GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Principi e regole dell’istruttoria in appello e intellegibilità della decisione giudiziaria. A proposito di una sentenza “oscurata” (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560)

    Principi e regole dell’istruttoria in appello e intellegibilità della decisione giudiziaria. A proposito di una sentenza “oscurata” (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560)

    di Raffaella Dagostino

    Sommario: 1. Il caso. – 2. Gli “omissis” in sentenza a tutela della privacy. – 3. La ricostruzione del fatto nel processo: del principio dispositivo con metodo acquisitivo. – 4. Il divieto dei nova probatori in appello e le sue deroghe. – 5. Della paventata illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a.: l’incomprensibilità delle ragioni giuridiche dedotte dall’appellato a sostegno della propria tesi. – 6. Ricostruzione del thema probandum e trasparenza decisoria. Ovvero: della valenza epistemologica della motivazione a sentenza.

    1. Il caso.

    Il Sig. Tizio, militare della Guardia di Finanza, agiva in giudizio dinanzi al T.A.R. Friuli Venezia Giulia chiedendo l’annullamento del provvedimento con cui era stata respinta la propria domanda di trasferimento in altra sede, adducendo l’illegittimità del provvedimento: i) per difetto di motivazione, in violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere, difetto di istruttoria, illogicità, irragionevolezza, ingiustizia manifestata, essendo state utilizzate – a suo dire – mere formule di stile incapaci di comprovare le effettive ragioni poste alla base del diniego; ii) nonché per violazione dell’art. 24 della Costituzione e difetto di motivazione, per avere, l’Amministrazione, stilato la graduatoria finale di merito e, di conseguenza, motivato il rigetto della istanza, facendo esclusivo riferimento – si ipotizza, essendo questa parte della sentenza omessa, per ragioni di privacy – a pregresse vicende penali che avevano visto coinvolto il ricorrente.

    L’amministrazione intimata non si costituiva nel giudizio di primo grado e il T.A.R. Friuli Venezia Giulia accoglieva i motivi del gravame, intimando l’Amministrazione a rideterminarsi in merito alla domanda di trasferimento presentata dal ricorrente.

    Proponeva, dunque, appello, con contestuale domanda cautelare di sospensione della sentenza di primo grado, il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Comando Generale della Guardia di Finanza, articolando un solo complesso motivo di gravame, proteso a dimostrare l’erronea valutazione degli atti di causa e l’avvenuta invasione della sfera discrezionale dell’Amministrazione, da parte del Giudice di prime cure.

    Nel ricorso in appello, pertanto, l’Amministrazione forniva precisazioni sui fatti controversi, meglio argomentando le ragioni del diniego, sostenendo che le medesime sarebbero state intellegibili per relationem, alla luce di analoghi pareri espressi dai Comandanti di corpo, bensì anche mediante la proposizione d’istanza di accesso agli atti.

    Si difendeva in giudizio l’appellato, chiedendo il rigetto dell’appello, eccependo l’inammissibilità delle nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio, sollevate dall’Amministrazione in appello, ai sensi dell’art. 104, comma 1, c.p.a., nonché l’inammissibilità della produzione documentale, depositata per la prima volta nel giudizio d’appello, ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a.

    In subordine, poi, si sollevava questione di legittimità costituzionale degli art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a. per contrasto con gli art. 3, 24 e 111, commi 1 e 2 della Costituzione.

      

    2. Gli “omissis” in sentenza a tutela della privacy.

    La controversia verte essenzialmente sulla definizione dei limiti dei nova probatori in appello[1] e porta, indirettamente, il Consiglio di Stato a ripercorre le regole e i principi che governano l’istruttoria in sede processuale, ricostruendo poteri e limiti delle parti processuali e, pertanto, dello stesso organo giudicante.

    Tuttavia, prima di addentrarsi nel merito della querelle, l’interprete non può evitare di imbattersi in un’altra problematica, direttamente afferente all’oggetto del contendere, sebbene non al thema decidendum, meritevole di attenzione per via delle ricadute pratiche che essa comporta sulla “qualità della giustizia”, intesa non semplicemente in termini di effettività della tutela giurisdizionale, piuttosto di accessibilità, anche da parte di soggetti terzi, alla decisione giurisdizionale, quale presidio minimo a tutela della democraticità della giustizia, ex art. 101, comma 1, Cost.[2], correndo un sottile filo rosso fra motivazione della sentenza e certezza del diritto[3].

    Si allude alla delicata questione dell’oscuramento di dati e informazioni sensibili presenti in sentenza, a tutela della privacy di quella parte processuale, direttamente interessata, che ne faccia espressa richiesta e, di conseguenza, del delicato equilibrio che deve necessariamente assicurarsi fra tutela del diritto alla riservatezza[4] ed esigenze di trasparenza e pubblicità del processo.

    Come noto, la problematica gemma dalla corretta applicazione degli art. 51 e 52 del d.lgs. n. 196/2003 vigente, che disciplinano, specificatamente, le modalità di trattamento dei dati personali in ambito giudiziario, con particolare riferimento alla possibilità di divulgazione all’esterno delle pronunce giurisdizionali che tali dati riportano, per finalità di informazione e di informatica giudiziaria[5].

    Le disposizioni in esame, per la verità, pongono il diritto all’informazione e, dunque, alla trasparenza decisoria, e il contrapposto diritto all’oblio, all’anonimato, alla riservatezza, in un rapporto di regola – eccezione, potendo la segretazione dei dati prevalere sulla diffusione dell’informazione giuridica, solo nel caso in cui sussistano “motivi legittimi” che rendano opportuno il diritto all’anonimato[6], oppure esigenze di tutela dei diritti e della dignità del soggetto[7].

    In questi casi generalmente grava sul soggetto interessato l’onere di specificare i motivi che legittimerebbero l’oscuramento dei dati e, di conseguenza, sull’organo giudicante il potere-dovere di vagliarne la legittimità, da intendersi come meritevolezza delle ragioni e non semplicemente come conformità ad una facoltà prevista dalla legge (art. 52, commi 1 e 2, prima parte del Codice della privacy).

    La disposizione, tuttavia, prevede altresì che nel caso in cui ricorrano esigenze di tutela dei diritti e della dignità del soggetto, il giudice, pur in assenza d’istanza, possa procede anche d’ufficio all’oscuramento dei dati (art. 52, comma 2, ultima parte del Codice della privacy).

    Le richiamate disposizioni, dunque, distinguono, per il profilo procedimentale, due sub-ipotesi di “oscuramento” facoltativo dei dati: uno ad istanza di parte, ossia a richiesta del soggetto interessato, l’altro disposto d’ufficio dall’organo giudicante.

    In entrambi i casi, dunque, è rimesso all’organo giurisdizionale il vaglio della meritevolezza delle ragioni poste a fondamento dell’istanza o dell’esigenza di tutela della riservatezza, essendo stata formulata, la disposizione normativa, in maniera indeterminata, avendo previsto nel primo caso, una clausola generale (“motivi legittimi”) e, nel secondo, una fattispecie aperta, visto il generico riferimento ai diritti oltre che alla dignità della persona.

    Pertanto, si lascia all’organo giudicante il delicato compito di effettuare la valutazione in concreto, dovendo Egli operare un bilanciamento fra esigenze di riservatezza del singolo e di tutela della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze, quale strumento di democrazia e informazione giuridica.

    Valutazione che, ad ogni modo, comporta un giudizio di proporzionalità fra i due parametri in comparazione, rimesso all’organo giudicante, per nulla scontato, per via della discrezionalità che lo connota.

    Il problema che si pone, in realtà, come noto, è duplice: sia “di merito”, legato alla sostanziale definizione dell’ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni normative, dovendosi concretamente individuare i dati e le informazioni passibili di oscuramento[8]; sia operativo, ponendosi, spesso, la non secondaria questione dei limiti e delle modalità di anonimizzazione dei dati e delle informazioni dei soggetti interessati.

    Profilo, quest’ultimo, non trascurabile, perché spesso foriero di applicazioni improprie, se non del tutto arbitrarie e fuori luogo della disciplina normativa[9], che piuttosto che garantire un adeguato livello di tutela della riservatezza del singolo, hanno come diretta conseguenza quella di minare l’intellegibilità intrinseca della pronuncia.

    Accade – come nel caso in esame – che, contrariamente a quanto disposto dalla normativa di legge, ad essere oscurate non sono solo le generalità o i dati sensibili del singolo, piuttosto i riferimenti normativi, i principi espressi in altre pronunce richiamate in sentenza, i dati identificativi delle pronunce stesse e, addirittura, le ragioni giuridiche esplicate dalle parte a sostegno della propria domanda, oggetto di giudizio.

    L’indiscriminato e irrazionale oscuramento di parti della sentenza, dunque, non solo è illegittimo, perché non giustificato dalla legge, essendo un oscuramento di questo tipo ammissibile solo nei casi di cui all’art. 52, comma 5, del Codice della privacy, ma è altresì illecito nei limiti in cui non semplicemente renda difficoltosa la lettura della sentenza, piuttosto criptico e inaccessibile l’iter logico e argomentativo che sorregge la decisione giudiziaria, a maggior ragione quando vengano oscurate le ragioni giuridiche poste a fondamento della domanda, prima, e di conseguenza, della decisione.

    Infatti, l’impressione che immediatamente si ha, è quella di una decostruzione del ruolo decisorio della sentenza che scissa dalla ricostruzione dei fatti di cui è causa e privata inopinatamente della completezza e logicità della sua argomentazione diviene, agli occhi di chi la legge, mera erudizione giuridica, esercizio di scienza nella riproposizione di principi giuridici sparsi – perché a tratti oscurati – non puntualmente agganciati al thema probandum, nonché baluardo di arcana imperii allorché la tecnica dell’oscuramento celi la verità della motivazione, o per meglio dire, le “vere” ragioni della decisione[10].

    A essere compromessa, dunque, è la funzione extraprocessuale della (motivazione a) sentenza, che permette ai più di comprendere come la fonte normativa sia stata attuata[11].

     

     3. La ricostruzione del fatto nel processo: del principio dispositivo con metodo acquisitivo.

    Entrando nel merito della vicenda processuale, un primo profilo meritevole di attenzione è quello della puntuale definizione del ruolo delle parti e del giudice nella fase istruttoria, avendo la sentenza in commento ricostruito, per linee generali, i principi che governano l’istruttoria[12] nel processo amministrativo e, in particolare, gli oneri probatori gravanti sulle parti, in ragione della «loro disponibilità» probatoria.

    Partendo dall’esame degli art. 63, 64 e 65 c.p.a. il Consiglio di Stato ripercorre, in maniera apparentemente piana, i principi e le regole che governano l’istruttoria nel processo amministrativo, soffermando subito l’attenzione sul modello processuale delineato nelle disposizioni codicistiche che, come noto, hanno recepito il tradizionale orientamento giurisprudenziale con cui si era definito il modello istruttorio nel processo amministrativo come modello intermedio, tra quello dispositivo puro e quello inquisitorio puro, ossia c.d. dispositivo con metodo acquisitivo.

    L’apparente linearità dell’argomentare, tuttavia, è, sin dalle prime righe della parte motiva della sentenza, incrinata dal sospetto che nel ripercorrere le regole che governano l’istruttoria nel processo amministrativo, l’organo giudicante sia piuttosto interessato a una ricostruzione dell’interpretazione normativa ex parte iudicis, non essendo celato l’intento di definire, in positivo, quali poteri istruttori siano esercitabili dal giudice amministrativo, restando quasi sullo sfondo gli oneri probatori gravanti sulle parti processuali.

    E invero, partendo proprio dall’analisi del dato normativo (art. 64, comma 3 e 65, commi 1 e 3 c.p.a.) il Consiglio di Stato si sofferma sulle peculiarità del modello istruttorio nel processo amministrativo puntualizzando come, generalmente, l’onere della prova si attenui nel più sfumato onere del principio di prova.

    L’attenuazione del rigore probatorio, chiaramente giustificata dalla sussistenza di incolmabili asimmetrie già presenti sul piano sostanziale fra le parti[13], poi coinvolte nella controversia, legittima un potere di soccorso istruttorio da parte del giudice, a sostegno di quella parte che, senza sua colpa, non sia stata in grado di fornire la prova dei fatti dedotti.

    L’esercizio di poteri istruttori da parte del Giudice, quindi, si giustifica per la necessità di riequilibrare la sostanziale disparità fra le parti, nel giudizio.

    È, infatti, principio consolidato che vi sia una sostanziale differenza fra la regola probatoria posta dall’art. 2697 c.c. e quella di cui all’art 64, comma 1, c.p.a. in quanto, nel processo amministrativo deve riconoscersi una certa flessibilità nella definizione dei criteri di riparto dell’onere della prova, non essendo quelli cristallizzati in uno schema precostituito e astratto, piuttosto calibrati sul principio della vicinanza, o disponibilità, se si preferisce, della prova[14].

    Pertanto, grava sulle parti l’onere di allegare i fatti da provare, in maniera sufficientemente circostanziata e precisa, così da definire puntualmente non solo il thema decidendum, bensì anche il thema probandum, essendo consentito al giudice, nel rispetto dei suddetti limiti, di disporre d’ufficio l’acquisizione di prove che, secondo il suo prudente apprezzamento, ritenga necessarie o utili per la definizione della controversia. Senza che questo legittimi un’attività istruttoria suppletiva o surrogatoria dell’organo giudicante rispetto a quella incombente sulle parti, bensì un’attività complementare e meramente integrativa.

    Tali regole, prosegue il Consiglio di Stato, sono formalmente valide sia nei contenziosi vertenti sugli interessi legittimi, sia su diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, in cui sussiste una stretta interconnessione fra rapporto paritario e rapporto autoritativo, dunque fra potere e situazione giuridiche soggettive, restando identiche le regole processuali in materia di poteri istruttori del giudice amministrativo per i vari tipi di giurisdizione.

    Tuttavia, non si manca di precisare che, per questa seconda ipotesi, l’onere del principio di prova vada valutato con particolare rigore, in relazione ai fatti che rientrino nell’effettiva disponibilità della parte attrice, sia essa pubblica o privata. Sicché l’esercizio, da parte del giudice, di poteri istruttori d’ufficio, in relazione a diritti soggettivi, anche se possibile, deve costituire extrema ratio.

    Di conseguenza, il principio dispositivo puro può trovare applicazione nel processo amministrativo nei limiti in cui non ricorra una situazione di disuguaglianza sostanziale fra le parti, tale per cui il soggetto su cui grava l’onere probatorio, non sia in grado, senza sua colpa, di fornire la prova dei fatti, pur dedotti e allegati, non essendo quelli nella sua disponibilità.

    Così riproposti tali principi, nella loro astrattezza, sono formalmente incontestabili, tuttavia ciò che traspare è il criterio-guida adottato nell’interpretazione normativa, proteso piuttosto a definire i poteri probatori del giudice e non già quelli gravanti sulle parti, che sembrano invece rimanere quasi sullo sfondo, soprattutto nella simmetria quasi piana che si tende a creare fra posizioni giuridiche distinte.

    La lettura delle disposizioni normative così operata, sebbene non sia contra legem, perché i principi espressi non manipolano, di fatto, il dato normativo, porta però a una sostanziale inversione logica nella ricostruzione delle regole e dei principi espressi nelle richiamate disposizioni normative, a maggior ragione se letti in controluce rispetto alle regole del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost.: è il metodo acquisitivo che costituisce un temperamento al principio dispositivo dell’onere della prova, non viceversa.

    Diversamente, si tornerebbe indietro, alla considerazione del Giudice amministrativo come «Signore della prova»[15].

     

     4. Il divieto dei nova probatori in appello e le sue deroghe.

    Che quello paventato sia il criterio guida adottato nella conduzione dell’ermeneutica giuridica è impressione che sembra corroborarsi via via che si prosegue la lettura della sentenza. Più in particolare, l’enucleazione dei richiamati principi giuridici non sembra ispirata semplicemente a una logica di semplificazione, piuttosto a spianare la strada e a giustificare l’esercizio di poteri istruttori officiosi lì dove il dato normativo lascia maggiori margini d’incertezza, per via della indeterminatezza dei presupposti che lo consentirebbero.

    Si allude alla complessa e per vero delicata questione dei nova probatori in appello, con particolare riferimento alla definizione del concetto d’indispensabilità della prova, di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a., da coordinarsi – secondo la diversa logica del processo amministrativo in cui il principio dispositivo è temperato dal metodo acquisitivo, con evidenti ricadute anche in appello – anche al disposto di cui all’art 46, comma 2, c.p.a. che trova applicazione anche in sede d’impugnazione, per via del richiamo interno operato dall’art. 38 c.p.a.

    Innanzitutto, non ci si può esimere dal notare come, proprio questa seconda parte della motivazione a sentenza, che risulta particolarmente complessa e articolata nell’argomentare giuridico, a sostegno della non lineare e non semplice ricostruzione della portata normativa delle disposizioni in esame, risulti pesantemente compromessa nella sua comprensibilità da un oscuramento per molti versi ingiustificato, invasivo, illegittimo, prima, oltre che irrazionale. Infatti, a essere oscurate sono intere parti motive della sentenza, sebbene formulate in termini di richiami a principi espressi in altri precedenti giurisprudenziali, tuttavia individuati come essenziali per la ricostruzione della logica decisoria, nonché specifici richiami al testo normativo esaminato (non è mai riportata la parola «indispensabili», «indispensabilità» dei nuovi mezzi di prova).

    Le questioni su cui il giudice è chiamato a esprimersi sono due e si ricavano, paradossalmente, in maniera più nitida dalle conclusioni a sentenza che non dalla sua motivazione, proprio per via delle modalità poco ortodosse con cui l’oscuramento è stato attuato: la prima, relativa alla valutazione di ammissibilità, in appello, di nuova produzione documentale da parte dell’amministrazione appellante, non costituita nel giudizio di primo grado; la seconda, relativa alla produzione in appello di nuova documentazione da parte del ricorrente - appellato.

    Con particolare riferimento alla prima questione problematica, il Consiglio di Stato, con abile destrezza, ha cura di stralciare subito la fattispecie in esame dall’ambito di applicazione normativa dell’art. 104, comma 2, c.p.a. precisando che, trattandosi di atti relativi al procedimento e al provvedimento di cui è causa, l’amministrazione appellante, non costituita nel giudizio di primo grado, non può dirsi decaduta dal potere-dovere di depositare in appello tali atti, gravando sulla medesima un onere di collaborazione probatoria che non viene meno anche in appello[16].

    Tale onere, secondo un orientamento giurisprudenziale sufficientemente consolidato[17], è generalmente fatto discendere dalla considerazione dell’amministrazione quale pubblica autorità prima ancora che come parte processuale, per cui si deduce a carico della medesima un onere di collaborazione nello svolgimento dell’attività istruttoria al fine di favorire la ricerca della verità[18], pur riconoscendole il potere di scegliere se costituirsi o meno, secondo la strategia difensiva reputata opportuna.

    Da qui, il richiamo agli art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a., applicabili anche in grado di appello, qualora si verta in un giudizio impugnatorio, con possibilità per il giudice di stimolare (recte: ordinare) l’esibizione documentale ove l’amministrazione non vi abbia provveduto.

    È noto che tali regole siano chiaramente ispirate al metodo acquisitivo e che, specie se applicate in grado di appello, connotano particolarmente l’istruttoria nel processo amministrativo, differenziando notevolmente quest’ultimo dal processo civile.

    Infatti, l’applicazione di tali regole processuali anche in appello, sostanzialmente consente di introitare in giudizio il provvedimento impugnato, nonché gli atti e documenti afferenti al procedimento di cui è causa, che l’amministrazione non abbia prodotto in giudizio, ove reputati «utili» per la definizione del contenzioso.

    La pervasività di tali poteri officiosi, riconosciuti al Giudice, dunque, è tale da legittimare finanche una sanatoria, in appello, al mancato esercizio, da parte del giudice di prime cure, di poteri officiosi a questi attribuiti. Pertanto, di fatto, la valorizzazione del metodo acquisitivo consentirebbe al giudice di appello un’integrazione istruttoria, quando essa abbia ad oggetto il provvedimento impugnato nonché gli atti e documenti afferenti al procedimento di cui è causa,  anche nell’ipotesi in cui tale lacuna sia imputabile a un’omissione del Giudice di primo grado.

    Di conseguenza, l’ammissibilità di tali prove documentali, pur se introdotte per la prima volta in appello, non si porrebbe in contrasto con il divieto dei nova di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a., trattandosi in definitiva, di atti per definizione indispensabili al giudizio, inverandosi una ipotesi di indispensabilità in re ipsa del materiale probatorio.

    È evidente che tali regole trovano ancora oggi giustificazione – nonostante l’ormai pacifica implementazione del principio dispositivo nel processo amministrativo, sempre più considerato un processo di parti, dunque a connotazione soggettiva[19] –, per via delle peculiarità che connotano il giudizio amministrativo, stante l’esigenza di riequilibrare nel processo quella sperequazione sostanziale che sussiste fra le parti; peculiarità che legittimano l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice amministrativo che, tuttavia, debbono essere intesi come «risorsa fondamentale per assicurare l’effettività della tutela nei confronti dell’amministrazione e la giustizia nell’amministrazione»[20], senza per questo travalicare o plasmare la portata della disposizione normativa a esigenze occasionali.

    È pur vero, però, che sebbene il riconoscimento in capo al Giudice amministrativo di poteri officiosi così pervasivi sia mosso dalle “giuste” intenzioni di riequilibrare un rapporto impari fra le parti processuali, così come ricostruito, tale potere, avvicina di gran lunga il processo amministrativo al modello inquisitorio piuttosto che dispositivo, legittimando, anche in nome di un principio astrattamente giusto (la garanzia della parità fra le parti), derive dirigistiche[21] che non sempre, poi, in concreto, rispondono alla finalità in principio dichiarata.

    E invero, proprio il caso in esame ne è esempio, in quanto, l’effetto che l’esercizio di tali poteri produce è diametralmente opposto all’intenzione dichiarata.

    E dunque, se il problema di fondo è quello di stabilire se, anche nel processo amministrativo, come in quello civile, debba prevalere la logica della verosimiglianza, o della verità processuale che dir si voglia, o piuttosto la “verità vera” dei fatti di cui è causa, sarebbe opportuno che la scelta del criterio sia predeterminata e risponda a logica coerenza, o piuttosto riequilibrata da doverosi correttivi, ritenendosi rischiosa una rimessione della valutazione alla indeterminata discrezionalità del giudice che, in non rare ipotesi, potrebbe sfociare in esiti contrastanti con quelli individuati nella finalità normativa.

    Infatti, a seconda del criterio interpretativo adottato, il giudice amministrativo sarebbe in grado di allargare o restringere le maglie dell’istruttoria, consentendo o vietando l’introduzione di nuovi fatti nel processo[22].

    Orbene, con riferimento al caso di specie, innanzi tutto si deve osservare che il Giudice ricorra al combinato disposto di cui agli art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a. per legittimane l’introduzione, per la prima volta in appello, di documenti connessi al procedimento di cui è causa, da parte dell’amministrazione, liberamente rimasta contumace in primo grado.

    È evidente che l’intentio sia quella di sottrarre tali documenti a un giudizio di indispensabilità, ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a., tanto che per essi si parla di indispensabilità in re ipsa, convogliandoli piuttosto verso il più lieve parametro dell’utilità, di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a.

    E dunque, sebbene quello richiamato non sia un orientamento isolato, si ritiene dover evidenziare che, se ci si attiene alla littera legis, l’esercizio di tali poteri, rispondendo a una logica “perequativa”, sarebbe legittimato in caso di omessa collaborazione da parte dell’amministrazione, ossia ogniqualvolta l’amministrazione non abbia provveduto al deposito del provvedimento impugnato o degli atti e documenti inerenti al procedimento, ai sensi dell’art. 46, comma, 2 c.p.a.

    Tali poteri, dunque, sarebbero attivabili o su istanza della parte debole, oppure d’ufficio dal medesimo giudice, alla luce dei fatti allegati e circostanziati.

    Leggermente diverso, invece, pare il caso del diritto alla prova in appello, sebbene nei limiti dell’oggetto di cui agli artt. 46, comma 2 e 65, comma 3, c.p.a., da parte dell’amministrazione contumace.

    Ebbene, se certamente si conviene sull’intrinseca bonarietà dell’applicazione del metodo acquisitivo, al fine di garantire, per quanto possibile, l’aderenza della decisione di gravame alla verità sostanziale dei fatti di cui è causa, riconoscendo i) in capo al giudice, l’esercizio di tali poteri officiosi anche in appello, nei limiti dell’omessa collaborazione (recte: mancata allegazione nei termini di costituzione di documenti utili) da parte dell’amministrazione e nel rispetto, oltre che della completezza dell’istruttoria, del contraddittorio fra le parti; ii) nonché, al contempo, attraverso l’applicazione di tali norme anche in appello, ammettendo la possibilità per l’amministrazione resistente di assolvere ai propri doveri di collaborazione istruttoria per la prima volta in appello, così evitando, d’incorrere in preclusioni che potrebbero rivelarsi fuorvianti al fine del decidere, impedendo una completa ricostruzione dei fatti di cui è causa attraverso la mancata esibizione di documenti utili, purtuttavia, non si può dimenticare che la ratio cui risponde il metodo acquisitivo è quella di soccorrere la parte debole, non di supplire a eventuali inerzie di parte.

    Tanto che il criterio d’interpretazione del concetto di indispensabilità di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a. si fa particolarmente rigoroso quando abbia ad oggetto documenti già nella disponibilità della parte ricorrente, che non siano stati però allegati in primo grado.

    Infatti, al di fuori della discussa ipotesi di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a., è principio consolidato quello per cui non sia giustificabile una produzione documentale operata per la prima volta in appello dalla parte contumace in primo grado, perché si realizzerebbe in tal modo una supplenza giudiziaria che sanerebbe l’inerzia della parte, violando il principio di parità delle parti processuali.

    Ma ancora, secondo orientamento sufficientemente consolidato dinanzi al Giudice amministrativo, fatto proprio anche nel caso di specie e, si evidenzia, contrario a quello espresso dalle sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 10790/2017), del concetto di indispensabilità si dà un’interpretazione rigorosa, tale per cui prova indispensabile non è «quella di per sé idonea  a eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quello che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa[23]  nelle preclusioni istruttorie del primo grado»[24], bensì esclusivamente, la prova prodotta per la prima volta in appello, funzionale alla dimostrazione di un fatto concernente un’eccezione in rito rilevabile d’ufficio dal giudice, dunque sempre ammessa, nonché quelle prove per cui si dimostri l’impossibilità, per la parte, di acquisire la conoscenza dei fatti dedotti in giudizio con altri mezzi che ella aveva l’onere di fornire, nelle forme e nei tempi stabiliti[25]. Dunque, indispensabili sono da ritenersi esclusivamente quelle prove che non potevano oggettivamente essere prodotte in primo grado o perché la parte non ne aveva la disponibilità o perché l’esigenza probatoria è sorta ex novo in grado di appello.

    Orbene, si intuisce come l’indeterminatezza del parametro normativo consenta una certa flessibilità interpretativa, chiaramente allargando o restringendo le maglie istruttorie a seconda del criterio prediletto.

    Tuttavia, se il criterio interpretativo prescelto, singolarmente considerato, risponde a una sua intima coerenza, non essendo né praeter legemcontra legem, è nel momento in cui le disposizioni normative vengono messe a sistema che i canoni interpretativi adottati sembrano in qualche modo stridere perché se in un caso il giudice è disposto ad ammantare inerzie della p.a. – fra l’altro biasimevoli – con il velo dell’esercizio di poteri officiosi, in nome di una paventata esigenza di soccorso istruttorio (invece si è visto che le due ipotesi non dovrebbero ripiegarsi l’una sull’altra posto che, se è la p.a. contumace che allega direttamente in appello gli atti e i documenti del procedimento, reputati utili, l’officiosità dei poteri del giudice poco centra, piuttosto si tratterebbe di una diretta applicazione dell’art. 46, comma 2, in appello per via del richiamo operato dall’art. 38 c.p.a.), al di fuori di queste ipotesi tende a mantenere un atteggiamento particolarmente rigoroso che, se certamente non illegittimo, per lo meno appare irragionevole a fronte del corrispettivo.

    E allora, se il criterio di maggiore flessibilità interpretativa di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. lo si vuole giustificare in ragione della “ricerca della verità” o, forse, prima ancora, per esigenze di economia processuale che molto spesso spingono il giudice amministrativo “in avanti” per la fretta di decidere[26], per via dell’immanenza dell’interesse pubblico sotteso alla controversia, sarebbe opportuno operare una scelta: o si valorizza l’onere di collaborazione gravante sull’amministrazione in qualità di autorità pubblica prima ancora che in veste di parte processuale, indirizzando la contumacia della medesima «verso una rilettura in chiave «non neutra» dell’istituto»[27], scelta chiaramente rimessa al legislatore – anche se non priva di logicità, almeno ai fini di un eventuale riparto delle spese processuali gravanti sulle parti, al fine di evitare che la parte debole, subisca un doppio danno, ove senza sua colpa, non abbia potuto avere contezza di documentazione utile al fine della risoluzione della controversia – oppure, se l’applicazione dell’art. 46, comma 2, c.p.a. non vuole essere una sostanziale elusione del divieto dei nova in appello, costituendo, per l’ampiezza con cui la disposizione è interpretata, un’ulteriore deroga, implicita o inespressa, che dir si voglia, ai divieti di cui all’art. 104, comma 2 c.p.a., per una fetta di documenti afferenti al procedimento di cui è causa, fra cui, come nel caso di specie, spesso si fanno rientrare anche atti o documenti che al provvedimento potrebbero inferire anche solo incidentalmente o per relationem (l’art. 46, comma 2, c.p.a. infatti, non parla espressamente di atti del procedimento ma di atti e documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, dunque, eventualmente afferenti anche a procedimenti analoghi – come nel caso di specie – o connessi) sarebbe opportuno calare le regole espresse nella disposizione normativa con specifico riferimento al primo grado di giudizio, nella diversa logica del giudizio d’appello.

    Sebbene, ai sensi dell’art. 38 c.p.a. la disposizione in esame non trovi una deroga espressa in sede d’impugnazione, si ritiene che la stessa debba comunque essere applicata e interpretata nel rispetto delle regole e dei principi che governano l’appello.

    E allora, forse, la questione di fondo è se si debba ancora una volta meditare sulla funzione che si vuole attribuire al giudizio di appello se novum iudicium o piuttosto di revisio prioris instantiae[28].

    Se l’idea è quella dell’appello volto alla ricerca della verità materiale dei fatti, allora dovremmo abbandonare la prevalente logica del gravame.

    Diversamente se, come oggi con sempre più decisione si sostiene, l’appello ha natura devolutiva, quale strumento di gravame a critica libera, si dovrà dare maggior peso alle regole processuali e dunque o riconoscere che la verità processuale non sempre coincida con quella storica o, piuttosto, per lo meno considerare un’interpretazione più rigorosa delle disposizioni in esame, evitando di legittimare, sotto il manto della ricerca della verità materiale, atteggiamenti defatiganti assunti dalla p.a.

    La lettura in combinato disposto degl’art. 46 e 104 cp.a., con particolare riferimento al diritto alla prova in appello dell’amministrazione contumace, dovrebbe forse portare a riconoscere che vi sia una differenza fra giudizio di ammissibilità della prova utile, ai sensi dell’art. 46, comma 2, c.p.a. e la valutazione dell’indispensabilità probatoria dei medesimi, ex art. 104, comma 2, c.p.a.

    I due momenti di giudizio (ammissibilità per utilità – una sostanziale rimessione in termini ex lege, giustificata dalle peculiarità del giudizio amministrativo che lo distinguono e non permettono, per sua natura, di assimilarlo al processo civile – e indispensabilità della documentazione allegata) dovrebbero rimanere distinti.

    Si ritiene, stando alla littera legis, che nel caso di gravame esperito dall’amministrazione, volutamente contumace in primo grado, l’applicabilità dell’art. 46, comma 2, c.p.a. dovrebbe avere come unico effetto quello di evitare la decadenza della parte – effetto di per sé già particolarmente pervasivo, legato alla natura del giudizio amministrativo, rispondente a quelle ragioni di completezza istruttoria e riequilibrio delle posizioni fra le parti – dovendo poi operarsi un distinguo fra ammissibilità dei documenti utili ai sensi dell’art. 46, comma 2, c.p.a. e valutazione dell’indispensabilità dei medesimi ai fini del decidere.

    Sebbene tale ragionamento può sembrare all’apparenza artificioso, facendo “rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta”, in concreto potrebbe rivelarsi non sterile, poiché questa metodologia costringerebbe il giudice a una valutazione più rigorosa del materiale probatorio, complessivamente considerato e, al contempo, più equilibrata.

    Questa impostazione, in definitiva, la si ritiene più in linea con le regole del giusto processo e del giusto processo amministrativo, in cui si ricorda, è il principio dispositivo a essere temperato dal metodo acquisitivo, per le sue giuste cause, non viceversa.

    Pertanto, dovrebbe dismettersi quella visione olistica che vuole «indispensabile in re ipsa» qualsiasi atto o documento inerente al procedimento, anche se solo incidentalmente o per relationem.

    Non si può dimenticare, infatti, che le presunzioni iuris et de iure – come parrebbe essere quella cui la descritta interpretazione degli art. 46, comma 2 e 65, comma 3, c.p.a. ha condotto – incidono pesantemente sulla ricostruzione del caso, sul riparto dell’onere probatorio e, in definitiva, sulla parità processuale delle parti.

    Nel caso di specie, pertanto, sembra si sia di fronte a una nuova ipotesi di presunzione giurisprudenziale[29], essendo stata creata una regola di giudizio che ben lungi dal realizzare un riequilibrio fra le parti ne ha, di fatto, accentuato la sperequazione.

    E se qualcuno eccepisse che, in fondo, la logica sottesa alla criticata interpretazione sarebbe quella di realizzare economie processuali, forse bisognerebbe considerare che tale logica risponde a esigenze di accelerazione e semplificazione processuale che probabilmente molto poco hanno a che fare con la voluttà del Giudice di farsi amministratore del caso concreto, non fosse altro perché  l’incipit del ragionamento seguito dall’organo giudicante e qui criticato, gemma proprio da una vistosa deroga alle regole di economia processuale, consentendo una ampia rimessione in termini in favore della p.a.

    Il prezzo da pagare, forse, seguendo il ragionamento più rigoroso, potrebbe eventualmente essere quello di rimettere la questione dinanzi all’amministrazione, chiamata a provvedere nuovamente, ma forse è un giusto prezzo, visto che l’essenza è, al contempo, quella dell’inesauribilità del potere amministrativo e dell’esigenza del rispetto, da parte dell’amministrazione stessa, del dovere di provvedere, adeguatamente motivando.

     

     5. Della paventata illegittimità costituzionale del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a.: l’incomprensibilità delle ragioni giuridiche dedotte dall’appellato a sostegno della propria tesi.

    Dalla lettura della sentenza si evince, poi, che parte ricorrente, appellata nel giudizio di cui è causa, ha paventato questione di legittimità costituzionale in relazione combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2 c.p.a. e art. 104, commi 1 e 2, c.p.a. per violazione degli art. 3, 24 e 11 Costituzione.

    Le motivazioni addotte non sono riportate, perché oscurate. Purtuttavia, nella conclusione della sentenza vengono licenziate come «censure meramente generiche» ed è sbrigativamente allontanata l’ipotesi di incostituzionalità facendo leva sulla discrezionalità politica del legislatore.

    Orbene, si presume che le censure sollevate, erano volte a contestare una sostanziale interpretatio abrogans dell’art. 104, comma 2, c.p.a. allorché l’interpretazione del combinato disposto di cui all’art. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a. porti in ogni caso a ritenere indispensabili le prove documentali introdotte per la prima volta in appello, dall’amministrazione contumace.

    Ebbene, seppur si ritiene di condividere che non sussistano motivi per censurare per incostituzionalità le predette disposizioni, non fosse altro perché, come si è cercato di dimostrare nel testo, se correttamente interpretate, esse rispondono a quelle peculiarità del giudizio amministrativo che debbono essere mantenute perché costituenti una risorsa, un valore aggiunto per il processo amministrativo, tuttavia, qualche dubbio si è sollevato sul modo in cui tali norme vengono interpretate e applicate, dovendo forse pretendersi un maggiore rigore interpretativo a garanzia del corretto svolgimento dell’attività processuale, non potendo giustificarsi interpretazioni “abusive”, o meglio strumentali e fuorvianti delle disposizioni normative, che di fatto assegnino una posizione di privilegio a una parte a discapito dell’altra.

    Di conseguenza, è tale interpretazione normativa (e non la norma in sé) a porsi in contrasto con il principio del contraddittorio paritario fra le parti sancito dall’art. 3 e art. 24 della Costituzione, a maggior ragione se, a fronte dell’interpretazione lata o “bonaria” data alle suddette norme si contrapponga, invece, un’interpretazione particolarmente rigorosa e rigida dell’art. 104, comma 2, c.p.a. che rende, di fatto, solo per il ricorrente/appellato effettivamente cogente il divieto dei nova in appello, in particolare e, paradossalmente, proprio quando l’amministrazione, appellante, sia rimasta volutamente contumace in primo grado, mantenendo “segretato” il materiale probatorio idoneo a meglio definire il thema decidendum.

    Pertanto, essendo possibile anche un’interpretazione differente del concetto di indispensabilità, come la Cassazione stessa ha dimostrato, che meglio sarebbe in grado di coniugare, nel rispetto della legge, esigenze di economia processuale con quelle di effettività della tutela, che nel caso di specie sembrano stridere piuttosto che conciliarsi – nonostante quanto asserito dall’organo giudicante – non resta che ritenere che, ancora una volta, il giudice amministrativo, nel perseguimento della “ricerca della verità” non sia interessato al fatto, ma solo alla realtà fattuale per come filtrata dal provvedimento amministrativo.

    Certamente, questo non vuol dire che Egli debba decidere nel merito la controversia, bensì che debba assicurare la completezza dell’istruttoria in condizioni di parità fra le parti, nel rispetto delle regole processuali.

    In tal modo, la conclusione del giudizio potrebbe, eventualmente, giungere a un esito differente, sancendosi l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ad esempio, per eccesso di potere per mancato accertamento di presupposti in fatto rilevanti, per contraddittorietà o illogicità manifesta, così annullando l’atto e ordinando alla p.a. di provvedere nuovamente.

     

     6. Ricostruzione del thema probandum e trasparenza decisoria. Ovvero: della valenza epistemologica della motivazione a sentenza.

    La controversa questione ha offerto occasione per interrogarsi sulla rilevanza del fatto nel processo, sull’importanza della corretta applicazione delle regole istruttorie in esso definite al fine di assicurare un equilibrato riparto degli oneri probatori fra le parti e, soprattutto, per ricostruire i poteri di soccorso istruttorio spettanti al giudice amministrativo, attraverso la valorizzazione del principio del contraddittorio paritario fra le parti, sancito dagli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

    Le suddette riflessioni, tuttavia, sono gemmate muovendo proprio da considerazioni sulla forma con cui la sentenza è stata ostentata al lettore, a dimostrazione della valenza epistemologica della motivazione, quale “forma della sostanza”.

    Il bisogno di disvelamento delle ragioni poste a sostegno della decisione giudiziaria, in parte illegittimamente oscurate da pervasivi “omissis”, ha permesso di scavare più a fondo nel ragionamento logico e giuridico condotto dall’organo giudicante, per cercare di comprendere il parametro decisionale assunto a sostegno del sillogismo giudiziario, inteso come procedimento interno di formazione della decisione giudiziaria.

    Il bisogno di assicurare la trasparenza decisoria ha portato, dunque, a riflettere sul concetto di verità processuale e finanche sulla qualità della risposta di giustizia, con particolare riferimento al giudizio di appello.

    Muovendo dall’incontestata natura devolutiva del giudizio di appello, tracciando la stretta correlazione che sussiste fra ricostruzione del fatto (del thema probandum) e trasparenza decisoria ai fini della qualità della tutela giurisdizionale, si è cercato di evidenziare come la “tensione veritativa”[30] del processo sia assolta nei limiti in cui la sentenza si riveli “giusta”[31], ossia la decisione sia frutto di una verità acquisita in maniera corretta, ossia nel rispetto della legge, dunque, secondo la dimensione epistemica propria del processo, e sia, pertanto, l’esito di un procedimento logico razionale comprensibile e controllabile, non solo dalle parti, bensì anche dal semplice operatore giuridico, estraneo al processo, che per curiosità conoscitiva, s’imbatta nella lettura della medesima sentenza.

     ***

     [1] F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, Milano, 2010; Id., Processo amministrativo ed appello incidentale: “vetera et nova”, in Dir. proc. amm., 4/2020, 862-892; Id., La «correzione del tiro» nel processo amministrativo: oscillazioni giurisprudenziali in tema di “emendatio” e “mutatio libelli”, in Dir. e proc. amm., 3/2020, 663-710 , R. Vaccarella, Il divieto dei “nova” nell’appello del giudizio amministrativo, V. Domenichelli, Le sopravvenienze in appello: introduzione al tema, M. Lipari, Le sopravvenienze nel giudizio di appello, tutti in F. Francario  - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Castello di Modanella (Siena), 19-20 maggio 2017, Napoli, 2018.

    2 G. Silvestri, Sovranità popolare e magistratura, 9 luglio 2003, consultabile al sito www.costituzionalismo.it; M. Cartabia - L. Violante, Giustizia e mito, Bologna, 2018

    3 E. Ferrari, Decisione giurisdizionale amministrativa, in Dig. Disc. pubbl., Torino, UTET, 1989, 534 ss; M. Luciani, Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa giusta, in Dir. proc. amm., 1/2018, 36 ss. Nonché sui temi, più in generale, si veda: F. Francario  - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Castello di Modanella (Siena), 19-20 maggio 2017, Napoli, 2018. Ma si veda anche: M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975; G. Monteleone, Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze (motivazione e certezza del diritto), in Il giusto proc. civ., 1/2013, 1- 20; B. Capponi, La motivazione della sentenza civile, in Questione giustizia, marzo 2015; G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, Relazione al Congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Roma, 6 - 7 giugno 2019, in Giust. civ., 3/2019, 651 – 669.

    4 Il tema è sempre più sentito, anche per via della notevole amplificazione della capacità conoscitiva nella società dell’informazione e nell’era della digitalizzazione. Senza pretesa di completezza, sui temi, in generale, si veda: P. Perlingeri, L’informazione come bene giuridico, in Rass. Dir. civ., 1990, 326, ss.; Id., La pubblica amministrazione e la tutela della privacy. Gestione e riservatezza dell’informazione nell’attività amministrativa, in Annali Fac. econ. Benevento, 8, Napoli, 2003, 211 ss.; L. Nivarra - V. Ricciuto, Internet e il diritto dei privati. Persona e proprietà intellettuale nelle reti telematiche, Torino, 2002; S. Rodotà, Tecnopolitica. La tecnologia e le nuove tecnologie della comunicazione, II° Ed., Roma – Bari, 2004; O. Pollicino, EU Digital right to privacy preso (troppo) sul serio dai giudici di Lussemburgo? Il ruolo degli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza nel reasoning di Google Spain, in Dir. inf., 4-5/2014, 569 ss.; O. Pollicino - M. Bassini, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel reasoning dei Giudici, in Dir. inf., 4-5/2015, 741 ss.; F. Melis, Il diritto all’oblio e i motori di ricerca nel diritto europeo, in Giorn. dir. amm., 2/2015, 171 ss; F. Barra Caracciolo, La tutela della personalità in internet, in Dir. inf., 2/2018; M. Pacini, Diritto di informazione e diritto alla riservatezza nell’era di internet, in Giorn. dir. amm., 1/2020, 59 ss.

    5 R. De Nictolis - V. Poli, Il diritto all’anonimato nel processo (art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), in Giust. civ., 2003, 495 ss.; F. D’Alessandri, La privacy delle decisioni giudiziarie pubblicate sul sito internet istituzionale della Giustizia Amministrativa (relazione al convegno di Convegno Capri sull’informatica giuridica del 12.10.2019), consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it; P. Patatini - F. Troncone, L’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti della Corte Costituzionale, dicembre 2020; F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo, in www.giustiziainsieme.it; ibidem: A. Centonze, Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di Cassazione; nonché E. Concilio, Atti giudiziari e tutela dei dati personali (nota a T.A.R. Lazio, sez. III, 1 febbraio 2021, n. 579); M. D’Ambrosio, Il c.d. principio dell’openness nelle procedure giudiziarie tra oblio e anonimato, in Rass. dir. civ., 1/2017, 37 ss.

    6 Cfr. fra le più recenti: Cass. Civ., sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11959; Cass. Civ. 16807/2020; Cass. Civ. (ord.), sez. V, 10 agosto 2021, n. 22561.

    7 Si tralascia la distinta ipotesi in cui è la legge a rendere obbligatorio l’oscuramento di dati sensibili, ossia quella ricadente nell’art. 52, comma 5, del Codice della privacy in cui il rapporto regola-eccezione è chiaramente invertito e, per la quale, non si pongono rilevanti problemi di applicazione normativa, se non nella forma patologica dell’omissione.

    8 Il tema è delicato e complesso e non si può pretendere possa esser esaurientemente affrontato nella presente sede. Ci si limita a segnalare che ulteriori puntualizzazioni alla normativa in esame si rinvengono nelle Linee Guida dettate dal Garante dei dati personali del dicembre 2010, sebbene per nulla dirimenti, nonché in un più recente decreto adottato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione (decreto n. 178 del 14 dicembre 2016), che risponde alla finalità d’indirizzare il giudicante nel suo delicato compito. Sul tema, da ultimo: A. Centonze, Il diritto alla riservatezza e la tutela dei dati personali nei provvedimenti giurisdizionali della Corte di Cassazione, cit.;

    9 F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy, cit.

    10 Sui rapporti fra verità, motivazione e sentenza: M. Taruffo, Motivazione (Motivazione della sentenzadir. proc. civ.), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990; Id., Motivazione della sentenza (controllo della), in Enc. Dir., III° aggiornamento, Milano, 1999; Id. La motivazione della sentenza, in Il processo civile riformato, Bologna, 2010; Id., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009; L. Passanante, Motivazione della sentenza e accertamento della verità nel pensiero di Michele Taruffo, in Revista Italo-Espanola de Derecho Procesal, 1/2021, 75 – 88; G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in G. Grasso - G. Barbagallo - V. Ferrari - E. Scoditti - S.I. Gentile, Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, 357 - 377; G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, cit.; M.A. Sandulli, Il Consiglio di Stato è giudice in unico grado sulle domande declinate o pretermesse dal TAR. La Plenaria definisce i confini del rinvio al primo giudice e stigmatizza la motivazione apparente delle sentenze, in www.federalismi.it , 2018. Con specifico riferimento alla motivazione delle sentenze del Giudice amministrativo, cfr.: F. Patroni Griffi, Forma e contenuto delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 17 ss; G.P. Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it, 2012; Ibidem: C. Volpe, Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, 2014; R. De Nictolis, Le sentenze del Giudice amministrativo in forma semplificata tra mito e realtà, 2017.

    11 G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, cit.

    12 Sul tema: F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Enc. Dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 204 -211; F.G. Scoca, Mezzi di prova e attività istruttoria, in Il processo amministrativo, Commentario a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 539 ss.; L.R. Perfetti, Prova (diritto processuale amministrativo), in Enciclopedia del diritto, annali 2008, Milano, 917-946; Id., L’istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo, in Dir. proc., 2015, 1, 72-103; A. Police, I mezzi di prova e l’attività istruttoria, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), cap. 17, Padova, 2014; C.E. Gallo, Istruzione nel processo amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., vol. IX, Torino 1994, 8-15; Id., I poteri istruttori del giudice amministrativo, in Ius publicum, 2011; F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 3/2017, 911 ss.; L. Bertonazzi, L’istruttoria nel processo amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, Giuffrè, 2005; A. Chizzini, I poteri istruttori del giudice amministrativo in generale e nella giurisdizione esclusiva, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, B. Sassani - R. Villata (a cura di); A. Chizzini - L. Bertonazzi,  L’istruttoria, in Aa.Vv., Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo B. Sassani - R. Villata (a cura di), Torino, Giappichelli, 2012; M.A. Sandulli, Riflessioni sull'istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. e soc., 2/2020, 195-221.

    13 F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Cedam, Padova, 1953, 148 ss.

    14 F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo, cit.

    15 M. Nigro, Il giudice amministrativo “signore della prova”, in Foro it., 1967, V, 6 ss., ora in Scritti giuridici, I, Giuffrè, Milano, 1996, 699 ss.

    16 Ex multis: Cons. Stato, sez. IV, n. 3844/2020; Cons. Stato, sez. III, n. 866/2019; Cons. Stato, sez. VI n. 3042/2018.

    17 Cons. Stato, n. 903/2019; T.A.R. Lazio, Roma, n. 2864/2019; T.A.R. Umbria n. 558/2017.

    18 Sui temi, si veda: L. Migliorini, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996; Id., L’istruzione nel processo amministrativo di legittimità, Cedam, Padova, 1977.

    19 A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2020. Ma si v. anche oltre, nota 21.

    20 M.A. Sandulli, La giurisdizione plurale: Giudice  e potere amministrativo. La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, 1/2021.

    21 Aa.Vv., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017; M.A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa: il confronto, in www.federalismi.it, febbraio 2017; G.D. Comporti, Il giudice amministrativo tra storia e cultura: la lezione di Peir Giorgio Ponticelli, in Dir. proc. amm., 2014, 3, 743-826; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 2, 341-390; A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 5, 2015, III, 286 ss; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva (nota a Cons. Stato, Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5), in Giur. it., 2015, 10, 2192-2203, B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 1, 74-106.

    22 Sia sufficiente pensare alle tante sfumature con cui si qualificano gli atti e i documenti prodotti per la prima volta in appello (meramente integrativo, connesso) al fine della qualificazione, o meno, dei medesimi come nuovi documenti. Sul tema: F. Saitta, Absens haeres non erit. Brevi riflessioni sul diritto alla prova dell’appellato non costituitosi in primo grado, in Dir. e proc. amm., 1/2016, 157 ss.

    23 Corsivo aggiunto.

    24 Cass. civ., Sez. Un., n. 10790/2017. Cfr. F. Saitta, Prove indispensabili e ricerca della verità materiale: dalla Cassazione indicazioni per un equilibrato dosaggio delle preclusioni in appello (a margine di Sez. un., 4 maggio 2017, n. 10790), in Giustamm.it, 5/2017, 12 ss.

    25 Cons. Stato, n. 3329/2019; Cons. Stato, n. 4345/2018; Cons. Stato, n. 6574/2018.

    26 F. Saitta, Nova in appello e sentenze della 'terza via': quando il giudice amministrativo ha troppa fretta di decidere. (Nota a sentenza: Cons. Giust. Amm. Siciliana, 16 giugno 2021), n. 534, in GiustAmm.it, 2021, fasc. 6, 2 ss.

    27 Fondamentale appare ancora oggi lo scritto di E. Follieri, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2/2006, 495 ss. Si vedano, altresì: C. Gamba, Le ipotesi di riforma contenute nella relazione Vaccarella in tema di contumacia e non contestazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 831; Ibidem: M.G. Canella, Nuove proposte per la fase introduttiva del giudizio di cognizione, 847 ss, richiamati da F. Saitta, Absens haeres non erit. Brevi riflessioni sul diritto alla prova dell’appellato non costituitosi in primo grado, op.cit., in particolare 161 ss.

    28 A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, cit.; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit.; R. Villata, Considerazioni sull’effetto devolutivo dell’appello nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 131 ss.

    29 F. Patroni Griffi, Il metodo di decisione del giudice amministrativo, in La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, cit., 43 ss.

    30 M. Taruffo, Giustizia, procedure e processo, in Ragion pratica, 9/1997; B. Pastore, Giusto processo e verità giudiziale, Filosofia del diritto, unife.it.

    31 F. Francario  - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, cit.

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