troverà ad essere giudicato da un dipendente di un Ente che, con la sua tipica controparte rappresentata dall’Agenzia delle entrate, stipula una convenzione in cui il raggiungimento degli obiettivi viene misurato anche in funzione del gettito ottenuto; gettito che dipende, a sua volta, anche dall’esito degli atti impositivi emanati dall’Agenzia delle entrate sulla cui legittimità e fondatezza quel giudice deve pronunziarsi.

    La scelta di una magistratura professionale ed indipendente, una volta “scartata” l’idea di incardinarla in altre magistrature indipendenti (come detto, soprattutto quella contabile e quella ordinaria), non poteva che essere perseguita mediante l’attribuzione del potere di organizzazione e gestione dei giudici tributari alla Presidenza del Consiglio dei ministri. E a tal fine è stata anche rilevata la “coerenza” con l’attuale regolamentazione del procedimento disciplinare nei confronti dei giudici tributari, laddove attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri la promozione dell’azione disciplinare, oltre che al Presidente della Corte di Giustizia tributaria di II grado, essendo pertanto significativo che essa non sia attribuita al Ministro dell’Economia e delle finanze ([8]).

    Quel che il Parlamento è riuscito ad ottenere nella fase parlamentare è stato solo un rafforzamento del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria sotto il profilo sia della sua autonomia contabile che disciplinare-ispettivo, e per tale via, indirettamente, la l’“indipendenza” dei giudici. Ma ciò non pare ancora in grado di superare ciò che autorevole dottrina ha definito essere «una modalità governativa, condizionata dall’impronta amministrativa che continuerà a non conoscere “cancellerie” ma segreterie e neppure recluterà i propri giudici togati del futuro in autonomia dal Mef» ([9]).

    La recente notissima ordinanza della Corte di giustizia di primo grado di Venezia ([10]) accende in ogni caso nuovamente un potente faro sulla questione, sollecitando il legislatore ad una rinnovata e profonda riflessione.

    2.6. Il mancato accesso in cassazione.

    Altra questione riguarda il mancato accesso dei nuovi giudici tributari alla Corte di cassazione.

    Non ha infatti trovato accoglimento la proposta di una delle due diverse “anime” della Commissione della Cananea volta ad istituire una sezione specializzata in Cassazione cui assegnare giudici tributari provenienti dal grado di appello tributario, previa valutazione di idoneità del CSM.

    È invece prevalsa la tesi secondo cui dall’art. 106 Cost. emerga come l’unica ipotesi di integrazione dei collegi di Cassazione con dei giudici che non facciano parte della giurisdizione ordinaria sia quella della nomina per “meriti insigni”.

    Non ci si intende qui neanche avvicinare all’impervio terreno costituzionale di una simile opzione. È chiaro, tuttavia, che “a regime”, una volta cioè che saranno cessati dal servizio gli attuali giudici togati “ordinari” che fanno oggi da trait d’union, avremo una magistratura di legittimità che non si sarà mai occupata, in precedenza, della materia tributaria.

    Il problema non richiede in ogni caso una soluzione immediata, considerati i lunghi tempi necessari per formare la nuova magistratura tributaria “per concorso” e gli anni di carriera che i nuovi magistrati tributari dovranno maturare per un futuro ipotetico accesso al grado di legittimità.

    Certo, l’avvenuta apertura del concorso ai dottori commercialisti pone una pesante ipoteca “concettuale” sulle premesse per un tale futuro accesso, provocando un “corto circuito” di difficile sanabilità.

    2.7. Il cambio di denominazione.

    Last but not least, occorre infine dar conto del cambio di denominazione, di portata storica, da “Commissioni tributarie” in “Corti di giustizia tributarie”.

    Si tratta di una denominazione finalmente consona ad un organo giurisdizionale, sebbene – come rilevato in precedenza – al mutamento della denominazione non corrisponda il pieno superamento della loro impronta amministrativa.

    2.8. Considerazioni conclusive.

    L’assetto teorico ed “esecutivo” ordinamentale appena delineato conduce alle seguenti riflessioni finali.

    Le prospettive non appaiono rosee: da un lato, l’interpello si preannuncia destinato all’insuccesso e i primi concorsi si chiuderanno, ben che vada, non prima di un quinquennio; dall’altro, in questo arco temporale, saranno evaporati almeno un migliaio degli attuali giudici in servizio – tra cessazione di servizio naturale per raggiunti limiti di età (anche anticipata) e dimissioni volontarie (si stima, nell’ordine di 120/130 annue) – non essendo più previste nuove “immissioni” a seguito dell’esaurimento degli effetti dell’ultimo concorso svolto.

    A fronte del sostanziale dimezzamento dei 2.800 giudici (ora, come detto, già meno di 2.400) su cui si sono fondate le previsioni, senza alcuna nuova immissione in ruolo, c’è da chiedersi cosa succederà sui tempi di decisione delle controversie.

    Qui si assiste a spinte tra loro contrastanti in relazione al “possibile” carico di lavoro.

    La “spinta” a favore dell’incremento già nell’immediato del carico di lavoro delle Corti è data: a) in primo luogo e soprattutto, dalla necessità di dover discutere le istanze di sospensiva separatamente dal merito – tra l’altro, incredibilmente, senza prevedere alcun compenso aggiuntivo! – che è vicenda assai rilevante in termini quantitativi, dal momento che il 40% circa dei ricorsi contiene una istanza di sospensiva, e soprattutto dovendoli discutere entro 30 giorni; b) in secondo luogo ed in misura minore, dal nuovo istituto della prova testimoniale scritta, che richiederà la fissazione di udienze aggiuntive conseguenti all’attività istruttoria da svolgere.

    La “controspinta” a favore del decremento già nell’immediato del carico di lavori è invece data: a) dal nuovo giudice monocratico; b) dalla non impugnabilità del contenuto dell’estratto di ruolo, ad eccezione delle ipotesi tipizzate previste dal legislatore, che provocherà una riduzione del contenzioso in alcune zone geografiche in cui se ne era registrato un chiaro abuso; c) dai provvedimenti “deflativi” a tutto campo di imminente emanazione.

    L’impatto di queste “spinte e controspinte” è difficilmente stimabile a fronte di un dato di fatto certo, costituito dalla massiccia fuoriuscita dei giudici attualmente in servizio – come detto, in parte già realizzatosi – senza che essi vengano in alcun modo rimpiazzati, con grave nocumento alla formazione dei collegi giudicanti.

    Nel dubbio, anche per salvaguardare il principio costituzionale di buon andamento ed efficienza della pubblica amministrazione, si impone pertanto la scelta politica di un immediato intervento sui meccanismi di cessazione anticipata previsti, non potendosi permettere nessuno il rischio di una paralisi della giustizia tributaria, di cui le prime vittime sarebbero i contribuenti.

    3. Le nuove disposizioni processuali.

    3.1. Premessa.

    L’autentica débacle del ddl governativo si registrava, tuttavia, sul fronte processuale, dove la svista più clamorosa, indicativa del livello a tacer d’altro “approssimativo” della confezione legislativa, riguardava le limitazioni all’appello delle sentenze del nuovo giudice monocratico deputato alle controversie di valore sino a 3.000 euro.

    Pur inserendosi tale previsione nel dibattito relativo alla possibile introduzione di limitazioni all’accesso – che aveva visto ipotizzare le soluzioni più disparate, dalla diretta eliminazione di un grado di giudizio alla possibile introduzione di filtri in appello – il ddl di iniziativa governativa si spingeva in effetti oltre ogni oltre immaginazione, prevedendo che le sentenze del giudice monocratico potessero essere appellate «esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, nonché per violazione di norme costituzionali o di diritto dell’Unione Europea, ovvero dei principi regolatori della materia», con esclusione delle «controversie riguardanti le risorse proprie tradizionali previste dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l’imposta sul valore aggiunto riscossa all’importazione».

    Si trattava, all’evidenza, di una trasposizione “fuori tema” dell’art. 339, co. 3, c.p.c., riguardante, come noto, le decisioni rese secondo “equità”, la cui giurisdizione, come rilevato dalla Consulta, è del tutto peculiare svolgendo la funzione «in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, […] di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva» ([11]).

    Sicché, non sussistendo nella giurisdizione tributaria alcuna differenza qualitativa – ma solo quantitativa – tra le questioni da decidere in composizione monocratica e in composizione collegiale, entrambe rifuggendo da regole di giudizio “non scritte” e entrambe riguardando questioni non certo “ontologicamente” diverse per complessità delle questioni di fatto e di diritto da affrontare, si attuava per tale via una irragionevole discriminazione in danno dei contribuenti destinatari di pretese di valore inferiore a € 3.000, in violazione degli artt. 3 e 24 Cost., venendo ad essi negato il doppio “pieno” grado di giudizio invece riconosciuto per le controversie di ammontare superiore.

    Ma la stessa esclusione delle “risorse proprie” da questa improvvida “tagliola” era destituita di fondamento, trattandosi di scelta arbitraria – l’esigenza di riduzione dei tempi si manifesta infatti in modo eguale quale che sia la “natura” del tributo – né rinvenendosi nella disciplina unionale alcuna “specifica” indicazione di tipo processuale, essendo il contenzioso demandato alle discipline nazionali, e non potendosi pertanto da esso ricavarsi alcuna imposizione del “doppio grado di giurisdizione”.

    Ed infine, pur eliminando l’appello, avrebbe comunque dovuto essere garantito il ricorso di Cassazione, perché così imposto dall’art. 111, co. 7, Cost., sicché a fronte dell’eliminazione di un grado di giudizio che, in materia tributaria, procede speditamente, si sarebbe avuto un aggravio del contenzioso in Cassazione, mancando l’obiettivo di deflazionare il contenzioso.

    Bene ha fatto dunque il Parlamento a fare giustizia di questo “obbrobrio” giuridico.

    Le disposizioni processuali contengono tuttavia, tra le altre, tre novità su cui vorrei di seguito brevemente soffermarmi per la loro notevolissima rilevanza.

    3.2. La testimonianza scritta.

    La prima è la testimonianza scritta, in cui il ddl, pur rompendo finalmente il tabù del suo storico divieto ([12]), la destinava tuttavia all’inapplicabilità in concreto.

    Esso considerava infatti esperibile la testimonianza scritta solo ove «assolutamente necessario ai fini della decisione» e solo in presenza di «verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso».

    A seguito del passaggio parlamentare sono venuti meno sia l’avverbio “assolutamente” – anche se forse sarebbe stata più opportuna la sostituzione della valutazione di “necessità” con una di mera “rilevanza” – sia il riferimento agli indicati verbali o altri atti facenti fede sino a querela di falso, con l’effetto che la prova testimoniale trova adesso ingresso in qualsiasi giudizio tributario. Il legislatore, sia pure con una formulazione che non brilla per chiarezza, esclude naturalmente la testimonianza nelle classiche ipotesi in cui lo strumento tipico per superare l’efficacia probatoria dei fatti attestati dal pubblico ufficiale è costituito dalla querela di falso.

    Non può peraltro che restare impregiudicata la possibilità per il contribuente, da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, di opporsi alle pretese degli uffici anche presentando dichiarazioni di terzi raccolte nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, poiché funzionale al dispiegarsi del giusto processo ex art. 6 della CEDU, stavolta però con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari.

    Anzi, potremmo dire che queste dichiarazioni possano servire proprio per introdurre nel giudizio, a detto livello “indiziario”, circostanze di fatto che il giudice potrebbe poi far “salire di livello” ricorrendo alla testimonianza scritta.

    Si apre, infine, la questione se la previsione della testimonianza scritta possa finalmente superare il limite dell’art. 654 c.p.p. originariamente conseguente dalla limitazione alla prova dei fatti, e così consentire l’applicazione del giudicato penale alle vicende tributarie.

    3.3. L’accelerazione della tutela cautelare.

    La seconda novità, introdotta ex novo dalle Commissioni parlamentari (così come la terza, di cui si dirà oltre), è la forte accelerazione impressa alla tutela cautelare.

    Va ricordato che negli ultimi anni mediamente il 40% circa dei ricorsi è stato accompagnato da una istanza di sospensiva, ma di queste ne è stato deciso appena un terzo, di cui circa la metà oltre 180 giorni dalla relativa proposizione.

    Si tratta di una situazione divenuta di fatto incompatibile con i poteri della riscossione privilegiati di cui gode il Fisco e con la forte accelerazione dei tempi conseguente: i) alla notifica a mezzo PEC nei confronti di imprese e professionisti; ii) ai brevissimi termini entro cui i terzi pignorati devono adempiere (art. 72 e 72-bis, d.p.r. n. 602/1973); iii) all’avvenuta eliminazione della possibilità di anticipare la tutela mediante impugnazione del contenuto dell’estratto di ruolo da cui risultino atti impositivi non notificati, di recente avallata dalle Sezioni Unite (n. 26283/2022); iv) all’introduzione e al successivo ampliamento ai tributi locali degli atti c.d. “impoesattivi” che cumulano in sé natura di atto impositivo, titolo esecutivo e precetto e pertanto non richiedono neanche più la formazione del ruolo e la notifica della cartella.

    Dinanzi all’urgenza di un intervento su un testo normativo ormai scollegato dalla realtà, il legislatore ha provveduto ad un drastico taglio a 30 giorni dalla presentazione dell’istanza del termine massimo entro cui fissare l’udienza cautelare, superando pertanto il termine di 180gg introdotto proprio in occasione del “battesimo” dell’atto impoesattivo mediante l’introduzione del comma 5-bis nell’art. 47, adesso abrogato.

    Dipoi, ha attribuito alla fase cautelare una piena autonomia rispetto alla fase di merito, impedendo sia che il merito possa essere deciso nell’udienza di sospensiva, sia che la sospensiva venga decisa in occasione del merito. Si realizza con ciò la piena autonomia della fase cautelare rispetto alla fase di merito.

    Si tratta di una scelta che ha implicazioni biunivoche.

    Per un verso, essa impedisce che il merito possa essere deciso nell’udienza di sospensiva, eventualità che ben poteva risolversi nella lesione del diritto delle parti alla precisazione delle difese e delle allegazioni probatorie, anche mediante presentazione di memorie o di documenti aggiuntivi.

    Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha invero rilevato come il diritto delle parti alla precisazione delle difese e delle allegazioni probatorie in seno all’udienza di trattazione del merito costituisca un diritto la cui funzione è essenziale, essendo pertanto nulla la sentenza emessa senza che sia necessario verificare la sussistenza, in concreto, di un pregiudizio che da tale inosservanza sia derivato alla parte ([13]).

    Per altro verso, essa impedisce che la sospensiva possa essere decisa in occasione della decisione di merito.

    Occorre al riguardo ricordare che la giurisprudenza ha escluso la rilevanza dell’omessa fissazione in via autonoma dell’udienza di sospensiva proprio argomentando dalla possibilità che il presidente della commissione possa decidere di differire la disamina dell’istanza cautelare all’udienza di discussione del merito, senza dunque fissare una preventiva udienza. La prima udienza di consiglio utile – si osserva – può infatti coincidere proprio con l’udienza di trattazione, sicché qualora il giudice ometta di pronunciarsi sulla richiesta di sospensiva e la esamini in sede di discussione sul merito, la sentenza è da ritenersi valida ([14]). Ebbene, come detto, questa possibilità di discussione congiunta viene adesso espressamente vietata e con essa l’argomentazione appena indicata.

    Più insidiosa è l’argomentazione utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità onde ritenere irrilevante l’omessa decisione tout court sull’istanza di sospensione, secondo cui ben si possa decidere “senza ritardo” il merito della causa senza provvedere sull’istanza di sospensione atteso che la perdita di efficacia del provvedimento cautelare avviene in ogni caso con la pubblicazione della sentenza di primo grado destinata ad assorbirne gli effetti: sicché mancherebbe ogni pregiudizio dalla mancata fissazione dell’udienza tout court ([15]), posto che per effetto della sentenza di merito, «cessa il pregiudizio per la mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole, sarebbe comunque travolta dalla decisione di merito» ([16]).

    In realtà, anche una volta pronunciata la sentenza di primo grado, il pregiudizio non cessa, perché l’omessa decisione sulla sospensiva ben potrebbe essersi risolta nell’inesorabile avanzamento ed attuazione dell’esecuzione forzata, dalla quale certamente potrebbe essere derivato un danno, persino irreversibile (ad es., la dichiarazione di fallimento), ove ad esempio dal pignoramento dei conti correnti sia conseguita l’assoluta carenza di liquidità tale da provocarne la dichiarazione di insolvenza (ovvero l’alienazione sottocosto di beni produttivi per far fronte alla carenza di liquidità).

    Quel che viene meno, semmai, è l’interesse ad appellare, perché la sentenza, se favorevole, determina il diritto di ripetere le somme medio tempore versate; se sfavorevole, consolida, almeno temporaneamente, gli effetti dell’esecuzione forzata provvisoria e giustifica persino l’iscrizione a ruolo di una quota ulteriore delle somme contestate.

    Certo, è evidente che, una volta inquadrata l’accelerazione di cui si discute nell’ambito di un’ineludibile esigenza di tutela costituzionale, e una volta sancita in via legislativa la piena “autonomia” della fase cautelare da quella di merito, si aprono spazi notevoli alla risarcibilità dei danni eventualmente subiti dal contribuente a seguito dell’esecuzione forzata per effetto della mancata fissazione dell’udienza di sospensione. Il che, paradossalmente, potrebbe indurre i giudici a negare le ragioni di merito del contribuente per non riconoscere, indirettamente, che la sospensiva ben avrebbe potuto essere accordata ove mai discussa.

    L’auspicio è dunque che le Corti tributarie sappiano raccogliere la sfida del legislatore ed esaminare le istanze cautelari nel ridotto lasso di tempo previsto dal legislatore, e ciò al precipuo fine di garantire quella “tenuta costituzionale” del sistema di cui si è ampiamente detto. Il che richiederà che il Presidente della Corte sia rapido nell’assegnazione del ricorso alla sezione e che il presidente di quest’ultima sia a sua volta rapido nell’individuare la prima camera di consiglio disponibile.

    Quel che si evidenzia, in ogni caso, è la totale inversione di prospettiva ormai realizzatasi da un sistema in cui la Corte costituzionale escludeva che la tutela cautelare costituisse «una componente essenziale della tutela giurisdizionale ex artt. 24 e 113 Cost» ([17]), ad uno in cui, invece, è proprio la tutela cautelare, ove efficacemente attuata, a costituire l’ultimo baluardo di costituzionalità di un sistema che rischia altrimenti di mettere il contribuente dinanzi al “fatto compiuto” dell’avvenuta esecuzione forzata.

    Il complessivo giudizio qui espresso non implica, purtuttavia, che non vi sia ancora molto da fare alla luce degli importanti vuoti di tutela ancora presenti nel sistema e dovuti, in ultima analisi, a quell’infelicissimo connubio, tipico del nostro ordinamento, fra l’eccessiva ampiezza dei poteri riscossivi stragiudiziali di cui è titolare l’Amministrazione Finanziaria, da un lato, ed una generale inadeguatezza dei poteri cautelari riconosciuti al giudice tributario, dall’altra.

    Un tipico esempio aiuta a rendere ragione di quanto poc’anzi affermato.

    In virtù della pronuncia additiva della Consulta ([18]) in riferimento all’art. 57 d.P.R. n. 602/1973 e sulla base dell’orientamento delle Sezioni Unite ([19]) che di quell’intervento hanno fornito un’interpretazione sistematica, ove il contribuente intenda impugnare il pignoramento stragiudiziale notificatogli facendo valere la mancata notifica del relativo atto presupposto (cartella o accertamento esecutivo che sia), dovrà necessariamente rivolgersi al giudice tributario ivi articolando, se del caso, una apposita domanda cautelare.

    Ed è proprio qui che emerge tutta la limitatezza dei poteri cautelari riconosciuti al giudice tributario.

    Ed infatti, anche ammettendo che il giudice riesca a pronunciarsi sulla domanda cautelare entro i ristretti termini oggi previsti, lo stesso potrà esclusivamente impedire l’ulteriore prosecuzione dell’esecuzione ma non anche ordinare uno svincolo, neanche parziale, delle somme pignorate essendo esso titolare di un mero potere inibitorio e non anche atipico, ed essendo gli effetti dell’esercizio del primo limitati al momento della domanda (ossia ad un momento necessariamente sempre successivo a quello in cui viene impresso il vincolo di indisponibilità per effetto della notifica del pignoramento). Il che val quanto dire che il sistema, così come attualmente congegnato, ammette implicitamente la possibilità che l’amministrazione proceda, anche in assenza di qualsivoglia titolo, al pignoramento presso terzi ex art. 72-bis, d.p.r. n. 602/1973 e che non vi sia alcuno strumento riconosciuto al contribuente per ottenere giudizialmente lo svincolo delle predette somme prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, con effetti disastrosi per la continuità dell’impresa o dello stesso sostentamento del contribuente.

    Ed infatti, tale svincolo:

    i. non potrebbe essere disposto dal giudice tributario per quanto sopra detto;

    ii. non potrebbe essere disposto dal giudice civile perché privo di giurisdizione;

    iii. non potrebbe in ultima analisi essere ottenuto neanche per via amministrativa attraverso un’istanza di rateazione posto che se è certamente vero che il perfezionamento della rateazione ha quale effetto l’estinzione della procedura esecutiva e, quindi, lo svincolo delle somme, al tempo stesso:

    a. per un verso e secondo una giurisprudenza che non si ritiene di poter condividere, ciò comporterebbe una rinuncia implicita all’impugnazione, essendo nell’ottica della predetta giurisprudenza la censura di omessa notifica dell’atto presupposto geneticamente incompatibile con la presentazione di un’istanza di rateazione di quel medesimo atto ([20]).

    b. per altro verso ed anche indipendentemente dal punto di cui sopra, implica che il contribuente debba farsi carico dell’onere finanziario della rateazione per tutto il tempo occorrente per addivenire alla pronuncia di primo grado.

    Stante l’inaccettabilità di simili conclusioni, delle due l’una: o si potenziano i poteri cautelari del giudice tributario tanto da ricomprendere anche poteri atipici, oppure si ridimensionano i poteri riscossivi stragiudiziali dell’Amministrazione limitandoli a solo quei casi in cui un vaglio giudiziale del titolo vi sia, sotto qualunque forma, comunque stato.

    3.4. L’onere della prova e la “consistenza” della prova.

    La terza novità, anch’essa frutto di un autonomo intervento in sede parlamentare, è la disposizione riguardante l’onere della prova e la “consistenza” della prova medesima.

    Tale disposizione sancisce innanzitutto con chiarezza ciò che la dottrina – in primis, Enrico Allorio – ha da tempo affermato e cioè che nel processo tributario, con l’eccezione dei giudizi di rimborso, l’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa – nella nuova disposizione indicata con l’espressione «violazioni contestate con l’atto impugnato» – spetta sempre al Fisco, perché è esso che fa valere una pretesa in giudizio.

    Questo principio viene adesso incorporato in una regola di giudizio specificamente “tributaria” riguardante, appunto, il “come” il giudice tributario debba risolvere la controversia nel caso in cui la parte onerata non abbia raggiunto la prova dei fatti.

    Credo pertanto si possa affermare che il riferimento all’art. 2697 c.c. – assunto da parte della giurisprudenza (diversamente dalla dottrina ma con conclusioni finali sostanzialmente analoghe) a fondamento della ripartizione dell’onere probatorio sin dalla storica sentenza 23 maggio 1979, n. 2990, con cui la Suprema Corte escluse definitivamente la c.d. “presunzione di legittimità degli atti” e ritenne, appunto, che ai sensi dell’art. 2697, co. 1, c.c. sia l’amministrazione a dover provare in giudizio i fatti costitutivi del proprio diritto e il contribuente i relativi fatti estintivi, impeditivi o modificativi ai sensi del successivo comma 2 – possa e debba essere definitivamente abbandonato, perché di esso non v’è ormai più necessità per supplire ad una assenza di una disposizione ad hoc ormai invece presente ([21]). Del resto, non solo l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. al processo tributario costituisce da sempre tema controverso, ma la stessa scomposizione dei fatti giuridici tra fatti costitutivi, impeditivi, modificativi ed estintivi, come è stato osservato, è tutt’altro che agevole ed appagante ([22]).

    Al tempo stesso, è persino ovvio che tale disposizione non tocchi le vicende in cui il legislatore, oltre a prevedere la regola di giudizio, ricolleghi anche precise conseguenze giuridiche alla mancata prova del fatto opposto a quello presunto, come accade per le presunzioni relative ([23]). Si tratta di quelle ipotesi in cui il legislatore, al fine di tutelare gli interessi del Fisco, privilegia una “verità” (si pensi, ad es., alla permanenza della residenza fiscale in Italia in caso di iscrizione nell’AIRE da parte di cittadini italiani emigrati in paradisi fiscali), ammettendo tuttavia la possibilità che gli interessati dimostrino la mancata coincidenza tra la “verità” favorita dalla legge e quella reale (ovverosia, in quel caso, l’effettività della residenza e del domicilio civilistici nel paradiso fiscale). Ciò essa fa sia sulla base di una preponderanza di possibilità, che spinge a considerare esistente ciò che è usuale (ovverosia, che il trasferimento in un paradiso fiscale è sovente “fittizio”) e a fare carico a chi nega di provare il non usuale (ovverosia, che il trasferimento ha carattere “effettivo”), sia sulla base della migliore conoscenza dei fatti e/o del migliore accesso ai mezzi di prova che evidentemente caratterizza la posizione del contribuente in ordine alla residenza e al domicilio dello stesso.

    Così come è pure evidente come essa non tocchi quelle ipotesi in cui è il legislatore a disciplinare espressamente la ripartizione della prova, come ad esempio accade con i c.d. accertamenti bancari ex art. 32, d.p.r. n. 600/1973. E ciò anche in armonia con l’espressione «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale» utilizzata dal legislatore.

    Ciò premesso, è chiaro che in ciascuna delle due ipotesi – violazioni contestate da un lato, richiesta di rimborso dall’altro – ciascuna parte può limitarsi a negare che controparte abbia assolto l’onere della prova, oppure anche fornire una prova “positiva” volta a contrastare la prova altrui.

    Sennonché, in mancanza di una prova “positiva” contraria, difficilmente il contribuente ha sin qui potuto sperare nell’accoglimento delle proprie ragioni, almeno nelle ipotesi di acclarata sua vicinanza alla prova, posto che l’atteggiamento meramente negativo, soprattutto da parte di chi dovrebbe conoscere meglio i fatti, non fa spesso che confermare le tesi avversarie.

    Emerge dunque un punto cruciale, e cioè la limitatezza di quelle costruzioni rigidamente meccanicistiche che capita talvolta di vedere offrire del giudizio di fatto, instaurandosi in realtà un fenomeno dialettico nel processo tributario, dovendo anche la parte sulla quale non incombe l’onere probatorio svolgere un ruolo attivo e non meramente passivo, che finirebbe altrimenti con il confermare le tesi dell’avversario ([24]). Si confronteranno tutte le prove offerte e sulla base della loro comparazione si fonderà la decisione del giudice tributario ([25]).

    Sotto questo profilo, potrebbe avere una qualche spiegazione quella ritrosia che talvolta si rinviene a scorgere un reale contenuto “innovativo” alla nuova disposizione. Ma un conto è riconoscere la dialettica del giudizio di fatto, che rimane, altro è affermare che in relazione alla prova della “pretesa” tutto sia rimasto come prima. Il Fisco, ad esempio, non potrà ad esempio più limitarsi sic et simpliciter a rilevare, dopo aver motivato l’avviso di accertamento, che il contribuente, richiesto in tal senso, non ha adotto alcuna prova delle condizioni di fatto che legittimano le agevolazioni fruite dal contribuente (si pensi, ad es., alla prova della natura “non terapeutica” delle prestazioni sanitarie ai fini dell’esenzione Iva). L’Amministrazione finanziaria dovrà adesso necessariamente farsi “parte attiva”, pena il mancato assolvimento dell’onere probatorio e l’applicazione della nuova regola di giudizio, utilizzando pienamente gli amplissimi poteri istruttori di cui dispone. E dovrà farsi parte attiva anche sull’irrogazione delle sanzioni, ambito in cui dalla riforma del 1997 ad oggi ha operato, come noto, un sostanziale “automatismo applicativo” in sede sia amministrativa che giurisprudenziale.

    Ma c’è un’ulteriore novità, non meno importante, che sta nella frase posizionata al centro tra le due separate “regole di giudizio,” a mente della quale «il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni».

    Da questa frase possono infatti evincersi alcune conseguenze importanti.

    La prima riguarda il fatto che il giudice fonda la decisione «sugli elementi di prova che emergono nel giudizio». Ciò conferma, per un verso, la tesi della dialettica del giudizio di fatto e, per altro verso, che stiamo pur sempre parlando di una regola di giudizio processuale, sicché necessariamente la valutazione è sul materiale probatorio presente in giudizio. Ma poiché è impensabile che l’Amministrazione finanziaria si riduca a provare la propria pretesa in giudizio senza avere a sua volta raccolto le prove nella fase istruttoria, è evidente che l’istruttoria dovrà essere di intensità tale da poter fondatamente poi sostenere la pretesa in giudizio. I due momenti finiscono pertanto per essere inscindibilmente connessi tra loro, il che rafforza – e non già indebolisce – la tesi per la quale gli elementi di prova devono almeno essere indicati nell’avviso di accertamento ([26]).

    La seconda riguarda il fatto che l’onere della prova si ricollega «alle ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni», confermando, pertanto, l’ampia estensione assegnata dalla nuova disposizione alla ripartizione dell’onere – tant’è che la regola di giudizio relativa alle richieste di rimborso segue il secondo periodo qui in commento, a sua volta preceduto dalla regola di giudizio generale di cui al primo periodo.

    La terza riguarda il fatto che il giudice annulla l’atto impositivo «se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale» la pretesa impositiva e sanzionatoria.

    Ebbene, questa terza conseguenza è fondamentale sotto almeno due profili.

    Sotto un primo profilo, perché impone una seria riflessione sulla perdurante validità di talune massime giurisprudenziali, a cominciare dal principio secondo cui «nel processo tributario l’amministrazione finanziaria è attore in senso sostanziale e quindi su di essa grava l’onere della prova della pretesa adottata con l’accertamento, mentre l’onere del contribuente di provare elementi in senso contrario scatta solo quando dall’ufficio siano stati forniti indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria» ([27]). È chiaro, infatti, che questi “indizi sufficienti” devono adesso assurgere al rango di una vera e propria prova “circostanziata e puntuale” onde potersi affermare «la sussistenza dell’obbligazione tributaria». Come è stato perspicuamente rilevato in relazione all’art. 116 c.p.c., «la novella sostituisce una valutazione rigorosa (…) alla prudente ponderazione sancita dalla regola processualcivilistica » ([28]).

    Ma gli ambiti di applicazione in cui questo livello di affidabilità “alto” viene in rilievo, sono potenzialmente assai numerosi. Si pensi alle operazioni soggettivamente inesistenti, dove la più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE ha ritenuto costituisca onere dell'amministrazione finanziaria di «individuare con precisione» gli elementi costitutivi della frode e fornire la prova delle condotte fraudolente, nonché la partecipazione attiva del soggetto passivo o che sapeva o avrebbe dovuto sapere (GCUE, 1.12.2022, C-512/2021, par. 36). Non pare esservi in effetti grande differenza tra produrre in giudizio prove “circostanziate e puntuali” e “individuare con precisione” gli elementi costitutivi sopra indicati: né, peraltro, un’eventuale prova “rafforzata” prevista dal diritto nazionale confliggerebbe con il diritto UE, dal momento che, in tema di disciplina delle prove, la Corte di giustizia UE rinvia alle norme nazionali (GCUE, 1.12.2022, C-512/2021, par. 31). Non è sufficiente, dunque, che l’Amministrazione finanziaria offra un mero e generico “quadro indiziario” ([29]).

    Entriamo, dunque, nell’ambito della c.d. prova prima facie, che se pur non determina un inversione dell’onere della prova, comporta comunque un “abbassamento” del livello probatorio della parte onerata, che deve limitarsi a dimostrare le “circostanze tipiche” idonee a dimostrare l’apparenza del fatto, imponendo alla controparte di fornire elementi di prova idonei a far venire meno la situazione di apparenza ([30]). Ambito cui consegue proprio il rischio, da tempo rilevato dalla dottrina, di manipolazioni giurisprudenziali della ripartizione dell’onere della prova ([31]).

    Tra queste ipotesi, merita sicuramente un ripensamento la giurisprudenza sulle società a ristretta base azionaria, e ciò sicuramente nel caso di costi regolarmente sostenuti, essendo la presunzione di distribuzione ai soci delle somme corrispondenti a siffatti costi ormai sfornita di un livello di attendibilità sufficiente, oltre ad essere la prova contraria dell’accantonamento o del reinvestimento delle relative somme nell’attività produttiva non solo illogica (quali somme?), ma persino impossibile. Ma ove si volesse valorizzare al massimo l’espressione «in coerenza con la normativa sostanziale», tale cioè da fare salve le sole diverse ripartizioni dell’onere probatorio previste dal legislatore, dovrebbe dedursene che la presunzione non potrebbe operare neanche in presenza di un accertamento di maggiori ricavi, dovendo essere il Fisco a dimostrare che le somme non dichiarate sono affluite nella disponibilità dei soci, attivando se del caso le indagini finanziarie e patrimoniali.

    Sotto un secondo profilo, perché la nuova disposizione obbliga il giudice a motivare perché la prova offerta dal Fisco possa definirsi “circostanziata e puntuale”, da un lato mettendo “alle strette” il giudice di merito e contribuendo così a prevenire decisioni superficiali affette da motivazione apparente sulle evidenze probatorie, e, dall’altro, finalmente “stanando” interi plessi dell’Amministrazione finanziaria tradizionalmente restii a provare le loro affermazioni in giudizio. Tra queste, in primis, l’Agenzia delle Entrate-Territorio i cui atti di classamento sono da sempre emessi sulla base di generiche motivazioni riferentesi a fantomatiche caratteristiche e prezzi di immobili “similari” – sulle quali la giurisprudenza di legittimità ha purtroppo talvolta mostrato eccessiva tolleranza, soprattutto con gli accertamenti DOCFA, sopravvalutando la reale consistenza della “partecipazione” del contribuente, il quale in realtà, lungi dal partecipare, si limita solo a proporre una propria versione unilaterale – destinati però finalmente ad infrangersi con lo scoglio dell’assenza di qualsivoglia prova su quanto ivi affermato.

    Il nuovo comma 5-bis, nell’obbligare i giudici a motivare con grande cura ed attenzione sul materiale probatorio versato in giudizio, potrebbe pertanto svolgere un rilevante effetto deflativo nel giudizio di legittimità.

    Nessuna incidenza, invece, deve riconoscersi alla nuova disposizione in relazione alle presunzioni semplici, posto che i requisiti di “gravità, precisione e concordanza” configurano di per sé una prova “sufficiente”, esigendo un determinato standard di prova, ossia un “grado di conferma” del fatto da provare che non sia minimo, ma raggiunga un livello tale da rendere il factum probandum sufficientemente confermato secondo le regole di comune esperienza ([32]) e consentendo pertanto al giudice di ritenere vero un fatto in mancanza di elementi di segno contrario ([33]). Si tratta, è bene evidenziarlo, di un’operazione logica che non riguarda l’inversione dell’onere della prova bensì esclusivamente la prova: il ragionamento del giudice che “trae” la presunzione non mira, infatti, a ripartire l’onere della prova ma ha ad oggetto la formazione e la sussistenza della prova ([34]). Così come alcuna incidenza ha la nuova disposizione laddove il legislatore consente espressamente il ricorso a presunzioni semplicissime, come nel caso degli accertamenti c.d. “induttivi” di cui all’art. 39, co. 2, d.p.r. n. 600/1973.

    Da quanto sopra, ci sembra, dunque, la primissima affermazione fatta dalla Corte di cassazione sulla portata della nuova formulazione legislativa ([35]), secondo cui essa non «stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale», se per un verso attribuisce correttamente un ruolo centrale all’istruttoria dibattimentale nell’ambito dell’indicata dialettica del giudizio di fatto, per altro verso non dà conto né della notevole ampiezza della nuova “regola di giudizio” – tale da investire finanche la prova sulla (non) spettanza delle agevolazioni – né del sensibile innalzamento dell’asticella sulla valutazione della “consistenza” della prova offerta dall’Ufficio necessaria per vederne confermata la fondatezza della pretesa in giudizio.

    4. Conclusioni.

    In conclusione, se può parlarsi di un bicchiere “mezzo pieno” (o “mezzo vuoto”), non v’è dubbio che il “mezzo pieno” sia merito delle Commissioni parlamentari competenti, e il “mezzo vuoto” sia colpa dell’affrettato ddl governativo.

    Quel che tuttavia più sorprende è che il problema davvero più urgente, quello dell’arretrato in Cassazione, sia stato invece trattato con somma superficialità.

    Nonostante le proposte equilibrate formulate in seno alla Commissione della Cananea circa i contenuti di una possibile misura di definizione delle liti pendenti, il testo del ddl governativo nulla prevedeva al riguardo, mentre la disposizione introdotta last minute in sede parlamentare ha finito per disciplinare il problema in modo frettoloso ed impreciso, introducendo una definizione fortemente “limitata” vuoi quanto al valore ridotto delle liti interessate, vuoi quanto all’esclusione delle liti in cui vi sia stato un doppio giudizio di merito negativo per il contribuente vuoi infine quanto alla sua parametrazione al valore della controversia in primo grado e non anche, come sarebbe stato logico, al valore della lite in Cassazione costituente la vera “alea” residua del giudizio.

    Si tratta di una questione di cui dovrà farsi carico la nuova legislatura, insieme a molte altre.

    Tra queste, oltre a quelle sopra già evidenziate, ne vorrei indicare due.

    La prima è l’assistenza tecnica. Non v’è dubbio che l’estrazione variopinta dei difensori, frutto di scelte politiche disgraziate, si ripercuota sulla qualità degli atti, condizionando tutto il giudizio ivi compresa la qualità delle sentenze, che, a loro volta, è la premessa per le impugnazioni. Non è pensabile una riforma che mentre ha il fine di innalzare la qualità delle sentenze, non innalza la qualità della difesa. Sarebbe pertanto necessaria una significativa revisione finalizzata ad escludere almeno tutti coloro che svolgono professioni che con il diritto non hanno mai avuto nulla a che vedere nella loro formazione. Qui ne va, dobbiamo dirlo con forza, del diritto di difesa del cliente, che non è corretto far affidare a professionisti che non sanno nulla del diritto e del processo tributario. Certo, è altamente probabile che ciò rimarrà un mero auspicio, se solo si pensa che la legge delega n. 23/2014 sulla revisione del contenzioso tributario prevedeva … l’eventuale ampliamento (sic) dei soggetti abilitati a rappresentare i contribuenti dinanzi alle Commissioni tributarie (art. 10, co. 1, lett. b), n. 3).

    La seconda è l’innalzamento ulteriore del livello di tutela giudiziale. Si è già detto della tutela cautelare, ma aggiungerei la tutela dinanzi agli atti istruttori, non essendo la tutela differita in linea con la giurisprudenza della CEDU, e anche una rivisitazione della recente norma sull’impugnazione del contenuto dell’estratto di ruolo nel caso di mancata notifica degli atti presupposti, dovendosi ampliare le ipotesi di “interessi” tipizzati che legittimano la tutela anticipatoria almeno ad alcuni interessi qualificati di natura “privata”.

    In conclusione, tanta strada è stata fatta, ma tanta ne resta ancora da percorrere per un processo tributario che possa dirsi davvero “giusto”.

    (*) Testo della relazione tenuta al Convegno su “Le riforme del processo in Cassazione”, Parte I. La riforma della giustizia tributaria e la Corte di Cassazione, Corte di Cassazione, 16 dicembre 2022.

    ([1]) Al riguardo e limitandosi al periodo pre-pandemia, è sufficiente avere riguardo alla circostanza che, per quanto riguarda i gradi di merito, nel 2019 sono stati presentati 189.537 ricorsi tributari, di cui 142.522 in primo grado e 47.015 in secondo grado, mentre ne sono stati decisi 228.147. Al 31.12.2019, le controversie pendenti erano 335.175, a fronte di 380.774 al 31.12.2018, 417.250 al 31.12.2017, 468.839 al 31.12.2016 e 530.521 al 31.12.2015. Dal 2015 al 2019, le controversie pendenti sono dunque diminuite del 37% e di ca. 200.000 unità. Il sistema ha pertanto mostrato una capacità di assorbimento dell’arretrato di ca. 40/45 mila controversie annue (al lordo dei provvedimenti deflativi medio tempore adottati). Se le Corti di primo grado decidono circa 170mila ricorsi a fronte di 190mila pendenze, ciò significa che i tempi di decisione in primo grado sono nell’ordine di un anno; quanto alle Corti di secondo grado, se esse decidono circa 60mila ricorsi annui a fronte di 137.000 pendenze, i tempi medi di decisione sono di un paio di anni. In tutto, dunque, circa tre anni. Sussistono, tuttavia, differenze anche importanti tra i tempi effettivi delle diverse commissioni.

    ([2]) E. DE MITA, Corte costituzionale, legittimate le Commissioni tributarie, in Dir. prat. trib., 2020, p. 234 ss.; M. BASILAVECCHIA, Giurisdizione esclusiva da salvaguardare, in Dir. prat. trib., 2020, p. 231 ss.; F.GALLO, I giudici tutelino i cittadini, non l’Erario, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2464 ss.; M. LEO, Servono sezioni specializzate per tributo, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2467 ss.; C. GLENDI, Sulla giustizia tributaria tornano a veleggiare i cavalieri dell’Apocalisse, in Dir. prat. trib., 2019, p. 2469 ss.

    ([3]) F. GALLO, Prime osservazioni sul nuovo giudice speciale tributario, relazione introduttiva svolta al webinar “Nascita della quinta magistratura: analisi, commenti e proposte di modifiche legislative”, svoltosi a Roma il 4 ottobre 2022 e organizzato dall’IGS, p. 2 del dattiloscritto; M. BASILAVECCHIA, Giurisdizione esclusiva da salvaguardare, cit., p. 233.

    ([4]) Ad esempio, i ddl Vitali e Romeo escludevano ogni partecipazione dei togati mentre per i non togati attribuivano alla precedente partecipazione alle commissioni tributarie solo natura di titolo preferenziale in caso di parità di votazione nel concorso pubblico uguale per tutti (rispettivamente, art. 4, co. 6 e art. 5, co. 6); il ddl Nannicini prevedeva per i togati l’opzione per il transito alla nuova magistratura, mentre per i non togati il loro inserimento nell’ambito dei magistrati onorari attivabili nel caso di mancata copertura dell’organico, purché in servizio per almeno dieci anni presso le commissioni tributarie (art. 112); il ddl Fenu prevedeva invece l’esatto contrario del ddl Nannicini, disponendo che in sede di prima costituzione dei ruoli dei magistrati tributari ed onorari, il Consiglio di presidenza procedesse al riassorbimento dei giudici in servizio presso le commissioni tributarie mediante selezione sulla base di una serie di titoli e che solo nel caso di vacanza dei posti si procedesse a concorso (art. 35); il ddl Misiani prevedeva l’opzione per i giudici togati per il transito alla magistratura tributaria, mentre per i non togati da lato che in sede di prima applicazione un numero non superiore al 25 per cento dei posti a concorso fosse riservato ai giudici delle commissioni tributarie provinciali e regionali in servizio da almeno venti anni e iscritti negli albi dei dottori commercialisti o degli avvocati, con una selezione per soli titoli (art. 6) e, dall’altro, che tutti i non togati in servizio potessero scegliere di essere inseriti nel ruolo di magistrati tributari onorari (art. 7)

    ([5]) Pag. 3 Relazione tecnica al ddl.

    ([6]) Pag. 5 Relazione tecnica al ddl.

    ([7]) Forti ed inequivocabili erano le espressioni utilizzate a favore di tale decisione: il ddl Vitali affermava che «per attuare l’effettiva terzietà dei giudici tributari ai sensi dell’articolo 111, secondo comma, della Costituzione è urgente sottrarre al Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto parte interessata del contenzioso, e affidarla a un organismo terzo, come per esempio la Presidenza del Consiglio dei ministri, perché la giustizia tributaria, oltre che «essere», deve necessariamente «apparire» neutrale»; il ddl Nannicini precisava che «il punto fondamentale (articolo 14) è costituito dall’esclusione del Ministero dell’economia e delle finanze dalle competenze in materia di organizzazione e vigilanza della giurisdizione tributaria, che vengono accentrate in capo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Si vuole così evitare che le commissioni tributarie e i relativi uffici dipendano in qualsivoglia modo dallo stesso ramo della pubblica amministrazione che è per lo più parte nei processi tributari. Alla stessa Presidenza è trasferito il compito di redigere e presentare la relazione annuale al Parlamento»; il ddl Fenu affermava che «tale previsione completa il percorso di adeguamento della giurisdizione tributaria ai principi costituzionali del giusto processo, assicurando la terzietà e l’indipendenza dell’organo giudicante»; il ddl Romeo affermava che «è necessario, quindi, svincolare dal Ministero dell’economia e delle finanze la gestione e l’organizzazione delle commissioni tributarie, in quanto esso stesso parte interessata nel contenzioso, affidandole ad un organismo terzo, quale per eccellenza la Presidenza del Consiglio dei ministri, affinché la giustizia tributaria sia anche nella sostanza – e non solo nella forma – indipendente e autonoma»; il ddl Misiani precisava infine che «al fine di garantire l'indipendenza del giudice tributario, non soltanto sostanziale ma anche nella sua accezione, parimenti rilevante sul piano costituzionale, della sua «apparenza», vale a dire nella percezione diffusa, si ritiene irrinunciabile distaccare l'organizzazione e la gestione dell'apparato giurisdizionale tributario dal Ministero dell'economia e delle finanze, che è organicamente legato anche all'Amministrazione finanziaria, la quale però è una delle parti in causa nei contenziosi fiscali. A tal fine si è ritenuto di trasferire le relative attribuzioni alla Presidenza del Consiglio dei ministri».

    ([8]) E. SEPE, La riforma della giustizia tributaria: una riforma incostituzionale, in Boll. trib., 2022, p. 1033.

    ([9]) E. DE MITA, È il momento della vera giurisdizionalizzazione del processo tributario, in Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2022.

    ([10]) Corte di giustizia di I grado di Venezia, ord. n. 408/2022, dep. il 31 ottobre 2022.

    ([11]) Corte cost., n. 206/2004.

    ([12]) Sul punto, ampiamente, F. PISTOLESI, La testimonianza scritta nel processo tributario riformato, in Giustizia Insieme, 2022.

    ([13]) Cass., n. 25094/2019.

    ([14]) Cass., n. 7960/2022.

    ([15]) Cass., n. 20454/2019; n. 8510/2010; n. 6911/2013.

    ([16]) Cass., n. 20454/2019.

    ([17]) Corte cost., 1 aprile 1982, n. 63.

    ([18]) C. Cost. n. 114/2018.

    ([19]) SS.UU. n. 7822/2020; 2295/2021; 8465/2022; 16986/2022.

    ([20]) Cass. n. 19401/2022.

    ([21]) Cfr. C. GLENDI, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana”, in Ipsoa Quotidiano, 24 settembre 2022, secondo cui la nuova formulazione supera la difficile distinzione tra i vari fatti contenuta nei primi due commi dell’art. 2697 c.c., «essenzialmente di origine pandettistica, che se mai poteva aver senso per il processo civile, avente ad oggetto l’accertamento di diritti soggettivi, tuttavia mal si adattava ad un processo tributario volto all’impugnazione e all’annullamento o meno di provvedimenti, cioè atti direttamente produttivi dei propri effetti, emessi dall’Amministrazione finanziaria».

    ([22]) Cfr. G. CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, p. 546 ss..

    ([23]) Vedi S. PATTI, Prova (diritto processuale civile), in Enc. giur., Roma, 1991, p. 12, che riconduce le presunzioni juris tantum alla categoria delle norme aventi ad oggetto la distribuzione dell’onere della prova, con l’elemento distintivo di ricollegare determinate conseguenze giuridiche al mancato assolvimento dell’onus probandi. Sul collegamento tra presunzioni legali relative ed inversione dell’onere della prova, v. anche R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova (aspetti diversi di un fenomeno unico o fenomeni autonomi?), in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 399 ss., e M. TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, I, p. 733 ss. Sulla problematica delle presunzioni relative e, più in generale, dell’onere della prova nel processo tributario, v. G.A. MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1966; F. TESAURO, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I. p. 77 ss.; P. RUSSO, Processo tributario, in Enc. del diritto, XXXVI, 1987, Milano, p. 781 ss.; F. BATISTONI FERRARA, Processo tributario (Riflessioni sulla prova), in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1603 ss.; S. LA ROSA, L’istruzione probatoria nella nuova disciplina del processo tributario, in Boll. trib., 1993, p. 872 ss.; R. LUPI, L’onere della prova nella dialettica del giudizio sul fatto, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 1197 ss.; G.M. CIPOLLA, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 1998, p. 671 ss.

    ([24]) Sul punto, R. LUPI, L’onere della prova…, cit., p. 1213 ss.

    ([25]) V. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 1999, p. 677.

    ([26]) Se su un piano generale, la motivazione è l’iter argomentativo seguito dall’ufficio, mentre la prova è la dimostrazione – diretta o indiretta – della fondatezza delle tesi del Fisco, pare possa fondatamente sostenersi l’esistenza dell’obbligo di (almeno) enunciare le prove nell’avviso di accertamento.

    Innanzitutto, l’art. 3, L. 241/1990 prevede che la motivazione debba indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’ammini­strazione “in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. È ben vero che – nell’ambito delle norme tributarie – un riferimento espresso alla necessaria indicazione degli elementi probatori è presente solo saltuariamente (ad es., in tema di IVA, l’art. 56, d.p.r. 633/1972; in tema di sanzioni, gli artt. 16 e 17, d.lgs. 472/1997) e comunque non in relazione al­l’art. 42, d.p.r. 600/1973, ma occorre tenere conto della circostanza che l’art. 7, co. 1 dello Statuto, che è norma generale per il diritto tributario, fa espresso rinvio all’art. 3, L. 241/1990.

    In secondo luogo, si deve ritenere che l’indicazione delle prove costituisca parte integrante della motivazione poiché l’onere della prova, come visto, ricade sull’ufficio, sicché non sarebbe neanche immaginabile una motivazione che facesse riferimento alla concreta situazione di fatto che ne sta alla base, senza valutare il materiale probatorio raccolto e senza trarne le dovute conseguenze.

    In terzo luogo, tale indicazione rappresenta una garanzia del rispetto delle regole sull’i­struttoria, in quanto in sua assenza si corre il rischio di legittimare accertamenti in base ad istruzioni sommarie o a meri sospetti, confidando nella possibilità che in giudizio si riescano a raccogliere prove sufficienti ovvero nella mancata impugnazione dell’avviso da parte del contribuente.

    Infine, l’indicazione delle prove deriva da esigenze di ordine processuale. Poiché, infatti, l’avviso di accertamento apre alla fase contenziosa, non sarebbe consentita al contribuente una piena difesa mediante quella adeguata articolazione dei motivi di ricorso cui esso è obbligatoriamente tenuto, ove costui non fosse a conoscenza anche dei supporti dimostrativi alle argomentazioni dell’ufficio raccolti nel corso della fase istruttoria.

    Dunque, plurime esigenze di ordine sistematico impongono che in qualsiasi tipo di imposta la motivazione trovi supporto nelle prove indicate.

    Ciò non significa, ovviamente, che la prova sia un elemento costitutivo dell’avviso di accertamento ma solo che se ne renda necessaria l’enunciazione, potendosi rinvenire, in tale prospettiva, un bilanciamento tra le esigenze del contribuente di conoscere le prove del­l’ufficio a fini difensivi da un lato, e quelle dell’amministrazione in relazione al fatto che la valutazione delle prove compete esclusivamente al giudice, dall’altro. La prova resterà pertanto producibile in giudizio, ma dovranno essere enunciate nell’avviso le relative fonti (in giurisprudenza, Cass., n. 7649/2020; n. 14200/2000; n. 10052/2000).

    [27] Cass., 905/2006; anche Cass., 9894/1997.

    ([28]) S. MULEO, Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giustizia Insieme, 2022.

    ([29]) Cfr. A. CARINCI, Nuovo onere della prova con poche variazioni per la giurisprudenza, in Eutekne, 4 novembre 2022.

    ([30]) Cfr. S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo. Presupposti, struttura, sindacabilità, Torino, 2022, p. 14.

    ([31]) M. TARUFFO, Presunzioni, inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 740 ss.

    ([32]) L. LOMBARDI, Il metodo del “prudente apprezzamento” nella valutazione degli indizi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo, cit., p. 115.

    ([33]) Ricorda come la prova presuntiva non sia “più debole” degli altri mezzi di prova, S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, in AA.VV. (a cura si S. Patti e R. Poli), Il ragionamento presuntivo, cit., p. 5.

    ([34]) Cfr. S. PATTI, Le presunzioni semplici: rilievi introduttivi, cit., p. 11.

    ([35]) Cass., n. 31878/2022.

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