GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Prime riflessioni sulla nuova conciliazione proposta dalla Corte di giustizia tributaria

    Prime riflessioni sulla nuova conciliazione proposta dalla Corte di giustizia tributaria

    di Antonio Perrone 

    Sommario: 1. La disciplina normativa del novello istituto. - 2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto. - 3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa. – 3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator. - 4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario. - 5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa. - 6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa. - 7. Due questioni conclusive.                 

    1. La disciplina normativa del novello istituto  

    A trent’anni dalla promulgazione dei decreti delegati n. 545 e n. 546 del 1992, e dopo diversi interventi sezionali e parziali modifiche del loro impianto normativo, la legge 31 agosto 2022, n. 130, ha operato una riforma del rito fiscale che, seppur sotto il limitato profilo della professionalizzazione del giudice tributario, non dovrebbe esitarsi a definire epocale[1], atteso che, a regime, esso sarà togato, a tempo pieno, selezionato per pubblico concorso ed equiparato al giudice ordinario. E, del resto, la circostanza che si tratti di riforma, non solo di sostanza, ma anche di sistema, traspare, semanticamente, dalla diversa denominazione degli organi che saranno chiamati d’ora innanzi ad amministrare la giustizia tributaria: non più commissioni tributarie provinciali e regionali, ma corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado.

    Se, indubbiamente, il maggior precipitato della riforma è ordinamentale poiché attiene, per l’appunto, alla figura ed alla natura del giudice tributario, non poche sono però le innovazioni che attengono al processo in sé e financo al regime della prova all’interno di esso[2]. Fra tali innovazioni un ruolo di spessore assume il nuovo istituto della «Conciliazione proposta dalla corte di giustizia tributaria», previsto dall’art. 4, comma 1, lett. g), della legge del 2022, che inserisce – nel corpo del novellato d.lgs. n. 546 del 1992 - l’art. 48-bis.1 e che, d’ora innanzi, per brevità verrà indicato come “conciliazione del giudice”.

    La scelta della nomenclatura dell’articolo è già indicativa di una volontà del conditor legum di creare una sorta di fil rouge con i precedenti istituti (tutt’ora vigenti) della conciliazione “fuori udienza”, prevista dall’art. 48, e della conciliazione “in udienza”, prevista dall’art. 48-bis. E’ una scelta che, però, lascia perplessi, poiché – come vedremo – la novella conciliazione ha tratti peculiari e caratteristici che, se non sotto il profilo procedurale, soprattutto in ragione del ruolo che in essa vi gioca il giudice, ne avrebbero suggerito una configurazione in termini di maggiore autonomia che non in linea di continuità con i precedenti istituti.

    Quanto all’impianto normativo, trattandosi di norme dal recentissimo conio, e non potendosi quindi dare per scontato che il lettore le conosca, si ritiene utile riportare i tratti salienti dell’art. 48-bis.1.

    Indubbiamente la norma di maggiore importanza (così come di maggiore impatto) è il comma 1, il quale prevede che «[p]er le controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis la corte di giustizia tributaria, ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione».

    La nuova conciliazione del giudice, dunque, non riguarda tutte le controversie fiscali, ma solo quelle reclamabili e soggette a mediazione, che – allo stato – sono le liti di valore non superiore a cinquantamila euro. Atteso, però, l’espresso richiamo all’art. 17-bis (del medesimo decreto) nella sua interezza, e non al solo valore della controversia che esso definisce al primo comma, saranno escluse dal nuovo istituto della conciliazione del giudice anche le liti che non rientrano nel perimetro di applicazione di quella norma e cioè quelle di valore indeterminabile (fatta eccezione per quelle di cui all’articolo 2, comma  2, d.lgs. n. 546/92), quelle in tema di aiuti di stato (di cui all’art. 47-bis del d.lgs. n. 546 del 1992) e quelle aventi per oggetto i tributi costituenti risorse proprie tradizionali di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014.   

    La novella conciliazione, poi, non è obbligatoria, poiché la littera legis dispone che la proposta può essere dal giudice (id est: dalla corte di giustizia tributaria) formulata; e tale formulazione è soggetta ad una, non meglio precisata, condizione di fattibilità («ove possibile») ed è subordinata alla ricorrenza di (invero assai vaghi) criteri (che verranno più compitamente analizzati nel prosieguo del presente scritto) di cui il giudice dovrà tener conto: l’«oggetto del giudizio» e l’esistenza di «questioni di facile e pronta soluzione».

    Quanto alla procedura, essa, mutatis mutandis, richiama quella del vigente art. 48-bis. I commi da 2 a 5 dell’art. 48-bis.1, in particolare, prevedono:

    - che la proposta del giudice può essere formulata in udienza o fuori udienza. Nel primo caso è comunicata alle parti, nel secondo è comunicata alla sola parte (o alle sole parti) non comparsa in udienza; 

    - nel caso di formulazione della proposta, che la causa sia rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo e, ove l’accordo  non  si perfezioni, la trattazione della controversia nella stessa udienza (a cui la causa è stata rinviata per consentire la conciliazione);

    - che la conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale, nel quale sono indicate le somme dovute nonché i termini e le modalità di pagamento, aggiungendo che il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente. Disposizioni, queste, identiche a quelle già previste per la conciliazione “fuori udienza” (art. 48-bis);

    - che, nel caso di intervenuta conciliazione, il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (anche in questo caso le previsione è identica a quella contenuta nell’art. 48-bis). 

    Il novello articolo si chiude poi con la previsione del comma 6, il quale stabilisce che «[l]a proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice». Norma che, come del resto il primo comma dell’articolo, ha radice processualcivilistica e che (al pari del primo comma) merita gli approfondimenti ulteriori che appresso vi dedicheremo.

    Il recentissimo impianto normativo non si compone, però, del solo art. 48-bis.1. Difatti, la legge n. 130 del 2022, all’art. 4, comma 1, lett. d), ha previsto altresì di inserire nell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92, il comma 2-octies, che, invero, non riguarda soltanto il novello istituto della conciliazione giudiciale, ma la conciliazione in genere. La norma prevede, infatti, che, se la proposta conciliativa del giudice, o di una della parti (e cioè una proposta che rientra negli attuali artt. 48 e 48-bis), non sia accettata dall’altra parte «senza giustificato motivo», la parte rifiutante subirà una maggiorazione del 50 per cento delle spese del giudizio quante volte «il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata». Dunque, se il giudice o alcuna delle parti formula una proposta conciliativa ed essa non è accettata (senza giustificato motivo), il rifiutante subirà l’indicato aggravio di spese qualora, poi, il contenuto della sentenza dovesse, per esso, essere maggiormente sfavorevole rispetto al contenuto della proposta.

    Quest’ultima disposizione, ispirata dall’evidente scopo di indurre le parti a ben meditare un eventuale rifiuto della proposta, rivela – invero – qualche imprecisione terminologica che, tuttavia, non sembra inficiarne più di tanto la portata esegetica (se si fa eccezione per l’inciso «senza giustificato motivo», di cui si cercherà di seguito di ben comprendere il significato).

    In primo luogo, la mancata accettazione è letteralmente riferita all’altra parte; il che è corretto allorché la proposta sia formulata dal contribuente o dall’Amm. fin. Ma se la proposta sia di matrice giudiciale (proprio in base al novello istituto qui in commento) la mancata accettazione non andrebbe riferita all’altra parte, ma ad “una delle parti”, atteso che possono rifiutare tanto il contribuente quanto l’amministrazione.

    In secondo luogo, la previsione dell’aggravio di spese è letteralmente riferita alle «pretese» che in sentenza siano dal giudice riconosciute in misura inferiore rispetto alla proposta conciliativa (rifiutata). Il soggetto destinatario dell’aggravio, dunque, dovrebbe essere il pretendente, è cioè nella stragrande maggioranza dei casi l’Amm. fin, atteso che, nel rito tributario, il contribuente pretende alcunché solo nelle liti di rimborso. Se così fosse, la norma risulterebbe evidentemente sbilanciata a sfavore della parte pubblica, poiché una rigida esegesi della stessa, ancorata al dato letterale, indurrebbe a ritenere che laddove la sentenza rigetti in tutto la pretesa o determini l’ammontare di tale pretesa in misura superiore a quanto previsto nella proposta conciliativa rifiutata (provenga essa dalla parte o dal giudice), l’aggravio di spese opererà solo se ciò riguardi la parte pretendente, e quindi, nella maggior parte dei casi, l’Amm. fin. Non riteniamo, però, che l’imprecisione terminologica conduca a siffatto, invero irragionevole, risultato. Forse l’intendimento del legislatore, nell’utilizzare il termine “pretese”, era quello di fugare ogni dubbio circa l’applicabilità del nuovo istituto anche alle liti di rimborso. In ogni caso, il termine di cui si discute, nella logica e nella ratio della disposizione dovrebbe essere inteso non solo con riferimento alle pretese avanzate dall’amministrazione nell’atto impositivo, di irrogazione delle sanzioni o nel provvedimento di riscossione (o alle pretese avanzate dal contribuente nella richiesta di rimborso), ma anche con riguardo alle “richieste” delle parti in genere. Talché, laddove sia stata formulata una proposta conciliativa di parte e l’altra l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), se la sentenza disporrà a sfavore del rifiutante in misura deteriore rispetto al contenuto della proposta, quest’ultimo subirà l’aggravio di spese. Analogamente, laddove sia la corte di giustizia tributaria a formulare la proposta, e una delle due parti (contribuente o amministrazione) l’abbia rifiutata (senza giustificato motivo), qualora la sentenza risulti, per essa, di contenuto maggiormente sfavorevole rispetto alla proposta, opererà l’aggravio di spese.

    Sul punto non è superfluo sottolineare che, se la proposta conciliativa del giudice non è obbligatoria, lo è invece la condanna alle spese maggiorate per la parte che l’eventuale proposta abbia rifiutato senza giustificato motivo. Il novello comma 2-octies dell’art. 15, infatti, non dà facoltà al giudice di maggiorare le spese, ma prevede che esse, incrementale del 50 per cento, «restano a carico» del rifiutante senza giustificato motivo. Dunque, ricorrendo le condizioni già analizzate (rifiuto della proposta e contenuto della sentenza maggiormente sfavorevole rispetto a quello della proposta stessa), il giudice non sembra abbia facoltà nell’addebito delle spese maggiorate, salvo che non ricorra quel «giustificato motivo» di cui dovrà ben intendersi la portata.

    La stessa norma prevede, invece, che laddove la conciliazione vada a buon fine, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.

    L’ultima previsione dell’art. 4 della legge n. 130/2022, con riferimento al nuovo istituto della conciliazione del giudice, è contenuta al primo comma, lett. h), il quale prevede che nell’art. 48-ter del d.lgs. n. 546/92, in tema di definizione e pagamento delle somme dovute, al comma 2, è inserito il rifermento anche all’art. 48-bis.1. In sostanza, quindi, anche per la conciliazione del giudice il versamento delle somme dovute, ovvero, in caso di rateizzazione, della prima rata, deve essere effettuato entro venti giorni dalla data di redazione del relativo processo verbale.

    A riguardo si rammenta che il primo comma dell’art. 48-ter stabilisce la misura di applicazione delle sanzioni ridotte in caso di conciliazione tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Pertanto, la circostanza che nel secondo comma di tale articolo sia stato inserito il riferimento all’art. 48-bis.1, dovrebbe deporre nel senso che le modalità di pagamento ivi disciplinate si riferiscono alla conciliazione del giudice tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio. Se a ciò si aggiunge la sedes materie di tale ultima disposizione (che, come detto, segue gli articoli 48 e 48-bis) e la circostanza che il primo comma di essa si riferisca alla «corte di giustizia tributaria», non altrimenti aggettivata con riferimento al primo o al secondo grado, ne consegue che il nuovo istituto della conciliazione del giudice, al pari delle altre forme conciliative allo stato vigenti, si applica anche in grado di appello. 

    2. La matrice processualcivilistica, il riferimento all’art. 185-bis cod. proc. civ. e le questioni problematiche del novello istituto.

    Così analizzata la novella normativa, non può sottacersi che essa suscita diverse questioni problematiche, che pertengono non solo lo studioso del processo tributario ma anche l’operatore pratico e, soprattutto, la neo istituita corte di giustizia tributaria, che quella norma sarà chiamata ad applicare.

    Intanto va detto che l’art. 48-bis.1 rivela una chiara matrice processualcivilistica, essendo fondamentalmente modellato sull’istituto previsto dall’art. 185-bis cod. proc. civ., rubricato «proposta di conciliazione del giudice», ed il cui primo comma dispone: «[i]l giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

    Com’è evidente un quasi testuale richiamo alla formulazione della norma del codice di rito è presente nel comma 1 e nel comma 6 del novello art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92. Vi è, invero, una sensibile differenza, poiché la conciliazione del giudice nel processo civile si applica alle sole questioni di facile e pronta soluzione «di diritto»; limite – che aveva indotto attenta dottrina processualcivilistica ad affermare che «la ricostruzione dei fatti, come ben vedesi, non interessa più a nessuno»[3] - non presente nella norma tributaria, talché è da ritenersi che quest’ultima possa riguardare anche le questioni di fatto.

    La norma del codice di rito, poi, nel circoscrivere il perimetro delle liti conciliabili, raccomanda al giudice di tener conto della «natura del giudizio» e del «valore della controversia», senza identificare, in quest’ultimo caso, una soglia ben precisa. Il parametro del valore è invece – come già detto – ben identificato dalla norma tributaria che, nel richiamare l’art. 17-bis del d.lgs. n. 546/92, lo circoscrive (con scelta, a mio sommesso avviso, opinabile) ai cinquantamila euro. Di contro, sostanzialmente sovrapponibile, nella vaghezza dell’espressione, a quello del codice di rito ci sembra il primo criterio che pone la norma tributaria, che in luogo della “natura” fa riferimento all’“oggetto” del giudizio. Nell’un caso e nell’altro, non è ben chiaro in quale misura il criterio che ne occupa possa influenzare (recte: indirizzare) la scelta del giudice di proporre o meno la conciliazione. Cosa vuol dire, infatti, che – nel valutare la possibilità di formulare una proposta conciliativa – il giudice dovrà tenere conto, nell’un caso (rito civile) della “natura” del giudizio, e nell’altro (rito tributario) dell’“oggetto” del giudizio, se non che questa valutazione è sostanzialmente rimessa alla sua discrezionalità? Altrimenti detto: in che modo potrebbe sindacarsi la scelta della corte di giustizia tributaria di proporre la conciliazione assumendo che l’oggetto del giudizio non la consentiva?  Ci sembra, invero, di essere in presenza di una disposizione “in bianco” che né vincola (che forse sarebbe stato eccessivo), né indirizza (che invece sarebbe stato auspicabile) la scelta del giudicante. Per non dire, poi, che il concetto e l’ampiezza dell’“oggetto” del giudizio tributario è questione così tanto dibattuta ancor oggi nella dottrina[4], che forse sarebbe stato meglio evitare del tutto ogni riferimento normativo al tema, piuttosto che adattare al processo tributario una disposizione che già nel codice di rito lasciava gli interpreti insoddisfatti. 

    Se a ciò si aggiunge la genericità dell’espressione «questioni di facile e pronta soluzione» (che nel nostro processo, come già detto, a differenza di quanto avviene nel rito civile, attiene al fatto come al diritto), che è l’altro criterio che il giudice dovrà valutare nel formulare (ove possibile) la proposta conciliativa, è difficile non condividere, e rilanciare in materia fiscale, il tranciante giudizio che la dottrina processualcivilistica ha dato dell’art. 185-bis, primo comma, cod. proc. civ.: non si tratta, invero, di una norma effettuale, ma di un «suggerimento al giudice»[5]. Talché, verrebbe da chiedersi se effettivamente v’era la necessità di modellare la conciliazione del giudice tributario su quella del giudice civile o non sarebbe stato, invece, più opportuno tener conto degli strali critici che quell’istituto aveva suscitato negli operatori della giustizia civile per confezionarne, nel rito tributario, uno di miglior finitura. Ciò, soprattutto, ove si considerino taluni emendamenti (che successivamente analizzeremo) che pur erano stati proposti per migliorarne la fattibilità.

    Ciò posto, il presente contributo non vuole però limitarsi alla critica, ma avere un intendimento propositivo per cercare di comprendere se e come le evidenziate problematiche possano essere risolte.

    3. La veste giuridica ed il ruolo del giudice tributario nella sua funzione conciliativa

    La circostanza che il primo comma dell’art. 48-bis.1 restituisca la posizione di un giudice le cui coordinate di indirizzo per la formulazione della proposta non possono essere, se non in maniera estremamente vaga, ravvisate nella legge, ci sembra impatti sulla questione, di massima importanza, della concreta attuabilità del novello istituto e quindi della sua reale efficacia. Altrimenti detto: quale condizionamento (e quale utilità) potrà trarre il giudice dal sapere che la sua proposta potrà essere formulata soltanto laddove essa sia compatibile con l’oggetto del giudizio e laddove si verta su questioni di facile e pronta soluzione? In particolare, cosa la corte di giustizia tributaria dovrà intendere con quest’ultima espressione? Sebbene, infatti, la formula sia stata tralaticiamente riportata dal rito civile a quello fiscale, essa dovrà certamente essere adattata alle particolarità di quest’ultimo e, prima fra esse, la circostanza che una delle parti è pubblica ed è portatrice delle funzione istituzionale di attuare la norma tributaria e di amministrare i tributi[6].  

    Invero, le risposte a tali quesiti parrebbero a portata di mano. Facile e pronta soluzione, infatti, altro non dovrebbe significare se non che è chiaro chi abbia ragione e chi torto o che (in diritto) si tratta di una questione che ha una tale sedimentazione giurisprudenziale (magari in un costante orientamento della Corte di cassazione) – da cui il giudice non ravvisa ragioni per discostarsi – che la soluzione della controversia non potrà che ancorarsi alla stessa, o che ancora – ma ci sembra un’ipotesi di difficile fattura – una delle parti abbia ipotizzato l’applicazione di una norma palesemente inconferente con la fattispecie o abbia dato una valutazione palesemente errata di una disposizione. Insomma, la locuzione in esame, nella sua forma letterale, indurrebbe a ritenere che la corte di giustizia tributaria abbia facoltà di formulare la proposta conciliativa quante volte risulti indubbiamente evidente, al di là di ogni dubbio, come la controversia debba essere decisa perché è chiaro dove sta la ragione e dove il torto.  

    A questo punto, però, l’inevitabile domanda che sorge nella mente dell’interprete è perché mai un giudice, che abbia così chiara contezza su come la controversia debba essere decisa, dovrebbe formulare una proposta conciliativa. Ma soprattutto occorre chiedersi come potrebbe quegli formulare la proposta senza, di fatto, anticipare la sua decisione, così compromettendo quell’imparzialità che non è solo principio di civiltà giuridica ma è anche canone di rilevanza costituzionale (art. 111 Cost.)[7]. Pertanto, se si dovesse attribuire all’inciso facile e pronta soluzione il significato letterale che ha tale espressione, non solo si porrebbe un’evidente questione di legittimità costituzionale della norma, ma si dovrebbe ammettere che il novello istituto della conciliazione del giudice è stato introdotto nel rito fiscale con il solo scopo di scoraggiare liti temerarie, in cui il ricorrente (recte: il suo difensore) è conscio della scarsa probabilità di successo, ma impugna per prender tempo. Un istituto che opererebbe quindi a senso unico e di cui, a mio sommesso avviso, non si sentiva davvero il bisogno.     

    Le superiori riflessioni rimandano, invero, alla questione, di ben ampio spessore, di quale sia la funzione della conciliazione del giudice e di quale veste egli assuma nel formulare la proposta.

    È indubbiamente vero che funzione precipua del novello istituto è quella di deflazionare il contenzioso tributario, ma il perseguimento di tale obiettivo non sembra possa spingersi fino a sacrificare il ruolo che è istituzionalmente (e costituzionalmente) proprio del giudice: amministrare giustizia (in nome del popolo). Pertanto, nessuna proposta conciliativa dovrebbe il giudicante formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia (anche parzialmente) torto e chi (anche parzialmente) ragione, poiché in quel caso egli dovrebbe subordinare l’obiettivo della deflazione delle liti al compito che primariamente gli compete, attribuendo giustizia a chi (evidentemente) merita di averla.

    Ciò, peraltro, si intreccia con la questione del ruolo che il giudice assume allorché formuli una proposta conciliativa in un giudizio che egli è chiamato dirimere con sentenza. Questione che investe l’amplissimo tema della imparzialità del giudicante, che è stata già dibattuta dalla dottrina processualcivilistica a fronte del richiamato art. 185-bis cod. proc. civ. e che, in questa sede, può essere richiamata solo per sommi capi[8].  

    3.1. (segue) iudex statutor e iudex mediator

    Alla sua radice il complesso tema si riduce nello stabilire se il giudice che formula la proposta di conciliazione vesta i panni di un iudex statutor (decisorio), di un iudex mediator o una via di mezzo fra i due[9]. E cioè se quegli, in sede conciliativa, possa adottare lo stesso habitus mentale e la medesima intime convinction che caratterizzano il suo ruolo decisorio e la sua funzione di dispensare giustizia, o – (parzialmente) svestiti i panni del decidente – debba invece operare con funzione mediatoria per trovare una soluzione che possa essere accettata da entrambe le parti, poiché ognuna di essa avrebbe più da perdere nel rifiutarla che nell’accettarla (o, in altri termini, avrebbe più da perdere seguitando nel giudizio).

    Diversi sono gli argomenti che inducono ad escludere che il giudice della conciliazione possa essere un iudex statutor, ma il primo e più importante di essi attiene a quel principio generale di giustizia, riconnesso al canone dell’imparzialità, che impedisce a colui che sia chiamato a dirimere una controversia con sentenza di formulare, in corso di causa, “anticipazioni di giudizio”.

    La dottrina processualcivilistica, nel commentare l’art. 185-bis del codice di rito, con il precipuo scopo di escludere che il giudice “conciliatore” possa operare in qualità di iudex statutor, ha cercato, in primo luogo, un appiglio normativo nell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ., che notoriamente individua una serie di circostanze – che rappresentano altrettanti obblighi di astensione del giudice – che dimostrano una sua “precognizione” dei fatti di causa[10]. L’aver quegli dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o l’aver deposto in essa come testimone, l’avere conosciuto della stessa come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o, infine, l’aver prestato assistenza come consulente tecnico, impongono al giudice di astenersi dal decidere poiché sono circostanze che dimostrano che egli ha avuto aliunde conoscenza dei fatti di causa – donde l’elemento della “precognizione” – e su essi si è espresso, in un modo o in un altro. Ciò che inevitabilmente pregiudica l’imparzialità del suo operato.

    E tuttavia le ipotesi dell’art. 51, comma 4, cod. proc. civ. attengono ad elementi “esterni” al giudizio[11] e quindi configurano casi in cui il giudice ha avuto una previa conoscenza dei fatti di causa per averli acquisiti in una veste diversa da quella di giudicante nel medesimo processo (consulente, perito, testimone, arbitro, ecc.), tant’è che l’obbligo di astensione, qualora la conoscenza dei fatti di causa sia avvenuta nella qualità di “magistrato”, opera soltanto laddove sia avvenuta in altro grado del giudizio[12].

    Ben diversa è l’ipotesi in cui sia la legge stessa a prevedere la possibilità per il giudice di aver contezza dei fatti di causa alla scopo di formulare una proposta conciliativa all’interno del processo[13], come avviene nelle ipotesi disciplinate tanto dall’art. 185-bis del codice di rito, quanto dal novello art. 48-bis.1 del rito fiscale. E, d’altro canto, è ben noto che, per il naturale progredire del processo, è giocoforza necessario che il giudicante conosca, in via interinale, questioni di rito e di merito[14]. Così come, laddove sia la stessa legge a prevederlo, il giudice potrà pronunciarsi in via cautelare e provvisoria (come notoriamente avviene nel rito tributario, ai sensi dell’art. 47 del d.lgs. n. 546/92), senza che ciò comporti forme di indebita anticipazione di giudizio[15].

    Se vuol sostenersi che il giudice “conciliatore” non possa operare in funzione decisoria, anticipando, attraverso la formulazione della proposta, quale sarà l’esito del giudizio, non sembra dunque possa trovarsi appiglio normativo nel richiamato art. 51, comma 4, cod. proc. civ.

    Forse quell’appiglio lo si può invece trovare nella stessa disciplina normativa della conciliazione del giudice. Di fatti, l’art. 48-bis.1 (così come, del resto, l’art. 185-bis cod. proc. civ.), pur nella sua vaghezza formulatoria, sembra dettare talune coordinate di riferimento. Segnatamente, l’ultimo comma dell’articolo, nello stabilire che la proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice, non pare abbia solo portata precettiva ma di indirizzo (e monito) nei confronti del giudicante.

    Indubbiamente la norma è stata dettata dal pur lodevole intento di evitare che ogni proposta conciliativa possa paralizzare il rito, determinando una richiesta di ricusazione operata dalla parte che, rifiutata la proposta, assuma che il giudice non è più parziale perché, mercé la formulazione della stessa, ha già chiarito come intenderà decidere. Tale comprensibile premura, però, non sembra possa spingersi fino a paralizzare del tutto un’eventuale azione di ricusazione di parte quale che sia il contenuto della proposta. Se quest’ultima è una chiara anticipazione del giudizio e quindi un abuso del potere del giudice, alle parti (recte: a quella che dovesse risultare sfavorita dalla proposta) dovrà pur essere consentito di censurare tale operato.

    La norma di cui si discute, dunque, va avvolta nella sua ratio di conformità al principio generale, di civiltà giuridica, che impedisce al giudice di formulare “anticipazioni” del suo decidere in corso di causa (pena la sua ricusabilità). Essa, dunque, è comprensibile (e costituzionalmente accettabile) solo in quanto si sia disposti ad ammettere che dice più di quanto non appaia, operando come un monito per il giudice: la sua proposta conciliativa non costituisce motivo di ricusazione o di suo obbligo di astensione proprio perché (e nella misura in cui) essa non è, e non deve essere, anticipazione di giudizio. La norma che ne occupa, dunque, andrebbe letta come disposizione che, al contempo, conferisce il potere (conciliativo) e ne sottintende il limite che deriverebbe dal suo abuso. Limite che, in altro contesto processuale, il legislatore ha sentito la necessità di esplicitare, affermando – all’art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. – che il giudice è ricusabile se nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, abbia manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione.

    Mutatis mutandis, nel rito fiscale, l’avverbio indebitabimente, e con esso la ricusabilità del giudice, dovrebbe ricorrere quante volte quegli abbia sconfinato dal suo potere, formulando una proposta conciliativa che in effetti tale non è, perché lasica chiaramente intendere come egli deciderà (o come, di fatto, ha già deciso).     

    È allora proprio questa lettura ragionevolmente (e costituzionalmente) orientata dell’ultimo comma del novello art. 48-bis.1, che può chiarire quale debba essere il ruolo e la natura del giudice “conciliatore” nel rito fiscale. Quando egli formula la proposta, dovrebbe parzialmente svestire gli abiti del decisore per operare, altrettanto parzialmente, come mediatore (altamente) “qualificato” che, avendo la sua guida pure e sempre nella legge, valuta se, in conformità alla stessa, e iuxta alligata et probata partium, vi sia lo spazio per una composizione delle reciproche posizioni. E’ per questa ragione che la collocazione sistematica dell’art. 48-bis.1 lascia perplessi, poiché non sembra che esso possa allinearsi a quell’ideale fil rouge che vorrebbe accomunarlo alla conciliazione “fuori udienza” (art. 48) e alla conciliazione “in udienza”, (art. 48-bis) ove non v’è alcun giudice che, almeno per un momento, veste l’habitus mentale del mediatore.  

    Se così è, allora, dovrebbe conseguirne che nessuna proposta conciliativa il giudicante può formulare ove gli sia oltremodo chiaro chi abbia torto e chi ragione, poiché in quel caso sarà per lui arduo esprimersi senza formulare anticipazioni di giudizio. Piuttosto, ove le condizioni (in fatto ed in diritto) del contendere lo consentano, poiché torti e ragioni si dividono fra i due contendenti, egli dovrà (recte: potrà) cercare di trovare quel punto di giuntura che accontenta (o che troppo non scontenta) le parti. Si condivide, quindi, quanto affermato da attenta dottrina processualcivilistica, la quale ha ritenuto che allorché il giudice formuli la proposta, deve «mediare tra le posizioni delle parti e ispirarsi, anche solo per un istante, alla logica dell’aliquid datum et aliquid retentum propria d’ogni amichevole accordo su lite pendente, giudiziale (come la conciliazione) o stragiudiziale (come la transazione) che sia»[16].

    È in questi termini, che a mio sommesso avviso, dovrebbe intendersi il ruolo del giudicante nel neo-introdotto istituto dell’art. 48-bis.1.  

    E, d’altro canto, una conferma, ancora una volta normativa, di tale soluzione parrebbe trarsi dalla circostanza – propria della disciplina fiscale – che il perimetro di applicazione della conciliazione del giudice coincide con quello del reclamo e mediazione (art. 17-bis d.lgs. n. 546/92).

    Si badi, con ciò non si intende sostenere l’identità giuridica dei due istituti, né che il giudice possa qualificarsi quale mediatore “esterno”, ma che, in sede conciliativa, la sua attitudine dovrebbe essere parzialmente diversa da quella usuale e che gli è connaturale per legge. Egli, conscio che la lite non ha certa soluzione unilaterale (a favore del contribuente o dell’Amministrazione), che ragioni e torti possono distribuirsi fra le parti, e che – soprattutto – il suo convincimento è ancora fluido, dovrebbe far prevalere, anche sol per un attimo, l’aninums mediandi sull’aninums decidendi e formulare quindi quella soluzione che, ragionevolmente, gli sembra possa essere accettata da entrambi.

    Quanto ciò sia praticabile non è preconizzabile, poiché attiene né alla norma, né (almeno per il momento) alla prassi, ma alla sensibilità dell’uomo giudice.

    4. Il criterio della «facile e pronta soluzione» nella conciliazione del giudice tributario

    L’aver tracciato il perimetro del ruolo e delle funzioni della corte di giustizia tributaria in sede conciliativa dovrebbe ora consentire di gettar maggior luce sulla vaga formula facile e pronta soluzione, che – come anticipato – sebbene identica a quella contenuta nell’art. 185-bis cod. proc. civ., deve essere adattata alla specificità del rito fiscale.

    Chiarito, allora, che essa (a mio sommesso avviso) non descrive le ipotesi in cui il giudice tributario ha assoluta certezza di come, ed a favore di chi, la lite possa essere integralmente definita, poiché in questi casi il iudex statutor deve prendere il sopravvento (ed amministrare giustizia) e la formulazione della proposta si ridurrebbe inevitabilmente (ed indebitamente) nell’anticipazione del suo giudizio (poiché egli ha già deciso), si dovrebbe riconoscere, quasi paradossalmente, che facilità e prontezza di soluzione attengono ad una lite che è ancora fluida nella mente del giudicante, nel senso che egli non ritiene di essere in possesso di una verità certa, puntuale, ma di una verità suscettibile di composizione[17].

    Si badi, con ciò non si intende dire che il giudice non sa cosa decidere, poiché in tal caso (ed ovviamente) non sarebbe neanche in grado di formulare una (ragionevole) proposta conciliativa, ma che la sua decisione si può muovere all’interno di un intervallo in cui la verità dei fatti (id est: delle ricostruzioni e delle allegazioni di parte) non è né A né B, ma un punto fra A e B che non è suscettibile di immediata e certa individuazione. In questo senso, e solo in questo senso, deve essere intesa la fluidità del decidere.

      La materia tributaria è ricca di siffatte ipotesi. Per voler fare soltanto alcuni esempi, si pensi agli accertamenti induttivi in cui la ricostruzione dell’imponibile, per assenza delle scritture contabili o inattendibilità delle stesse, è basata su elementi presuntivi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza; si pensi all’utilizzo di percentuali di ricarico, di redditività, di stime di settore, ecc.; o agli accertamenti redditometrici, alle ipotesi di ricostruzione delle rimanenze di magazzino ed alla loro incidenza sul costo del venduto, alla determinazione della percentuale di incidenza dei costi sui maggiori ricavi accertati, all’accertamento di maggior ricavi attuato mediante l’utilizzo dei dati di acquisto delle materie prime, percentuali di sfrido, prezzi medi praticati, ecc.

    Si tratta, per lo più di questioni in fatto che evidenziano quel grado di incertezza che è tipico della ricostruzione del fatto fiscale: un accadimento del passato su cui l’Amm. fin. opera delle enunciazioni fattuali, scontando un’inevitabile inferiorità conoscitiva (poiché essa non sa come sono andati i fatti che deve ricostruire) che è la ragione prima del diffuso utilizzo delle presunzioni nella materia tributaria[18].

    E, d’altro canto, il concetto di incertezza è ben noto al legislatore tributario che individua proprio nella «incertezza delle questioni controverse» uno dei criteri che l’amministrazione deve valutare in sede di mediazione, ai sensi dell’art 17-bis, comma 5, d.lgs. n. 546/92; norma, peraltro, espressamente richiamata dal novello art. 48-bis.1 e che può, dunque, influenzarne l’esegesi. 

    Sono queste ipotesi di incertezza sul (indeterminatezza del) fatto che maggiormente sembrano abbisognare della figura di un giudice con funzione conciliativa[19] ed è quindi a tali ipotesi che, in prima battuta, dovrebbe riferirsi il criterio della facile e pronta soluzione nella misura in cui circoscrive il perimetro delle fattispecie suscettibili di conciliazione giudiciale. Ipotesi che certamente rientrano nello spazio di applicazione dell’art. 48-bis.1, opportunamente non limitato dal legislatore fiscale alle questioni in diritto, ma che, per paradosso, non sembrano recare né il requisito della facilità né quello della prontezza di soluzione.

    Come dovremmo intendere allora il criterio di cui si discute?

    A mio sommesso avviso la lite di facile e pronta soluzione è quella in cui il giudice possa ragionevolmente ritenere di comporre una verità processuale all’interno di quell’intervallo di incertezza di cui si è detto. Altrimenti detto, quegli potrà formulare la proposta allorché ritiene che, stante un certo grado di indeterminatezza che impedisce la certezza, si possa comunque addivenire  ad una composizione della lite poiché, sulla base delle allegazioni e delle prove fornite, è ragionevolmente giusto che ciascuna parte possa rinunciare ad una porzione della sua “pretesa” (nel senso sopra indicato); nel far ciò il giudice dovrà altresì, specificare quanta e quale parte della pretesa ciascuna parte dovrà essere disposta a rinunciare.

    Ma non è tutto. Poiché la corte di giustizia tributaria non dovrà limitarsi soltanto a stabilire in che misura sia ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione della sua pretesa, ma dovrà altresì valutare, nel formulare la proposta, in che misura quest’ultima possa essere ragionevolmente accettata dalle parti. E’ in ciò che, probabilmente, si richiede al giudice uno sforzo maggiore, poiché tale modus operandi implica che, per almeno un momento, egli non agisca secondo il suo naturale ed istituzionale habitus di amministratore giustizia ma ponendo innanzi a sé anche valutazioni di economia processuale (che sono tipiche di un mediatore), sforzandosi di conciliare il giusto con l’accettabile. A poco servirebbe, infatti, quantomeno nell’ottica deflattiva che è propria dell’istituto che ne occupa, una proposta che si sa non potrà essere ragionevolmente accettata da una delle parti (a meno che non si ritenga possibile formulare la proposta non perché essa sia accettata, ma per valutare successivamente il comportamento della parte rifiutante, così ricadendo, però nel vizio di anticipazione del giudizio).  

    In sintesi, dunque, lite di facile e pronta soluzione (e quindi la lite suscettibile di proposta giudiciale) dovrebbe essere quella in cui il giudicante, all’interno di un intervallo di incertezza, individua una composizione delle antagoniste pretese ritenendo: (i) che possa essere ragionevolmente giusto che ciascuna parte rinunci ad una porzione delle stesse e (ii) che ciascuna parte possa ragionevolmente accettare la misura della riduzione proposta.   

    Bilanciando siffatte istanze, il giudice non anticiperà la sua decisione, poiché, qualora una o entrambe le parti dovessero non accettare la proposta conciliativa, quegli sarà comunque e sempre libero, nell’emettere sentenza, di muoversi all’interno di quell’intervallo, modificando, re melius perpensa, i propri convincimenti anche in ragione di ciò che le parti addurranno ed allegheranno nel rigettare la sua proposta. Per cui, sino al termine della lite, e cioè sino a quando non depositerà la sua sentenza, il giudicante potrà liberamente formarsi un convincimento diverso rispetto al contenuto della proposta, ritenendo ragionevolmente giuste le osservazioni e le allegazioni di una o di entrambe le parti.

    In ultima analisi, gli aggettivi facile e pronta non dovrebbero essere sinonimo di certezza nella soluzione, ma descrivere quella condizione in cui il giudice riesce a ravvisare una composizione della lite che ritiene ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, salva la possibilità di mutare il proprio intendimento (allorché la proposta non sia accettata) sulla base delle successive allegazioni e argomentazioni di parte. 

    5. Il criterio del «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta conciliativa

    La soluzione prospettata, se condivisa, ci sembra getti luce su quell’altra (eccessivamente generica) formula che è contenuta nel novello comma 2-octies dell’art. 15 del d.lgs. n. 546/92 e cioè quel «giustificato motivo» nel rifiuto della proposta alla cui mancanza è collegato l’aggravio di spese nella misura del cinquanta per cento.

    Letteralmente giustificato motivo (che deve accompagnare il rifiuto) altro non dovrebbe significare se non che la parte rifiutante ritiene la proposta non confacente ai propri interessi e che essa rimane convinta di meglio poterli soddisfare in giudizio. Anche qui par di essere in presenza di una norma “in bianco”, poiché – in assenza di maggiori coordinate di indirizzo – ogni allegazione ed osservazione della parte rifiutante potrebbe, al contempo, essere o meno un giustificato motivo.

    La vaga formula, però, potrebbe ricondursi a concretezza laddove si ritenga che il giudice debba (recte: possa) formulare la proposta conciliativa nelle sopra richiamate ipotesi in cui egli cerca di comporre la lite all’interno di quell’intervallo di incertezza (o incertezza “intervallare”) di cui si è detto, lasciandosi guidare dai criteri della ragionevole giustezza della misura delle rinunce proposte alle parti e della ragionevole accettabilità della proposta da parte delle stesse.

    In questo caso, il “non accettante” (quale che egli sia: parte pubblica o privata) non potrà limitarsi ad addurre che la proposta non si confà ai propri interessi (che ritiene di poter meglio perorare in giudizio), ma dovrà ben spiegare i motivi per cui la porzione di rinuncia alle proprie pretese che il giudice gli prospetta non è ragionevolmente giusta, adducendo e dimostrando altresì che non vi è alcun grado di incertezza “intervallare” nella soluzione della controversia che possa indurlo ad accettare, poiché è assolutamente chiaro dove sta la ragione (evidentemente dalla sua parte) ed il torto (evidentemente dall’altra parte). Si osservi, infatti, che la littera legis sembra consentire alla parte soltanto di “non accettare” la proposta, ma non di “rilanciare” con una proposta modificata (a meno che, poi, nella prassi e nella concreta applicazione dell’istituto si ammetta la possibilità per le parti in udienza di chiedere modifiche alla proposta conciliativa del giudice); per cui la parte che rifiuta dovrebbe in primo luogo sostenere che la lite non è di facile e pronta soluzione (nel senso sopra prospettato) poiché non vi è alcun intervallo di incertezza e dunque la prospettazione della “corte” non può essere ragionevolmente giusta. Il rifiutante, poi, potrebbe rigettare la proposta non perché essa non sia ragionevolmente giusta, ma perché la misura della rinuncia prospettata dal giudice non è ragionevolmente accettabile.

    Peraltro, qualora la corte di giustizia tributaria dovesse ritenere fondate tali doglianze, potrebbe in sentenza adeguarsi (in tutto o in parte) alle stesse, poiché - come detto - se essa utilizza i parametri in questa sede ipotizzati (ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità) non rimane ancorata alla propria proposta, ma ha piena libertà di modificare i propri intendimenti fino al deposito della sentenza.

    Insomma, se si condivide che il criterio della facile e pronta soluzione ricorra quante volte il giudice sia in grado di ipotizzare una composizione della lite utilizzando i canoni del ragionevolmente giusto e del ragionevolmente accettabile, dovrebbe conseguirne un più chiaro significato della locuzione «giustificato motivo». Una volta formulata la proposta, il giustificato motivo nel rifiuto della stessa dovrebbe consistere nel dispiegare convincenti argomentazioni atte a dimostrare che essa non è ragionevolmente giusta o non è ragionevolmente accettabile. Laddove il giudicante riterrà le argomentazioni di parte non convincenti, disporrà l’aggravio di spese a carico del rifiutante.

    6. Il riferimento al comportamento tenuto dalle parti in mediazione come strumento del giudice per valutare il canone della ragionevole accettabilità della proposta conciliativa

    La soluzione dianzi prospettata sembra però prestare il fianco ad almeno una critica puntuale: se la corte di giustizia tributaria, mercé l’analisi delle allegazioni e probazioni di parte, può essere in grado di individuare quel punto di composizione della lite per cui è ragionevolmente giusto che ciascun contendente rinunci ad una porzione delle proprie pretese (in fatto o in diritto), come farà invece a stabilire che la rinuncia richiesta è ragionevolmente accettabile?

    La norma dell’art. 48-bis.1, infatti, non prevede la possibilità per il giudice di “sentire” previamente le parti allo scopo di comprendere se alcuna o entrambe ravvisino alcunché a cui siano disposte a rinunciare, perché lo ritengono accettabile. Certo, potrebbe anche sostenersi che, allorché il proponente (nel nostro caso il giudice) ritenga ragionevolmente giusta la prospettata composizione della lite, possa altresì ritenere ragionevolmente accettabile la rinuncia che detta (giusta) composizione comporta. I due criteri della ragionevole giustezza e ragionevole accettabilità finirebbero così con il compendiarsi. Ma come si è cercato di argomentare nelle pagine precedenti, se si vuol attribuire reale efficacia al nuovo istituto, non può ritenersi soddisfacente che il giudice formuli una proposta “al buio”, anzi lo sforzo maggiore che gli è richiesto dovrebbe consistere proprio nel cercare di comprendere se la proposta che egli formulerà abbia dei margini di accettabilità. Il canone della ragionevole accettabilità, dunque, non dovrebbe compendiarsi con quello della ragionevole giustezza, ma godere di una sua autonomia.

    Ritengo, quindi, che sarebbe stata indubbiamente d’aiuto al gravoso compito del giudice, ed elemento di propulsione della concreta efficacia dell’istituto, la proposta di emendamento 2.36 (del 19 luglio 2022, a firma De Bertoldi, Balboni, Calandrini) al d.d.l. A.S. 2636, che prevedeva la possibilità per il giudice di “esplorare” gli intendimenti delle parti, chiedendo d’ufficio alle stesse di «tentare un accordo conciliativo», prima di formulare la sua proposta (pur sempre limitata a questioni di facile e pronta soluzione). Mercé tale richiesta “d’ufficio”, il giudice avrebbe potuto desumere dal comportamento tenuto dalle parti, non elementi valutabili ai fini del giudizio (come prevede l’art. 420, primo comma, c.p.c., in sede di rito del lavoro), ma informazioni circa il margine di disponibilità delle stesse a conciliare e quindi elementi di valutazione del criterio della ragionevole accettabilità.  

    L’emendamento, tuttavia, non ha avuto buon sorte, per cui si dovrà analizzare la vigente normativa per comprendere se sussistano disposizioni che consentano alla corte di giustizia tributaria di reperire aliunde i necessari elementi di valutazione del canone dell’accettabilità.

    Forse una soluzione si può trovare, ancora una volta, nel richiamo che l’art. 48-bis.1 opera all’art. 17-bis. Le liti conciliabili, come detto, sono quelle “reclamabili”. Orbene, in sede di reclamo il contribuente può prospettare una mediazione, l’Amm. fin. è tenuta ad esaminare il reclamo (e l’eventuale proposta di mediazione) e, ove ritenga di non accoglierlo, deve d’ufficio formulare una propria proposta, avuto riguardo ai ben noti criteri dell’eventuale incertezza delle questioni controverse (già sopra richiamato), del grado di sostenibilità della pretesa e del  principio di economicità dell’azione amministrativa.

    Giova, peraltro, ricordare che, con la stessa legge n. 130 del 2022, il legislatore è intervenuto anche sull’art. 17-bis, introducendovi il comma 9-bis, a mente del quale se il reclamo o la proposta di mediazione (formulata dall’Amm. fin. ai sensi del comma 5) non è accettata e la parte rifiutante risulterà poi soccombente sulla base di una sentenza che accoglierà «le ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione», essa subirà la condanna alle spese. La norma, peraltro, si spinge a statuire che siffatta condanna potrà «rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione». Anche se non è questa la sede per commentare siffatta ulteriore novella, è comunque da ritenere che, d’ora innanzi, le parti (soprattutto quella pubblica) ben mediteranno l’eventuale rifiuto di una proposta di mediazione.  

    Ciò posto, seppur il giudice non gioca alcun ruolo, né può in alcun modo intervenire nella fase della mediazione, può comunque trarre argomenti dal comportamento delle parti, non certo ai fini del decidere, ma ai fini della formulazione della proposta conciliativa, nel senso che la novella “corte” potrà dall’analisi del comportamento dei contendenti stabilire se vi è un margine di rinuncia alla proprie pretese che essi possano considerare ragionevolmente accettabile

    7. Due questioni conclusive

    In conclusione di queste brevi riflessioni, appare opportuno quantomeno accennare a due ulteriori questioni: una specifica, rivolta al novello istituto, e l’altra di sistema.

    La pima questione, quella specifica, attiene ancora una volta al ruolo del giudice nella conciliazione.

    Non può sottacersi, infatti, che allorché venne introdotto l’art. 185-bis nel codice di rito (su cui, come detto, si modella il neo-introdotto art. 48-bis.1 del d.lgs. n. 546/92), la dottrina processualcivilistica ebbe ad osservare che «il cumulo di funzioni facilitative, valutative e aggiudicative a un tempo in capo alla medesima persona, come avviene nell’art. 185 bis c.p.c., non è mai un buon metodo per ricercare un’equa composizione della lite»[20]. Ed, invero, tutte le considerazioni dianzi fatte in ordine al complesso equilibrio che il giudice deve cercare di mantenere nel formulare una proposta conciliativa che sia, al contempo, idonea a suscitare la composizione della lite senza però manifestare anticipazioni del suo giudizio, dimostrano che in effetti il ruolo di conciliatore si addice maggiormente ad un organo “terzo”, diverso dal giudicante. Per cui - probabilmente - la soluzione migliore sarebbe stata quella di ipotizzare la figura di un giudice “conciliatore” esterno al giudizio che avrebbe così goduto di un più ampio margine di manovra senza avere il timore di compromettere la sua imparzialità.

    Soluzione – questa – che pure era stata prospettata con la proposta di emendamento 2.38 all’A.S. 2636 (del 19 luglio 2022, a firma Pittella, Comincini, Mirabelli), che prevedeva di aggiungere dopo l’art. 48-bis.1, il 48-bis.2, a mente del quale le parti avrebbero potuto presentare al giudice una richiesta di apertura di una procedura conciliativa che, se accolta, sarebbe stata «curata da un apposito collegio giudicante» (composto da un presidente magistrato, da un membro designato dell’Amm. fin. e da un membro individuato dal contribuente fra gli avvocati e i commercialisti iscritti in un apposito albo).

    Seppur l’intendimento dell’emendamento era in linea di massima condivisibile, la procedura prevista appariva però troppo complessa ed eccessivamente articolata. La conciliazione dell’apposito collegio giudicante (organo terzo), infatti, non era alternativa a quella del giudice, ma ad essa si cumulava (come detto l’emendamento prevedeva di aggiungere l’art. 48-bis.2 e non di sostituire il 48-bis.1), compromettendo eccessivamente il necessario requisito della celerità del giudizio. D’altro canto è difficile comprendere il motivo per cui, una volta che sia prevista l’apposita figura di un collegio di conciliazione esterno, debba essere mantenuta la funzione conciliativa anche in capo al iudex statutor.

    Meglio sarebbe stato, forse, escludere la figura del “giudicante-conciliatore”, attribuire esclusivamente ad organo terzo la funzione conciliatrice e mantenere soltanto la previsione per cui, laddove la sentenza finale fosse risultata per la parte non accettante più sfavorevole rispetto alla proposta conciliativa, il giudicante avrebbe ad essa addebitato le spese in misura maggiorata.

    La seconda questione attiene al valore-soglia delle liti conciliabili.

    Le riflessioni versate in queste pagine (se condivise) ci convincono che il valore della lite poco ha a che fare con la sua conciliabilità. Un lite di modico valore, infatti, potrebbe non avere alcun grado di incertezza solutoria, essendo immediatamente chiaro chi abbia torto e chi ragione. Di contro una lite di valore elevato potrebbe avere tutte quelle caratteristiche, dianzi individuate, che comportano la necessità per il giudice di cercare una composizione adottando i canoni della ragionevole giustezza e della ragionevole accettabilità.

    La questione, pertanto, si riduce ancora una volta all’individuazione del corretto perimetro delle liti conciliabili.

    Se si ritiene che liti di facile e pronta soluzione siano quelle in cui il giudicante ha ben chiaro dove sta la ragione (anche parziale) e dove il torto (anche parziale), può avere un senso fissare un valore-soglia, poiché l’intendimento del legislatore sarebbe stato esclusivamente quello di concepire un istituto che possa sveltire la soluzione di queste ultime controversie, con esclusivo scopo deflattivo del contenzioso. Altrimenti detto, per le liti di modico valore, o comunque di valore contenuto (entro i cinquantamila euro), l’esigenza di amministrare giustizia cederebbe il passo all’esigenza deflattiva, per cui il giudice, anche se ha chiaro come decidere, può formulare una proposta conciliativa con il solo scopo di indurre la parte che riterrà (in tutto o in parte) soccombente ad accettarla, con l’obiettivo di chiudere la lite quanto prima. Rimane, però, il pesante fardello del vulnus al principio costituzionale d’imparzialità – che non viene certamente meno in ragione del valore contenuto della lite – poiché una siffatta proposta conciliativa suonerebbe più o meno come una vera e propria anticipazione di giudizio.

    Viceversa, se si ritiene, come pensiamo debba farsi, che la conciliazione debba riguardare tutte le liti che presentano le caratteristiche che abbiamo cercato di descrivere in queste pagine (fluidità del decidere, margine di incertezza all’interno di un intervallo che è suscettibile di essere composto mediante una proposta che il giudice considera ragionevolmente giusta e ragionevolmente accettabile, ecc.), il valore della lite non sembra parametro che possa impattare su quelle caratteristiche, per cui la conciliabilità o meno della controversia non dovrebbe dipendere da un valore-soglia.

    Invero, mutatis mutandis, analoghe considerazioni potrebbero farsi per l’istituto della mediazione, soprattutto in ragione del collegamento che il legislatore del 2022 ha creato fra la novella conciliazione del giudice e (l’ormai tradizionale) istituto del reclamo-mediazione. Considerazioni che, però, non attengono all’oggetto del presente contributo e che si rimandano pertanto ad ulteriori riflessioni.    

                                                                                  

    [1] Di «storica introduzione di una magistratura tributaria di ruolo costituita da giudici a tempo pieno» parla M. BASILAVECCHIA, Riforma del processo tributario. Adesso ci siamo! (quasi)…, in IPSOA Quotidiano, 3 settembre 2022. Con toni fortemente critici avverso il disegno di legge di riforma si era invece espresso C. GLENDI, Riforma della giustizia tributaria. PNRR a rischio?, in Ipsoa Quotidiano, 4 giugno 2022, definendolo come «mini controriforma» con un contenuto che «risulta improntato, nell’insieme, in una proiezione di stampo ideologicamente verticistico ed autoritaristico, se non addirittura, vagamente totalitaristico e illiberale o, comunque, nient’affatto democratico». 

    [2] G. MELIS, Il d.d.l. “Disposizioni in materia di giustizia e processo tributari”: una giustizia tributaria sull’orlo del precipizio, in questa rivista, 30 giugno 2022, definisce il d.d.l. AS 2636 (sostanzialmente recepito nella legge n. 130 del 2022) come «una riforma “ordinamentale” con talune innovazioni processuali». Anche A. GIOVANARDI, La riforma della giustizia tributaria nel disegno di legge di iniziativa governativa AS/2636: decisivo passo in avanti o disastrosa iattura?, in Riv. telematica di dir. trib., 8 luglio 2022, definisce il d.d.l. in questione come una «riforma ordinamentale» che contiene la «riscrittura di alcune regole del processo». Sulle innovazioni in tema di prova apportate dalle riforma si veda S. MULEO, Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in questa rivista, 20 settembre 2022.

    [3] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator: proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., precognizione e ricusazione del giudice, in Riv. dir. proc., 2015, 983 ss.

    [4] Sul tema la letteratura tributaria è ricchissima e non è possibile, in questa sede, indicarla compiutamente. Si richiamano, dunque, due recenti interventi in materia, rimandando all’amplia bibliografia ivi citata. In particolare si veda C. GLENDI, La “speciale” specialità della giurisdizione tributaria, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele (a cura di A. Guidara), Torino, 2021, 424 ss.; A. GUIDARA, Gli “oggetti” del processo tributario, in Specialità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele cit., 436 ss.

    [5] Così A. TEDOLDI, Iudex statutor et iudex mediator cit., 985.

    [6] Proprio in ragione ciò è da ritenere che il nuovo art. 48-bis.1 avrà un notevole impatto sulla vexata quaestio (che in questa sede non può essere esaminata) della natura giuridica della conciliazione in ambito fiscale e dei suoi rapporti con il principio di indisponibilità del tributo. Per un essenziale riferimento a tale questione si veda G. CORASANITI, Mediazione e conciliazione nel processo tributario: lo stato dell’arte e le prospettive di riforma, in Dir. prat. trib., n. 3/2020, 965 ss., e la bibliografia ivi richiamata.   

    [7] Sul tema dei rapporti fra imparzialità del giudice e conciliazione giudiziale nel rito civile, senza alcuna pretesa di esaustività, si veda V. CAVALLONE, «Un frivolo amor proprio». Precognizione e imparzialità del giudice civile, in Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, Milano 2005, 45 ss; L. BREGGIA, Il tentativo di conciliazione e l’imparzialità del giudice, in Giur. merito, 2008, 571 ss.; A. TEDOLDI, op. cit., 987 ss.

    [8] Per qualche essenziale riferimento al tema nella dottrina processualcivilistica, si veda F. FERRARI, sub art. 185 bis, in Consolo (diretto da), C.p.c. commentato, I, Milano, 2013; P. BONETTI, Nuovi orizzonti applicativi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. dopo l’introduzione della conciliazione giudiziale ex art. 185 bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 1047 ss.; A. TEDOLDI, op. e loco cit. Si vedano anche i riferimenti bibliografici della nota precedente.

    [9] Il tema è ampiamente trattato da A. TEDOLDI, op. cit. 983 ss.

    [10] Cfr. A. TEDOLDI, op. cit. 990 ss. ed i richiami bibliografici ivi citati.

    [11] Come osserva A. TEDOLDI, op. cit., 994, «[i]n ogni caso, la “precognizione” impediente un secondo giudizio, come gli altri motivi di astensione obbligatoria e di ricusazione, nasce di regola ab extra rispetto al singolo processo assegnato a quel giudice-persona, per aver egli conosciuto aliunde del thema decidendum sottoposto al suo giudizio, in una delle molteplici vesti che il n. 4 dell’art. 51 c.p.c. individua, nel solco di ultrasecolare tradizione».

    [12] A riguardo, la dottrina processualcivilistica ha chiarito che il divieto di «precognizione» ha la medesima ratio ispiratrice del divieto di scienza privata. In tal senso V. CAVALLONE, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in Riv. dir. proc. 2009, 861 ss.

    [13] Cfr. ancora TEDOLDI, op. cit., 994, il quale osserva che «[l]a cognizione acquisita all’interno del processo, di regola, non può esser causa di astensione o di ricusazione, salvo che il giudice, abusando dei proprii poteri, non abbia manifestato un anomalo pregiudizio verso una parte, tale da far sorgere in questa un fondato timore di prevenzione […]».

    [14] Come osserva F. CIPRIANI, Come si istruisce senza conoscere e come si giudica senza istruire (l’istruttore, il collegio e le sezioni distaccate di tribunale), in Foro it. 1999, I, 3376 ss., «non vi è ostacolo, anzi è perfettamente logico, che il giudice il quale ha pronunziato nella causa un provvedimento preparatorio o di istruzione, o una sentenza interlocutoria, conosca anche delle questioni incidentali successive e del merito; poiché la pronunzia dei detti provvedimenti è parte di attuazione di quel potere giurisdizionale che a lui compete di esercitare sulla controversia; e quand’anche il contenuto del provvedimento anteriore vincoli il giudizio, in tutto o in parte, ciò avviene per conseguenza legale e naturale dell’esercizio della funzione giudiziaria e non può dar luogo a ricusazione».

    [15] Sul punto cfr. C. GLENDI, La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario riformato (articolo 47 del d.lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari), in dir. prat. trib., 1999, I, 99 ss.

    [16] Così A. TEDOLDI, op. cit., 985.

    [17] Su queste tematiche, quanto alla dottrina tributaria, il riferimento non può che correre a M. VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007; ID. Contributo allo studio dell’attuazione consensuale della norma tributaria, Perugia, 1996; Id., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001.

    [18] Su questi temi sia consentito il riferimento ad A. PERRONE, Fatto fiscale e fatto penale: parallelismi e convergenze, Bari, 2012.

    [19] Con ciò non si intende sostenere che, nel rito tributario, l’istituto in commento sia applicabile alle sole questioni in fatto, ma che esse, proprio in ragione delle modalità di ricostruzione del fatto fiscale, sono quelle che maggiormente si prestano all’applicazione della conciliazione del giudice. 

    [20] Così A. TEDOLDI, op. cit., 988.

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