GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La motivazione della cartella di pagamento sugli interessi e il valore dell’effettività giuridica

    La motivazione della cartella di pagamento sugli interessi e il valore dell’effettività giuridica

    di Rossella Miceli 

    Sommario: 1. Premessa - 2. La motivazione della cartella di pagamento nella fase di riscossione coattiva dei tributi - 3. Il calcolo degli interessi nella procedura di riscossione tributaria - 4. Gli orientamenti contrastanti della giurisprudenza di legittimità sull’obbligo di motivazione della cartella applicato agli interessi - 5. Le questioni poste dalla pronuncia in commento - 6. La necessità di una interpretazione conforme al principio di effettività da parte delle Sezioni Unite - 7. La motivazione degli interessi nel caso di specie - 8. Conclusioni.

    1. Premessa

    Con l’ordinanza n. 31960 del 5 novembre 2021, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ha rimesso al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, una questione di massimo rilievo nella fase di attuazione del tributo, rappresentata dall’obbligo di motivazione della cartella di pagamento in relazione al calcolo degli interessi richiesti per il ritardato adempimento dei tributi.

    La questione si inserisce nel solco del più ampio dibattito inerente all’ampiezza dell’obbligo motivazionale, notoriamente fondato sul combinato disposto degli artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), nell’ambito degli atti amministrativi afferenti alla procedura di riscossione coattiva dei tributi[1].

    La peculiarità della cartella di pagamento, quale atto prodromico all’esecuzione coattiva tributaria, pone infatti peculiari problematiche di tutela per il contribuente che ne è destinatario, il quale dovrebbe trarre da tale atto sufficienti elementi utili ad apprezzare il contenuto della richiesta avanzata dall’Agente della riscossione, così da paralizzare ex ante, ove rilevi conclamati profili di illegittimità, la successiva procedura esecutiva, potenzialmente lesiva della sua sfera patrimoniale[2].

    Nel caso di specie, la vicenda processuale in esame trae origine da una cartella esattoriale notificata a tre contribuenti, coobbligati solidali, avente ad oggetto la richiesta di pagamento di una somma a titolo di imposta di registro, ipotecaria e catastale, nonché dei relativi interessi di mora e di ritardato pagamento, in forza di una sentenza passata giudicato per sopravvenuta revoca di una agevolazione fiscale risalente al 1980.

    In particolare, i contribuenti rilevavano un grave vizio motivazionale nella cartella impugnata poiché questa procedeva a quantificare la somma dovuta a titolo di interessi omettendo qualsivoglia spiegazione in ordine alle modalità di calcolo adottate.

    L’eccezione sollevata dai ricorrenti veniva disattesa dai giudici di merito, così ponendo la Suprema Corte nella condizione di dover risolvere una questione di grande delicatezza sistematica, espressione della persistente tensione dialettica tra fondamentali principi dell’ordinamento tributario, consacrati agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Carta Costituzionale[3].

    Invero, la motivazione della cartella di pagamento e, più in generale, di ogni atto emesso dall’Amministrazione finanziaria, deve assicurare la difesa contribuente e, contestualmente, garantire la celerità e la trasparenza della funzione impositiva, rifuggendo da schemi argomentativi ridondanti o pletorici.

    Facendo chiarezza sui contrapposti orientamenti giurisprudenziali sorti sul tema, posti alla base della ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite qui in esame, il presente contributo vuole indagare in ordine all’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento, con specifico riferimento alle modalità di calcolo degli interessi ivi recati, tentando di suggerire la soluzione interpretativa che, alla luce dei rilevanti valori assiologici in gioco, appare connotata da un maggiore rigore sistematico.

    2. La motivazione della cartella di pagamento nella fase di riscossione coattiva dei tributi

    Al fine di porre nella corretta prospettiva il contrasto giurisprudenziale oggetto della pronuncia in commento, si rende opportuno soffermarsi sui due temi che si trovano al centro della stessa: la motivazione della cartella di pagamento e la determinazione degli interessi di mora per i tributi iscritti a ruolo.

    In relazione al primo profilo si evidenza che l’obbligo motivazionale degli atti amministrativi tributari, rinvenibile nei citati artt. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, involge direttamente anche la cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione[4].

    Ciò discende dalla funzione di questo obbligo che, da un lato, impone all’Amministrazione finanziaria di palesare le ragioni che hanno condotto alla emissione dell’atto (sia esso afferente alla fase di accertamento o di riscossione), consentendo - in tal modo - al contribuente di esercitare il suo diritto di difesa e, dall’altro lato, funge da parametro di legittimità volto a giustificare la fondatezza sostanziale della pretesa avanzata, in relazione ai profili dell’an e del quantum debeatur,[5].

    Va però precisato che, con riferimento alla cartella di pagamento, l’obbligo motivazionale deve essere debitamente graduato, valorizzandone la funzione espressa in seno alla fase di attuazione del tributo.

    Più precisamente, come noto, la cartella di pagamento può talvolta valere quale atto impositivo in senso sostanziale, assimilabile ad un ordinario atto di accertamento (si pensi, a titolo di esempio, alla cartella di pagamento emessa nell’ambito della procedura di accertamento automatizzato ai sensi dell’art. 36 bis del d.p.r. n. 600/1973) ovvero, in alternativa, quale atto meramente liquidatorio, avente duplice natura di comunicazione dell’estratto di ruolo e di intimazione ad adempiere, corrispondente al titolo esecutivo e al precetto del rito esecutivo ordinario[6].

    Nel primo caso, pare evidente, si tratta dell’unico atto, notificato dall’Amministrazione finanziaria, a mezzo del quale il contribuente apprende dell’esistenza di una pretesa impositiva avanzata nei suoi confronti, non essendo mai stato emesso, in precedenza, un avviso di accertamento.

    In questa prospettiva, la cartella di pagamento manifesta, su di un piano ontologico, la natura di atto impositivo in senso sostanziale, la quale richiede una motivazione completa ed esaustiva, dovendo rendere note al contribuente – conformemente a quanto disposto dall’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212 – tutte le parti della pretesa (oggetto, contenuto e destinatari) che ne permettono di apprezzarne la legittimità e valutare, di riflesso, le chances difensive eventualmente esperibili[7].

    Di converso, ove la cartella di pagamento svolga la funzione precipua di avviare la fase di riscossione coattiva dei tributi in quanto già preceduta dalla notifica di un atto impositivo, l’ampiezza dell’obbligo motivazione risulterà circoscritto, come peraltro desumibile dagli artt. 12, comma 3, e 25 del d.p.r. n. 602/1973, agli elementi “propri” dell’atto, rappresentati dalla esposizione del ruolo, del titolo costitutivo della pretesa, dell’entità del debito fiscale nonché della relativa ripartizione degli importi (quota di imposte, sanzioni ed interessi), così dando luogo ad una sorta di motivazione per relationem[8] rispetto agli altri profili in rilievo.

    In tale circostanza, tuttavia, se è pacifico che la motivazione della cartella di pagamento non dovrà avere una ampiezza tale da ripercorrere l’iter logico-giuridico che ha condotto l’Amministrazione finanziaria ad avanzare la pretesa fiscale ivi recata, essendo tale funzione già stata svolta dalla motivazione dell’atto presupposto, è altrettanto certo che essa dovrà veicolare informazioni sufficienti per valutare la fondatezza sostanziale del credito vantato dal Fisco e del suo ammontare, soprattutto ove siano sopravvenuti elementi nuovi, non esposti nell’atto previamente notificato, ed in grado di incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente.

    Si tratta, in sostanza, di adeguare l’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo (nel caso di specie, la cartella esattoriale) al grado di effettiva conoscenza che il contribuente possiede rispetto ai vari elementi che vanno a comporre il credito vantato dal Fisco.

    3. Il calcolo degli interessi nella procedura di riscossione tributaria

    La questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite impone, quale secondo passaggio logico, un cenno alle modalità di determinazione degli interessi correlati alle somme iscritte a ruolo nella materia tributaria.

    A questo proposito, si intende non già fornire una rappresentazione esaustiva delle problematiche sottese al calcolo degli interessi, che esula dalle finalità del presente contributo, quanto evidenziare, in poche battute, la profonda disorganicità del panorama normativo ad oggi vigente.

    Invero, ai sensi dell’art. 1224 c.c., l’obbligazione di interessi è una obbligazione accessoria a quella principale, fungendo da risarcimento per il mancato pagamento di una somma di denaro, rappresentata – per ciò che interessa ai presenti fini – dal maggior tributo da corrispondere al Fisco[9]. Sennonché, a fronte di una rigorosa disciplina di diritto civile, segue una normativa estremamente frammentata sul versante tributario, variabile in relazione alla diversa tipologia di tributo, alla fase del procedimento di accertamento o riscossione, ovvero alla tipologia di adempimento (spontaneo o coattivo)[10].

    Circoscrivendo l’attenzione alle principali regole in tema di calcolo degli interessi nella procedura di riscossione coattiva dei tributi, si evidenzia che le norme di riferimento sono rinvenibili negli artt. 20 e 30 del d.p.r. n. 600/1973, per le imposte dirette, e nell’art. 55 del d.p.r. n. 131/1986 (TUR), per le imposte sui trasferimenti di ricchezza (imposta di registro, imposte ipocatastali e imposta di successione e donazione).

    Le principali difficoltà ricostruttive nell’ambito delle imposte dirette sono riconducibili alla farraginosa disciplina di aggiornamento dei tassi di interesse nel corso del tempo, la quale risulta non facilmente accessibile da parte del contribuente.

    Basti pensare, nell’ambito del d.p.r. n. 602/1973, che l’art. 20, sugli interessi di mora relativi alle maggiori imposte dovute in base a liquidazione formale, controllo e accertamento operati dall’Ufficio, e l’art. 30, sugli interessi relativi a somme iscritte a ruolo, prevedono che il quantum esigibile vada determinato, avendo riguardo alla media dei tassi bancari attivi, sulla scorta delle diverse aliquote definite periodicamente da decreti del Ministero dell’Economia e delle finanze, tenendo conto dei diversi termini di decorrenza temporale rilevanti nei singoli casi di specie[11].

    Parimenti, con riferimento alle imposte sui trasferimenti di ricchezza, che rilevano nella fattispecie oggetto della sentenza qui annotata, l’art. 55, comma quarto, TUR dispone che, per la determinazione degli interessi, debbano applicarsi le disposizioni di cui alla L. 26 gennaio 1961, n. 29, L. 28 marzo 1962, n. 147 e L. 18 aprile 1978, n. 130.

    Soprassedendo sulla opportunità della tecnica normativa prescelta - che rimanda ad una complessa serie di rinvii normativi l’individuazione della disciplina concretamente applicabile - si evidenzia che, in forza dell’art.1 della L. 26 gennaio 1961, n. 29, gli interessi di mora sono fissati nella misura del 2,5% per ogni semestre compiuto. A seguito delle modifiche apportate al predetto testo normativo dalla L. 30 dicembre 1993, n. 557 e dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, che ne hanno permesso l’emendabilità ad opera di atti amministrativi, il tasso d’interesse relativo al ritardato pagamento dell’imposta di registro dovrebbe essere invece determinato conformemente al D.M. 21 maggio 2009 che, all’art. 6, comma 2, lett. b), stabilisce un tasso al 3,5% annuo.

    Il tema si complica poi ulteriormente se si presta attenzione ai termini di decorrenza degli interessi relativi alle imposte sui trasferimenti di ricchezza atteso che, dalla lettura delle disposizioni sopra richiamate e dal coordinamento di queste con il D.M. 21 maggio 2009, emerge una tipica fattispecie di superfetazione normativa, risolvibile solo distinguendo il lasso temporale di decorrenza in ragione della natura principale, complementare o suppletiva dell’imposta da corrispondere al Fisco[12].

    In definitiva, il quadro che emerge dalla precedente ricostruzione appare segnato da una disciplina disorganica e frammentata che, evidentemente, risulta del tutto inidonea a porre il contribuente nella condizione di comprendere, con sufficiente grado di consapevolezza, il calcolo degli interessi eseguito dall’Amministrazione finanziaria.

    Il debitore, dopo aver distinto tra interessi di mora ovvero interessi da ritardato pagamento in ragione della tipologia di tributo, dovrebbe infatti identificare da sé la tecnica aritmetica di calcolo adottata nel caso di specie nonché individuare il dies a quo e la base imponibile del tasso di interesse, affidandosi a molteplici fonti normative e regolamentari, più volte mutate negli anni e connotate da frequenti rinvii ad altri provvedimenti legislativi.

    4. Gli orientamenti contrastanti della giurisprudenza di legittimità sull’obbligo di motivazione della cartella applicato agli interessi

    La Suprema Corte, negli anni, è stata a più riprese chiamata a pronunciarsi sull’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella esattoriale notificata al contribuente, in relazione alle modalità di calcolo degli interessi maturati sulle somme iscritte a ruolo.

    La giurisprudenza di legittimità, come noto, non è tuttavia pervenuta ad una linea interpretativa comune e condivisa, tale da definire in maniera netta il perimetro del citato obbligo.

    Le numerose pronunce che si registrano sul tema - ora disconoscendo la necessità di una puntuale esplicitazione del criterio di calcolo adottato, essendo quest’ultimo rigidamente stabilito dalla legge, ora valorizzando il diritto di difesa del contribuente e l’imprescindibilità di una motivazione completa in relazione ai vari elementi accessori al tributo – danno luogo a ricostruzioni antitetiche e difficilmente conciliabili, tradendo una diversa sensibilità giuridica nella percezione dei valori costituzionali in gioco.

    Invero, secondo un primo indirizzo, fautore di una interpretazione restrittiva dell’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, la determinazione degli interessi sulle somme iscritte a ruolo non soggiacerebbe ad alcuno stringente obbligo motivazionale giacché non sarebbero rinvenibili elementi fattuali o giuridici, diversi da meri calcoli matematici, da dover essere esplicitati al contribuente[13].

    In specie, l’elemento che i giudici di legittimità hanno ritenuto fondamentale per accedere a tale ricostruzione ermeneutica è rappresentato dalla predeterminazione legislativa delle modalità di calcolo degli interessi, come enucleata nel d.p.r. n. 602/1973 (o nell’art. 55 TUR), tale da escludere, alla radice, ogni forma discrezionale di valutazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

    La determinazione degli interessi sarebbe frutto di un procedimento automatico (più precisamente, aritmetico) e, in quanto tale, l’obbligo di motivazione risulterebbe assolto in re ipsa, mediante il rinvio alle varie norme di legge o alle fonti secondarie che disciplinano, nella fase di riscossione tributaria, gli interessi di mora o da ritardato pagamento[14].

    In questa prospettiva, è sufficiente che la base imponibile su cui applicare il tasso di interesse sia già nota al contribuente, essendo ogni altro elemento dell’operazione matematica già preordinato a monte dalla legge.

    Tale linea interpretativa è stata principalmente sostenuta in relazione a fattispecie nelle quali gli interessi erano calcolati nell’ambito di una attività di liquidazione dell’imposta, eseguita in sede di controllo automatizzato ai sensi dell’art. 36 bis del d.p.r. n. 600/1973, e quindi fondata su dati ed informazioni esposti nella dichiarazione dei redditi da parte del contribuente medesimo. Quest’ultimo si sarebbe così trovato nella condizione di poter immediatamente applicare i tassi d’interessi previsti dalla legge alle somme indicate in dichiarazione, senza necessità di ulteriori specifiche indicazioni, che sarebbero risultate ridondanti[15].

    L’orientamento esaminato mostra di prediligere una interpretazione formalistica dell’obbligo di motivazione, secondo un approccio che attribuisce rilievo non già alla concreta comprensione delle modalità di calcolo adottate nella fattispecie concreta, quanto alla loro potenziale ed astratta conoscibilità in forza di legge[16].

    Su di un piano opposto si colloca altra giurisprudenza di legittimità, per la quale l’obbligo motivazionale deve assumere maggiore effettività, dovendo sempre porre il contribuente nella condizione di pervenire ad una conoscenza non meramente teorica, ma reale, circa il metodo di calcolo applicato per la determinazione degli interessi e, quindi, circa la bontà del credito complessivo fatto valere dal Fisco nella cartella di pagamento[17].

    Non a caso, l’orientamento di cui si discute è sorto in relazione a talune fattispecie in cui il contribuente, soccombente nel giudizio tributario avente ad oggetto l’impugnazione di un atto impositivo, era poi risultato destinatario di una cartella esattoriale, emessa in forza della sentenza passata in giudicato.

    Tale cartella, evidentemente, recava un credito fiscale più ampio di quello esposto nell’atto impositivo, giacché l’Agente della riscossione aveva provveduto a computarvi anche gli interessi medio tempore maturati, nonché altre voci di costo (si pensi all’aggio da riscossione), non quantificati in sede di accertamento[18].

    Pertanto, l’obbligo motivazionale di cui all’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, volto a rendere trasparente l’agire amministrativo nonché a stimolare la difesa del contribuente, doveva ritenersi rispettato solo ove quest’ultimo fosse stato posto nella condizione di ripercorrere in maniera puntuale il metodo seguito dal Fisco nella determinazione dei maggiori importi richiesti, illustrando le modalità di calcolo, la provenienza e la percentuale del tasso applicato, nonché la decorrenza temporale degli interessi.

    Invero, sebbene sia innegabile che il contribuente possa astrattamente ricostruire i calcoli eseguiti dall’Amministrazione finanziaria, è altrettanto vero che sul piano materiale ciò si tradurrebbe in una defatigante operazione che, contraria ai principi di trasparenza dell’agire amministrativo, condurrebbe quest’ultimo a ricercare aliunde elementi che dovrebbero essere invece già presenti nell’intimazione ad adempiere.

    Ne consegue che le sentenze di legittimità aderenti a quest’ultimo orientamento paiono offrire una interpretazione del citato art. 7 in termini nettamente più garantisti e favorevoli al contribuente, non potendosi ritenersi soddisfacente un impianto motivazionale che, ineccepibile nella forma, si riveli del tutto inadeguato, nella sostanza, a veicolare le informazioni di cui il debitore necessità per valutare la legittimità del credito vantato dal Fisco.

    In definitiva, si ritiene che le considerazioni precedenti permettano di pervenire ad un unico punto fermo. A distanza di oltre venti anni dalla introduzione dello Statuto dei diritti del contribuente, il perimetro dell’obbligo di motivazione, punto di convergenza tra valori assiologici contrapposti dell’ordinamento tributario, mostra contorni ancora indefiniti ed esposti alle diverse sensibilità degli interpreti.

    5. Le questioni poste dalla pronuncia in commento

    La pronuncia annotata si pone esattamente al centro del contrasto giurisprudenziale dinanzi illustrato atteso che la Suprema Corte è stata chiamata a decidere sulla legittimità di una cartella di pagamento priva di motivazione in relazione agli interessi richiesti ai contribuenti.

    Si è già detto che i contribuenti erano stati destinatari di un avviso di liquidazione con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva revocato un’agevolazione fiscale legata alla piccola proprietà contadina, di cui alla L. 6 agosto 1954, n. 604, fruita nel 1980, in costanza di un rogito notarile avente ad oggetto la compravendita di un terreno.

    La vicenda processuale, conclusasi sfavorevolmente per i contribuenti nell’anno 2009, conduceva alla successiva emissione di una cartella di pagamento da parte dell’Agente della riscossione.

    Tale cartella, in relazione agli interessi richiesti ai sensi dell’art. 55 TUR, non recava, tuttavia, alcun prospetto volto a ricostruire il percorso seguito dal Fisco per la determinazione dell’importo esposto nell’atto.

    I contribuenti, impugnando la cartella di pagamento, rilevavano così la violazione degli artt. 24 Cost. e 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, ritenendo di fatto impossibile ricostruire i calcoli compiuti dall’Ufficio nella quantificazione delle somme richieste a titolo di interessi nell’arco di tempo di oltre quarant’anni[19].

    I giudici di merito sceglievano tuttavia di aderire all’orientamento giurisprudenziale meno garantista, ritenendo sufficiente che la motivazione della cartella rinviasse all’avviso di liquidazione e all’atto notarile presentato per la registrazione. Nella prospettiva di tali giudici, invero, l’impianto motivazionale non avrebbe necessitato di alcun dettaglio in ordine alle modalità di calcolo degli interessi giacché la predeterminazione degli stessi ad opera del legislatore (nel caso di specie, dall’art. 55 TUR) avrebbe permesso ai contribuenti, in ogni circostanza, di eseguire i relativi conteggi aritmetici, così da verificarne la correttezza.

    La risoluzione della controversia veniva pertanto affidata ad una interpretazione meramente formalistica dell’obbligo di motivazione, sul presupposto che tutti i fattori determinanti per il calcolo degli interessi si sarebbero già trovati nella sfera astratta di conoscibilità dei contribuenti.

    La Suprema Corte, anziché avallare la ricostruzione proposta nella sentenza impugnata, ha correttamente colto l’occasione per riflettere sull’ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento in relazione al calcolo degli interessi, riconoscendo l’esistenza di un acceso contrasto giurisprudenziale sul tema, da doversi risolvere in un orizzonte di nomofilachia.

    In questa prospettiva possono, pertanto, essere avanzate talune importanti considerazioni di sistema.

    6. La necessità di una interpretazione conforme al principio di effettività da parte delle Sezioni Unite

    La risoluzione della querelle giurisprudenziale, rilevata dalla ordinanza in commento, impone di attuare una riflessione sui valori assiologici che permeano l’attività amministrativa tributaria e che vedono nell’obbligo di motivazione un canone imprescindibile di civiltà giuridica.

    Invero, la motivazione dell’atto idoneo ad incidere sulla sfera dei destinatari è stato un tema da sempre avvertito come coessenziale allo sviluppo del moderno modello di ordinamento fiscale, in cui l’agire amministrativo deve essere improntato ad un massimo grado di trasparenza, così da permetterne il controllo da parte del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria[20].

    L’impianto motivazionale dell’atto deve consentire al contribuente di comprendere, in punto di fatto e di diritto, se l’esercizio della potestà pubblica sia rispondente allo schema normativo che la definisce, non essendo tollerabile che il Fisco agisca, violando i parametri costituzionali, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., oltre il perimetro concesso dalla legge.

    Sulla scorta di queste considerazioni, la funzione cruciale svolta dalla motivazione è quella di esplicitare e rendere intelligibili all’esterno gli elementi tecnici e sostanziali che hanno condotto alla formazione del credito vantato dal Fisco, così da agevolare l’interpretazione dell’atto e permetterne, contestualmente, l’eventuale sindacato in sede processuale.

    Mettendo a fuoco il fatto che la motivazione funge da parametro di legittimità dell’atto, consegue che tale funzione potrà essere espletata solo ove il suo contenuto sia effettivamente idoneo ad esprimere le informazioni di cui il contribuente necessita e, quindi, a tutelare la pluralità di interessi in gioco.

    L’intelligibilità del credito fiscale espresso nell’atto - sia esso un avviso di accertamento o una cartella di pagamento - assume così una valenza assorbente atteso che la motivazione può ritenersi esistente, e quindi adeguata allo scopo assegnatole dalla legge, solo ove sia in grado di porre nella sfera di conoscenza del soggetto passivo, non in astratto ma in concreto, tutti gli elementi necessari per vagliare la correttezza della prestazione patrimoniale cui deve adempiere.

    Si ritiene che l’obbligo di motivazione debba, quindi, essere ancorato ad un criterio di effettività giuridica[21], dovendosi rigettare ogni diversa interpretazione, meramente formalistica e di facciata.

    L’effettività costituisce un canone generale dell’ordinamento che impone una adeguatezza sostanziale di ogni disciplina agli interessi cui è preposta, determinando la necessaria valutazione di tutti i valori che sottendono ad ogni istituto giuridico.

    In tal senso la motivazione deve essere effettiva e, come tale, rispondere ai principi generali ed ai valori di fondo che hanno presieduto la sua introduzione e che la governano la sua funzione.

    Applicando queste considerazioni al caso posto all’attenzione delle Sezioni Unite, è necessario chiedersi se, alla luce del quadro normativo vigente, il contribuente possa realmente ricostruire da sé il quantum di interessi che l’Amministrazione finanziaria è legittimata a pretendere, ovvero se tale operazione, sebbene astrattamente possibile su di un piano teorico, si riveli poi irrealizzabile sul piano pratico, per ineliminabili complessità tecniche.

    Si ritiene che la motivazione relativa ad interessi di mora o di ritardato pagamento nella cartella di pagamento, in ragione dell’elevato tecnicismo della materia e della sedimentazione di plurime fonti normative e regolamentari nel tempo, non possa, quale regola generale, ridursi alla mera indicazione dell’importo totale dovuto dal contribuente, soprassedendo alla analitica indicazione degli elementi costitutivi di tale credito (giorni, tassi d’interesse, base imponibile, aliquote, etc.).

    Invero, sulla scorta dei principi che si sono dinanzi richiamati, è irragionevole ritenere che il contribuente abbia la capacità, in via autonoma, di ripercorrere i calcoli aritmetici posti in essere dall’Amministrazione finanziaria – la quale, preme evidenziare, si avvale allo scopo di appositi software – così da poter appurare la legittimità della pretesa fatta valere dal Fisco.

    In questa prospettiva, la necessità di un obbligo motivazionale effettivo e sostanziale per la determinazione delle somme pretese a titolo di interessi appare imprescindibile in ogni caso, tanto ove la cartella esattoriale sia motivata per relationem, come nel caso dell’accertamento ex art. 36 bis, quanto ove essa giunga all’esito di una vicenda più complessa, venendo ad esempio emessa in forza di una sentenza passata in giudicato.

    In tale ultima fattispecie, la necessità di una motivazione adeguata appare ancor più evidente se sol si pensa che la cartella di pagamento potrebbe richiedere, per la prima volta, delle somme a titolo di interesse, di cui il contribuente non poteva ovviamente avere contezza nelle precedenti fasi amministrative o processuali che lo hanno coinvolto.

    In tale circostanza, la quantificazione dell’importo può risultare ostico o financo impossibile, in specie ove il debito fiscale, da cui gli interessi traggono origine, afferisca ad un periodo d’imposta risalente nel tempo.

    In sostanza, a fronte della alternativa posta all’attenzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la soluzione che si impone è quella di sancire un l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare una motivazione della cartella di pagamento completa ed esaustiva in relazione ad ogni elemento del credito fiscale che possa risultare, per plurime ragioni, di difficile o impossibile comprensione per il soggetto debitore.

    Appare invece lesiva dei principi costituzionali consacrati agli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost., la condotta dell’Amministrazione finanziaria che, lungi dal mostrarsi trasparente, preferisca celare le modalità di calcolo degli interessi dietro ad una astratta possibilità di conoscenza allorquando, in punto di fatto, sia del tutto pacifico che il contribuente non si trovi nelle condizioni di poter da sé provvedere, agevolmente, a tale ricostruzione. 

    7. La motivazione degli interessi nel caso di specie

    Si ritiene che la cartella esattoriale oggetto della pronuncia annotata non possa ritenersi rispettosa dei principi enunciati e dovrebbe pertanto essere annullata giacché, a fronte della facilità con cui il Fisco potrebbe esplicitare i calcoli alla base delle somme richieste, non corrisponde una analoga e simmetrica condizione dei contribuenti percossi.

    Invero, gli interessi recati dalla cartella esattoriale impugnata mostrano una natura composita, ai sensi del combinato disposto dell’art. 55 TUR e della L. 26 gennaio 1961, n. 29, essendo costituiti sia da interessi di mora che da interessi da ritardo pagamento, rispetto ai quali sussistono differenti tassi applicabili alla base imponibile da corrispondere al Fisco nonché diverse regole per l’individuazione del relativo dies a quo.

    Tali interessi, peraltro, sono maturati in un lasso temporale assai divaricato – dal 1980 al 2009 – con la conseguenza di essere variamente determinabili in ragione delle aliquote applicabili in ciascun periodo (dalla registrazione della compravendita sino alla notifica della cartella di pagamento) [22].

    Stante il tempo trascorso, gli interessi pretesi dal Fisco risultano poi di importo ben superiore ai tributi dovuti, con la conseguenza che il credito vantato è composto, per un importo considerevole, da somme che non si trovano esposte o giustificate in alcun atto pregresso posto nella sfera di conoscibilità del contribuente, essendo maturate ex post.

    Se è quindi vero che la cartella esattoriale presenta una motivazione dai contenuti variabili in ragione delle circostanze in cui essa viene emessa, è altrettanto certo che tale elasticità non sia tale da elidere la rappresentazione del metodo di calcolo degli interessi, ponendo in capo al contribuente l’onere di ricostruire una componente essenziale del credito vantato.  

    Le considerazioni che precedono permettono così di mettere debitamente a fuoco i termini reali del problema.

    L’obbligo di motivazione nella fase di riscossione coattiva deve condurre ad una tutela piena dei valori assiologici in gioco, dando luogo ad una cartella di pagamento che, secondo una prospettiva di pragmatismo giuridico, proceda ad una esposizione chiara e puntuale della posizione attiva vantata dal Fisco circa le somme pretese a titolo di interesse, conformemente al coacervo di valori costituzionali che regolano la fase di attuazione del tributo.

    Si tratta, come detto, di un passaggio oggi imposto in nome dei canoni generali del principio di effettività giuridica al quale ogni disciplina giuridica deve essere oggi informata. 

    8. Conclusioni

    L’art. 7 della L. 27 luglio 2000, n. 212, quale norma generale sulla motivazione degli atti per la materia tributaria, rappresenta una conquista fondamentale del moderno ordinamento fiscale, avendo tradotto in termini positivi le prerogative di difesa del contribuente e l’esigenza di trasparenza e di correttezza dell’agire amministrativo.

    L’obbligo di motivazione involge anche la cartella di pagamento emessa dall’Agente della riscossione giacché il contribuente, a mezzo di questo atto, si deve trovare nella condizione di verificare la legittimità del credito fiscale, in ragione del quale potrebbe subire, in assenza di celere liquidazione degli importi dovuti, atti esecutivi pregiudizievoli per la sua sfera patrimoniale.

    In questa prospettiva, se è evidente che la motivazione dell’atto esattivo non debba essere ridondante e quindi ripercorrere argomentazioni o elementi già noti al contribuente, dovrà almeno fornire una rappresentazione esaustiva di ogni componente del credito di cui egli non abbia, per diverse ragioni, potuto acquisire in precedenza piena ed effettiva conoscenza.

    Gli interessi di mora o di ritardato pagamento - che si connotano per una disciplina notoriamente ipertrofica e frammentata, al punto da renderne ardua l’esatta quantificazione senza l’ausilio di appositi software - non possono essere semplicemente enunciati e non spiegati nella cartella esattoriale, a maggior ragione ove essi siano richiesti per la prima volta e si originino da un credito tributario risalente nel tempo.

    Ogni opposta ricostruzione, che fa leva sulla predeterminazione degli interessi ad opera della legge e quindi sulla astratta possibilità per il contribuente di adoperarsi in calcoli complessi e defatiganti, predilige il rispetto solo apparente dei principi suggellati nel citato art. 7 e non già la loro effettiva implementazione sul piano sostanziale.

    Al contrario, la trasparenza e la chiarezza dell’agire amministrativo assurgono ad irrinunciabili canoni di civiltà giuridica, non sacrificabili dinanzi a paventate esigenze di celerità ed economicità della fase di riscossione coattiva.

    La questione in esame deve, pertanto, essere risolta alla luce dei canoni dell’effettività giuridica, dai quali la motivazione degli atti tributari non si deve mai allontanare. 

     

    [1] L’obbligo di motivazione degli atti impositivi e, più in generale, degli atti amministrativi costituisce un principio cruciale e di trasversale applicazione nell’ordinamento contemporaneo, espressione di molteplici valori espressi dalla Carta Costituzionale (art. 3, 24, 97, 111, 113 Cost.), tanto da trovare applicazione in relazione ad ogni atto che sia in grado di produrre effetti giuridici idonei ad incidere sulla sfera di un soggetto terzo, esterno all’Amministrazione procedente. Si tratta, come noto, di un profilo in cui appare evidente la tangenza tra il diritto tributario e i principi che innervano il procedimento amministrativo generale. I temi in esame sono trattati diffusamente dalla dottrina amministrativa e tributaria. Tradizionalmente, per una disamina sul senso dell’obbligo di motivazione, ex pluribus, M. S. Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XVII, 1977, pag. 257. Nella materia tributaria, ex pluribus, L. Del Federico, La rilevanza della legge generale sull’azione amministrativa in materia tributaria e l’invalidità degli atti impositivi, in Riv. dir. trib., 2010, 206 ss.; Id., L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 851 ss.

    [2] La Corte di Cassazione, con le note sentenze a Sezioni Unite, nn. 8279/2008 e 8770/2016, ha riconosciuto alla cartella di pagamento (nonché all’avviso di mora e all’intimazione di pagamento) natura di atto prodromico all’esecuzione forzata e, in quanto tale, devoluto alla giurisdizione del giudice tributario, se autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D. lgs. n. 546/1992.

    [3] La funzione sostanziale della motivazione dell’atto amministrativo è stata ripetutamente ricondotta dalla Consulta ad un articolato coacervo di interessi costituzionalmente rilevanti, costituiti, da un lato, dalla conoscibilità, proporzionalità e trasparenza dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, dalla tutela effettiva del consociato, che si reputi leso dall’esercizio del potere autoritativo espresso dalla Pubblica Amministrazione. In questo senso, ex multis, Corte Cost., sent. 23 giugno 1956; Corte Cost., sent. 19 dicembre 1973, n. 177; Corte Cost, sent. 22 novembre 2000, n. 256. Si veda per la materia tributaria, ex pluribus, F. Gallo, Motivazione e prova nell’accertamento tributario: l’evoluzione del pensiero della Corte, in Rass. Trib., 2001, 1088.; M. Beghin, Osservazioni in tema di motivazione dell’avviso di accertamento ex art. 42 d.p.r. n. 600/1973, alla luce dell’art. 7 dello “Statuto dei diritti del contribuente”, in Riv. dir. trib., I, 2004, 711.

    [4] Ciò è peraltro desumibile dall’art. 17 dello Statuto dei diritti del contribuenti, il quale, rubricato “Concessionari della riscossione”, dispone espressamente che “le disposizioni della presente legge si applicano anche nei confronti dei soggetti che rivestono la qualifica di concessionari e di organi indiretti dell'amministrazione finanziaria, ivi compresi i soggetti che esercitano l'attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di qualunque natura”, così estendendo l’obbligo di motivazione, espresso dal precedente art. 7, anche agli atti amministrativi emessi dall’agente della riscossione.                                                             

    [5] In questo senso la dottrina è solita attribuire alla motivazione dell’atto impositivo la funzione precipua di garantire la difesa del contribuente, ponendolo nella condizione di ripercorrere l’iter logico-giuridico che ha condotto l’Amministrazione finanziaria ad avanzare la pretesa fiscale e così valutare l’opportunità di avviare un contenzioso dinanzi al giudice tributario, il cui perimetro non potrà che essere circoscritto al contenuto sostanziale espresso dall’impianto motivazionale dell’atto impugnato. Cfr. S. Muleo, La motivazione dell’accertamento come limite della materia del contendere nel processo tributario, in Rass. Trib., 1999, 509 ss.; R. Miceli, Motivazione per relationem: dalle prime elaborazioni giurisprudenziali allo Statuto del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2001, 1171 ss.; Id. La motivazione degli atti tributari, in AA. VV., Lo Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi – G. Fedele, Milano, 2005, 296 ss.

    [6] Cfr. Corte Cass., Sez. III, 20 luglio 2021, n. 20694; Corte Cass., Sez. V, 24 ottobre 2019, n. 27271; Corte Cass., Sez. V, 12 aprile 2016, n. 7157; Corte Cass., Sez. V, 13 marzo 2015, n. 5057; Corte Cass., Sez. V, 03 febbraio 2010, n. 2439.

    [7] In questa circostanza, secondo Corte Cass., Sez. V, 24 ottobre 2019, n. 27271, la cartella esattoriale rappresenta a tutti gli effetti un atto impositivo che deve essere congruamente motivato, trattandosi del primo ed unico atto mediante il quale la pretesa fiscale è esercitata nei confronti del dichiarante, conseguendone la sua impugnabilità anche per contestare il merito della pretesa impositiva.

    La dottrina, su questo specifico tema, ha debitamente evidenziato come la procedura di liquidazione del tributo si intersechi, a mezzo della funzione ambivalente svolta dalla cartella di pagamento, con la procedura di riscossione coattiva. Cfr. A. Carinci, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo, Pisa, 2008, passim e G. Boletto, Il ruolo di riscossione nella dinamica del prelievo delle entrate pubbliche, Milano, 2010, 98.

    [8] Così, ad esempio, se la cartella di pagamento consegue ad una vicenda processuale complessa, all’esito della quale sono mutati, in tutto o in parte, uno o più elementi che compongono il credito ivi cristallizzato, la cartella di pagamento dovrà recare una motivazione certamente sintetica ma, al contempo, adeguata ed intelligibile in relazione a tali elementi nuovi, dovendo garantire al contribuente una conoscenza effettiva di ogni pretesa fatta valere nei suoi confronti.

    [9] In questo senso, tra la dottrina più autorevole, si rimanda a P. Zatti, V. Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2020, 340 ss.: F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2019, 221 ss. i quali ricordano come si debba distinguere tra interessi corrispettivi e interessi moratori. I primi, disciplinati agli artt. 1282 c.c. ss. sono a carico del debitore e corrispondono al corrispettivo maturato dal creditore il quale ha mutuato al primo una somma di denaro, avente natura fruttifera ai sensi dell’art. 820 c.c. I secondi, disciplinati agli artt. 1224 c.c. ss., rilevano anche a fini tributari e attengono all’inadempimento di una obbligazione pecuniaria.

    [10] Al fine di uniformare la determinazione degli interessi nella materia tributaria nelle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione, il legislatore ha tentato di operare, in tempi recenti, alcuni interventi di sistematizzazione che, tuttavia, non hanno ad oggi condotto ad alcuna modifica sostanziale dello stato dell’arte. In specie, l’art. 13 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159 ha affidato al Ministro dell'Economia e delle Finanze il compito di fissare, con decreto, la misura e la decorrenza dell'applicazione del tasso di interesse per il versamento, la riscossione e i rimborsi di ogni tributo. Tale determinazione sarebbe dovuta avvenire in misura unica, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, e compresa nell'intervallo tra lo 0,5 per cento e il 4,5 per cento. Il predetto decreto non è stato tuttavia emanato.

    In tempi recenti, il D.l. 26 ottobre 2019, n. 124, all’art. 37, comma 1-ter, ha stabilito che il tasso di interesse per il versamento, la riscossione e i rimborsi di ogni tributo fosse determinato, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, in misura compresa tra lo 0,1 per cento e il 3 per cento. Ai sensi del comma 1-quater, con decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze dovevano essere stabilite misure differenziate, sempre nei limiti predetti, per altre tipologie di interessi, quali, ad esempio, interessi per pagamenti rateali, interessi per ritardata iscrizione a ruolo, etc. Anche in tal caso la normativa di attuazione non è mai stata introdotta.                              

    [11] Il tasso degli interessi di cui all’art. 20, ad oggi, è fissato nella misura del 4% annuo dal D.M. 21 maggio 2009, con effetto a valere dal 1ottobre 2009. Tale misura è ripetutamente variata negli anni. L'originaria misura del 5% è divenuta pari al 2,75%, a decorrere dal 1° luglio 2003, ex art. 3, comma 1, D.M. 27 giugno 2003.

    Al contrario, il tasso degli interessi di cui all’art. 30 è stabilito, attualmente, dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, sulla scorta delle modifiche introdotte dall’art. 13 del D. lgs. 24 settembre 2015, n. 159

    [12] In questa prospettiva, ai sensi degli artt. 1, 2 e 3 della L. 26 gennaio 1961, n. 29, per quanto attiene agli interessi sull’imposta principale non versata, emerge che essi devono essere calcolati a partire dal giorno successivo alla data di scadenza prevista per la richiesta di registrazione, sia nel caso in cui essa sia stata presentata, ma non si sia poi corrisposto il tributo, sia nel caso in cui essa non sia stata presentata.

    In ordine agli interessi di mora sull’imposta complementare, come chiarito dalla L. 28 marzo 1962, n. 147, è necessario distinguere il caso in cui la maggiore imposta accertata derivi da comportamento colposo del contribuente o meno. Nella prima ipotesi gli interessi devono essere calcolati dal giorno in cui era dovuto il tributo principale, ovverosia dal giorno successivo al termine per la richiesta di registrazione; nella seconda ipotesi, quella per cui l’imposta complementare sia stata richiesta senza che sia ravvisabile una colpa del contribuente, il termine iniziale è quello dell’avvenuta liquidazione dell’imposta stessa.

    Da ultimo, con riferimento all’imposta suppletiva, ossia derivante da errori od omissioni dell’Ufficio, il termine di decorrenza risulta chiarito dalla Circolare Ministeriale del 2 agosto 1961 n. 124623 ove si legge che gli interessi decorrono dal giorno successivo alla scadenza del termine per pagare a seguito dell’avviso di liquidazione.

    [13] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 14 aprile 2021, n. 9764; Corte Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778; Corte Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8505; Corte Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Corte Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236, Corte Cass., Sez. V, 22 ottobre 2014, n. 22402; Corte Cass., Sez. V, 18 dicembre 2009, n. 26671.

    [14] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8505.

    [15] Cfr. Corte Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236 ove si legge che “nel caso di mera liquidazione dell’imposta sulla base dei dati forniti dal contribuente medesimo nella propria dichiarazione, nonché qualora vengano richiesti interessi o sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l’effetto che l’onere di motivazione può considerarsi assolto dall’Ufficio mediante mero richiamo alla motivazione medesima”.

    [16] Si tratta di una linea interpretativa che privilegia l’astratta conoscibilità del diritto secondo un approccio formale e non sostanziale circa l’effettiva conoscenza e comprensibilità della legge. Su tali questioni, M. Corsale, La certezza del diritto, Milano, 1970, passim.

    [17]  In questo senso, Corte Cass., Sez. VI, 3 maggio 2018, n. 10481; Corte Cass., Sez. V, 7 settembre 2018, n. 21851; Corte Cass., Sez. VI 6 luglio 2018, n. 17767; Corte Cass., Sez. VI, 22 giugno 2017, n. 15554; Corte Cass., Sez. V, 6 dicembre 2016, n. 24933; Corte Cass., Sez. V, 21 marzo 2012, n. 4516; Corte Cass., Sez. V, 9 aprile 2009, n. 8651. Tale orientamento è peraltro ampiamente diffuso nella giurisprudenza tributaria di merito. Cfr. Comm. Trib. Prov. Roma, 24 ottobre 2017, n. 22734, Comm. Trib. Reg. Piemonte, 1 ottobre 2012, n. 96 e Comm. Trib. Reg. Lazio, 16 febbraio 2021, n. 969.

    [18] Cfr. Corte Cass., Sez. V, 7 settembre 2018, n. 21851.

    [19] Giova evidenziare che il valore degli interessi applicati dall’Agente della riscossione risultava nella misura di €. 35.168,21, a fronte di una pretesa impositiva di €. 17.258,29, a titolo di imposta di registro e imposte ipo-catastali.           

    [20] Come noto, la motivazione dell’atto di accertamento tributario è stata prevista ben prima della codificazione dell’obbligo di motivazione nella materia amministrativa. Cfr., ex pluribus, M. S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, op. cit., 257 ss.; F. Tesauro, Ancora sulla motivazione degli avvisi di accertamento (nota a Cass., Sez. I, 11 luglio 1985, n. 4129), in Boll. trib., 1985, 1511 ss. e C. Glendi, Accertamento e processo, in Boll. Trib., 1986, 771. Quest’ultimo, in particolare, osserva che “in ragione della accresciuta varietà dei tipi di accertamento, la motivazione rivela la sua vera natura e funzione, che non consiste più sicuramente in un progetto impositivo in cerca di conferme o in una provocatio ad opponendum e neppure può dirsi limitata a facilitare la difesa del contribuente, ma costituisce elemento essenziale dell’atto e misura, anzitutto, dell’esercizio del potere impositivo”.

    [21] L’effettività è un valore fondamentale dell’ordinamento giuridico, teorizzato da alcuni studi classici sul tema. Cfr.  P. Piovani, Effettività (principio di), in Enc. Dir. Vol., XIV, Milano, 1965, pag. 431; G. Gavazzi, Effettività (principio di), in Enc. Giur. Treccani, Vol. XII, Roma, 1988, pag. 420; A. Catania (a cura di), Dimensioni dell’effettività. Tra teoria generale e politica del diritto, Milano, 2005, Passim.

    È stato l’ordinamento europeo a ridare centralità a questo valore, ponendolo a fondamento dell’integrazione giuridica tra gli Stati. A fronte di tale esperienza, il valore in esame ha assunto il ruolo di parametro di coerenza ed efficacia di ogni disciplina giuridica formale e sostanziale. Cfr. R. Miceli, Il principio comunitario di effettività quale fondamento dell’integrazione giuridica europea (in AA. VV., Scritti in onore del prof. Vincenzo Atripaldi, Napoli, 2010, sezione Europa, pp. 1623; id., Indebito comunitario e sistema tributario interno: contributo allo studio del rimborso d’imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, cap. 1

    [22] L’elemento temporale della vicenda è già stato ritenuto dalla Suprema Corte come fondamentale per stabilire l’esatta ampiezza dell’obbligo motivazionale della cartella di pagamento in relazione agli interessi di mora e di ritardato pagamento. Invero, in una vicenda analoga a quella in esame, ove il credito tributario si era originato nel 1976, i giudici di legittimità avevano concluso per la necessità di una puntuale spiegazione delle modalità di calcolo adottate dall’Amministrazione finanziarie in quanto “l’operato dell’Ufficio era ricostruibile attraverso difficili indagini dovute alla vetustà della questione, che non competevano al contribuente che vedeva, così, violato il suo diritto di difesa”. Così Corte Cass., Sez. VI, 22 giugno 2017, n. 15554.

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