GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Il principio di (im)modificabilità dei raggruppamenti di imprese (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2022, n. 2)

    Il principio di (im)modificabilità dei raggruppamenti di imprese (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2022, n. 2)

    di Domenico Bottega

    Sommario: 1. Premessa. - 2. La vicenda. - 3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici. - 4 L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”. - 5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”. - 6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria. - 7. La decisione dell’Adunanza Plenaria. - 8. L’antinomia assoluta. - 9. I criteri di risoluzione delle antinomie. - 10. L’interpretazione correttiva. - 11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata. - 12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”? - 13. Considerazioni conclusive.

    1. Premessa.

    La sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento compone il severo contrasto formatosi in seno al Consiglio di Stato sull’interpretazione del comma 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici e risponde, in senso affermativo, al quesito se sia consentito escludere dal R.T.I. l’impresa che, in fase di gara, abbia perso uno dei requisiti di ordini generale di cui all’art. 80, e consentire ai restanti associati di “riorganizzarsi”, senza essere pretermessi dalla selezione. La Plenaria giunge a tale esito interpretativo apparentemente senza aderire ad alcuno dei due orientamenti, bensì componendo una “antinomia assoluta” generata da una tecnica legislativa “poco sorvegliata”. Al di là del risultato ermeneutico cui si perviene, è interessante il percorso argomentativo svolto da colui che è l’interprete per eccellenza – ossia il giudice – di fronte a una (apparente) contraddizione dell’ordinamento.

    2. La vicenda.

    Nell’ambito della procedura di affidamento dei lavori di ampliamento alla terza corsia del tratto autostradale Firenze Sud – Incisa è accaduto che, al termine delle operazioni di gara e nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, i rapporti tra la stazione appaltante e una società mandante dell’A.T.I. aggiudicataria si siano incrinati per vicende legate ad altre commesse[1]. Tale società ha deciso allora di recedere dal raggruppamento di imprese, il quale ha domandato all’Amministrazione la possibilità di rimodulare la propria compagine interna[2].

    La richiesta è stata rigettata dalla stazione appaltante, che ha quindi deciso di escludere l’intero raggruppamento dalla gara, sulla base del fatto che la mandante di cui si è detto si fosse resa responsabile di “significative e persistenti carenze nell’esecuzione di precedenti contratti d’appalto che hanno causato la risoluzione per inadempimento contrattuale”, rilevanti come causa di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-ter, del codice dei contratti pubblici, come pure di condotte qualificabili come “gravi illeciti professionali” di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del codice, “tali da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità”, per essere gli inadempimenti “numerosi, ravvicinati nel tempo e coevi allo svolgimento della procedura di gara in oggetto”. In aggiunta, è stata rigettata la richiesta di autorizzazione alla modifica soggettiva del raggruppamento, difettando – a detta della stazione appaltante – dell’esplicitazione delle esigenze organizzative legittimanti tale domanda e in ragione del breve lasso di tempo trascorso tra i provvedimenti di risoluzione e di revoca e la comunicazione di recesso (la richiesta in parola è stata ritenuta essere “finalizzata ad eludere la perdita di un requisito di partecipazione alla gara da parte della mandante” che era incorsa nelle cause di esclusione predette[3]).

    Il provvedimento è stato allora impugnato avanti il T.A.R. Toscana, che lo ha annullato, dando applicazione al combinato disposto dei commi 18 e 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici, in base ai quali – nella lettura offerta dal Giudice fiorentino – deve essere consentita la possibilità di modificare la composizione soggettiva del consorzio partecipante, in corso di gara e in corso di esecuzione, ove sia sopraggiunta la perdita, da parte di una società mandante, di uno o più dei requisiti morali e professionali di cui all’art. 80.

    Non dello stesso avviso – nei termini di cui si dirà – si è dimostrato il Consiglio di Stato che, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da cui è poi scaturita la sentenza qui in commento, ha osservato che il dato normativo non è così perspicuo da consentire di affermare sic et simpliciter che l’interpretazione delle disposizioni conduca a un unico esito interpretativo.

    Onde apprezzare la portata del problema e comprendere la soluzione offerta dal Supremo Concesso della giustizia amministrativa, vale la pena partire dal dato legislativo di riferimento.

    3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici.

    L’art. 48, d.lgs. n. 50/2016, si occupa dei “raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici”, due tra le forme collaborative tra imprese di maggiore successo, finalizzate alla partecipazione alle procedure a evidenza pubblica. I raggruppamenti temporanei sono assai diffusi nel panorama delle procedure a evidenza pubblica, consentendo a più operatori, di diversa capacità economica, tecnica ed organizzativa, di eseguire commesse pubbliche congiuntamente ad altre imprese, pur mantenendo la propria autonomia[4]: la dottrina ha individuato in tale istituto una “funzione antimonopolistica”, fungendo da vero e proprio argine al predominio delle grandi imprese[5].

    Ci si vuole innanzitutto concentrare sul comma 9 dell’art. 48, che sancisce il divieto di mutamento della compagine soggettiva dei raggruppamenti temporanei, da cui si fa discendere il principio di immodificabilità soggettiva del R.T.I.: principio che, originariamente, doveva intendersi esteso a tutta la procedura di gara, dalla presentazione dell’offerta alla conclusione dell’esecuzione del contratto, al fine di consentire alla stazione appaltante una verifica preliminare e piena del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai partecipanti, verifica che non doveva essere vanificata in corso di gara con modifiche di alcun genere[6].

    Il principio aveva già subito alcune deroghe da parte dell’abrogato “codice appalti”, precisamente dall’art. 37, co. 18 e 19, oggi riprodotti e ampliati dai commi 17 e 18 dell’art. 48.

    Il comma 17 inizialmente prevedeva che, “in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dal contratto”. 

    Nelle medesime circostanze, per il caso in cui tali eventi colpiscano una delle società mandanti, in base al comma 18 “il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”[7].

    I due commi sono stati oggetto di una novella recata dal “decreto correttivo” n. 56/2017, il quale ha aggiunto una fattispecie al novero di quelle suddette in cui è consentita una modifica della compagine societaria: il caso in cui la mandataria ovvero una delle mandanti perdano, in corso di esecuzione, uno dei requisiti di cui all’art. 80. Il medesimo decreto ha altresì previsto, con l’introduzione del comma 19-ter all’art. 48, che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.

    Il quesito ermeneutico sottoposto alla Plenaria verte proprio intorno al combinato disposto del comma 17 ovvero del comma 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro, in particolare con riguardo alle conseguenze in capo al R.T.I., nell’ipotesi in cui la mandataria o una delle mandanti vengano a difettare di uno dei requisiti generali di partecipazione: è possibile ricorrere ai “meccanismi riparativi” di cui ai commi 17 e 18, che consentono la sostituzione del soggetto colpito dalla causa escludente, solo se la sopravvenuta perdita occorre “in corso di esecuzione”, così come testualmente prevedono i commi 17 e 18, ovvero anche se ciò accade “in fase di gara”, per effetto di quanto disposto dal comma 19-ter?

    Detto in altri termini, i commi 17 e 18, riferendosi alla “perdita … dei requisiti di cui all’articolo 80” che avvenga “in corso di esecuzione” mirano a escludere l’applicazione del comma 19-ter a questa fattispecie ovvero tale specificazione deve essere letta come ultronea o inutile ovvero ancora come coerente con l’impianto dei due commi, che si occupano di quanto accade nel corso dell’esecuzione del contratto, e pertanto non osta a che operi la predetta sostituzione, anche se il venir meno di uno dei requisiti generali sopraggiunge durante la “fase pubblicistica” della competizione?

    Pare utile partire dall’analisi della posizione più restrittiva, che esclude l’applicabilità del comma 19-ter alla sopravvenuta perdita in corso di gara di un requisito di cui all’art. 80, per poi passare a esaminare quella più estensiva, che invece estende l’applicazione del comma 19-ter a tutte le ipotesi elencate dai commi 17 e 18.

    4. L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”.

    Non poche sono state le sentenze che hanno deciso secondo l’interpretazione più restrittiva, per cui il comma 19-ternon si applicherebbe in caso di sopraggiunta mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 80 in fase di gara.

    Gli argomenti, benché affrontati talvolta in modo più analitico, talaltra con modalità espositive più sintetiche, sono sostanzialmente sempre i medesimi[8].

    Il primo si fonda su un’interpretazione sistematico-letterale delle disposizioni. Il punto di partenza è che i commi 17, 18 e 19 dell’art. 48 consentono che il raggruppamento possa modificare la propria composizione in conseguenza di un evento, occorso in fase di esecuzione, che priva uno dei suoi partecipanti della capacità di contrattare con la pubblica amministrazione[9]; la modifica soggettiva del raggruppamento è eccezionalmente possibile anche “nei casi previsti dalla normativa antimafia” e in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandante o della mandataria.

    Quest’ultima possibilità costituisce, però – per i fautori di tale opinione –, una deroga alla regola generale dell’immodificabilità del raggruppamento temporaneo rispetto alla composizione risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, così come è sancita dall’art. 48, comma 9.

    Per tale ragione la portata applicativa del comma 19-ter, che “estende espressamente la possibilità di modifica soggettiva per le ragioni indicate dai commi 17, 18 e 19 anche in corso di gara”, deve intendersi applicabile nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[10], ivi inclusa quella per cui la “perdita dei requisiti di cui all’art. 80 [è] circoscritta espressamente alla sola fase esecutiva”. Pena, altrimenti, lo svilimento o comunque la riduzione a nullità dell’inciso “in corso di esecuzione”.

    Il secondo argomento si basa sui principi eurounitari in materia di contratti pubblici, così come ribaditi nel corso del tempo dalla giurisprudenza interna. Il diritto comunitario – ancora una volta per i sostenitori della tesi in argomento – non ammette che nella fase pubblicistica, deputata alla scelta del miglior offerente, l’A.T.I. sia attraversata da una modifica soggettiva, mediante l’addizione di un soggetto esterno alla gara: in caso contrario, ossia se venisse ammesso alla selezione un soggetto diverso da quello che ha presentato l’offerta, si finirebbe per violare la par condicio tra i concorrenti.

    La ricognizione di questo principio sarebbe stata di recente consacrata dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 9/2021[11], che si è espressa sulla cosiddetta “sostituzione in riduzione” di uno dei partecipanti a un R.T.I. e ha affermato il principio di diritto per cui “l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione, nella fase di gara, del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese, che abbia presentato domanda di concordato in bianco o con riserva a norma dell’art. 161, comma 6, l. fall, e non sia stata utilmente autorizzato dal tribunale fallimentare a partecipare a tale gara, solo se tale sostituzione possa realizzarsi attraverso la mera estromissione del mandante, senza quindi che sia consentita l’aggiunta di un soggetto esterno al raggruppamento; l’evento che conduce alla sostituzione interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara”.

    Insomma, “la deroga all’immodificabilità soggettiva dell’appaltatore costituito in raggruppamento è solo quella dovuta, in fase esecutiva, a modifiche strutturali interne allo stesso raggruppamento, senza l’addizione di nuovi soggetti che non abbiano partecipato alla gara”: ciò, infatti, “contraddirebbe la stessa ratio della deroga, dovuta a vicende imprevedibili che si manifestino in sede esecutiva e colpiscano i componenti del raggruppamento, tuttavia senza incidere sulla capacità complessiva dello stesso raggruppamento di riorganizzarsi internamente, con una diversa distribuzione di compiti e ruoli (tra mandante e mandataria o tra i soli mandanti), in modo da garantire l’esecuzione dell’appalto anche prescindendo dall’apporto del componente del raggruppamento ormai impossibilitato ad eseguire le prestazioni o, addirittura, non più esistente nel mondo giuridico (perché, ad esempio, incorporato od estinto)”[12].

    Tale approdo ermeneutico si porrebbe poi sul solco di una risalente giurisprudenza della Plenaria, addirittura antecedente al codice dei contratti pubblici, per cui in materia di gare pubbliche il divieto di modificazione della compagine delle associazioni temporanee di imprese o dei consorzi nella fase procedurale, ossia tra la presentazione delle offerte e la definizione della procedura di aggiudicazione, è finalizzato a impedire l’aggiunta o la sostituzione di imprese partecipanti all’A.T.I. o al consorzio con finalità elusive della legge di gara e in spregio alla tutela della par condicio[13].

    Dunque, ancor prima del decreto correttivo la modificazione soggettiva dei componenti di un R.T.I. era sì ammessa ma solo in senso riduttivo, a condizione che le imprese che restano a far parte del raggruppamento risultino titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione[14].

    Il terzo argomento è ancora di carattere testuale e attiene all’interpretazione letterale delle norme. A detta del Consiglio di Stato, il comma 19-ter rinvierebbe “alle ipotesi tipizzate ai precedenti commi, puramente e semplicemente, senza escludere per la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 l’inciso «in corso di esecuzione»”: l’assenza di tale precisazione, “secondo un’interpretazione letterale e logica”, andrebbe “inteso nel senso di non consentire la modificazione soggettiva se l’evento si verifichi in corso di gara”[15].

    Difatti, se “il legislatore avesse voluto estendere la rilevanza della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 in corso di gara, lo avrebbe disposto con chiarezza, introducendo il doveroso distinguo nel testo del comma 19-ter[16].

    Tale conclusione sarebbe suffragata anche dall’impossibilità di poter “ipotizzarsi una «distrazione» del Legislatore nella formulazione della norma”: siccome il comma 19-ter è stato introdotto contestualmente alla novella dei commi 17 e 18, con la quale la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi è divenuta una ragione di possibile modificazione del raggruppamento, “sarebbe … del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19-ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”[17] e dell’analogo comma 17.

    In questi termini è dunque la tesi più restrittiva, in base alla quale le ragioni fin qui esposte dovrebbero indurre a ritenere che la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandataria o di una delle mandanti “in fase di gara” determini l’esclusione dell’intero R.T.I., cui non è consentita alcuna modificazione soggettiva.

    5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”.

    Di diverso avviso un’altra parte della giurisprudenza amministrativa che, come la sentenza di primo grado che ha deciso il caso poi affrontato dalla Plenaria, ritiene che l’inciso “in corso di esecuzione” non osti all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di perdita di uno dei requisiti generali in corso di gara[18].

    Anche in questo caso il punto di partenza è, ovviamente, la lettera della norma: siccome i commi 17, 18 e 19 si riferiscono alla fase esecutiva del rapporto, l’estensione alla fase di gara delle modifiche soggettive esplicitamente prevista dal comma 19-ter non può che riferirsi – “senza distinzione alcuna”[19] – al complesso della disciplina recata dai tre commi.

    Detto con parole diverse, l’inciso “in corso di esecuzione” riferito alla perdita dei requisiti di cui all’art. 80 sarebbe da leggersi in coerenza coi due commi (17 e 18) in cui è stato inserito, entrambi dedicati unicamente alla fase esecutiva del rapporto.

    Basta leggere per intero il comma 18 per avvedersi che esso si riferisce espressamente (e solamente) alla fase esecutiva; nella parte in cui si disciplina la possibilità che la mandataria venga sostituita, si prevede infatti che “la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente Codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”.

    Altrettanto vale per il comma 17, nel quale è previsto che il mandatario, ove non indichi altra impresa al posto della mandante estromessa, “è tenuto alla esecuzione direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.

    Dunque, l’inciso aggiunto dal correttivo “…ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” si inserirebbe “in modo del tutto coerente ed omogeneo in tale contesto regolatorio afferente i mutamenti intervenuti in corso di esecuzione. In particolare, la locuzione «in corso di esecuzione», di cui all’inciso aggiunto, è neutra o al più superflua dato il contesto in cui è inserita”[20].

    Alle medesime conclusioni – sempre secondo questa certa giurisprudenza – conduce anche la ratio della novella legislativa di cui si è detto, che sarebbe “quella di apportare una deroga al principio dell’immodificabilità alla composizione dei raggruppamenti, al fine di evitare che un intero raggruppamento sia escluso dalla gara a causa di eventi sopraggiunti comportanti la perdita dei requisiti di ordine generale da parte di un’impresa componente”[21].

    Se l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la partecipazione degli operatori non colpiti da uno degli eventi elencati nei commi 17 e 18 costituiti in raggruppamento, evitando che la patologia di un operatore travolga ingiustamente anche gli altri, salvaguardando al contempo l’interesse pubblico della stazione appaltante a non perdere offerte utili, allora non vi sarebbe alcuna “ragione di operare distinzioni fra le varie sopraggiunte cause di esclusione”[22].

    Peraltro, una interpretazione siffatta esclude di per sé il rischio di abuso di tale strumento, dato che la modifica soggettiva è possibile solo nei casi di sopravvenuta carenza dei requisiti, e non nell’ipotesi di “mancanza” ab origine, sussistente fin dalla data della presentazione della domanda di partecipazione. 

    6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria.

    Così ricostruito il contrasto creatosi in seno al Consiglio di Stato, si può comprendere il motivo per cui la Quinta Sezione, con l’ordinanza n. 6959/2021, lo scorso 18 ottobre 2021 ha sottoposto il seguente quesito all’Adunanza Plenaria: “se sia possibile interpretare l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 nel senso che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 da parte del mandatario o di una delle mandanti è consentita non solo in fase di esecuzione, ma anche in fase di gara”. A tale richiesta ne è stata aggiunta una seconda, subordinata al caso in cui venisse data risposta positiva alla prima: “precisare la modalità procedimentale con la quale detta modifica possa avvenire, se, cioè, la stazione appaltante sia tenuta, anche in questo caso, ed anche qualora abbia già negato la autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara avendo ritenuto intervenuta la perdita di un requisito professionale, ad interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere la propria partecipazione alla gara”.

    Ci si dedicherà allora precipuamente a indagare le ragioni per cui il Collegio rimettente abbia ritenuto necessario coinvolgere l’Adunanza Plenaria.

    L’ordinanza in parola, a differenza delle sentenze cui appartengono entrambi gli orientamenti descritti nei due paragrafi che precedono, mette innanzitutto l’accento sul dato letterale, affermando che, a ben riflettere, “non pare decisivo per ricavare la regola della fattispecie”: difatti l’inciso “in corso di esecuzione” – sulla cui presenza i fautori dell’interpretazione più restrittiva si sono concentrati per sostenere che costituisse un ostacolo all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di sopraggiunta perdita dei requisiti di ordine generale – potrebbe essere stato inserito “per evitare il possibile dubbio interpretativo che il richiamo ai «requisiti di cui all’art. 80» vale a dire a quei requisiti – e a quell’articolo del codice – la cui verifica si compie in fase procedurale avrebbe potuto far sorgere circa l’effettivo ambito applicativo della disposizione”.

    Insomma, “senza che lo si dica inutile o superfluo come fatto dal giudice di primo grado, od anche illogico”, l’inserzione di quell’inciso potrebbe avere[23] lo scopo di evitare un equivoco.

    Oltre a ciò, continua il Giudice, non si può dubitare che risponda a logica “l’argomento per il quale se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto far eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità del raggruppamento in caso di perdita dei requisiti generali di cui all’art. 80 del codice in fase di gara, la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dar vita ad un arzigogolo interpretativo”: è infatti ben possibile sostenere che con il rinvio alle “modifiche soggettive” dei commi 17, 18 e 19, la disposizione dovrebbe consentire la modifica del raggruppamento in fase di gara per il caso in cui si presentino una tra tutte le sopravvenienze ivi previste, compresa la perdita dei requisiti generali, senza eccezioni di sorta.

    Al contempo, l’ordinanza mette in guardia dal ritenere che il problema possa essere risolto così facilmente, dato che “una distonia e contraddizione tra le norme” indubbiamente c’è ed essa ricorrerebbe su di un duplice piano.

    Sul piano interno, a voler seguire l’interpretazione restrittiva e quindi consentendo la modifica soggettiva del raggruppamento in corso di gara in caso di impresa sottoposta a procedura concorsuale o raggiunta da interdittiva antimafia e non invece nel caso in cui la stessa abbia perso uno o più dei requisiti generali, si finirebbe per ammettere la riorganizzazione dell’associazione di imprese in ipotesi che paradossalmente “risultano per più versi maggiormente allarmanti per l’interesse pubblico delle altre per le quali si vuole escluso”; e ciò senza tener conto del fatto che tutte le fattispecie previste nei commi 17 e 18, benché ciascuna abbia la sua peculiarità, sono accumunate dal fatto di essere “incidenti” che denotano la perdita dell’integrità dell’operatore economico per la sua condotta professionale[24] ovvero la perdita dell’affidabilità circa la sua capacità di eseguire le prestazioni oggetto del contratto in affidamento[25].

    Sempre sul piano interno, il Collegio fa notare la possibile distonia tra la possibilità, oggi concessa dai commi 17 e 18, a seguito dell’intervento del “decreto correttivo”, di modificare – in fase di esecuzione – i componenti del raggruppamento anche in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80, “quand’ormai la stazione appaltante ha ben poche possibilità di vagliare l’affidabilità del raggruppamento per come riorganizzatosi al venir meno di un suo componente, con ogni possibile incertezza sulla residuata capacità di esecuzione”, e l’impossibilità di operare la medesima modifica “in fase di gara quando è ancora in tempo ad effettuare ogni verifica sui rimanenti componenti”: scelta che – se il legislatore effettivamente avesse compiuto – parrebbe effettivamente poco logica.

    Quanto al piano esterno, l’interpretazione estensiva non dovrebbe essere foriera di problemi, “perché se è vero che la deroga al principio di immodificabilità dei raggruppamenti per sopravvenuto assoggettamento a procedura concorsuale di un soggetto aggregato o per adozione nei suoi confronti di una misura prevista dalla normativa antimafia evita che le vicende dell’uno possano ripercuotersi su tutti gli altri, in situazioni in cui non sia incisa la capacità complessiva dello stesso raggruppamento che, riorganizzatosi al suo interno, sia ancora in grado di garantire l’esecuzione dell’appalto”, è indubbio, seguendo questa via di ragionamento, che le medesime “ragioni possano condurre a dire giustificata la deroga all’immodificabilità del raggruppamento per la perdita dei requisiti generali di partecipazione e, specularmente, a dire non giustificato un diverso trattamento di detta vicenda”.

    Sembra quindi che non pochi siano gli aspetti problematici che genererebbe l’adesione alla tesi restrittiva, benché residui un problema di contraddizione tra norme, a voler sposare l’interpretazione estensiva.

    Ebbene, essendosi già verificato (e prospettandosi ancora possibile) un contrasto giurisprudenziale per differente ermeneutica delle norme suddette, la Quinta Sezione ha rimesso la causa all’Adunanza Plenaria, affinché questa risponda ai quesiti sopra riportati.

    7. La decisione dell’Adunanza Plenaria.

    Vale la pena partire dalle conclusioni, per poi analizzare punto per punto il ragionamento offerto dall’Adunanza Plenaria. Quest’ultima ha ritenuto “che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici) da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara, in tal senso interpretando l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter del medesimo Codice. Ne consegue che, laddove si verifichi la predetta ipotesi di perdita dei requisiti, la stazione appaltante, in ossequio al principio di partecipazione procedimentale, è tenuta ad interpellare il raggruppamento e, laddove questo intenda effettuare una riorganizzazione del proprio assetto, onde poter riprendere la partecipazione alla gara, provveda ad assegnare un congruo termine per la predetta riorganizzazione”.

    Prima di risolvere i quesiti devoluti, il Giudice propone alcune osservazioni preliminari, utili a “inquadrare” la tematica oggetto del contendere.

    La prima concerne la regola generale contenuta nell’art. 48, co. 9, a mente del quale “è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”, fatto “salvo quanto disposto ai commi 17 e 18”, i quali quindi costituiscono – per espressa previsione legislativa – due ipotesi eccezionali al predetto principio.

    Le due disposizioni – scrive la Plenaria – debbono essere interpretate alla luce di quanto affermato dalla propria sentenza n. 10/2021, per cui la sostituzione del mandatario o della mandante è consentita unicamente “con un altro soggetto del raggruppamento stesso in possesso dei requisiti”; negli stessi termini – ossia solo mediante una sostituzione “in diminuzione” e mai “per addizione[26]” – deve leggersi il comma 19, che ammette il recesso di una o più imprese raggruppate “esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento”; è vietato valersi di questi “meccanismi” per “eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”[27].

    Il comma 9 cristallizza dunque il principio generale di “immodificabilità” della composizione del raggruppamento, di cui costituiscono eccezioni sia le due ipotesi di cui ai commi 17 e 18, richiamati dallo stesso comma 9, che quella di cui al comma 19: una pluralità di esclusioni – commenta la Plenaria – “tali per la verità (stante il loro numero) da render[e] sempre meno concreta l’applicazione” del principio in parola, se si pensa che a esse deve pure aggiungersi il più volte citato comma 19-ter[28].

    Fatte tali premesse, si può quindi passare a esaminare il problema interpretativo.

    8. L’antinomia assoluta.

    A detta della Plenaria, la difficoltà di dare applicazione ai commi 17, 18 e 19-ter sarebbe ingenerato da una “antinomia normativa”, causata da “una tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”[29].

    Come già si è detto, l’art. 32, co. 1, lett. h), d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56, ha introdotto nel testo dell’art. 48, per quel che qui interessa, due modifiche: la prima ai commi 17 e 18, aggiungendo alle sopravvenienze già ivi presenti anche il “caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80”; la seconda consistente nell’aggiunta dell’intero comma 19-ter, il quale prevede che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.

    Per il Consiglio di Stato l’antinomia si concreterebbe nel fatto che, da un lato, “il riferimento espresso al «corso dell’esecuzione», contenuto nei commi 17 e 18, farebbe propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”; dall’altro lato, che “l’ampia dizione del comma 19-ter rende[rebbe] applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”.

    Prima di passare in rassegna la modalità con cui l’Adunanza Plenaria ha risolto l’antinomia, vale la pena ricordare cosa essa sia.

    Il termine ‘antinomia’ significa opposizioni di norme o regole[30], incompatibilità tra di esse[31]: è la situazione per cui due norme non possono essere entrambe vere (cioè validamente applicabili)[32]. Più precisamente, perché si abbia un’antinomia è necessario che le norme appartengano allo stesso ordinamento e che le stesse abbiano lo stesso àmbito di validità (temporale, spaziale, personale, materiale). A sua volta, a seconda che l’àmbito di validità sia uguale, in parte uguale e in parte diverso, in parte uguale ma non anche in parte diverso, l’antinomia si presenta, rispettivamente, come “totale-totale”, “parziale-parziale”, “totale-parziale”[33]; gli interpreti ritengono tuttavia che solo la prima sia la vera antinomia[34], quella che viene anche denominata antinomia assoluta, posta da fonti contemporanee, entrambe generali (o entrambe speciali), equiparate gerarchicamente e ambedue competenti[35].

    Non sono poi molti i casi in cui si riscontrano delle antinomie di tal fatta, non rinvenendosi poi così spesso nell’ambito di uno stesso atto normativo una incompatibilità tra disposizioni non risolvibile mediante semplice interpretazione[36]: in queste ipotesi, il contrasto è talmente importante che il più delle volte il legislatore è obbligato a intervenire direttamente, emanando una norma abrogativa o modificativa di una delle due disposizioni in conflitto[37].

    Vale allora la pena di capire se, alla luce di queste coordinate, le due disposizioni che riguardano la fattispecie di nostro interesse (i commi 17 e 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro) siano effettivamente in opposizione tra loro.

    Le due norme “che non possono essere entrambe vere” sono le seguenti: la prima, “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico …” (così il comma 17 e specularmente il comma 18[38]) e la seconda, “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara” (così comma 19-ter).

    A onor del vero, non pare così scontato che ci si trovi davanti a un caso di antinomia: o meglio, il contrasto insanabile tra le due disposizioni si rinviene, solo se si accede a una certa lettura delle stesse; precisamente, si ha antinomia se l’inciso “in corso di esecuzione” si interpreta in senso fortemente esclusivo, ossia come “solo in corso di esecuzione”.

    Diversamente, infatti, il comma 19-ter, che prevede l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche” in fase di gara, lascia chiaramente intendere che le tre disposizioni trovano applicazione di per sé in fase di esecuzione e, per effetto della novella, “anche” in quella successiva: aderendo a questa interpretazione, non si avrebbe alcuna antinomia.

    Beninteso, non si intende con queste righe banalizzare o semplificare il problema ermeneutico affrontato dalla Plenaria, bensì dimostrare che l’interpretazione letterale delle disposizioni, alla luce della loro ratio, consente un’esegesi che dà loro un significato, in grado di superare i dubbi applicativi, senza, peraltro, privare di significato – o considerare tamquam non esset – l’inciso “in corso di esecuzione. Non è questa, però, la strada seguita dal Consiglio di Stato, che invece rinviene un’antinomia assoluta tra le due disposizioni sopra enunciate.

    Sulla prima già si è detto molto: l’espressione “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” farebbe “propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”. 

    Sulla seconda, che genererebbe un’antinomia con la precedente, se letta nel senso per cui “l’ampia dizione del comma 19-ter” sia tale da rendere “applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”, deve ancora indugiarsi.

    Si deve infatti evidenziarne in primis il carattere poco perspicuo: risulta difficilmente comprensibile, in questo specifico contesto, l’utilizzo dell’espressione ‘modifiche soggettive ivi contemplate’.

    Essa rinvia evidentemente ai tre commi più volte citati, 17, 18, e 19: le “modifiche soggettive” di cui si discorre nelle tre disposizioni sono, rispettivamente, la facoltà per “la stazione appaltante [di] proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice”, l’obbligo per il “mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, [di eseguire], direttamente o a mezzo degli altri mandanti” i lavori o i servizi o le forniture ancora da eseguire, il “recesso di una o più imprese raggruppate”.

    Se così si devono intendere le “modifiche soggettive ivi contemplate”, ci si accorge ben presto che il comma 19-ter non ha alcun significato. Volendo fare un esempio concreto (prendendo il caso che ha riguardato la sentenza in commento), la norma che si ricava dalla disposizione in parola avrebbe questo tenore: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di eseguire i servizi, nel caso in cui, il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[39], trova applicazione anche laddove la modifica soggettiva contemplata nel comma 18, ossia la sostituzione del mandante pretermesso con altro operatore già parte del R.T.I., si verifichi in fase di gara.

    Ci si avvede subitamente che non ha alcun senso prevedere l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”; semmai, i meccanismi sostitutivi previsti da quei commi spiegheranno effetti anche laddove le sopravvenienze ivi contemplate si verifichino in fase di gara. È infatti evidente che la modifica soggettiva si potrà avere, ossia potrà dirsi autorizzabile dalla stazione appaltante, al ricorrere di uno di quelli eventi elencati dalla disposizione. Detto in altro modo, è il comma 19-ter a consentire la modifica soggettiva (ossia l’applicazione dei commi 17, 18 e 19) in fase di gara: ciò, però, non allorquando “le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”, bensì per l’ipotesi in cui quei certi “incidenti di percorso” (procedure concorsuali, perdita dei requisiti ex art. 80 ecc.) si verifichino in corso di gara.

    La giurisprudenza che si è occupata del tema sembra aver ignorato un dettato legislativo così maldestro, interpretando il comma 19-ter sempre nei termini appena detti, benché non possa passare sottotraccia che anche tale formulazione letterale debba attribuirsi a una “tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”, per usare le parole della Plenaria.

    Se questo è allora il significato – probabilmente l’unico – da attribuirsi al comma 19-ter, la norma che si ricava quanto al caso che ci riguarda sarà la seguente: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di provvedere all’esecuzione dei servizi, nel caso in cui il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[40], trova applicazione anche laddove la sopravvenienza contemplata nel comma 18, ossia la perdita, in corso di esecuzione, di uno dei requisiti di cui all’articolo 80, si verifichi in fase di gara.

    Anche al termine della ricostruzione di questi passaggi ermeneutici, ci si avvede che non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, si verifichi invece in fase di gara.

    Tale conclusione è ancora più vera, se si considera il caso ipotetico (e radicale) in cui sia al comma 17 che al comma 18 fosse anteposto l’inciso “in corso di esecuzione”, riferito a tutte le ipotesi ivi contemplate: nulla sarebbe cambiato quanto all’applicazione del comma 19-ter, che richiama le sopravvenienze ivi elencate, ossia gli accadimenti riportati dalle tre disposizioni, nella consapevolezza (del legislatore) che i tre commi hanno effetti in corso di esecuzione ed è dunque necessaria un’altra disposizione (il comma 19-ter) per estenderne la portata applicativa anche alla fase di gara.

    Non ha dunque senso sostenere che il richiamo del comma 19-ter alle fattispecie elencate ai commi 17, 18 e 19 sarebbe da intendersi nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[41], perché è evidente che tutte quelle fattispecie si riferiscono a sopravvenienze in corso di esecuzione del contratto: se così non fosse stato, non ci sarebbe stato bisogno di introdurre il comma 19-ter ed estendere gli effetti di quelle disposizioni alla fase antecedente all’esecuzione del contratto.

    Vale comunque la pena, nonostante, per quel che si è detto, si debba fare un certo sforzo per vedere un’antinomia nelle due disposizioni suddette, proseguire l’analisi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria. 

    9. I criteri di risoluzione delle antinomie.

    In presenza di un’antinomia – è noto – deve darsi applicazione ai cosiddetti criteri di risoluzione, che sono il criterio cronologico, quello gerarchico e quello di specialità.

    Non è questa la sede per ripetere concetti risaputi e ben noti a tutti gli interpreti: ci si limerà quindi a qualche sintetica considerazione in merito. Quanto al criterio cronologico, vale la pena ricordare che esso “esprime l’essenziale temporalità di ogni ordinamento positivo”[42], andando a regolare il conflitto tra norme poste da atti normativi dello stesso tipo secondo quanto dispongono i diversi ordinamenti positivi (ad esempio, nel nostro ordinamento, le varie figure di legge: costituzionale, ordinaria, regionale; i vari tipi di regolamento: governativo, ministeriale, regionale, provinciale, comunale, ecc.). Sulla base di tale criterio si risolvono quindi “antinomie «apparenti» tra norme incompatibili poste nell’àmbito dello stesso tipo di fonte e non già tra norme appartenenti a fonti diverse”[43]. Per la soluzione di queste ultime antinomie varranno i criteri stabiliti dai singoli ordinamenti positivi, i quali, differenziando i tipi di atti normativi stabiliscono pure, esplicitamente o implicitamente, le (possibili) relazioni tra le norme corrispondenti. Il criterio cronologico si applicherà quindi in ogni altra ipotesi, con l’effetto, di carattere relativo, di incidere non sulla validità della norma abrogata, bensì sulla sua limitazione di efficacia (pro futuro). 

    Il secondo criterio è quello gerarchico, in base al quale, in caso di antinomia fra norme collocate a livelli gerarchici diversi, la norma superiore “rende annullabile”[44] quella inferiore irregolare: nel nostro ordinamento antinomie fra una norma costituzionale e una contenuta in una legge ordinaria vengono regolate secondo il criterio in parola (artt. 134, 136 e 138 Cost.), così come fra una norma contenuta in una legge e una contenuta in un regolamento (art. 4, co. 1, Prel.); è vero comunque che la maggior parte dei rapporti sono positivamente disciplinati sulla base della ripartizione e separazione delle competenze normative, per cui più sovente è il criterio della competenza a trovare applicazione, come sottospecie di quello della gerarchia[45].

    Il terzo criterio è quello della specialità, per il quale, in caso di antinomia totale-parziale fra due norme (per cui l’àmbito di validità delle stesse è in parte uguale ma non anche in parte diverso), quella speciale fa eccezione a quella generale: l’attività si risolve, più che nella rilevazione della sola norma valida in un ordinamento, nella individuazione della norma applicabile al caso di specie, ossia nella restrizione della portata della disposizione generale e nella corrispondente applicazione della norma speciale derogatoria[46]

    Venendo quindi all’applicazione dei criteri suddetti nella fattispecie di nostro interesse, la Plenaria scrive che le disposizioni in contrasto tra loro sono contestuali dal punto di vista temporale, essendo “riferibili ed introdotte dalla medesima fonte”: il che, oltre a rendere inapplicabile il criterio cronologico, impedisce pure di ricorrere a quello gerarchico e a quello di specialità.

    Il Collegio passa dunque a indagare, “in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., [la] lettera delle disposizioni” e la “«volontà del legislatore»”.

    Non è questo, tuttavia, l’approccio suggerito dalla dottrina più autorevole[47]. Nel caso in cui due norme con la stessa sfera di validità, contemporanee, pariordinate e appartenenti alla stessa sfera di “competenza” normativa, entrambe generali o speciali, siano in contrasto tra loro, ossia generino un’antinomia, non vi è alcun criterio che possa soccorrere e ciò “fa sì che l’antinomia si converta in lacuna delle norme sulla normazione”[48]: difatti, il problema della coerenza dell’ordinamento giuridico si converte in una questione sulla completezza dello stesso, dal momento che anche le norme sulla normazione (e quindi i criteri di risoluzione delle antinomie) fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico[49].

    Si è cercato quindi un quarto criterio per risolvere tali antinomie insolubili: il criterio storicamente proposto “è quello che veniva tratto dalla forma della norma”[50]. Il termine ‘forma’ viene utilizzato per riferirsi al “modo di presentarsi della prescrizione”, ovverosia il “modo deontico”: obbligo (positivo), o divieto (obbligo negativo), permesso (positivo o negativo)[51]. Ci si domanda quindi se, a parità di grado, di sfera di validità, di tempo, di generalizzazione-specializzazione, sia possibile preferire l’una rispetto all’altra qualificazione del comportamento.

    La risposta si trae da uno dei principi storico-positivi dell’ordinamento giuridico complessivamente inteso, per cui esso, nella sua ideologia di fondo, ha una ispirazione liberale (tendenzialmente permissiva): in sostanza, considerando i modi deontici delle norme di comportamento, bisognerebbe stabilire una precisa prevalenza fra obblighi, divieti, permessi e facoltà secondo un’interpretazione che favorisce la lex permissiva su quella imperativa[52]. Detto altrimenti, se è vero che “tutto ciò che non è comandato (obbligatorio o vietato) è permesso”, sembrerebbe allora di poter preferire, nella situazione antinomica, il permesso al comando, positivo o negativo che sia. 

    Ciò vale per il caso in cui la norma giuridica in esame non sia bilaterale, altrimenti la preminenza del permesso sull’imperativo si risolve, corrispondentemente, nella preferenza della norma imperativa rispetto a quella permissiva nei confronti dell’altro destinatario. Il criterio può ritenersi valido e pacificamente applicabile, quindi, solo nell’ipotesi di antinomia tra norme che non presentino il carattere della bilateralità (per esempio, tra due norme che impongono «doveri» od «obblighi» o, rispettivamente, «permessi», senza che al dovere o all’obbligo corrisponda una situazione attiva di pretesa, di diritto, di interesse giuridicamente protetto[53]).

    Proprio il carattere bilaterale della norma – a ogni diritto corrisponde un dovere – ha smorzato l’entusiasmo nei confronti del criterio fin qui enunciato: è infatti evidente che quando ad una norma permissiva corrisponde una norma “imperativa”, la preminenza del permesso sull’imperativo (o, meglio, della norma permissiva sulla norma imperativa) nei confronti di uno dei due destinatari della norma o delle norme (ad es. il debitore) si risolve, corrispondentemente, nella preferenza dell’imperativo sul permesso (o, meglio, della norma imperativa su quella permissiva) nei confronti dell’altro destinatario (ad es. del creditore). Il vero problema, allora, non è di far prevalere la norma permissiva sull’imperativa, o viceversa, ma di stabilire quale dei due soggetti del rapporto giuridico, ossia quale dei due interessi in conflitto debba avere la prevalenza[54].

    Il criterio, insomma, lascia la scelta all’interprete, rivelandosi quindi, più che un vero e proprio criterio di soluzione delle antinomie, “un canone ermeneutico per la composizione di disposizioni contrarie o contraddittorie e di individuazione o deduzione della norma applicabile”[55]. Sia che si tratti, ad esempio, di preferire la norma permissiva rispetto a quella imperativa, sia di ricavare da due disposizioni contrarie la norma permissiva, l’operatore-interprete non elimina né la norma imperativa nel primo caso, né alcuna delle due potenziali norme imperative (di obbligo o di divieto) nel secondo, ma semplicemente da due disposizioni o espressioni normative tra loro contraddittorie o contrarie ricava e presceglie per l’applicazione la norma permissiva. 

    La strada cui conduce l’applicazione del presente criterio è quindi quella della “conservazione” di entrambe le norme incompatibili, attraverso la cosiddetta interpretazione correttiva, che presuppone il riconoscimento della semplice “apparenza” dell’antinomia: in essa non vi è modificazione alcuna delle disposizioni (apparentemente) contrastanti, ma semplicemente una possibile diversa interpretazione di un’espressione contenuta nel testo normativo.

    Come si è visto, invece, l’Adunanza Plenaria non ha esplorato il “criterio deontico”. E così, dopo aver registrato l’inapplicabilità dei tre criteri di risoluzione delle antinomie classici, ha affermato che non vi sarebbero “elementi utili all’interprete [che] possono essere ricavati, in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., dalla lettera delle disposizioni”[56], né qualche aiuto esegetico potrebbe ricavarsi dalle tradizionali fonti utilizzate per ricostruire la volontà del legislatore: la relazione illustrativa al d. lgs. n. 56/2017 si riduce a “poco più di una parafrasi del testo normativo”.

    Ci si propone allora di tentare la strada dell’interpretazione correttiva, onde esplorare un diverso iter che porti ad appianare il contrasto ermeneutico insorto.

    10. L’interpretazione correttiva.

    Già si è detto che ad avviso di chi scrive non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, poi si verifichi in fase di gara.

    Ad ogni modo, è innegabile che il dettato letterale abbia provocato la formazione di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: per lo meno, quindi, le disposizioni di interesse danno luogo a problemi interpretativi, che devono risolversi a mezzo di appositi criteri. 

    I criteri interpretativi sono i medesimi strumenti che ha a disposizione il giudice, nel caso in cui non rinvenga un’antinomia assoluta insolubile, ma anche nel caso più semplice e comune in cui vi siano due norme apparentemente incompatibili. La filosofia del diritto conosce nove argomenti giuridici[57], che rappresentano un sottoinsieme del più ampio insieme degli argomenti retorici: oltre ai quattro menzionati dall’art. 12 delle Preleggi, ve ne sono altri cinque.

    Il primo di essi è l’argomento letterale o, come nell’art. 12 Prel., del “significato proprio delle parole”, che invoca il rispetto del vincolo rappresentato dal significato utilizzato dal legislatore: serve a ottenere un’interpretazione meramente linguistica, cui deve sempre seguire un’interpretazione in senso stretto, o giuridica. Il secondo è l’argomento psicologico o, come nell’art. 12 Prel., dell’“intenzione del legislatore”, che richiede di attribuire a una disposizione il significato attribuitole da chi l’ha concepita. Il terzo è l’argomento a contrario, definito come l’argomento per cui, se il legislatore “ha esplicitamente prescritto una certa disciplina per un certo oggetto, ha implicitamente prescritto la disciplina opposta per qualsiasi altro oggetto”[58]. Il quarto argomento è la cosiddetta analogia legis o argomento a simili, codificata nel diritto italiano dal secondo comma dell’art. 12 Prel., per cui, “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Questo secondo inciso dell’art. 12, per vero, è un argomento a sé stante, la cosiddetta analogia iuris, per cui si ricava una norma implicita a partire da principi (generali, ma anche costituzionali).

    Vi sono poi l’argomento della dissociazione, per cui l’interpretazione conduce a distinguere dal caso generico regolato un altro sotto-caso più specifico[59]; l’argomento teleologico o della ratio legis, che richiede di interpretare una disposizione secondo la sua ratio, “in base ai fini o scopi oggettivamente perseguiti dalla norma”[60]; l’argomento sistematico, che, più che un singolo argomento, è una famiglia di argomenti, accumunati dall’esigenza “che la norma da individuare sia comunque compatibile con le altre norme ordinate in una stessa sistematica”[61]: fra gli argomenti sistematici, si ricordano quello topografico o della sedes materiae, quello dogmatico, quello della coerenza e l’interpretazione adeguatrice; vi è infine l’argomento equitativo, per il quale bisogna scegliere l’interpretazione più conforme all’equità (da intendersi come giustizia nel caso specifico) o alla giustizia (del caso generico)[62].

    Ebbene, così riassunti i principi da applicarsi alla fattispecie e consideratene le sue peculiarità, vi è che l’argomento letterale, analogico, psicologico, a contrario e quello della dissociazione non sono utili per risolvere il nostro caso, benché, come già si è scritto, sia una certa lettura dell’inciso “in corso di esecuzione” ad aver esacerbato il dibattito sulla questione e ad aver reso, per alcuni, inutile la sola interpretazione letterale.

    Di poco aiuto è l’argomento teleologico, che comunque è bene distinguere dall’argomento psicologico, avendo un tratto interpretativo di tipo oggettivo. L’argomento teleologico richiede di risalire “all’oggettivo scopo della legge, non alla soggettiva intenzione del legislatore”[63]: di conseguenza, mentre quest’ultima resta sempre uguale a sé stessa, l’oggettivo scopo della legge può cambiare nel tempo. L’argomento teleologico viene dunque utilizzato per fornire un’interpretazione evolutiva o innovatrice, mentre l’argomento psicologico per una lettura “originalista” o conservatrice. Nel nostro caso, trattandosi di assai disposizioni recenti, non vi è l’esigenza di adeguarle al mutato spirito dei tempi, della legge o dell’ordinamento.

    Sembra, invece, decisivo l’argomento detto sistematico, in particolare il sotto-argomento topografico e quello della coerenza.

    Il punctum pruriens è la presenza e la collocazione dell’inciso “in corso di esecuzione” nei commi 17 e 18. La Plenaria, così come anche il Giudice rimettente, non trovano convincente la tesi per cui tale espressione potrebbe essere superflua, benché, considerato che la tecnica legislativa è stata “poco sorvegliata”, è un risultato che non dovrebbe poi stupire molto.

    Sulla possibilità di risolvere il conflitto anche attraverso una mera esegesi letterale, già si è detto. Vi è comunque un’altra ragione che giustifica quell’esito ermeneutico e l’esistenza di questa precisazione: i commi 17 e 18 sono originariamente stati concepiti come disposizioni aventi efficacia nella fase esecutiva del rapporto; i requisiti di cui all’art. 80 sono, invece e a rigore, ragioni di esclusione dell’operatore economico “dalla partecipazione a una procedura d’appalto” e la verifica dell’insussistenza di ragioni di esclusione riguarda precipuamente la fase della selezione (o comunque la fase anteriore alla stipulazione del contratto), non la fase esecutiva: del resto, benché tale condizione di “irriprensibilità morale” debba sussistere per tutta la durata dell’appalto, non vi sono dei momenti codificati nei quali, nella fase esecutiva, la stazione appaltante debba procedere a verifiche della persistenza di tali requisiti in capo all’aggiudicatario.

    Insomma, sembra possibile affermare che l’inciso fosse funzionale a non creare equivoci, ossia a inserire una previsione, com’è quella della perdita dei requisiti di cui all’art. 80, tipicamente afferente alla fase procedurale, in una disposizione riguardante ciò che accade all’indomani della stipulazione del contratto.

    Sempre utilizzando l’argomento topografico, sarebbe inspiegabile la scelta del legislatore di inserire un’eccezione alla facoltà consentita dal comma 19-ter in un comma che lo precede, ossia il comma 17 ovvero il comma 18. Difatti, a voler seguire questa interpretazione, l’inciso “in corso di esecuzione” a una prima lettura della norma, che proceda dal primo all’ultimo comma dell’art. 48, non avrebbe alcun significato, bensì lo acquisterebbe solo dopo aver letto il comma 19-ter. Al di là dell’“arzigogolo interpretativo” che si avrebbe, pare evidente che il legislatore non possa aver novellato le disposizioni in questo modo.

    Vi sono poi ragioni di coerenza – e si viene qui all’argomento omonimo, parte della “famiglia” dell’argomento detto sistematico – che impongono di non vedere un’eccezione, là dove essa non c’è. Il comma 19-ter, benché formulato in modo discutibile e poco perspicuo, è chiaro nei suoi intenti: rendere possibili le modifiche soggettive previste dai commi 17, 18 e 19 anche “nella fase di gara”, laddove le sopravvivenze ivi contemplate si verifichino in questa specifica fase. L’argomento della coerenza impone di non creare antinomie con altre norme collocate allo stesso livello gerarchico: è evidente, invece, che l’introduzione per via interpretativa di una eccezione a una certa regola in un luogo diverso da dove quella stessa regola è sancita non risponde a coerenza. Se il comma 19-ter avesse inteso prevedere un’eccezione, non si sarebbe espresso in termini così piani da non lasciar intendere che ve ne siano: e ciò a maggior ragione nel caso di specie, in cui la modifica dei commi 17 e 18 è coeva all’introduzione del comma 19-ter.

    Decisiva si presenta infine l’interpretazione adeguatrice, ossia quell’argomento che impone all’interprete di non produrre antinomie con norme collocate a un livello gerarchico superiore. Tipica dell’interpretazione costituzionale, essa rappresenta quel sottotipo di argomentazione sistematica, che consiste nell’attribuire a una disposizione solo significati conformi a costituzione o comunque a quei principi generalissimi su cui si fonda una certa materia.

    Tale metodo interpretativo si concretizza in un controllo di ragionevolezza, ossia in un esame comparativo finalizzato a stabilire se il legislatore abbia legiferato ragionevolmente, trattando casi uguali in modo uguale e casi diversi in modo diverso.

    Un lettore attento delle sentenze che hanno sostenuto l’interpretazione restrittiva non avrà mancato di notare che nessun interprete è stato in grado di argomentare la ragione per cui la perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara dovrebbe costituire “una colpa senza possibilità di perdono” per tutti i membri del raggruppamento di cui l’operatore economico colpito fa parte. Insomma, non vi è una buona ragione per escludere l’intero R.T.I. nel caso in cui un suo componente sia colpito, in fase di gara, da un motivo di esclusione ex art. 80; perché, se essa ci fosse, allora dovrebbe considerarsi incostituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., la mancata esclusione del R.T.I., nel caso in cui un suo associato sia colpito da un’interdittiva antimafia, attesa la maggiore gravità di questa fattispecie.

    Vi è poi un ultimo aspetto che l’interpretazione secondo ragionevolezza impone di prendere in esame: il netto ridimensionamento del principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese nel corso del tempo. Come peraltro la stessa Plenaria osserva, le eccezioni sono oramai talmente numerose, che pare difficile continuare a predicare l’esistenza di un principio di tal fatta in termini assoluti: vi sono le ipotesi di cui ai commi 17 e 18, l’estensione degli stessi alla fase di gara per effetto del comma 19-ter, la possibilità per l’A.T.I. di riorganizzarsi in caso di recesso da parte di una delle partecipanti.

    Se è ancora sostenibile che le modificazioni ammissibili sono solamente quelle che per espressa previsione di legge vengono ritenute giustificabili, è vero comunque che il loro numero non è poi così limitato. Se quindi il principio di immodificabilità deve oggi interpretarsi in questo senso, ossia in quello per cui gli incolpevoli componenti del R.T.I. non possono essere sanzionati (ed esclusi) per il sol fatto di essersi associati con un’impresa poi ritenuta non meritevole di eseguire una commessa pubblica, sicuramente nel novero delle eccezioni deve includersi la sopravvenuta perdita di uno dei requisiti di cui all’art. 80, anche se accaduta in fase di gara.

    Una conclusione diversa, poi, finirebbe per svilire la funzione antimonopolistica degli R.T.I.[64], aumentando i rischi di essere esclusi per quegli operatori che, stante la propria dimensione, sono costretti ad associarsi, e si avrebbe l’indesiderato effetto di agevolare invece quegli operatori economici che hanno in proprio tutti i requisiti per partecipare da soli alla gara.

    Per tutte queste ragioni, l’inciso “in corso di esecuzione” non può essere interpretato come eccezione alla disposizione recata dal comma 19-ter.

    11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata.

    Concluso il percorso argomentativo che, ad avviso di chi scrive, si sarebbe dovuto seguire per risolvere il noto quesito, può ora riprendersi il ragionamento della Plenaria, che, una volta riconosciuta l’esistenza di una antinomia assoluta, è passata a esaminare le disposizioni antinomiche dal punto di vista letterale e ha quindi preso in considerazione la voluntas legis, tuttavia senza ricavare elementi utili.

    Non potendo il giudice ricorrere al non liquet in attesa dell’intervento del legislatore, l’antinomia è stata composta dal Consiglio di Stato seguendo l’iter che si appresta ad analizzare.

    L’Adunanza Plenaria si dice convinta che si tratta di una “antinomia assoluta” o “totale”, non potendosi sostenere che “vi sarebbe solo una incompatibilità apparente di enunciati, stante la natura «generale» della norma espressa dal comma 19-ter e la natura «parziale» di quella ricavabile dagli incisi dei commi 17 e 18”. “È questo il caso” – continua la sentenza in commento – “che ricorrerebbe allorché si intenda sostenere che il richiamo effettuato dall’art. 19-ter (norma generale) alle «modifiche soggettive ivi contemplate» (cioè nei commi 17 e 18) vada inteso come riferito alle predette modifiche «come disciplinate» dai medesimi commi 17 e 18 (e dunque, anche nei limiti per esse imposti)”: da ciò conseguirebbe che, “mentre la norma del comma 19-ter sarebbe tranquillamente applicabile (nel suo effetto espansivo riferito alla fase di gara) a tutte le modifiche soggettive salvo quelle derivanti «dalla perdita dei requisiti di cui all’art. 80», l’enunciato «in corso di esecuzione» a queste ultime riferito introdurrebbe una norma speciale che sottrae i casi considerati alla disciplina del comma 19-ter”.

    Un’ipotesi di questo genere costituirebbe però un’antinomia “totale-parziale” (o “unilaterale”), che tuttavia non ricorre nella fattispecie, viceversa occorrendo – scrive ancora la Plenaria – “- o che uno dei due enunciati nomativi aggiungesse una specificazione (ad esempio, nel caso di specie, ad una certa fase della gara), tale da escludere (eccettuare) un singolo caso dalla classe di fattispecie altrimenti disciplinata dalla norma generale; nel caso di specie, invece, le fattispecie si presentano perfettamente coincidenti; - ovvero (e quantomeno) che l’esclusione della singola fattispecie fosse prevista dalla stessa norma generale, con una delle formule usualmente utilizzate dal legislatore (ad esempio: “fatto salvo quanto previsto…etc.”), e dunque, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il comma 19-ter (norma generale) ad escludere la specifica ipotesi della “perdita dei requisiti di cui all’art. 80” dalla classe di fattispecie degli articoli 17 e 18 per le quali interviene l’effetto ampliativo anche alla fase di gara”.

    La Plenaria, tuttavia, argomentando perché nella fattispecie ci si trovi davanti a una antinomia assoluta e non a un’antinomia totale-parziale, finisce per smentire in punto di merito l’interpretazione restrittiva di cui si è detto sopra, che allora non si comprende se sia infondata – perché postula l’esistenza di un’antinomia parziale là dove, invece, ve ne è una “assoluta” – o sia da non preferirsi per altre ragioni.

    Nella sentenza si può infatti leggere che, “in difetto di previsione espressa del legislatore, l’esclusione della predetta fattispecie sarebbe il frutto di una doppia operazione dell’interprete, il quale dovrebbe dapprima applicare l’estensione prevista dal comma 19-ter alle molteplici fattispecie di cui ai commi 17 e 18 e poi limitare tale estensione ad una sola di esse per effetto di una esclusione che agirebbe per così dire «di rimbalzo» sulla norma generale. In questo caso, per effetto di un duplice percorso interpretativo (secondo un tragitto, per così dire, di «andata e ritorno»), l’interprete più che risolvere un problema di antinomia finisce per auto-attribuirsi una potestà normativa ex novo”. All’esclusione di tale ipotesi interpretativa perviene, in sostanza, anche l’ordinanza di rimessione, laddove sostiene come risponda a logica “l’argomento per il quale, se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto fare eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità … la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dare vita ad un arzigogolo interpretativo. Ed al fine di escludere l’interpretazione «restrittiva», valga, da ultimo, rilevare come questa sia conseguenza di una considerazione «sovrastimata» dell’inciso «in corso di esecuzione», posto che problemi interpretativi non molto dissimili potrebbero porsi – volendo utilizzare il metodo interpretativo qui non condiviso – anche per il fatto che il legislatore, nel momento stesso in cui introduceva il comma 19-ter, non ha eliminato dai commi 17 e 18 i riferimenti ai lavori, servizi o forniture «ancora da eseguire»; cioè proprio quei riferimenti che, prima delle modifiche introdotte dal d. lgs. n.56/2017, costituivano il fondamento dell’interpretazione limitativa delle sopravvenienze soggettive alla sola fase di esecuzione”.

    Queste considerazioni, in cui la (s)correttezza dogmatica dell’interpretazione restrittiva si confonde con la sua insostenibilità nel merito, conducono dunque la Plenaria ad affermare di dover risolvere l’antinomia con “il ricorso ad altre considerazioni, riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta”.

    Il primo argomento enucleato dalla Plenaria è l’equità o comunque l’applicazione del principio di non discriminazione, tra concorrenti e tra fattispecie che debbono essere trattate nello stesso modo.

    Escludere la perdita dei requisiti ex art. 80 dal novero delle fattispecie per cui è ammessa una modifica soggettiva del raggruppamento in fase di gara finirebbe per introdurre “una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata” e condurrebbe a un esito interpretativo “irragionevole”, dato che, nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, si consentirebbe “la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere considerat[i] più gravi – secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia – rispetto a quelli relativ[i] alla perdita di requisiti di cui all’art. 80”.

    Non vanno nemmeno trascurate le esigenze di tutela di quelle imprese, associate nel raggruppamento, di per sé incolpevoli, che, in caso di sopravvenuto difetto di uno dei requisiti generali da parte di una società associata, finirebbero per essere resi, per colpa altrui, incapaci a contrattare con la pubblica amministrazione: tale esito esiterebbe nella creazione di una “fattispecie di «responsabilità oggettiva», ovvero una inedita, discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo”.

    Al rigetto dell’interpretazione restrittiva milita anche uno dei principi fondamentali in tema di disciplina dei contratti con la pubblica amministrazione – tale da giustificare la previsione stessa del raggruppamento temporaneo – ossia quello di consentire la più ampia partecipazione delle imprese, in condizione di parità, ai procedimenti di scelta del contraente (e dunque favorirne la potenzialità di accedere al contratto, al contempo tutelando l’interesse pubblico ad una maggiore ampiezza di scelta conseguente alla pluralità di offerte). Ebbene, “una interpretazione restrittiva della sopravvenuta perdita dei requisiti ex art. 80, a maggior ragione perché non sorretta da alcuna giustificazione non solo ragionevole, ma nemmeno percepibile”, avrebbe come effetto – ingiusto – quello di “porsi in contrasto sia con il principio di eguaglianza, sia con il principio di libertà economica e di par condicio delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (come concretamente declinati anche dall’art. 1 della l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici)”.

    A una conclusione non dissimile era giunta pure l’ordinanza di rimessione, ove si trova affermato che “nessuna delle ragioni che sorreggono il principio di immodificabilità della composizione del raggruppamento varrebbero a spiegare in maniera convincente il divieto di modifica per la perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 in sede di gara: non la necessità che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, in quanto, una volta esclusa dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 10 del 2021 la c.d. sostituzione per addizione, tale evenienza non potrà giammai verificarsi quale che sia la vicenda sopravvenuta per la quale sia venuto meno uno dei componenti del raggruppamento; né la tutela della par condicio dei partecipanti alla procedura di gara, che è violata solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato”.

    Nella fattispecie, quindi, l’antinomia assoluta “trova soluzione inquadrando il caso concreto e le norme antinomiche ad esso applicabili nel più generale contesto dei principi costituzionali ed eurounitari, fornendo una interpretazione che renda applicabile una sola di esse in quanto coerente con detti principi, e che consente una regolazione del caso concreto con essi compatibile. In tal modo, l’interpretazione determina – in presenza di norme incompatibili ma provenienti da fonti di pari livello e contestualmente introdotte dalla medesima fonte – la applicazione di una sola di esse (quella, appunto, compatibile con le fonti sovraordinate della Costituzione e del diritto dell’Unione Europea) e la non applicazione dell’altra, recessiva perché contraria ai più volte richiamati principi”.

    Un’operazione di questo tipo – a detta della Plenaria – è pienamente legittima, costituendo, da un lato, “solo una più articolata applicazione del metodo di interpretazione secondo Costituzione; per altro verso, costituisce metodo interpretativo non del tutto ignoto allo stesso legislatore ordinario, laddove questi prevede (art. 15 disp. prel. cod. civ.) la possibile abrogazione di norme “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”[65]; dall’altro lato, una attuazione del principio di coerenza, “che impone il superamento delle antinomie, rimettendo all’interprete, chiamato ad individuare ed applicare la regola di diritto al caso concreto, di verificare le possibilità offerte dall’interpretazione, senza necessariamente (e prima di) evocare l’intervento del giudice delle leggi”.

    Benché il percorso interpretativo non sia stato lineare e si trovi una certa commistione di argomenti, comunque l’approdo della Plenaria non è assai dissimile da quello cui si è giunti in questo contributo: da un lato, in forza del richiamo all’equità e ai principi di non discriminazione, dall’altro, per effetto di un’interpretazione sistematica, che impone di considerare la topografia delle norme, di non creare antinomie con norme gerarchicamente superiori, di operare un controllo di ragionevolezza, analogo a quello che generalmente svolge la Corte Costituzionale.

    12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”?

    Un cenno a una questione che, se è risolta nel caso di specie, non lo è in via generale.

    Per effetto dei commi 17, 18 e 19-ter, così come da ultimo interpretati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria qui in commento, che una sopravvenienza tra quelle più volte citate accada “in fase di gara” ovvero nel corso dell’esecuzione del rapporto, nulla cambia: in entrambe le ipotesi è consentito ricorrere ai ben noti meccanismi modificativi.

    Vale comunque la pena domandarsi, benché, come si è detto, oggi non rilevi più ai fini dell’applicazione delle norme in parola, quando la fase di gara possa dirsi conclusa.

    Semplicisticamente si suole affermare che la stipulazione del contratto sia il momento in cui si conclude la parte pubblicistica della competizione. Questo insegnamento si fonda sulla disciplina che regola il riparto di giurisdizione delle controversie attinenti alle procedure di affidamento di appalti pubblici: alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo afferiscono tutti giudizi che hanno ad oggetto ciò che accade nel “tratto procedimentale” e, dunque, pubblicistico delle stesse; la fase esecutiva del relativo rapporto, invece, è riservata alla cognizione del giudice ordinario[66].

    Come è noto, le procedure a evidenza pubblica hanno una “prospettiva bifasica” che caratterizza la formazione del contratto: la “procedura di affidamento”, ossia la fase propriamente pubblicistica, che si concreta in peculiari procedimenti amministrativi che esitano nella determinazione conclusiva con cui viene disposta l’aggiudicazione a favore dell’offerta selezionata; e la fase esecutiva, ossia la “stipula del contratto” e la formale assunzione degli impegni negoziali.

    Siccome quest’ultima fase prefigura situazioni essenzialmente paritetiche, eventuali controversie che la riguardano sono devolute al giudice ordinario. La distinzione emerge oggi anche dall’art. 30, co. 8, del codice dei contratti pubblici, in base al quale “alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici … si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”.

    È altrettanto pacifico, però, che vi siano fattispecie connotate da peculiarità tali da costituire delle deroghe a tale principio, dovendosi avere bene a mente che il criterio di riparto della giurisdizione si fonda sulla situazione giuridica fatta valere. Ogni volta che l’agire della stazione appaltante attiene ad un segmento procedimentale pubblicistico, ed è collegata all’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione, sussisterà la giurisdizione del giudice amministrativo. Tale discrimen è determinante, tenuto conto che la valutazione dell’interesse pubblico esclude ogni rapporto paritetico, anche se sussiste un vincolo contrattuale tra le parti. Ne consegue che, nella fase privatistica, l’Amministrazione si pone con la controparte in una posizione di parità che si può definire ‘tendenziale’, in quanto può sempre verificarsi l’ipotesi che l’intervento autorizzativo sia espressione di una valutazione operata al fine primario dell’interesse pubblico. In tal caso, appare all’evidenza l’insussistenza tra le parti (pubblica e privata) di un rapporto giuridico paritetico, che invece si ravviserebbe in situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici[67].

    Insomma, al fine di definire quando una gara possa dirsi conclusa il criterio del riparto della giurisdizione non è detto che sia sempre soddisfacente. O meglio, sicuramente si può affermare che la “fase esecutiva” comincia con la stipulazione del contratto (coincidendo quindi con il primo momento in cui si affaccia in questa materia la giurisdizione del giudice ordinario), ma non risponde al vero che la “fase di gara” allo stesso modo si chiuda un momento prima della predetta sottoscrizione.

    Infatti, il tempo dedicato alla competizione vera e propria si chiude con l’aggiudicazione: ad essa, seguono una serie di controlli sul “possesso dei prescritti requisiti”, che, in caso di esito positivo, determinano l’efficacia dell’aggiudicazione (così l’art. 32, co. 7, d.lgs. n. 50/2016). Indi, “divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario, purché comunque giustificata dall’interesse alla sollecita esecuzione del contratto”[68].

    Ebbene, ci si domanda allora se debba intendersi incluso nella cosiddetta “fase di gara” il periodo di tempo intercorrente tra l’aggiudicazione e il momento in cui essa diviene efficace (ossia al termine della verifica dei requisiti dell’operatore economico utilmente classificato), così come se debba considerarsi ricompreso nella “fase di gara” l’intervallo temporale che intercorre tra quando l’aggiudicazione diventa efficace e il giorno in cui il contratto viene sottoscritto dall’aggiudicatario e dalla stazione appaltante. Ben può darsi, infatti, che in questo secondo arco di tempo l’aggiudicazione venga impugnata ovvero che la stessa sia sospesa (dal giudice o, prima ancora, per effetto delle disposizioni che regolano il cosiddetto “stand still[69]).

    Del tema qui accennato non si vuole proporre una soluzione, né esso rappresenta più un problema nel caso di nostro interesse. Resta però che l’espressione “fase di gara”, invalsa nel gergo degli operatori ma non definita dal codice, è vaga e pertanto foriera di possibili ambiguità. Un altro aspetto su cui la tecnica legislativa dovrebbe maggiormente sorvegliare. 

    13. Considerazioni conclusive.

    Gli esiti cui si giunge seguendo il percorso interpretativo disegnato dalla dottrina e quelli cui è pervenuta l’Adunanza Plenaria, che ha argomentato più liberamente, dando ampia applicazione all’equità sostanziale, sono sostanzialmente i medesimi. Tuttavia, non possono condividersi appieno le premesse da cui il Supremo Consesso ha preso le mosse, ossia l’esistenza di un’antinomia insolubile, di cui non si sono rinvenuti gli estremi nell’analisi qui condotta. La pronuncia ha comunque il pregio, avendo dovuto colmare una lacuna o per lo meno comporre un contrasto, di aver riconosciuto che il principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese è tramontato, per lo meno nei termini in cui tradizionalmente è stato predicato, e che esso oggi sopravvive in una forma temperata, frutto di un bilanciamento tra diversi principi, tra cui quello di economicità e buon andamento, per cui bisogna consentire alla stazione appaltante, là ove possibile, di non escludere inutilmente operatori economici che sono a tutti gli effetti degni di contrattare con una pubblica amministrazione; e il principio di par condicio e non discriminazione, per cui non possono essere pretermesse dal mercato degli appalti pubblici quelle società che, incolpevolmente, si sono associate con partner commerciali che, nel corso del tempo, sono stati colpiti da eventi che ne minano l’affidabilità. Più che un’antinomia tra disposizioni, la pronuncia risolve la distanza tra le diverse anime del Consiglio di Stato, finendo per sconsigliare tutte quelle decisioni che sono inutilmente punitive e penalizzanti (e quindi irragionevoli), anche per la stessa stazione appaltante, i cui interessi quegli stessi principi sono chiamati a proteggere.


    [1] Nella sentenza di primo grado, T.A.R. Toscana, sez. II, 10 febbraio 2021, n. 217, si parla genericamente del fatto che “nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria, rispetto ad altre commesse e poi ad altre gare, sono venuti ad incrinarsi i rapporti tra il mandante … (mandante al 10%) e la stazione appaltante, portando a contrapposte iniziative volte tra l’altro allo scioglimento dei rapporti in essere con reciproci addebiti di inadempimento”.

    [2] Si trattava peraltro di riassegnare tra i membri restanti una quota limitata al solo 10%.

    [3] Le citazioni sono tratte dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2022 qui commentata, che, a differenza della pronuncia di primo grado, ha riportato ampi stralci dei provvedimenti impugnati.

    [4] In tema di R.T.i. si vedano, tra i moltissimi, P. Chirulli, I soggetti ammessi alle procedure di affidamento, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, in Trattato dei contratti diretto da Rescigno-Gabrielli, Milano, 2010, pp. 373 ss.; R. Greco, Commento all’art. 37, in Garofoli-Ferrari, Codice degli appalti pubblici, Roma, 2011, pp. 409 ss.; S. Santoro, Nuovo manuale dei contratti pubblici, Rimini, 2011, 783 ss.

    [5] Così M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese tra tutela della concorrenza e tutela dell’interesse pubblico, in Riv. it. dir. pub. com., 2003, pp. 179 s.

    [6] Così R. Dagostino, Commento all’art. 48, in L.R. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano, 2017, p. 501. Si vedano anche T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 6 febbraio 2017, n. 211, e Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, per cui le modifiche soggettive erano consentite unicamente dopo la stipulazione del contratto, ma non in corso di gara. 

    [7] Per comodità di lettura, si riporta il testo del comma 18, prima della modifica operata dal d.l. n. 56/2017: “Salvo quanto previsto dall’articolo 110, comma 6, in caso di liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o di liquidazione di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o liquidazione giudiziale del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.

    [8] Le due pronunce di riferimento sono Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 833, e sez. III, 11 agosto 2021, n. 5852.

    [9] Già si sono elencati: in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione di uno dei mandanti, ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo.

    [10] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.

    [11] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 9.

    [12] Così, ancora, l’Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2021 cit.

    [13] Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2013, n. 8.

    [14] Così Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, e 24 febbraio 2020, n. 1379.

    [15] Così Cons. Stato n. 5852/2021.

    [16] Ancora Cons. Stato n. 5852/2021.

    [17] In questi termini si è espressa la sentenza n. 833/2021 del Consiglio di Stato: “Se ne trae ulteriore conferma dal fatto che proprio l’art. 18 è stato contestualmente modificato introducendo, bensì, anche la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi quale ragione di possibile modificazione del raggruppamento, ma espressamente limitando l’ipotesi alla fase esecutiva. Sarebbe, allora, del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19 ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”.

    [18] Così Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245; nello stesso senso anche C.G.A.R.S., sez. giur., 22 maggio 2020, n. 298.

    [19] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.

    [20] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.

    [21] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.

    [22] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit. In questi termini si è espresso anche Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245: “A fronte del chiaro disposto del comma 19 ter, che rinvia alle disposizioni di cui ai commi 17, 18 e 19, non sono conducenti gli argomenti che l’appellante trae dalla Relazione illustrativa al correttivo al codice (pag. 20) e dall’Atto del Governo n. 397 (pagg. 86 e 87). Né è convincente l’argomentazione dell’appellante secondo cui nel rinvio ai citati commi, il comma 19 ter farebbe salva anche la locuzione «in corso di esecuzione», perché si tratterebbe di una contraddizione palese con il contenuto dispositivo innovativo del nuovo comma aggiunto dal Legislatore del correttivo, che lo priverebbe di significato”.

    [23] È d’uopo usare il condizionale, dato che nessuna fonte consente di ricostruire la precisa voluntas legis.

    [24] L’ordinanza si riferisce al mancato versamento di contributi previdenziali o al mancato pagamento dei tributi, al dubbio circa l’idoneità morale conseguente all’adozione di uno dei provvedimenti della normativa antimafia.

    [25] L’ordinanza si riferisce ai pregressi inadempimenti, specialmente se intervenuti con la stessa stazione appaltante, ma anche allo stato di decozione comportante l’assoggettamento alla procedura concorsuale.

    [26] Ricorda la Plenaria n. 10/2021, richiamata dalla sentenza in commento, che “la modifica sostituiva c.d. per addizione costituisce ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza perché ammette ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede attualmente l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario”.

    [27] La sentenza della Plenaria n. 10/2021 aggiunge che l’evento che conduce alla sostituzione meramente interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale”.

    [28] Non si può mancare di evidenziare che, benché le ipotesi derogatorie al principio di immodificabilità siano molte, non sono tutte dello stesso genere. Ed infatti, come sottolinea la sentenza in commento, “mentre le ipotesi disciplinate dal comma 17 (con riferimento al mandatario) e dal comma 18 (con riferimento ad uno dei mandanti) attengono a vicende soggettive, puntualmente indicate, del mandatario o di un mandante, conseguenti ad eventi sopravvenuti rispetto al momento di presentazione dell’offerta”, vi è invece che l’ipotesi di cui al comma 19 attiene ad una modificazione della composizione del raggruppamento derivante da una autonoma manifestazione di volontà di recedere dal raggruppamento stesso, da parte di una o più delle imprese raggruppate, senza che si sia verificato nessuno dei casi contemplati dai commi 17 e 18, ma solo come espressione di un diverso e contrario volere rispetto a quello di partecipare, in precedenza manifestato. Ed il recesso in tanto è ammesso, non tanto in base ad una più generale valutazione dei motivi che lo determinano, ma in quanto le imprese rimanenti «abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire» e sempre che la modifica soggettiva derivante dal recesso non sia «finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara»”. Insomma, “si tratta, dunque, nel caso disciplinato dal comma 19, di eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento del tutto diversa da quelle di cui ai commi 17 e 18, di modo che la possibilità che la stazione appaltante non ammetta il recesso di una o più delle imprese raggruppate non esplica alcun effetto sulle diverse ipotesi di eccezione, relative alle vicende soggettive del mandatario o di uno dei mandanti, disciplinate dai citati commi 17 e 18 dell’art. 48”.

    [29] In risposta a coloro che – a più riprese – hanno sostenuto che non vi era, invero, nessun contrasto interpretativo, perché, se anche in passato vi fosse stato, esso doveva dirsi risolto dalla sentenza della Plenaria n. 10/2021, la medesima Adunanza scrive che “è opportuno preliminarmente precisare che tale problema non può dirsi superato e risolto per effetto di quanto incidentalmente affermato da questa stessa Adunanza Plenaria, con la propria citata decisione n. 10 del 2001 [recte, 2021] (v. par. 23.3), al contrario di come invece ritengono l’appellante e la costituita amministrazione. Come condivisibilmente osservato anche dall’ordinanza di rimessione, la questione della estensione della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 non rappresentava affatto la questione centrale di quel giudizio, né tale problema interpretativo forma espressamente oggetto dei principi di diritto enunciati dalla citata sentenza n. 10/2001 (né di questi costituisce il presupposto logico giuridico), principi solo in relazione ai quali si esplica l’effetto nomofilattico voluto dall’art. 99 c.p.a. Si è trattato, dunque, di una affermazione incidentale, non conseguente ad una disamina argomentativa peraltro non necessaria, stante l’estraneità di questo aspetto al thema decidendum”.

    [30] Così T. Mazzarese, Antinomia, in Dig. disc. priv., Torino, 1989, I, p. 348. Come ricorda l’Autrice, il termine ‘antinomia’ è utilizzato anche in altre due accezioni, diverse da quella etimologica. In una prima accezione, ‘antinomia’ designa “la contraddizione tra due proposizioni ambedue ugualmente dimostrabili” (in questo senso I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga, 1781, 1787); in una seconda accezione, ‘antinomia’ designa (in logica) “un enunciato tale che sia la sua affermazione, sia la sua negazione implicano una contraddizione” (tra i molti, F. von Kutschera, Die Antinomien der Logik, Freiburg-München, 1964).

    [31] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine), in Enc. dir., Milano, 1980, XXX, p. 706. 

    [32] Così F. Modugno, ibidem. L’Autore aggiunge che “le due norme possono essere, quindi, o entrambe false (contrarietà) o una delle due falsa e l’altra necessariamente vera (contraddizione). Rispettivamente, la prima opposizione si verifica tra norma obbligatoria (prescrizione di fare alcunché) e norma proibitiva (prescrizione di non fare alcunché); la seconda, sia tra norma obbligatoria e norma (negativamente) permissiva o «facoltativa» (non è prescritto di fare alcunché), sia tra norma proibitiva e norma (positivamente) «permissiva» (non è prescritto di non fare alcunché). Insomma, l’obbligo è antinomico al divieto, perché tra loro contrari; l’obbligo è antinomico al permesso (negativo) e il divieto al permesso (positivo), perché tra loro, rispettivamente, contraddittori. S’intende che, mentre la soluzione della prima antinomia può risolversi significativamente nella negazione di entrambi i termini: un comportamento non è né obbligatorio né vietato, ma semplicemente permesso; la soluzione delle altre due si risolve sempre nella negazione di uno solo dei due termini: un comportamento o è obbligatorio o è facoltativo, ovvero un comportamento o è vietato o è permesso. Né può obiettarsi che un comportamento né obbligatorio né facoltativo possa risultare vietato, o che un comportamento né vietato né permesso possa risultare obbligatorio, perché in questi casi non si tratterebbe propriamente di soluzione dell’antinomia tra due norme, bensì della rilevazione di una «terza» norma che vieta o che impone il comportamento che né l’una né l’altra delle norme antinomiche vietano o impongono. D’altra parte, se un comportamento è «facoltativo» («non obbligatorio fare» = «permesso non fare») o, rispettivamente, è «permesso» («non obbligatorio non fare» = «permesso fare»), esso non è del tutto incompatibile con il comportamento «vietato», o, rispettivamente, con il comportamento «obbligatorio», dal momento che un comportamento vietato è necessariamente anche «facoltativo», e che un comportamento obbligatorio è necessariamente anche «permesso»”. Più d’interesse per il nostro caso sono le antinomie fra norme qualificative di fatti, stati di cose, oggetti. In tale ipotesi, “l’antinomia è espressa dalla diversa qualificazione che valga negazione di una norma da parte di un’altra. Si pensi ad una disposizione la quale preveda che la bandiera italiana rechi altri segni oltre quelli stabiliti dall’art. 12 cost.” (così ancora F. Modugno, op. cit., pp. 706-707).

    [33] Cfr., in proposito, A. Ross, Diritto e giustizia, trad. it. a cura di G. Gavazzi, Torino, 1965, pp. 122 ss.; N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., pp. 90 ss.; G. Gavazzi, Elementi di teoria del diritto, Torino, 1970, pp. 45 s.

    [34] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 122: il riferimento è all’antinomia che “si verifica quando nessuna delle due norme può essere applicata a qualsiasi circostanza senza venire in conflitto con l’altra”. È F. Modugno a spiegare (op. cit., p. 707) che, “se si distingue, secondo una tradizione di pensiero ormai acquisita e consolidata, tra disposizioni (espressioni normative) e norme, ci si accorge che il secondo e il terzo tipo di antinomie sono «improprie» e precedono e si risolvono nell’attività interpretativa necessaria ad enucleare o ad individuare le norme”. Possono essere utili degli esempi, fatti dallo stesso Autore: “Si prenda un esempio di cosiddetta antinomia parziale-parziale: «È vietato fumare la pipa e il sigaro» è norma parzialmente antinomica rispetto all’altra: «È permesso fumare il sigaro e le sigarette»? Dalla prima disposizione si ricavano manifestamente due norme: «È vietato fumare la pipa», «è vietato fumare il sigaro». Corrispondentemente, dalla seconda disposizione si ricavano pure due norme: «È permesso fumare il sigaro»; «è permesso fumare le sigarette». Ora, delle quattro norme soltanto la seconda e la terza sono tra di loro antinomiche, in quanto hanno lo stesso àmbito di validità materiale e sono quindi affette da antinomia cosiddetta totale-totale. Ma la prima è manifestamente compatibile con la terza e la quarta, e la seconda con la quarta. Non diversamente, nel caso di cosiddetta antinomia totale-parziale, che è sempre «impropria» antinomia tra disposizioni. «È vietato fumare» ed «è permesso soltanto fumare sigarette» sono disposizioni dalle quali si ricavano, rispettivamente, una sola e due norme. Dalla seconda infatti si ricavano unitamente le norme: «È permesso fumare sigarette» ed «è vietato fumare altro: per esempio la pipa o il sigaro», di cui solo la prima è antinomica con la norma (generale) ricavabile dalla prima disposizione, ma, in quanto norma speciale, dovrebbe limitare il significato normativo della disposizione generale”.

    [35] Si veda A. Celotto, Coerenza dell’ordinamento e soluzione delle antinomie nell’applicazione giurisprudenziale, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto, Torino, 2000, p. 151.

    [36] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 123, che ricorda il caso della Costituzione danese del 1920, ove, all’art. 36, in tema di composizione della Camera alta, si stabilisce, in una prima parte, che i membri di tale assemblea non possono superare il numero di 78; mentre nella seconda parte della stessa disposizione, mediante una minuziosa regolamentazione dei criteri di nomina, risulta che il numero dei componenti della Camera alta sia di 79; A. Celotto, op. cit., p. 151, menziona il caso più recente del d.l. n. 669 del 1996, che aveva provveduto a modificare due volte — e in termini differenti — l’art. 3, co. 114, l. n. 662/1996, riguardo al regime dei beni immobiliari e dei diritti immobiliari dello Stato nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome di Trento e Bolzano. E ancora la l. n. 240/2010 (c.d. “legge Gelmini”) che all’art. 6, co. 5, in tema di stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo, aveva disposto la modifica dell’art. 1, co. 11, e, contestualmente, all’art. 29, co. 11, lett. c), aveva disposto l’abrogazione del medesimo art. 1 co. 11. In questi ultimi due casi, si è reso necessario un intervento del legislatore per porre rimedio.

    [37] Cfr. F. Lisena, Un raro caso di antinomia insolubile: la disciplina delle elezioni del Parlamento europeo tra compiti del legislatore e poteri del giudice, in Giur. merito, fasc. 10, 2011, pp. 2531 ss., che ricorda un caso in cui il legislatore non è stato così tempestivo nel porre rimedio a una antinomia insolubile: trattasi del contrasto tra gli artt. 2 e 21, l. n. 18/1979, che “sussiste oramai da più di un ventennio, a partire dalla citata novella del 1984”: precisamente, “mentre l’art. 2 prevede un sistema articolato in circoscrizioni territoriali, per ciascuna delle quali è prevista l’assegnazione di un numero di seggi determinato sulla base della popolazione residente, il successivo art. 21 detta le concrete modalità di assegnazione dei seggi seguendo esclusivamente il criterio della proporzionalità politica. Si ricaverebbe, pertanto, un principio europeo di proporzionalità articolato su due livelli, entrambi meritevoli di salvaguardia: il livello della proporzionalità territoriale, attinente al rapporto tra cittadini-residenti e numero degli eletti, ed il livello della proporzionalità politica, riflettente l’impostazione fondamentale del metodo di votazione. Tuttavia, in sede di effettiva applicazione, le due norme appaiono evidentemente inconciliabili”. L’antinomia è stata al centro di un caso di cui si è occupata la giustizia amministrativa: il risultato delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, svoltesi nei giorni 6 e 7 giugno del 2009, aveva portato alla contrazione dei rappresentanti eletti nella circoscrizione territoriale dell’«Italia meridionale» (15 eletti, in luogo dei 18 seggi assegnati) e in quella delle «Isole» (6 eletti, in luogo degli 8 seggi assegnati), con il complessivo spostamento in altre circoscrizioni di cinque posti. In altri termini, in virtù del sistema di calcolo di cui all’art. 21, l. n. 18/1979, i cittadini delle due citate circoscrizioni si sono visti sottrarre dei rappresentanti rispetto a quelli che avrebbero dovuto avere in applicazione del criterio della proporzionalità territoriale. Per ogni approfondimento, si rinvia alla lettura delle sentenze del T.A.R. Lazio, Roma, n. 38638/2010, Cons. Stato n. 2886/2011 e C. Cost. n. 271/2010. 

    [38] “… in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, … il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione …”.

    [39] “ove [il mandatario] non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità”.

    [40] Sempre a patto che non indichi altro operatore economico che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità.

    [41] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.

    [42] F. Modugno, Norma giuridica (teoria generale), in Enc. dir., Milano, 1980, XXVIII, p. 381.

    [43] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine) cit., p. 706, che ricorda che ad esempio, una legge ordinaria successiva non abroga un regolamento governativo anteriore contrastante, ma lo rende piuttosto illegittimo. La visione sul punto non è comunque unamime: si veda, ad esempio, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1976, p. 180.

    [44] Così M. Barberis, Filosofia del diritto, Torino, 2008, p. 196.

    [45] Così M. Barberis, op. cit., p. 197. F. Modugno, op. ult. cit., p. 708-709, richiama l’insegnamento di V. CRISAFULLI contenuto in Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, pp. 775 ss.; nonché, del medesimo autore, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 1980, XVII, pp. 955 ss.; Id., Lezioni cit., 179 ss. per cui “unica ed identica essendo la ragione per cui atti e comportamenti umani raggiungono forza normativa, la tesi che la forza degli atti di creazione del diritto obiettivo si commisura alla loro origine non dovrebbe portare alla conseguenza che la forza degli atti normativi sia varia, ma unica ed identica”. Pertanto, non sarebbe “possibile distinguere tra «forza» e «forza» diverse con riferimento alle disposizioni prodotte da differenti specie di atti nei loro reciproci rapporti: la possibilità di atti di una certa specie di abrogare o modificare atti di altra specie, ovvero di resistere ad abrogazione o modifica da parte di questi ultimi, andrebbe spiegata, non con il fatto che «gli atti di una specie abbiano ‘forza maggiore’ di quelli di altra specie», ma solo con il fatto «che ‘più estesa’ è l’attività normativa legittimamente esercitabile attraverso gli atti di una specie che non sia quella esercitabile attraverso atti di altre specie»” (le citazioni di Crisafulli sono di C. Esposito, La consuetudine costituzionale, in Studi in onore di E. Betti, I, Milano, 1961). Pertanto, al criterio gerarchico dovrebbe preferirsi quello della “competenza” o della “riserva”, che addirittura potrebbe sostituire il primo.

    [46] Come si è detto, trattasi più che di un’antinomia tra norme, che di un’antinomia tra disposizioni, risultando in definitiva da due disposizioni due norme compatibili tra loro, in quanto complementari: così F. Modugno, op. ult. cit., p. 710.

    [47] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 103.

    [48] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 710.

    [49] O, per dirla con le parole di Carnelutti, in ipotesi di antinomia insolubile, si deve “varcare il confine del problema della «purgazione» (antinomie) per entrare in quello dell’integrazione (lacune) (così F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 79.

    [50] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento cit., p. 103.

    [51] F. Modugno, ibidem, ricorda che “vi sono cioè tre «modi» fondamentali in cui può presentarsi la norma (di comportamento) e vi è antinomia … tra norma obbligante e norma proibitiva, tra norma obbligante e norma permissiva (negativa), tra norma proibitiva e norma permissiva (positiva)”.

    [52] Così G. Tracuzzi, Esistenza e possibilità, Padova, 2020, p. 74.

    [53] F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, nt. 114, propone questo esempio: “poste due disposizioni di una stessa legge, l’una delle quali si esprima nel senso del dovere od obbligo per una autorità governante, nel pubblico interesse, di provvedere ad alcunché, senza che sia possibile però individuare una corrispondente specifica situazione giuridica di vantaggio di chicchessia, e l’altra si esprima nel senso di consentire alla stessa autorità governante di provvedere discrezionalmente (se e quando essa lo ritenga opportuno), il criterio sembra applicabile nel senso di far prevalere la norma discendente dalla seconda disposizione su quella discendente dalla prima, dal momento che il pubblico interesse pare meglio perseguibile lasciando all’autorità competente un àmbito di discrezionalità nel quale operare le scelte che sono alla base del suo provvedere”.

    [54] Così A. Franco, I problemi della coerenza e della completezza dell’ordinamento, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino, 1993, p. 193. Si veda anche F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, per cui “la ricordata «ambiguità» del criterio può essere risoluta, al solito, ricorrendo ai princìpi generali dell’ordinamento, e alla «valutazione» che essi indirettamente operano nei confronti dei soggetti che, di volta in volta, si trovino ad essere favoriti o sfavoriti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma. Se, per esempio, l’ordinamento protegge in particolar modo il lavoro dei minori (art. 37 comma ult. cost.) e si prospetti un’antinomia tra una norma permissiva ed una norma «imperativa» nei confronti del datore di lavoro, sarà quest’ultima a dover essere applicata per consentire al prestatore di lavoro minorile di soddisfare il suo diritto o rendere esercitabile la sua pretesa. Ma ciò equivale a dire che il criterio della preferenza della «forma permissiva» o del modo deontico «permesso» rispetto ai suoi contraddittori (obbligatorio e vietato) non è di per sé decisivo, neppure assumendo un ordinamento giuridico ispirato alla massima del «tutto è permesso tranne ciò che è vietato (o comandato)»”.

    [55] Così F. Modugno, ibidem.

    [56] Così si può leggere nella sentenza: “Quanto alla lettera delle disposizioni, essa non si presenta particolarmente «affidabile», tale cioè da poter desumerne un senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», non essendo in particolare coordinati gli enunciati introdotti dal d. lgs. n. 56 del 2017 con quelli originari del Codice; e di ciò costituisce dimostrazione, oltre ad altri casi non rilevanti nella presente sede, lo stesso intervento interpretativo effettuato da questa Adunanza Plenaria con la propria sentenza n. 10/2021”.

    [57] Cfr. M. Barberis, Filosofia del diritto cit., p. 238.

    [58] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 241.

    [59] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 244.

    [60] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245, che richiama J. Bell, Policy Arguments in Judicial Interpretation, Clarendon, Oxford, 1985.

    [61] Cfr. M. Barberis, ibidem.

    [62] Per questa ricostruzione ci si è rifatti a M. Barberis, op. cit., pp. 237-247.

    [63] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245.

    [64] Cfr. M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese cit., pp. 179 ss.

    [65] Se vi è, dunque, la possibilità di verificare l’intervenuta abrogazione di una norma rimettendo al giudice/interprete la verifica della incompatibilità tra due norme temporalmente successive, non sembrano sussistere impedimenti a che la medesima operazione possa riguardare norme incompatibili non successive ma coeve

    [66] Cfr., ex multis e da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 171.

    [67] Cons. Stato n. 171/2022 cit..

    [68] Per effetto della novella recata d.l. n. 76/2020, e la conseguente modifica dell’art. 32, co. 8, cit., “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto. Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”.

    [69] A mente dell’art. 32, co. 9, d.lgs. n. 50/2016, “il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione”. Ai sensi del successivo comma 11, “se è proposto ricorso avverso l’aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non puo’ essere stipulato, dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell’articolo 15, comma 4, del codice del processo amministrativo di cui all’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della domanda cautelare”. La disposizione peraltro non chiarisce cosa accada in caso di rigetto della richiesta di misure cautelari monocratiche, ossia se la stazione appaltante possa dirsi libera di sottoscrivere il contratto, ovverosia debba attendere comunque la celebrazione dell’udienza camerale e il successivo provvedimento collegiale. Ma non si indugia in questa sede su questo punto.


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