GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207)

    La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207)

    di Veronica Sordi 

    Sommario: 1. Il caso. – 2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione. – 3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”. – Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990.  

    1. Il caso

    La pronuncia che si annota interviene su una vicenda che ha avuto una notevole eco mediatica (la destinazione della Certosa di Trisulti a scuola del sovranismo europeo) e merita di essere segnalata per le argomentazioni svolte dal giudice amministrativo con riferimento (i) all’applicabilità delle - rigorose - disposizioni previste dal Codice dei contratti per l’affidamento di servizi e forniture alle concessioni di beni; (ii) al concetto (fortemente dibattuto) di “dichiarazioni false o mendaci”; e infine (iii) al complesso rapporto del d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90) con l’art. 21-nonies l. n. 241/1990.

    Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva infatti indetto una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, ad esito della quale la Certosa di Trisulti veniva data in concessione alla Dignitatis Humanae Institute, associazione vicina all’ideologo Steve Bannon. A causa della  carenza dei requisiti originari prescritti dall’avviso pubblico di selezione (oltre che per asserite inadempienze della concessionaria agli obblighi assunti), a distanza di due anni, il Ministero annullava in autotutela il decreto con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione, nonché tutti gli atti conseguenti, ivi compreso il contratto di concessione. L’associazione, quindi, impugnava tale determina, che veniva annullata dal giudice di prime cure. Avverso siffatta decisione il Ministero proponeva appello al Consiglio di Stato, il quale riformava la decisione del TAR.  

     

    2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione

    La sentenza, dopo aver precisato che la concessione per la cura e lo sfruttamento (i.e. la gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione, ha evidenziato che la stipula della convenzione tra amministrazione e privato costituisce il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, ossia il momento nel quale concedente e concessionario disciplinano gli aspetti operativi della gestione del bene demaniale. In altre parole, secondo l’impostazione del g.a. la fase civilistica “non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionata dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario … Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio”. Quindi, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si sia proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità, in ragione dell’”intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra fase amministrativa e fase civilistica”, pervade - inevitabilmente - il contratto, provocando la decadenza dal beneficio ottenuto dal privato.

     

    3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”. 

    Prima di entrare nel merito della questione, occorre ricordare che nella specie l’associazione appellata aveva conseguito un vantaggio economico, ossia l’assegnazione di un bene demaniale culturale (la Certosa di Trisulti), all’esito di una selezione, tramite concessione, sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione, poi dimostratesi non veritiere. Il giudice di prime cure, pur non ignorando tale circostanza, aveva comunque ritenuto che l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento soltanto all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) – eventualmente – avviato nei confronti del dichiarante. Tale impostazione non è stata condivisa dal Consiglio di Stato sulla scorta di diverse ragioni. Il Collegio ha, in primo luogo, richiamato l’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25 settembre 2020 n. 16 con riferimento agli obblighi dichiarativi dei concorrenti nell’ambito della (diversa e specifica) disciplina del codice dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture,  rilevando che le informazioni rese da un concorrente nell’ambito di una procedura selettiva ben possono essere false o fuorvianti, nonché dirette e in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva medesima. In secondo luogo, ha evidenziato che in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale riservato all’amministrazione (la quale è tenuta ad accertare i presupposti di fatto e a svolgere le proprie valutazioni di carattere giuridico), “la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione dell’amministrazione diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo, e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nell’attitudine delle informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione”. Il giudice d’appello ha di conseguenza affermato che “la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità”. Fatta questa premessa di ordine generale, il Collegio ha avuto peraltro specificamente e opportunamente cura di sottolineare che, nel caso di specie, (i) la non veridicità delle dichiarazioni poggiava su dati di realtà non opinabili, ossia su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione; (ii) prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione aveva svolto un’apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione appellata, consentendole quindi di contraddire su ogni carenza riscontrata dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma la cui sussistenza non era stata confermata – al termine della verifica successiva all’esito della selezione – dalla documentazione ricevuta; (iii) quindi, la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017) era dimostrata dalla non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. n. 445/2000. In altre parole, il Consiglio di Stato, sulla scorta dell’insegnamento desunto dall’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020 (che – come già ricordato – era stata pronunciata con riferimento alla selezione dei contraenti nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica), ha ritenuto che nel caso in cui la fallace dichiarazione abbia inciso sul rilascio del provvedimento amministrativo, “è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità”. Tale interpretazione però non trova conferma nel dato testuale dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 e sembra contravvenire allo spirito del legislatore che, già dal 2004 – e, quindi, ancora prima della riforma Madia del 2015 – aveva tentato di dare una precisa delimitazione temporale al potere dell’Amministrazione di intervenire in autotutela sui propri provvedimenti, proprio allo scopo di bilanciare l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’esigenza del privato destinatario del provvedimento a conservare la propria posizione soggettiva (ci si riferisce, in particolare, all’art. 1, co. 136, l. n. 311/2004, ai sensi del quale “L'annullamento … di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”). E ha circoscritto l’inapplicabilità del limite temporale all’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo venga conseguito “sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. La “terza via” percorsa dal Consiglio di Stato – rinvio del dies a quo all’accertamento amministrativo dell’illecito – al di là della sua possibile ragionevolezza, non è contemplata da alcuna disposizione di legge. 

     

    4. Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990. 

    Sotto altro profilo, nella ricerca di un autonomo punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze rappresentate dagli artt 19, 21 e 21-nonies l. n. 241/90 (M.A. Sandulli, La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2021, 181 ss.; Id., Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in Il Dubbio, 7 maggio 2021), il Consiglio di Stato si è spinto ad affermare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies,  comma 1, l. n. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., porterebbe ad affermare che “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Nella fattispecie de qua, pertanto, secondo il Collegio, trovano contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990 e l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 445/2000, per il quale, in forza del principio di autoresponsabilità, (i) al privato è precluso trarre vantaggi da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero e (ii) l'amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità e, addirittura, prescindendo dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. La sentenza, peraltro, proprio in merito alle suddette norme, ha rilevato che “il rapporto osmotico [che viene ad instaurarsi tra esse]… è tale che la seconda [l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000] incide sulla prima [l’art. 21-nonies l. 241/90] anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutelaLe due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare”. Il punto critico è però che il Collegio, per un verso, richiama il principio di autoresponsabilità e “sfrutta” la clausola di salvezza delle “sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, verosimilmente frutto di un refuso e, per l’altro, non senza contraddizioni, assume l’irrilevanza dell’elemento soggettivo.

    La sentenza (al di là del risultato raggiunto) mette in luce l’assoluta urgenza di risolvere il problema dei rapporti dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 con il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, nonché con l’art. 21, co.1, l. n. 241/90 (laddove dispone che “Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”).

    Con specifico riferimento al rapporto tra gli artt. 21, co.1, e 21-nonies l. n. 241/90, l’interrogativo che dottrina e giurisprudenza si pongono è se il limite temporale imposto dall’art. 21-nonies debba operare anche rispetto agli interventi posti in essere in forza dell’art. 21, co. 1, cit., ovvero se tale ultima previsione debba costituire (invece) una ulteriore eccezione al limite dei 18 mesi previsti dal 21-nonies, quale deroga aggiuntiva rispetto a quella individuata dal co. 2-bis della medesima disposizione. La permanenza del suddetto quesito ha indotto autorevole dottrina a rilevare l’assoluta necessità di un intervento legislativo teso a rimuovere “l’errore” compiuto dal legislatore del 2015 di non modificare l’art. 21, co.1 in linea con le ragioni che avevano ispirato il medesimo ad abrogare il secondo comma dell’art. 21 e di introdurre rigorosi limiti al potere di rimuovere con effetto ex tunc i titoli e i benefici acquisiti ai sensi degli artt. 19 e 20 l. n. 241/90. A tal proposito, occorre ricordare che la Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, nei pareri nn. 839 e 1784 del 2016 (sui c.d. d.lgs. SCIA 1 e SCIA 2), guardando proprio alla ratioposta a fondamento della riforma (ossia garantire la stabilità del titolo del privato tramite l’abrogazione del co. 2 dell’art. 21 e l’introduzione del co. 2-bis all’art. 21-nonies), nel rilevare la distonia della scelta riformistica di mantenere inalterato il suddetto art. 21, co.1, aveva sin da subito evidenziato che se effettivamente il legislatore avesse voluto individuare una deroga ulteriore rispetto a quella prevista dal co. 2-bis dell’art. 21-nonies, avrebbe dovuto precisare “quali [fossero] i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”.

    È innegabile quindi che la perdurante (e inalterata) vigenza dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90, oltre a determinare un’insostenibile confusione di sistema (soprattutto se si guarda alle disposizioni di cui agli artt. 19 e 21-nonies), rappresenta un “pericolo” per il privato:

    (i) non solo perché siffatta norma, così come il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, viene utilizzata dalla giurisprudenza non soltanto nelle ipotesi di non veridicità documentalmente dimostrata – come nel caso della sentenza in commento – ma anche, come spesso accaduto, a fronte di meri errori di diritto e comunque di dichiarazioni in cui l’assoluta non veridicità non sia riconducibile alla formula “vero-falso”, ma risulti invece opinabile, con la conseguenza che ogni disposizione tesa a limitare il potere dell’amministrazione di intervenire in autotutela su propri provvedimenti per vizi originari di legittimità (compresa, da ultimo, la previsione di cui all’art. 2, co. 8-bis l. n. 241/90 introdotta dall’art. 12 d.l. n. 76/2020 conv. nella l. n. 120/2020) sarà di fatto “anestetizzata”;

    (ii) ma soprattutto perché la lettura combinata del primo periodo di essa (“l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti”) con il secondo (“In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni … il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale”) comporta l’inaccettabile equiparazione dell’errore di diritto al “falso ideologico in atto pubblico”, oltre che una (assurda) disparità tra la posizione del privato, esposto al rischio di una condanna ai sensi dell’art. 483 c.p. nel caso in cui erri nell’interpretare le norme di legge, e quella del funzionario pubblico, che risulterà, invece, esonerato dalla responsabilità, laddove incorra in meri errori di diritto. 

    Quanto illustrato mostra chiaramente la più volte richiamata urgenza di un intervento legislativo che, tra le tante, chiarisca (i) se la locuzione “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi anche alle “false rappresentazioni dei fatti”; (ii) che l’errore di diritto non può essere ricondotto alle “false rappresentazioni dei fatti”; e (iii) in caso di esito negativo della prima domanda, che i 18 mesi possano essere superati, al di là delle condanne penali passate in giudicato, soltanto nelle fattispecie in cui il “falso” della dichiarazione si evinca con immediatezza dal contrasto di essa con dati di realtà oggettivi, quali quelli risultanti da pubblici registri. 

    ***

    Per un maggiore approfondimento dei temi trattati si vedano in giurisprudenza, ex multis: Cons. Stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872, ivi; Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, in dejure.it, Id., 24 aprile 2019 n. 2645, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 8, in questa Riv. giur. edil., 2017, 5, I, 1089 (nota di N. Posteraro). Da ultimo, Corte cost., 16 aprile 2021 n. 68, in Il quotidiano giuridico, (che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, “in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada” e) le cui argomentazioni e conclusioni, anche alla luce dei recenti interventi legislativi, non sembra che possano trovare spazio rispetto ai benefici incisi da misure sanzionatorie di carattere interdittivo. 

    In dottrina, si rinvia a M.A. Sandulli, Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in questa rivista 10 maggio 2021; Id., Autodichiarazioni e dichiarazione "non veritiera", in questa Rivista, 15 ottobre 2020; Id., La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 181 ss.; Id., La “trappola” dell’art. 264 "decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2 giugno 2020; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in www.giustizia-amministrativa.it, nel quale si denuncia l’assoluta incertezza e il caos generato dalla disciplina in tema di autocertificazioni e di esercizio del potere dell’autotutela soprattutto nella materia edilizia; Id., L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019; M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria (artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 421 ss.; G. Strazza, I “tempi” dell’annullamento d’ufficio (Nota a C.g.a.r.s., sez. I, 26 maggio 2020, n. 325), in Giustizia insieme, 24 giugno 2020; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1177; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in federalismi.it, 22 marzo 2017; A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela, in Federalismi.it, 12, 2017; C.P. Santacroce, Annullamento d’ufficio e tutela dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, in Dir. e proc. amm., 2017, 1145 ss..


     

     

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