GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Imparzialità dei magistrati, fiducia nella giustizia da parte dell’opinione pubblica, riforme dell’ordinamento giudiziario di Gabriella Luccioli

    Imparzialità dei magistrati, fiducia nella giustizia da parte dell’opinione pubblica, riforme dell’ordinamento giudiziario*

    di Gabriella Luccioli

    Sommario: 1. Il valore costituzionale dell’imparzialità dei magistrati. - 2. Contenuto e parametri dell’imparzialità. - 3. L’impegno per recuperare la fiducia in un giudice terzo e imparziale. - 4. Conclusioni.

    1. Il valore costituzionale dell’imparzialità dei magistrati

    Il tema centrale di questa tavola rotonda attiene al principio di imparzialità del magistrato.

    Il testo riformato dell’art. 111 Cost. richiama detto principio, disponendo che il processo si deve svolgere dinanzi ad un giudice terzo e imparziale. Come è noto, il riferimento al giudice terzo ed imparziale è stato introdotto in sede di modifica dell’ art. 111 con legge costituzionale n. 2 del 1999, così che  un principio sino ad allora non espresso, ma immanente nel sistema, ha acquisito il riconoscimento di requisito fondamentale dell’ attività giurisdizionale: la terzietà e l’indipendenza del giudice costituiscono elementi del diritto ad un processo equo.

    Inoltre l’art. 101 Cost., nel sancire la soggezione dei giudici soltanto alla legge, pone come cardine primario dell’assetto costituzionale l’immunità del giudice da ogni forma di condizionamento politico o da influssi esterni di qualsiasi natura, collegando inscindibilmente ad esso i principi, pur concettualmente diversi, di autonomia e indipendenza della magistratura.

    Ancora l’art. 97 Cost., che trova applicazione anche nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, impone a tutti gli uffici pubblici un generale dovere di assicurare il buon andamento e l’imparzialità della loro azione.

    Il d.lgs. n.109 del 2006 richiama al suo primo articolo l’obbligo per il magistrato di esercitare le proprie funzioni con imparzialità e sanziona disciplinarmente nell’  articolo successivo la violazione di tale dovere primario.

    Ed anche l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e l’art. 6 della  CEDU sanciscono che ogni cittadino ha diritto  a che la sua causa sia esaminata da un tribunale  indipendente e imparziale; infine,  l’ art. 47, comma 2, della Carta di Nizza afferma il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge.

    Nella giurisprudenza costituzionale va richiamata la nota sentenza n. 224 del 2009, che nel ritenere infondata la questione di legittimità della norma disciplinare che sanziona non solo l’iscrizione, ma anche la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ha affermato che i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità.

    La successiva sentenza n. 170 del 2018 della stessa Corte ha ricordato che i limiti per i magistrati all’esercizio dei diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità che le caratterizzano.

    La terzietà ed imparzialità sono garantite nell’ambito del processo civile dall’art. 51 c.p.c., che impone al giudice l’obbligo di astenersi in presenza di situazioni tassativamente previste, potenzialmente idonee ad influire sulla sua oggettività e serenità di giudizio e comunque ad appannarne l’immagine di terzietà.

    Altre specifiche previsioni tendono a garantire detti valori di terzietà e imparzialità,  come le norme sulle incompatibilità, sull’inamovibilità, sulla limitazione dell’ ambito della responsabilità civile, quelle in materia di competenza, in quanto dirette alla individuazione del giudice naturale. È invero evidente che il diritto a non esser distolti dal giudice naturale precostituito per legge integra un presupposto per l’attuazione dell’imparzialità.

    Questa è la cornice sul piano normativo, a livello nazionale e sovranazionale,  nella quale il principio di imparzialità si  inserisce. E tuttavia è evidente, come ci ricorda nei suoi scritti Nello Rossi, che le molte indicazioni legislative a tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza si risolverebbero in formule vuote ed inutili se non fossero assistite dalla precisa responsabilità di ogni magistrato di realizzare il disegno costituzionale divenendo il primo custode della sua imparzialità e della sua indipendenza, non ottemperando ad altri comandi che non siano quelli del legislatore ed ispirando sempre la propria condotta al disinteresse personale.  

    2. Contenuto e parametri dell’imparzialità

    Nel tentare di delineare il contenuto dell’imparzialità, in una prima approssimazione osservo che l’imparzialità non può identificarsi in una posizione di neutrale e asettico distacco dalle vicende sottostanti al processo e dal contesto sociale e culturale in cui esso si inserisce.

    Imparzialità non può voler dire lontananza o indifferenza alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, perché un magistrato non attento al dibattito politico e culturale e disinteressato ai grandi temi dell’equità sociale e della democrazia, ove pure esistesse, non sarebbe un buon magistrato né un buon cittadino. Il giudice non è e non deve essere soltanto un tecnico che fa buon uso del ragionamento sillogistico, ma è un soggetto che svolge un ruolo fondamentale nella società, che ha le sue convinzioni e i suoi orientamenti culturali, i quali non possono non influenzare il suo modo di esercitare la giurisdizione.

    Io sono parziale se devo occuparmi in giudizio di una donna ferita nella sua dignità da atti di violenza o di sopraffazione o dare tutela a un minore il cui superiore interesse è stato calpestato, così come sono parziale nel raccogliere il grido di aiuto di un malato terminale che chiede di porre termine ad una vita non più degna di essere vissuta.

    Io non mi sento neutrale di fronte a comportamenti lesivi dei diritti delle persone più fragili, ma mi schiero convintamente a loro favore nel ripristinare la legalità violata.

    È pertanto necessario intercettare un diverso significato dell’imparzialità, che non neghi, ma rispetti i valori di parità, di solidarietà, di dignità delle persone cui il nostro ordinamento si ispira: insomma imparzialità rispetto alle parti del giudizio, e non rispetto ai valori in gioco.

    Imparzialità da identificare nel rifiuto di atteggiamenti partigiani o settari o di ripiegamenti sul pensiero dominante, o anche di esercizio della funzione in termini di lotta al crimine, di missione elitaria di purificazione sociale. Imparzialità intesa come gestione del processo come strumento per il ripristino della legalità violata, nel rispetto delle garanzie difensive e del principio del contraddittorio, non già come un’arena in cui si vince o si è abbattuti.

    Vuol dire insomma distacco da ogni valutazione che sia altra   dall’accertamento dei fatti e dalla ricerca delle cause che in un determinato contesto li hanno determinati, e quindi dalla individuazione della migliore risposta di giustizia.

    Vuol dire anche essere affrancati da contiguità o collegamenti con ogni tipo di potere, sia politico che economico o religioso o di affari o di altra natura, in quanto il cedimento in tali direzioni finisce per rendere il magistrato servile e parziale.

    Imparzialità vuol dire inoltre consapevolezza del carattere probabilistico della verità fattuale emergente dagli atti del processo e della opinabilità della verità processuale, nonché disponibilità all’ ascolto ed alla considerazione di tutte le opinioni, anche di quelle più lontane dalle nostre.

    Vuol dire quindi, come sempre ci ricorda Luigi Ferrajoli, coltivare l’etica del dubbio, da assumere come aspetto fondamentale della deontologia giudiziaria, come abito mentale da non dismettere mai, rifiutando ogni tipo di arroganza o supponenza   nell’attività investigativa ed in quella valutativa e rendendosi sempre pronti a rivedere le proprie opinioni, perché l’errore è sempre possibile.

    Vuol dire ancora porsi di fronte all’imputato come di fronte ad un cittadino che forse ha sbagliato, ma che deve considerarsi innocente fino all’accertamento definitivo della sua colpevolezza; vuol dire incanalare le proprie posizioni culturali in un giudizio sereno, capace di valutare con sguardo attento e non prevenuto il contesto in cui la vicenda si inserisce; vuol dire mantenere salda durante il processo la propria determinazione a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, liberandosi da preconcetti che alterano l’oggettività del giudizio. 

    Vuol dire altresì restare lontani dall’ossessione della carriera e del successo personale, recuperando le acquisizioni e lo spirito del congresso di Gardone, che costituì una fondamentale occasione di riflessione, comune a tutte le correnti, sul ruolo dei giudici nella società e sulla valenza politica dell’attività giudiziaria, impegnando direttamente ogni magistrato nell’ elaborazione di un progetto complessivo di riforma,  e smettere di utilizzare l’attività svolta in ambito associativo per trarne indebiti vantaggi professionali.

    Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato racconta di un giudice che ha chiesto ad un collega di cedergli una causa ricca  di belle questioni, che si presta alla redazione di una sentenza dotta, ottimamente utilizzabile come titolo da far valer nei successivi avanzamenti di carriera, e annota: questo episodio mi ha fatto venire in mente uno tra i più sorprendenti fenomeni della natura, che è quello delle emigrazioni delle anguille: le quali durante il loro ciclo di sviluppo, guidate da misteriosi istinti di amore o di  riproduzione, sono spinte in certe stagioni a risalire dal mare il corso dei fiumi in cerca di acque dolci, e in altre a ridiscendere verso il mare in cerca del sale. Anche i giudici hanno i loro istinti stagionali: normalmente prediligono  l’acqua dolce delle cause stagnanti; ma quando s’avvicina la stagione delle promozioni, vanno in amore, e l’istinto le costringe a emigrare, in cerca di questioni difficili, verso gli agitati flutti delle cause salate.

    Ed è in queste parole, di chiara attualità, che intercetto un’altra dimensione dell’ imparzialità, come capacità di operare in silenzio, lontano dai clamori dell’ informazione e dalla tentazione del consenso popolare, che è effimero e a volte male informato e può servire forse a rassicurare gli insicuri, nonché come rifiuto di ogni forma di esibizionismo e di protagonismo o di atteggiamenti da giudice star: ricordo  che in un non lontano passato è stata proprio la magistratura senza carriera e senza volto a svolgere un ruolo fondamentale nella promozione di nuovi valori, orientando la giurisprudenza verso il riconoscimento di diritti prima sconosciuti, scaturiti da grandi mutamenti sociali o dalle dirompenti innovazioni della medicina e della tecnica.

    Affermava l’indimenticabile Rosario Livatino che il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società. Questo e solo questo è il giudice di ogni tempo; se apparirà sempre libero e indipendente, si mostrerà degno della sua funzione; se si manterrà integro e imparziale non tradirà mai il suo mandato.

    L’imparzialità si sostanzia allora, in estrema sintesi, nella tensione verso una giustizia del caso concreto attenta alla tutela dei diritti, al rispetto della dignità di ogni persona, ispirata unicamente ai principi dell’ordinamento ed immune da ogni pregiudizio o condizionamento.

    Parlare di pregiudizio vuol dire affrontare un problema non compiutamente esplorato al  nostro interno, nonostante il codice etico dei magistrati si dia carico  della forza di tale fenomeno e della sua insidiosità, lì dove all’ art. 9 chiarisce che per  rendere effettivo il valore dell’imparzialità è necessario l’impegno a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’ interpretazione ed applicazione delle norme: in tale disposto è evidente l’acquisita consapevolezza di quanto il pregiudizio, ed in particolare il gender bias, il pregiudizio di genere - che nella cultura statunitense costituisce da molti anni un fenomeno da riconoscere, da analizzare e da estirpare - può influenzare il lavoro del giudice non solo nell’ interpretazione ed applicazione della norma, ma anche nella conduzione del processo e nella acquisizione e valutazione della prova.

    Il pregiudizio può identificarsi in un atteggiamento interiore, in un modo di esistere e di pensare, in un preconcetto indimostrato che deve essere rimosso attraverso la percezione di esso e la messa in discussione delle basi concettuali sulle quali si fonda: il rifiuto del pregiudizio costituisce concreta attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost.

    Norberto Bobbio definiva il pregiudizio un’opinione e un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli, e proprio in ragione della sua resistenza ad essere sottoposto al controllo della ragione e dell’argomentazione critica lo considerava un errore più tenace e più pericoloso di qualsiasi errore di opinione. Sono parole che dovrebbero essere  ricordate in ogni caso in cui l’attività interpretativa del giudice lascia spazio a  giudizi di valore.  

    3. L’ impegno per recuperare la fiducia in un giudice terzo e imparziale

    Le cronache quotidiane ci consegnano una realtà devastante di magistrati arrestati, inquisiti, condannati per fatti di corruzione, specie in alcuni uffici del sud.

    Si tratta di episodi gravissimi, perché, come dice Raffaele Cantone, il magistrato che si fa corrompere dovrebbe essere giudicato per tradimento. Tradimento della toga che indossa, tradimento della funzione che ha scelto di esercitare.

    La magistratura sta vivendo un momento terribile, segnato dal precipitare del suo tasso di credibilità, purtroppo alimentato quotidianamente dalla narrazione di vicende opache o da improprie manifestazioni di protagonismo di alcuni.  

    Sono tante le ricette prospettate per uscire dal tunnel. Alcune di esse sono affidate a drastiche iniziative legislative che incidono sui punti nevralgici dell’attuale assetto ordinamentale e mirano ad umiliare la magistratura o a comprometterne l’autonomia, ritenuta incompatibile con il ruolo della politica. Mi riferisco alla proposta di sorteggio dei magistrati togati al CSM, all’eterna battaglia per la separazione delle carriere, alla pretesa di intervenire sull’obbligatorietà dell’azione penale, alla scelta politica di affidare all’ esito dei referendum la modifica del sistema.

    Non entro - non avendone il tempo - nel merito di tali proposte e iniziative e delle ideologie che le animano, così come non mi soffermo sull’ importante azione riformatrice intrapresa dal Governo, già approvata o all’esame del Parlamento. Né aggiungerò la mia voce a quella dei tanti che denunciano come cause primarie di questa crisi comportamenti devianti delle correnti e dei loro leader o di singoli componenti del CSM o del CSM nel suo complesso, messi tragicamente in luce dalla vicenda Palamara.  

    Mi preme soltanto rilevare in questa sede che per superare lo smarrimento di oggi e recuperare l’autorevolezza e la fiducia che molti cittadini ci negano non potrà mai prescindersi  dal rinnovato impegno da parte di  ciascun magistrato  a rivedere il modo di esercitare la giurisdizione e ad incarnare un modello professionale che sappia coniugare preparazione, sobrietà, umanità, facendosi testimone di quotidiani esempi positivi e di prassi virtuose, così innestando un circuito operoso verso un’ autentica rigenerazione.

    So bene che non possono impartirsi lezioni di etica, non solo perché nessuno ne ha la legittimazione, ma anche e soprattutto perché l’etica non si insegna, ma si coltiva nell’agire quotidiano. Tuttavia tale consapevolezza non mi esime dall’additare comportamenti e deviazioni che a mio avviso hanno contribuito in questi anni a far perdere credibilità alla magistratura.

    Occorre infatti accettare il dato di realtà che le cause di questa crisi devastante vanno ricercate in primo luogo in fattori endogeni e svolgere una severa riflessione critica ed autocritica sui guasti prodotti da un carrierismo esasperato, che troppo spesso diventa la cifra di ogni scelta professionale, e che si manifesta in una frenetica rincorsa ad incarichi, prebende, scorciatoie, che sovente non hanno nulla a che vedere con la promozione cui si aspira, secondo una logica certamente incoraggiata dalla circolare del CSM del luglio 2015, che ha in qualche misura modificato la stessa antropologia dei magistrati italiani.

    Vanno al tempo stesso ricercate in quella adesione da parte di alcuni ad un modello di giudice burocrate, pigro e opaco, che riparandosi dietro lo schermo della propria indipendenza orienta la sua condotta verso l’amore per il quieto vivere e verso ogni tipo di disimpegno, fino a scadere nell’individualismo e nel conformismo più piatto ed innocuo, alimentando la tendenza alla trasformazione in senso impiegatizio della magistratura e coltivando una asfittica prospettiva sindacale di tutela della professione.

    Vanno ancora ricercate nelle troppe manifestazioni di contiguità con le forze politiche cui in questi ultimi anni abbiamo assistito. E qui è inevitabile il riferimento ai magistrati che entrano in politica o si candidano alle elezioni politiche, europee o amministrative, non di rado sfruttando la visibilità ottenuta nell’ esercizio delle funzioni: un fenomeno che se pure non pone un problema di legalità in base alla legislazione vigente (sulla quale la commissione Luciani ha formulato significative  proposte di modifica), è certamente deprecabile sul piano dell’opportunità e che nuoce all’immagine di imparzialità dell’intera magistratura (oltre a sollecitare una seria riflessione, anche a livello normativo, sul destino del magistrato al termine del mandato o dell’incarico politico, o anche al termine di una campagna elettorale non coronata da successo). Come ricorda la Corte Costituzionale nella richiamata sentenza n. 170 del 2018, nessun cittadino, e neppure il cittadino - magistrato, si candida da solo ed ogni candidatura a qualsiasi tipo di elezioni postula un collegamento con questa o quella forza politica e con le ideologie che la ispirano. Ed anche l’esercizio del mandato o dell’incarico politico si svolge inevitabilmente all’ interno di una dialettica dominata dal confronto tra i partiti.

    Ed allora occorre prendere atto che il magistrato non può vivere la stessa vita, avere gli stessi rapporti personali e godere delle stesse libertà di un cittadino comune.

    Ciò comporta che  i principi di indipendenza, autonomia e imparzialità debbano essere  declinati, come osserva Giovanni Canzio, assumendo nuovi modelli deontologici che arricchiscano i contenuti dello statuto professionale di ogni magistrato, avendo ben presente che l’indipendenza è posta a servizio della collettività e non costituisce un privilegio di casta e che il bene da preservare non è il prestigio del corpo dei giudici, secondo un vecchio schema proprio della cultura corporativa, ma il valore della credibilità e la fiducia dei cittadini.

    Soccorrono ancora una volta le parole di Rosario Livatino: L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai principi, ma anche nella trasparenza della sua condotta, anche fuori del suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta dell’amicizia.

    Ciò non vuol dire rinchiudersi in una torre d’ avorio coltivando i canoni del formalismo tecnico giuridico e rivendicando una orgogliosa neutralità, ma significa riconoscere che da questa emergenza nessuno può chiamarsi fuori e saper assimilare pienamente quel formante ideale che deve permeare l’esercizio delle funzioni.

    In questo impegno vanno recuperati i precetti contenuti nel codice etico dei magistrati, definito da taluni come una sorta di patto con i cittadini in quanto tende a fornire alla collettività la conoscenza delle regole cui i magistrati sono tenuti, così offrendo elementi di chiarezza sulla condotta che essi devono assumere in ogni contesto e consentendo all’ opinione pubblica ed al tribunale morale di una società giustamente esigente di pretendere il rispetto degli impegni assunti. Ma c’è un’altra  funzione del codice etico da richiamare, ed è quella  che indica al magistrato la costruzione di un modello ideale e la formazione di  una coscienza etica   attraverso il rispetto di una summa di regole di condotta non solo nell’ esercizio delle funzioni, ma anche nella vita sociale, nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione: tale insieme di regole vale a fornire un abito mentale, uno stile intellettuale,  la cifra della condotta quotidiana del magistrato in ogni contesto esperienziale, quella che fa essere rigorosi e sobri nel comportamento e riflette la piena consapevolezza della funzione costituzionale dell’ attività esercitata. In questa prospettiva il codice rompe l’isolamento di ciascun magistrato, rendendolo parte attiva di un sistema e creando un più ampio collegamento con le altre professioni legali, ed in particolare con l’ avvocatura.

    Ed è importante segnalare che già nel suo primo articolo detto codice sancisce che in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità.

    Sostiene Alfonso Amatucci in una bella intervista a Giustizia Insieme che occorre parlare ai magistrati, appena vinto il concorso, di deontologia prima e più ancora che di diritto; che è necessario chiarire loro che il rigoroso rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato; che autonomia e indipendenza vanno meritate e che il primo dovere del giudice - secondo l’ insegnamento di Franco Bile - è stare dentro le cose tenendosene rigorosamente fuori.  

    4. Conclusioni

    Mi avvio alla conclusione. In una situazione così grave e complessa io credo che venga soprattutto in gioco, salva ovviamente la responsabilità dei gruppi e quella dei soggetti direttamente coinvolti, l’atteggiamento interiore ed esteriore di ogni magistrato. L’orgoglio del ruolo deve fondarsi sulla qualità del lavoro svolto; il rispetto da parte dei cittadini e degli utenti si ottiene con il sapere, la professionalità e tanta umanità, oltre che con l’esempio di una condotta irreprensibile fuori dalle aule giudiziarie, che deve essere tanto più irreprensibile quanto più è forte la perdita di fiducia dell’opinione pubblica.

    Occorre allora calarsi nella prova del fuoco della realtà quotidiana e prendere atto che dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e i suoi tempi, dall’interlocuzione rispettosa ed attenta con le parti ed il foro, dalla redazione di provvedimenti provvisti di motivazioni chiare e comprensibili soprattutto a coloro che ne sono destinatari, dalla sobrietà nella vita privata passa il difficile percorso per il recupero della fiducia dei cittadini nel servizio che prestiamo.

    Sarà questa la migliore risposta e la più efficace reazione alle proposte di soluzioni riformatrici dirette a scardinare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

    *Rielaborazione dell’intervento svolto nella tavola rotonda conclusiva del corso di formazione su “L’imparzialità del magistrato: deontologia, garanzie procedimentali e responsabilità disciplinare” organizzato dalla SSM a Napoli nei giorni 11 – 13 ottobre 2021.                                                                                                                                                                                                        

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