GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    ​Brevi riflessioni sulla ‘riforma Cartabia’ in materia di prescrizione e di improcedibilità (legge 27 settembre 2021, n. 134)

    Brevi riflessioni sulla ‘riforma Cartabia’ in materia di prescrizione e di improcedibilità (legge 27 settembre 2021, n.134)

    di Ercole Aprile

    Sommario: 1. Premessa. - 2. I principi contenuti nelle norme di legge delega. - 3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati. - 4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità. - 5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.

    1. Premessa.

    La legge 27 settembre 2021 n. 134 (detta ‘riforma Cartabia’) – pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 237 del 4 ottobre 2021, che entrerà in vigore il 19 ottobre 2021 – nasce da una duplice esigenza ed è espressione, soprattutto con riferimento alla disciplina degli istituti della prescrizione del reato e della improcedibilità, di contingenti scelte frutto di un compromesso, operate per cercare di superare l’impasse dovuto alla contrapposizione tra forze politiche e per varare in tempi rapidi questo provvedimento legislativo.

    Bisogna, infatti, ricordare come fosse pendente in Parlamento un disegno di legge governativo (d.d.l. A.C. 2435: c.d. ‘Bonafede’), di ‘accompagnamento’ della riforma delle norme sulla prescrizione attuata con la legge n. 3/19 (c.d. legge ‘spazzacorrotti’), dal contenuto molto ‘divisivo’, nella misura in cui dava concretezza alla regola della definitiva interruzione della decorrenza del termine di prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado: vi era, dunque, l’esigenza di superare questa situazione di stallo con una disciplina definitiva.

    D’altro canto, alla necessità di definire il contesto normativo nella materia della prescrizione del reato, si è unito il bisogno di adottare un provvedimento legislativo che, attraverso ‘ritocchi’ mirati del codice di rito, potesse assicurare una riduzione dei tempi di durata del processo penale (analoga iniziativa è stata adottata per il processo civile e per quello tributario): e ciò perché tra i progetti da realizzare con il finanziamento dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.), licenziato dal Parlamento con risoluzioni del 13 ottobre 2020, e del connesso Recovery Fund (Next Generation EU, varato, come noto, dalle istituzioni dell’Unione europea per favorire il rilancio dell’economia degli Stati membri colpita dalla crisi sanitaria dovuta alla diffusione epidemiologica da Covid-19), vi era anche quello di riforma della giustizia penale per assicurare una migliore efficacia della risposta statuale in questo settore: in particolare con la previsione della riduzione in cinque anni del 25% della durata media dei giudizi penali.

    In tale contesto, nel quale un significativo apporto di riflessioni e di proposte è stato fornito dalla Commissione ministeriale di studio presieduta da Giorgio Lattanzi, che il 24 maggio 2021 aveva licenziato una relazione finale contenente una serie di ipotesi di possibile riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale (proposte finalizzate anche a dare attuazione a talune direttive dell’Unione europea rimaste ancora senza seguito, come per quella 2012/29/UE relativa ai diritti, assistenza e protezione della vittima da reato o per la raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/REC(2018)8 relativa alla giustizia riparativa in materia penale; oppure finalizzate a codificare soluzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza di legittimità o accreditate da pronunce della Corte costituzionale o della Corte di Strasburgo), nonché in materia di prescrizione del reato. Buona parte di tali proposte sono state trasfuse in emendamenti governativi al disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello.

    2. I principi contenuti nelle norme di legge delega.

    La legge n. 134/21 è composta da due articoli.

    Nell’art. 1 sono contenuti i principi della legge delega ai quali il Governo, in sede di esercizio del potere legislativo delegato, dovrà uniformarsi con l’adozione di uno o più decreti legislativi da emanare entro un anno. Tali decreti riguarderanno varie materie e ‘spazieranno’ dalle modifiche del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale, a quelle di disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, alla revisione del regime sanzionatorio dei reati e all’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e dell’ufficio per il processo penale.

    Gli scopi dichiarati da realizzare sono quelli della semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, dell’incremento delle garanzie difensive. In attesa di conoscere il testo specifico di tali decreti, va qui rammentato come i principi della legge delega, che delineano in maniera molto netta le linee della futura riforma del codice di procedura penale e delle relative disposizioni di coordinamento, riguardano l’attuazione del processo penale telematico; una riscrittura della disciplina codicistica in materia di notificazioni, di processo in absentia, di atti del procedimento, di indagini preliminari e di udienza preliminare, di procedimenti speciali, di giudizio, di procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, di appello, di ricorso per cassazione e di impugnazioni straordinarie; una rivisitazione delle norme di attuazione in tema di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e di esecuzione della confisca; una nuova modulazione delle norme del codice penale, di quello di procedura penale o di leggi speciali in materia di condizioni di procedibilità, di pena pecuniaria, di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, di giustizia riparativa, di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, di disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni, di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione, nonché di comunicazione della sentenza.

    Trattandosi di tematiche di cui sono state fissate in maniera molto precisa le linee di tendenza della riforma, ma che necessitano di una concreta traduzione in nuove disposizioni, si fa rinvio al commento che verrà riservato in futuro a quei decreti legislativi.

     

    3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati.

    Nell’art. 2 della legge n. 134/21 sono contenute le norme di immediata applicazione riguardanti modifiche alla disciplina della prescrizione, dell’arresto in flagranza, delle garanzie difensive e ad altre norme riferibile all’imputato apolide o appartenente a Stati diversi da quelli aderenti all’Unione europea; e, soprattutto, quelle con le quali è stata introdotta la disciplina del nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di svolgimento del giudizio di impugnazione. Con l’art. 2 si è inoltre prevista la costituzione di due appositi organismi ministeriali: il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con l’incarico di valutare periodicamente il raggiungimento degli obiettivi della riforma; e il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche connesse alla digitalizzazione del processo.

    Modificando l’impostazione dell’originario disegno di legge in materia di prescrizione, la ratio della legge n. 134/21 è stata quella di mantenere ferma la previsione della cessazione della decorrenza del termine di prescrizione del reato dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e, nel contempo, di introdurre un nuovo ‘meccanismo’ finalizzato a favorire l’accelerazione della definizione dei processi nei successivi gradi di impugnazione mediante la previsione di termini entro i quali, a pena di declaratoria di una improcedibilità definitiva, va adottata la decisione del grado successivo.

    Restano dei dubbi sulla compatibilità di tale impianto normativo con i parametri degli artt. 24 e 101 Cost, tenuto conto che, pur in presenza di una sentenza penale di primo grado e in assenza del decorso della prescrizione del reato (altrimenti giustificativo del venir meno della pretesa punitiva statuale), il mero decorso del tempo determina una sorta di estinzione del processo: così potendo finire per frustrare le esigenze connesse all’avvenuto esercizio dell’azione penale e alla tutela della vittima (in special modo se la sentenza gravata con l’impugnazione è di assoluzione), meno le esigenze connesse al diritto di difesa dell’imputato, che potrebbe avere un interesse concreto ad una pronuncia sull’impugnazione avverso ad una sentenza di condanna, potendo questi (come si avrà modo di evidenziare) rinunciare alla operatività dell’istituto della improcedibilità.

    Più in dettaglio, l’art. 2, comma 1, della legge n. 134/21 elimina i commi 2 e 4 dell’art. 159; inserisce il riferimento al decreto di condanna nel comma 1 dell’art. 160 a proposito delle cause di sospensione della prescrizione, e introduce nel codice penale il nuovo art. 161-bis relativo alla cessazione del corso della prescrizione. In pratica, la sentenza di primo grado, che in precedenza costituiva una causa di sospensione del corso della prescrizione, ora determina la cessazione di tale corso; è escluso tale effetto nel caso di emissione di decreto penale di condanna, trattandosi di decisione a contraddittorio eventuale, che ora rappresenta una causa di interruzione del corso della prescrizione. Inoltre, a mente del citato art. 161-bis, il corso della prescrizione riprende il suo corso laddove la sentenza di primo grado venga annullata e il procedimento regredisca alla fase del giudizio o ad una fase anteriore: nel senso che il periodo che va dalla data della sentenza annullata alla data della sentenza rescindente vale come sospensione della prescrizione.

    È appena il caso di sottolineare che l’annullamento può essere pronunciato dalla corte di appello ai sensi dell’art. 604 c.p.p. o dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p.; l’effetto ‘ripristinatorio’ del decorso del termine di prescrizione, dunque, non si determina laddove la Cassazione si limiti ad annullare la sentenza di secondo grado, poiché in questo caso resta ferma la cessazione del corso della prescrizione ed opera, invece, il meccanismo della improcedibilità, di cui si dirà in seguito.

     4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità.

    Dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di proscioglimento, laddove venga presentata una impugnazione tanto dalla parte pubblica quanto da una delle parti private, inizia a decorrere un termine entro il quale il relativo giudizio di impugnazione deve concludersi, a pena di improcedibilità dell’azione penale: in pratica, come si legge nella relazione finale della già richiamata Commissione Lattanzi, “se il processo non si definisce entro il termine di fase, si determina una improcedibilità dell’azione penale. La definizione del giudizio entro il termine di fase è cioè una condizione di procedibilità”. È questo il nuovo istituto che caratterizza la riforma ‘Cartabia’, con il quale si è inteso conciliare la previsione dell’originario disegno di legge governativo, che stabiliva tucur la cessazione del corso della prescrizione nel caso di sentenza di primo grado di condanna, con l’esigenza di evitare una pendenza sine die dei giudizi di impugnazione che avrebbe finito per entrare in insanabile contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

    In generale, e a regime, i termini sono di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.). In via transitoria, l’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, stabilisce che nei procedimenti nei quali l’impugnazione venga proposta entro la data del 31 dicembre 2024 (nel caso di più impugnazioni, si tiene conto della data di presentazione del primo atto di impugnazione) o nei quali l’annullamento con rinvio venga pronunciato prima di tale data, i termini anzidetti sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. Tali termini operano in tutti i procedimenti, ad esclusione di quelli aventi ad oggetto “i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti” (art. 344-bis, comma 9).

    Quanto alla decorrenza dei già menzionati termini, l’art. 344-bis, comma 3, c.p.p., stabilisce che essi decorrano “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, per il deposito della motivazione della sentenza.” In buona sostanza, il ‘meccanismo’ di decorrenza opera in maniera fissa e predeterminata, prescindendo dal fatto che la motivazione della sentenza sia stata depositata nel termine, in anticipo o in ritardo; che la gestione dei tempi di presentazione delle impugnazioni subisca un qualche slittamento; e, soprattutto, che la cancelleria del giudice a quo tardi la materiale trasmissione del fascicolo al giudice dell’impugnazione.

    Benché la norma in esame usi il singolare (“termine previsto dall’art. 544”), è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso fa riferimento a tutti i termini previsti da tale articolo del codice per il deposito della motivazione della sentenza: quindi, sia a quello di quindici e a quello di trenta indicati dalla legge, sia a quello più lungo, fino a novanta giorni, indicato dal giudice nel dispositivo della sentenza, che può essere raddoppiato fino a 180 giorni nel caso di pronuncia relativa a reati di particolare gravità, che sia suscettibile di separazione a mente del comma 3-bis dello stesso art. 544.

    Il richiamo espresso dell’art. 154 disp. att. c.p.p., impone di tenere conto anche del ‘meccanismo’ ivi disciplinato, non cumulabile con quello del predetto art. 544, comma 3-bis, che regola l’ipotesi del maggiore termine prorogato dal presidente della corte di appello su richiesta motivata del giudice interessato alla redazione della motivazione. Per il giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Cassazione, fermi restando gli effetti della formazione del giudicato parziale ex art. 624 c.p.p., il termine di improcedibilità ricomincia a decorrere “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 617”, dunque dopo 120 giorni dalla deliberazione della sentenza del Supremo Collegio.

    A norma dell’art. 344-bis, comma 4, c.p.p., il termine di due anni per il giudizio di appello e quello di un anno per il giudizio di cassazione possono essere prorogati laddove il giudizio sia “particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare” (i parametri di riferimento paiono in parte analoghi, ma invero più precisi e stringenti, a quelli elaborati dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 304, comma 2, c.p.p. per la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare). L’ordinanza di proroga va adottata dal “giudice che procede”, formula ambigua che, tuttavia, è fondato ritenere sia riferibile al giudice dell’impugnazione e non anche a quello che ha emesso la sentenza impugnata, che potrebbe non disporre di tutti i dati necessari per poter esprimere una valutazione sulla complessità del giudizio di impugnazione. Non è indicata la necessità di una richiesta di parte, sicché parrebbe che il provvedimento possa essere adottato anche ex officio.

    In generale è possibile l’emissione di una ordinanza di proroga per una sola volta e per un periodo non superiore a un anno per l’appello (che, dunque, può durare fino a tre anni) o a sei mesi per la cassazione (con termine massimo di un anno e sei mesi): i termini massimi sono di quattro anni per l’appello e di due anni per la cassazione per i soli procedimenti per i quali si applica la già esaminata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21.

    La norma in esame permette, però, l’adozione di ulteriori provvedimenti di proroga del termine “quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609- bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” In buona sostanza, per i procedimenti riguardanti tali gravi delitti, non è stabilito un limite numerico ovvero un tetto cronologico alle proroghe che possono essere adottate dal giudice. Ciò fatta eccezione per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, c.p., per i quali sono possibili più proroghe, ma con il tetto massimo di tre anni per l’appello e di sei mesi per la legittimità: sicché per i procedimenti relativi a tali delitti, il termine massimo di durata del giudizio di appello è di cinque anni (due + tre), mentre quello del giudizio di cassazione è di due anni (uno + uno). Nei procedimenti per i quali si applica la già considerata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, il termine massimo può essere, dunque, di sei anni per il giudizio di appello e di due anni e sei mesi per il giudizio di cassazione.

    L’ordinanza che dispone la proroga è impugnabile con ricorso per cassazione dall’imputato o dal difensore (sempre nel rispetto della prescrizione generale dell’art. 613, comma 1, c.p.p.) che va presentato, “a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione” e che non ha effetti sospensivi. Stranamente non è prevista la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero e delle altre parti private. “La Corte di cassazione decide entro trenta giorni dalla ricezione degli atti osservando le forme previste dall’articolo 611”, dunque nelle forme della camera di consiglio non partecipata. “Quando la Corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza”: il che significa che in assenza di una siffatta iniziativa, le questioni sulla legittimità della o delle proroghe possono essere eventualmente poste con l’impugnazione avverso la sentenza emessa dalla corte di appello.

    A norma dell’art. 344-bis, comma 6, c.p.p., “I termini di cui ai commi 1 e 2 sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale” (vale a dire laddove si verifichi una situazione processuale che, nel giudizio di primo grado, avrebbe comportato la sospensione del decorso del termine di prescrizione del reato”); “e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con la puntualizzazione che, in tale seconda ipotesi, il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni.

    I termini di improcedibilità sono, altresì, sospesi nel caso di irreperibilità di un imputato, “quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato, ai sensi dell’articolo 159 del presente codice, per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi di cui all’articolo 613, comma 4, (…) con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, tra la data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche e la data in cui la notificazione è effettuata.”

    Come già accennato, ai sensi dell’art. 344-bis, comma 7, c.p.p. “La declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo.” Si tratta di un diritto personale esercitabile dall’imputato o da un suo procuratore speciale. Applicando i criteri interpretativi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di rinuncia alla prescrizione (Cass., sez. un., n. 18953/16, Piergotti), è ragionevole ritenere che la rinuncia alla operatività dell’istituto della improcedibilità debba essere espressa, formulata prima che il termine sia spirato e che il giudice abbia adottato la sentenza di improcedibilità, e non sia revocabile dall’imputato con una successiva dichiarazione di segno contrario.

    Quanto ai rapporti tra improcedibilità e azione civile esercitata nel processo penale, l’art. 2, comma 2, lett. b), della legge n. 134/21 ha modificato l’art. 578 c.p.p., con la riscrittura della rubrica e l’introduzione del comma 1-bis. Così oggi, in presenza di una già pronunciata sentenza di condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati da reato, mentre la corte di appello o la Corte di cassazione che accerti che il reato si sia estinto per amnistia o per prescrizione (a regime, stante la previsione del nuovo art. 161-bis c.p., la prescrizione che potrà essere rilevata sarà solo quella già verificatasi nel corso del giudizio di primo grado) deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (secondo i canoni operativi indicati dalla Corte cost. nella sentenza n. 182 del 2021), la stessa corte, “nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale”. Norma, questa, con la quale si è inteso precludere del tutto la possibilità che il procedimento possa proseguire dinanzi al giudice penale anche solo per decidere sulle statuizioni civili. È appena il caso di osservare che qualche problema potrà porre il riferimento alla decisione che il giudice civile deve adottare “valutando le prove acquisite nel processo penale”, considerato che nella prassi applicativa dell’art. 622 c.p.p. i giudici civili assumono le prove e le valutano secondo le regole proprie del rito civile.

    Peraltro, va notato che la modifica dell’art. 578 c.p.p. avrà immediata efficacia, a differenza di quanto accadrà per la complementare disposizione dell’art. 578-bis c.p.p. che, come noto, stabilisce ora i rapporti tra la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o amnistia e la decisione sulla confisca: norma che in futuro dovrà essere ‘riscritta’, con una apposita disciplina dei rapporti tra confisca e declaratoria di improcedibilità, con uno dei decreti legislativi che saranno adottati in attuazione dei principi fissati dall’art. 1, comma 13, lett. d), della stessa legge delega n. 134/21.

    Resta quale dubbio in ordine ai rapporti tra l’ammissibilità dell’impugnazione e la nuova forma di improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. In generale, sembrerebbe opinabile la possibilità per il giudice dell’impugnazione di dichiarare la improcedibilità laddove il relativo giudizio sia stato instaurato con un atto di impugnazione originariamente inammissibile: tuttavia, si potrebbe replicare che il giudice dell’impugnazione che dovesse tardare a definire il proprio giudizio con una declaratoria di quella causa di inammissibilità del gravame, sarebbe tenuto a far prevalere la intervenuta causa di improcedibilità, che determina l’immediata estinzione del rapporto processuale ed osta al compimento di qualsiasi altra attività processuale. Diverso è il discorso nel caso in cui la causa di improcedibilità per decorso del termine, verificatasi nel giudizio di appello, non sia stata rilevata dal giudice di secondo grado e venga proposto ricorso per cassazione: in tale ipotesi, ben potrebbero essere applicati i principi della sentenza delle Sezioni Unite del 2016 in materia di rapporti tra prescrizione del reato e inammissibilità (Cass., sez. un., n. 12602/16, Ricci): per cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovrebbe precludere la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p., la improcedibilità maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso; al contrario, il ricorso per cassazione sarebbe ammissibile laddove con lo stesso dovesse dedursi, anche con un unico motivo, l'intervenuta improcedibilità maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.

    I commi 3 e 4 dell’art. 2 della legge n. 134/21 contengono la disciplina transitoria, stabilendo, per un verso, che le disposizioni in materia di improcedibilità “si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020”; per altro verso, che per i procedimenti che, alla data del 19 ottobre 2021 “di entrata in vigore della presente legge, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale decorrono dalla quella stessa data di entrata in vigore della… legge”. Resta qualche perplessità sulla compatibilità con il principio dell’art. 25 Cost. della norma che limita l’applicabilità della disciplina della improcedibilità solo ai procedimenti aventi ad oggetto i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, in quanto la dottrina e la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass., sez. II, n. 40399/08) sono orientate nel senso di sostenere che rientrino nel concetto di legge più favorevole al reato, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p., tutti gli elementi in grado di incidere sulla posizione processuale dell’imputato, comprese le condizioni di procedibilità. D’altro canto, nell’applicare l’art. 129 c.p.p. che impone l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, tra le quali viene indicata anche la mancanza di una condizione di procedibilità, la Cassazione ha sostenuto che la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, impone la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass., sez. V, n. 22143/19).

    5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.

    Nell’ambito delle procedure amministrative di polizia finalizzate alla identificazione degli stranieri, in particolare materia di contrasto dei fenomeni di immigrazione irregolare e di protezione internazionale, la pubblica amministrazione ha adottato il sistema CUI, codice identificativo unico della persona basato sull’acquisizione di dati biometrici (impronte digitali, foto, segni particolari e dati anagrafici: elementi che, attraverso appositi sistemi informatici, vengono raccolti in banche dati delle forze di polizia; di tale sistema vi è cenno normativo negli artt. 4 e 43 del d.P.R. 313/02, contenente il testo unico del casellario giudiziario). In tale ottica, allo scopo di garantire una maggiore tutela e, nel contempo, di favorire la corretta identificazione dell’indagato o dell’imputato apolide o di cui sia ignota la cittadinanza, oppure che sia cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è attualmente, o è stato in passato, titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea, l’art. 2, commi 7, 8, 9 e 10, della legge n. 134/21, modificano taluni articoli del codice di rito e del d.lgs. n. 271/89.

    In particolare, risultano modificati l’art. 66 c.p.p., con la previsione che nei confronti di tali soggetti “nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale è riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso”; l’art. 349, relativo al compimento da parte della polizia giudiziaria di atti finalizzati alla identificazione dell’indagato o di altre persone, con l’aggiunta nel comma 2 del periodo per cui “la polizia giudiziaria trasmette al pubblico ministero copia del cartellino fotodattiloscopico e comunica il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti sono svolte le indagini”; l’art. 431, comma 1, in materia di formazione del fascicolo per il dibattimento, con l’inserimento di una aggiunta nella lett. g), per cui in quel fascicolo viene aggiunta anche “una copia del cartellino fotodattiloscopico con indicazione del codice univoco identificativo”; e l’art. 10, comma 1, disp. att. c.p.p., con l’aggiunta del comma 1-bis, per cui nei confronti dell’indagato rientrante in una delle indicate categorie la segreteria della procura della Repubblica debba acquisire “ove necessario, una copia del cartellino fotodattiloscopico e provvede(re), in ogni caso, ad annotare il codice univoco identificativo della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice”.

    Allo scopo superare il dubbio sull’applicazione di una serie di disposizioni del codice di rito finalizzate ad assicurare una più efficace tutela delle vittime di specifici gravi delitti commessi con violenza alla persona, con l’art. 2, comma 11, della legge n. 134/21, sono stati modificati alcuni articoli con la sostituzione delle parole “per i delitti” con quelle “per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati”. In tal modo si è chiarito che tali disposizioni sono applicabili anche in favore delle vittime di tentato omicidio ovvero di qualsiasi altro dei delitti commessi con violenza alla persona ivi elencati, siano essi stati consumati o rimasti allo stadio del tentativo (in precedenza, per la mancata applicazione ad un reato tentato di una norma prevista solo per il reato consumato, v. Cass., sez. un., n. 40985/18, Di Maro). Tale modifica ha riguardato l’art. 90-ter, comma 1-bis, in tema di comunicazione obbligatoria dell’evasione o della scarcerazione dell’indagato o dell’imputato; l’art. 362, comma 1-ter, c.p.p., in materia di tempestività delle assunzioni di informazioni dalle persone offese o dai denuncianti (secondo le regole del c.d. ‘codice rosso’, di cui alla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere; l’art. 370, comma 2-bis, c.p.p., relativamente al compimento senza ritardo da parte della polizia giudiziaria degli atti delegati dal pubblico ministero; l’art. 659, comma 1-bis, c.p.p. in materia di comunicazione dei provvedimenti di scarcerazione dei condannati; l’art. 64-bis, comma 1, disp. att., in tema di trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile; ed ancora, l’art. 165, quinto comma, c.p., in materia di sospensione condizionale della pena.

    Sempre allo scopo di garantire una più efficace tutela dei diritti di difesa dell’imputato detenuto, allo scopo di superare le incertezze dovute al silenzio normativo (v., da ultimo, Cass., sez. VI, n. 27711/21, che ha escluso che la direzione del carcere, dove l’imputato si trovi detenuto, sia obbligata a dare comunicazione al difensore di fiducia dell’avvenuta presentazione di dichiarazione di nomina da parte del recluso), con l’art. 2, comma 14, della legge n. 134/21 è stato inserito nell’art. 123 c.p.p. il comma 2-bis, secondo il quale “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”.

    Infine, nell’ottica di assicurare una più ampia protezione alle vittime vulnerabili, con l’art. 2, comma 15, della legge n. 134/21, è stata inserita nel comma 2 dell’art. 380 c.p.p. una nuova lett. l-ter), per cui l’arresto obbligatorio in flagranza è oggi previsto anche l’autore dei “delitti di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dagli articoli 387-bis, 572 e 612-bis del codice penale”. È bene rammentare che la lett. l-ter), introdotta dal decreto-legge n. 93/13, conv. dalla legge n. 119/13, già prevedeva il riferimento ai reati di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p.: dunque, la novità è costituita dall’inserimento nel novero dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, anche del delitto di cui all’art. 387-bis c.p., introdotto dalla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere (c.d. legge del ‘codice rosso’).

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