GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La giustizia tributaria in Cassazione:problemi e prospettive   di Enrico Manzon,  Alberto Marcheselli, Giuseppe Melis e Raffaello Lupi

    La giustizia tributaria in Cassazione:problemi e prospettive 

    a cura di Enrico Manzon    

    Una montagna di ricorsi, sempre più alta. Con questa immagine, allo stesso tempo sintetica ed efficace, si può descrivere lo status quo del contenzioso fiscale presso la Corte di Cassazione. Era già molto alta prima del Covid-19: oltre 50.000 procedimenti, più della metà di quelli complessivamente pendenti avanti le sezioni civili. Rallentamento (forte) da emergenza epidemiologica e scongelamento delle impugnazioni post “paci fiscali” la alzeranno ulteriormente. Stima previsionale per la fine del 2020: 70.000 circa.

    Nel 2019 –per la prima volta dalla sua istituzione (1999)- la Sezione specializzata, magistrati e personale ausiliario, con uno sforzo davvero notevole ha raggiunto il “saldo attivo”: definiti superiori alle sopravvenienze. La “montagna” aveva quindi incominciato ad abbassarsi e con essa, finalmente, era iniziata la discesa dei tempi di giustizia. Certo di poco, ma era comunque l’avvio di un’auspicabile e da più parti auspicata inversione di tendenza, che tuttavia nell’immediato sarà assai complesso, se non impossibile, proseguire.

    A questo punto le sole misure organizzative interne e la legislazione “estravagante” si palesano sempre meno adeguate ed appare invece sempre più necessaria un’azione –legislativa/organizzativa- sistematica che si fondi su di un’ampia riflessione di sistema, che investighi le cause ed indichi i rimedi di questa “crisi dell’arretrato” e quindi della nomofilachia tributaria.

    Si evidenzia dunque il bisogno di un pensiero lungo e largo, che partendo dalla “ridotta” della Corte, vada oltre, più nel profondo, attraverso le problematiche ordinamentali e procedurali fino alla stessa configurazione generale del diritto dei tributi.

    Abbiamo scelto tre autorevoli tributaristi accademici per costituire con le loro considerazioni un punto di avvio di questo percorso intellettuale.

     

    Le domande e le risposte  

    1.  L’effetto combinato del blocco dell’attività ordinaria della Corte conseguente all’emergenza sanitaria e dello sblocco dei ricorsi tributari in entrata, dovuto alla cessazione delle sospensioni dei termini di impugnazione disposti dai recenti provvedimenti di c.d. “pace fiscale”, produrrà un incremento rilevante della pendenza avanti alla Sezione Quinta civile-tributaria, il cui già improbo compito sarà quindi ulteriormente rallentato e complicato. Quali soluzioni normative vi sembrano necessarie e possibili per contrastare questa deriva e riprendere l’azione di miglioramento dei tempi e della qualità della nomofilachia in questa materia ?

     

    Giuseppe Melis

    Preliminare a qualsiasi disamina tecnico-giuridica della questione di cui dobbiamo occuparci, è la sua comprensione quali-quantitativa, per come emerge dalle relazioni annuali dei presidenti del CPGT, dai rapporti sul contenzioso tributario del MEF, dalle relazioni della DG-Stat presso il Ministero di giustizia e dai report dell’Ufficio di statistica della Corte di cassazione.

    Iniziando dai gradi di merito, nel 2019 sono stati presentati 189.537 ricorsi tributari, di cui 142.522 in CTP e 47.015 in CTR, mentre ne sono stati decisi 228.147. Al 31.12.2019, le controversie pendenti erano 335.175, a fronte di 380.774 al 31.12.2018, 417.250 al 31.12.2017, 468.839 al 31.12.2016 e 530.521 al 31.12.2015. In quattro anni, le controversie pendenti sono dunque diminuite del 37% e di ca. 200.000 unità. Il sistema mostra così una capacità di assorbimento dell’arretrato di ca. 40/45 mila controversie annue (al lordo dei provvedimenti deflativi medio tempore adottati). L’andamento è, tuttavia, quasi esclusivamente imputabile al contenzioso in CTP: mentre, infatti, le pendenze in CTR sono rimaste sostanzialmente invariate dal 2015 al 2019 (da 144.115 a 137.674), nel medesimo periodo quelle in CTP si sono dimezzate (da 386.406 a 197.501). Solo negli ultimi due anni si è registrato un discreto saldo netto positivo in CTR. Occorre, comunque, ricordare che le controversie pendenti nel 1996 erano 3.980.000, sicché il lavoro delle Commissioni tributarie può definirsi eroico.

    Se le CTP decidono 170mila ricorsi a fronte di 190mila pendenze, ciò significa che i tempi di decisione in primo grado saranno nell’ordine di un anno; quanto alle CTR, se esse decidono ca. 60mila ricorsi annui a fronte di 137.000 pendenze, i tempi medi di decisione saranno di un paio di anni. In tutto, tre anni.

    Altro dato rilevante è che a fronte di ca. 870mila ricorsi decisi in CTP nel periodo 2015-2018, sono stati presentati nel periodo 2016-2019 ca. 237.000 ricorsi in CTR. Dunque, poco più di un quarto delle sentenze della CTP vengono appellate.

    Quanto, infine, al valore dei ricorsi (sola imposta) presentati, dai dati del IV trimestre 2019 in CTP il 44% era inferiore/uguale a 3.000 euro e il 27% tra 3.000 e 20.000 euro; in CTR, il 29% era inferiore/uguale a 3.000 euro e il 28% tra 3.000 e 20.000 euro.

    Venendo adesso al giudizio di Cassazione, nell’ultimo decennio i ricorsi tributari depositati sono stati da un minimo di 8.264 (2009) ad un massimo di 12.463 (2018). Nel 2019 sono stati 9.535, e hanno rappresentato circa un quarto dei ricorsi totali, dopo aver toccato un massimo del 38,9% nell’anno 2016.

    I ricorsi definiti sono stati da un minimo di 5.966 ad un massimo (proprio nel 2019) di 11.419. Tranne che nel 2009, i ricorsi definiti in materia tributaria sono stati sistematicamente inferiori a quelli proposti, con una differenza, nel 2010-2018, pari a ca. 30.000 unità (98.130 ricorsi iscritti – 69.724 definiti). Solo nel 2019 si è registrata, per la prima volta, un’inversione di tendenza, con 11.419 ricorsi definiti a fronte di 9.535 ricorsi depositati.

    La durata media dei giudizi definiti nel 2019 è stata di 48,8 mesi, il valore più alto del decennio ad eccezione del 2018 (53,4 mesi). Valore, questo, più elevato di una decina di punti rispetto alle materie lavoro e previdenza e di una ventina di punti rispetto alla materia contratti.

    Al 31.12.2018, pendevano complessivamente 104.543 ricorsi, di cui 47.065 relativi alla materia tributaria (il 45%). Non ho dati circa l’impatto su tali pendenze della normativa in tema di definizione agevolata delle controversie tributarie di cui all’art. 6, d.l. 23.10.2018, n. 119.

    Nel periodo 2015-2019, infine, i ricorsi iscritti in Cassazione sono stati complessivamente 56.415 a fronte di 298.597 ricorsi decisi in CTR. Dunque, ca. il 18% delle sentenze di appello vengono impugnate. Si tratta di valori percentuali non dissimili da quelli delle controversie civili e di lavoro e previdenza.

    Quanto, infine, all’esito, nel 2015 veniva accolta circa la metà dei ricorsi contro una media del 33% dell’intera sezione civile.

    Questi ultimi due dati portano ad escludere che possa parlarsi di un eccesso di impugnazioni, impugnandosi quanto in altri settori e decidendosi evidentemente in appello, agli occhi della Cassazione, meno bene rispetto ad essi.

    Possiamo, dunque, trarre le seguenti conclusioni: a fronte di decine di milioni di atti emanati ogni anno, ca. 200.000 vengono impugnati in CTP, in gran parte rientranti nelle fasce di valore più basse. Di questi, ca. 60.000 finiscono in CTR, e di questi ancora – nel complessivo volgere di un triennio dalla presentazione del ricorso originario – ca. 10.000 giungono in Cassazione, per poi giacervi mediamente quattro anni ed essere accolti nella metà dei casi. Si tratta di un ventesimo degli atti originariamente impugnati, a loro volta pari ad una frazione minima di quelli notificati ai contribuenti.

    A fronte di questa rilevante “sfrondatura”, è evidente che il “collo di bottiglia” si crea in Cassazione e che quest’ultima, nonostante il tour de force cui si è sottoposta, non è minimamente in grado di ridurre l’arretrato di quasi 50.000 sentenze, destinato peraltro ad incrementarsi ulteriormente a seguito dei ben noti eventi.

    Da qui la necessità di comprendere: a) se e come far pervenire in Cassazione ancor meno ricorsi, sia per quelli già pendenti nei gradi di merito, sia per le liti non ancora sorte; b) come far decidere più velocemente in Cassazione i ricorsi pendenti.

     

    Alberto Marcheselli

    Che il transatlantico della Suprema Corte di Cassazione sia pericolosamente diretto - e pericolosamente vicino - all’iceberg del diritto tributario è un dato oggettivo. A differenza dell’omologo navale, tuttavia, l’Istituzione ha piena e meritoria consapevolezza del problema e del pericolo.

    Difficile, a mio avviso, non è tanto individuare le cause della emergenza, quanto le soluzioni. Le cause in effetti, come nella metafora dell’iceberg, sono molto profonde e dotate di una massa assai cospicua, e di una altrettanto cospicua e conseguente inerzia alla rimozione.

    La premessa fondamentale alle riflessioni che intendo svolgere è che ritengo il problema nasca fuori del processo per la sua maggior parte e che nel processo si manifestino essenzialmente i sintomi della malattia. Simmetricamente, come si vedrà, la rimozione delle cause dovrebbe operare essenzialmente a monte. Il che non significa assolutamente, però, e anche questo si vedrà, che alla terapia non possa e debba concorrere la giurisdizione, da un lato, e che aspetti vi possano essere migliorati.

    In sintesi, se il diritto rappresenta la fotografia di un (temporaneo) equilibrio raggiunto tra valori, esigenze, obiettivi, il diritto tributario soffre per due motivi. Da un lato, perché l’oggetto della fotografia è rappresentato, a monte, da estrema tensione e variabilità e, a valle come effetto, da estrema mutevolezza, precarietà, movimento. Dall’altro, perché la mano del fotografo, che dovrebbe mettere in posa i non facili soggetti e rappresentarli al meglio con le regole, appare –eufemisticamente - malferma: fuor di metafora, per una gravissima crisi della cultura giuridica tributaria, di cui siamo prima di tutto responsabili noi accademici. 

    A questo primo livello di introduzione generale aggiungerei che, se non è semplice ipotizzare di dare alla materia tributaria una minore tensione, specie nelle difficili temperie, economiche e non solo, degli ultimi decenni e dell’oggi, molto si potrebbe fare per migliorare la tecnica, la fermezza e l’abilità del fotografo, e cioè molto si potrebbe migliorare nel disegnare il sistema delle regole.

    Ritengo infatti si possa (e si debba!) lavorare molto, lungo due direttrici fondamentali.

    La prima è quella del radicale riassestamento della cultura giuridica tributaria, che significa prendere atto, funditus, del fatto che il diritto tributario è essenzialmente due cose: a) individuazione astratta del tributo giusto (scelta della manifestazione di ricchezza più rappresentativa ed effettiva da tassare e dell’equo importo, nell’equilibrio, non facile, tra uguaglianza del sacrificio e incentivazione del dispiegarsi delle energie produttive): b) attuazione corretta del tributo giustamente delineato dalle norme (cioè giusto esercizio del potere amministrativo di controllo dell’adempimento dei doveri dei contribuenti).

    Il diritto tributario ha una sua autonomia dogmatica, rispetto al diritto civile, da un lato, e dall’altro una derivazione dal diritto amministrativo, ma un oggetto del tutto peculiare: fatti economici.

    Detto altrimenti, il diritto tributario deve urgentemente ricalibrarsi sia rispetto agli altri diritti, sia rispetto alle discipline economiche. Esso non può trarre più di tanto (qualcosa, ma non tanto) né dalla teoria della obbligazione del diritto civile, né dal principio di colpevolezza del diritto penale, né dalla tematica della discrezionalità del diritto amministrativo: tre poli autorevoli e tradizionali, che però rischiano di portare decisamente fuori rotta, con i rischi di naufragio sotto gli occhi di tutti. Sul piano ordinamentale e limitandosi allo spicchio settoriale della giurisdizione di vertice, non aiuta, forse a presidiare tale autonomia dogmatica l’indice, relativamente elevato, a quanto mi consta, del turn over nella Sezione tributaria. Ciò, tuttavia, è più un effetto che una causa della distorsione (anche se può aumentarla con un effetto di feedback): esso dipende infatti da dati strutturali e dalla – ben comprensibile e proprio per le ragioni che si sono dette e si diranno – tendenziale più diffusa appetibilità delle altre sezioni civili.

    In prospettiva, il problema non potrà risolverlo che una rinnovata o nuova generazione di giuristi, che, riacquisito il controllo del suo campo, dovrebbe rivendicare appassionatamente la centralità del suo ruolo rispetto alle c.d. scienze economiche: il reperimento coattivo dei mezzi di finanza pubblica è un inequivocabile tema giuridico, con tutti i suoi problemi di delicata ponderazione di garanzie e interessi e necessità di equilibrio tra efficienza e garanzie: sono sotto gli occhi di tutti, e gravissimi, gli effetti, anche a livello globale, del dilagare, fuori dal loro campo di elezione, dei modelli econometrici, nel silenzio assordante del Diritto.

     

    Raffaello Lupi

    Il problema della giurisdizione tributaria è notevole, ma è la conseguenza, anzichè la causa, di un problema molto più generale, riguardante l’applicazione delle imposte.

    Esse si differenziano dalle entrate patrimoniali direttamente legate a servizi e funzioni pubbliche, cioè tariffe e tasse in senso stretto; queste entrate commutative sono infatti legate a un interesse, o a uno specifico coinvolgimento del contribuente, su un bene, servizio o funzione, facenti capo alle più diverse pubbliche amministrazioni, che possono occuparsi del relativo incasso, rientrante nelle varie funzioni pubbliche di riferimento.

    Le imposte, invece, sono commisurate a presupposti economici, riconducibili al reddito nelle sue varie componenti, al consumo o al patrimonio, ed hanno bisogno dell’intervento di specifici uffici, costituenti la funzione pubblica tributaria, parte del diritto amministrativo. Le imposte, insomma, come ho spesso occasione di dire, si pagano se e quando qualcuno le impone, come per millenni hanno fatto uffici pubblici o loro incaricati. Già si vede qui il carattere non giurisdizionale della funzione tributaria, come quelle di amministrazione del patrimonio, infrastrutturale, ambientale, sanitaria, educativa, di sicurezza, di ricerca, di valorizzazione dei beni culturali etc..

    La funzione tributaria è insomma una delle tante funzioni amministrative, caratterizzate per millenni da una tutela gerarchico-politica, al massimo di contenzioso amministrativo, per secoli sufficiente a dare sfogo alle rimostranze, e alle istanze di riesame, di casi di cattivo esercizio del relativo potere. Sulle imposte, la tutela giurisdizionale è emersa per le questioni di diritto tributario sostanziale, demandate alla competenza del tribunale anche dal codice di rito del 1942, mentre le valutazioni estimative erano riservate alle vecchie commissioni tributarie, a ragione ritenute amministrative; solo per giurisprudenza costituzionale necessitata, a causa del divieto costituzionale di istituire nuovi giudici speciali, se ne affermò poi la natura giurisdizionale, in modo da poterle riformare negli anni settanta del secolo scorso.

    Il cuore del problema, davanti a un certo organo contenzioso, non è tuttavia l’etichetta giurisdizionale o amministrativa , questione classificatoria che disorienta spesso giuristi di altri paesi europei.

    Il cuore del problema è il tipo di intervento dell’organo contenzioso sulla questione controversa. Mi riferisco al tipo di sindacato, e principalmente la sua natura sostitutiva, o impugnatoria con rinvio, per una nuova decisione, all’organo amministrativo che ha emesso la determinazione oggetto di sindacato. Sotto questo profilo la vischiosità del sistema anteriore al 1973, con le fasi davanti alle commissioni e al giudice ordinario, si è riflessa nella giurisdizione ibrida che da allora ci caratterizza.

    Il problema, ripetiamo, non è infatti quello della specializzazione dei giudici, del loro status “part time” o “full time”, ma del tipo di intervento ad essi richiesto rispetto a disfunzioni amministrative collocate “a monte”. L’ibrido della c.d. “impugnazione merito” non è stato un infortunio contingente della politica, come la successiva pessima riforma del 1992, legata alla necessità di un pretesto d’immagine per il grande condono del 1991. L’impugnazione merito è stata un effetto di trascinamento del passato, una specie di vendetta della realtà rispetto alla forzata classificazione giurisdizionale di organi che rideterminavano le imposte, sostituendosi agli uffici tributari e quindi, sotto questo profilo, strutturalmente di contenzioso amministrativo. Ciò a prescindere da questioni accessorie su nomina, retroterra culturale, regime di tempo pieno e incardinamento presso il ministero delle finanze, dell’economia o della giustizia.

    Prima di vedere come quest’ibrido abbia portato alla cannibalizzazione giurisdizionale della funzione tributaria , secondo il titolo di un mio video su youtube, nonché il paragrafo 6.10 del mio volume diritto amministrativo dei tributi, scaricabile in rete, occorre però mettere a fuoco ulteriori ragioni pre-processuali di destabilizzazione della funzione impositiva. Si tratta, come ripeto da quindici anni, anche se l’hanno capito in pochi, della determinazione documentale dei presupposti economici d’imposta tramite la contabilità di aziende e altre organizzazioni amministrative, compresi enti non commerciali e pubblici uffici di tutti i generi. 

    Quest’esternalizzazione documentale della funzione tributaria, su sostituti d’imposta, grande distribuzione, banche, professionisti, fornitori di energia e altre reti amministrative organizzate, è stata molto opportuna ed efficiente, nella determinazione del presupposti economici soggetti a imposte. Essa però ha oggettivamente creato una serie di sperequazioni rispetto ai presupposti economici con meno rapporti con tali organizzazioni amministrative, fino agli estremi di piccoli commercianti e artigiani operanti con privati consumatori finali.

    Questa diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta è stata avvertita dalla pubblica opinione, ma non è stata spiegata dagli studiosi, ed è stata politicamente sfruttata in modi diversi, trasformandola in bandiera ideologica di segni opposti, come ho spiegato in varie sedi facilmente accessibili (da ultimo in estrema sintesi il mio Manuale di evasione fiscale, Castelvecchi, 2020, Evasione fiscale , perversione privata o disfunzione pubblica, idem, 2018, Diritto amministrativo dei tributi, par.4.6, e vari video sul mio canale youtube). Questo turbamento dell’opinione pubblica, dove si alternano gli appelli alla lotta all’evasione e alla tutela del contribuente , con infinite e schizofreniche sfumature intermedie, non è stato coordinato dall’accademia del diritto tributario (che non credo l’abbia neppure messo a fuoco) ed ha ulteriormente destabilizzato l’attività amministrativa provocando la moltiplicazione del contenzioso cui è dedicata quest’intervista. L’idea della “lotta all’evasione”, senza capire il problema della determinazione valutativa di redditi e consumi non intercettati dalle aziende, ha drammatizzato l’attività di controllo, spingendola verso le contestazioni interpretative in punto di diritto, soprattutto sulle grandi aziende, dove ce ne sono maggiori premesse.

    Sarebbe erroneo concludere che su queste questioni di diritto l’intervento giurisdizionale è più facile,  com’era per le antiche interpretazioni degli atti nelle imposte di registro. Infatti le questioni giuridico-interpretative della moderna determinazione contabile degli imponibili riguardano sotto vari profili contribuenti diversi e annualità d’imposta diverse, secondo simmetrie che ho esposto al par.3.12 di diritto amministrativo dei tributi, e che non riescono ad essere gestite in sede processuale. Spesso infatti alcune richieste di maggiore imposta su una delle parti, a seguito di una riqualificazione dei presupposti economici, implicano per coerenza minori imposte su altri contribuenti, estranei al processo, in quanto non destinatari di atti impositivi; può accadere anche il contrario, dove la vittoria del contribuente su una certa contestazione, implica un salto di imposta qualora un altro contribuente non abbia dichiarato il reddito sottostante, il che si ritrova nella teoria della doppia esenzione  talvolta enunciata dalla  Suprema Corte.

    Mi limito a ricordare i rilievi sull’elusione, con la necessità di recuperare il vantaggio fiscale indebito al netto delle maggiori imposte pagate da altri, sull’imputazione a periodo, in particolare nel reddito d’impresa, sulla doppia imposizione “società soci”, sulle frodi carosello IVA, dove giustamente gli uffici chiedono l’imposta a una pluralità di contribuenti coinvolti, con l’obiettivo di recuperarla una volta sola, l’indeducibilità dei compensi amministratori, regolarmente però dichiarati da questi ultimi, dal che deriverebbero ingiustificabili doppie imposizioni.

    Quantunque si tratti di questioni di diritto, sono vicende molteplici, non gestibili in sede processuale, per le quali un parziale rimedio proposto dalla Suprema Corte è il sopravvenuto diritto al rimborso. Anche sulle questioni di fatto, la drammatizzazione della funzione tributaria, le polemiche sull’evasione e la tutela del contribuente, oggettivamente spingono gli uffici ad accertamenti elevati, passando poi la pratica al giudice, dal che la lamentata proliferazione delle liti. Anche la matrice privatistico-giurisdizionale della formazione giuridica, con la sua centralità del giudice rispetto alle altre funzioni amministrative, ha spinto verso la suddetta cannibalizzazione processuale della funzione tributaria.

    Anche l’atteggiamento di superiorità della Suprema Corte verso le interpretazioni amministrative dell’Agenzia delle Entrate, come se il giudice fosse l’unica istituzione pubblica coinvolta nella funzione tributaria, è un problema generale di legal education. Quest’ultima è infatti talmente sbilanciata sul diritto dei privati, e la funzione giurisdizionale, da non coordinare, nel suo stesso settore, legislazione (e quindi politica), rispetto al giudice. Si oscilla così, anche in materia tributaria, tra tecnicismi di dettaglio e sconfinamenti nella politica.

    La vera riforma passerà quindi attraverso le aule parlamentari, dopo che sarà passata da quelle universitarie, e dal pubblico dibattito. Occorre comprendere infatti il diritto come studio sociale delle funzioni pubbliche, che non si esauriscono nel comparto privatistico-giurisdizionale, abbracciando invece anche funzioni pubbliche non giurisdizionali come quella tributaria. La tipica funzione giurisdizionale controlla disfunzioni sociali dei rapporti privati, ed è il primo vaglio pubblicistico sullo sfondo del diritto dei privati (rende l’idea l’espressione il diritto è dei privati, le funzioni sono pubbliche). Invece, in materia tributaria, come per tutte le altre funzioni amministrative, il giudice è un controllore di disfunzioni giuridiche nell’esercizio di funzioni pubbliche non sue, e possono spaziare nei più diversi settori.

    E’ per questo che i richiami al processo civile, soprattutto dalla dottrina avvocatesca, di modestissimo profilo, che ha accompagnato la riforma del 1992, sono del tutto fuori luogo, ed hanno contribuito alla situazione grottesca da cui prendono le mosse le domande di quest’intervista, con un numero di processi abnorme rispetto ad altri paesi europei. Se non si capisce questo, e si continua ad affrontare la questione con le banali chiavi di lettura avvocatesche, tipo due parti litigano e il giudice decide a chi dare ragione il sistema imploderà.

     

    2.  Ritenete percorribile ed utile la strada di una definizione deflativa di forte impatto sulla pendenza consolidata e sopravveniente (tipo condono “tombale”) ?  

    Giuseppe Melis

    L’ipotesi classica per “sfrondare” il contenzioso – presente e futuro – consiste nel ricorso agli strumenti lato sensu condonistici.

    Premesso che ci si esimerà in questa sede da qualsivoglia giudizio di valore, va ricordato che storicamente il legislatore ha agito su due fronti. Da un lato, sulla definizione degli imponibili per annualità ancora aperte non oggetto di atti impositivi; dall’altro, sugli atti impositivi già emanati e situati nella fase sia amministrativa, sia giudiziale, sia ormai definitivi ed oggetto di atti della riscossione.

    E’ noto che l’ultimo grande condono “tombale” risale alla L. n. 289/2002, che prevedeva una serie di misure a tutto campo: il concordato, l'integrativa semplice, il condono, la definizione degli omessi versamenti, la definizione dei carichi di ruolo pregressi, la regolarizzazione delle scritture contabili, la definizione delle liti potenziali e la chiusura delle liti pendenti.

    Il motivo per il quale un simile menu non è riproponibile è ben noto. La Corte di giustizia con la sentenza 17 luglio 2008, C-132/06, Commissione c. Italia, nell’esaminare la compatibilità con il diritto UE delle disposizioni della L. n. 289/2002, laddove prevedevano, a seguito del pagamento da parte del contribuente di una somma forfetaria, la rinuncia dello Stato italiano all’accertamento delle operazioni imponibili a fini IVA effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, ha ritenuto che tale “rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento” dell’IVA fosse idonea a violare “l’obbligo di garantire una riscossione equivalente dell’imposta in tutti gli Stati membri”. La Corte ha ricordato che il gettito nazionale dell’IVA costituisce una delle risorse proprie dell’Unione, sicché una normativa che poneva il contribuente definitivamente al riparo da accertamenti a seguito del versamento di una somma forfetaria, anziché proporzionale, all’imponibile fatturato, impoveriva la stessa Unione di una sua risorsa. Con tale sentenza è stato così affermato il principio secondo cui, in relazione a tributi che costituiscono risorse dell’Unione, eventuali rinunce al loro accertamento e riscossione sono ammesse solo a condizione che “il contribuente dichiari e corrisponda l’importo che avrebbe dovuto pagare inizialmente”. Inoltre, ha aggiunto la Corte, la normativa italiana si traduceva non solo in uno svantaggio per le risorse comuni, ma anche in una violazione del principio di neutralità dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA in tutti gli Stati membri.

    Questa sentenza ha messo una pietra tombale sui condoni … tombali, non avendo senso alcuno per il legislatore proporre condoni “zoppi”, valevoli cioè per le sole imposte sui redditi (che si risolverebbero in una autodenuncia a fini Iva).

    Da allora, i provvedimenti “deflativi” hanno pertanto riguardato solo gli atti di accertamento e della riscossione (oltre ai pvc) emessi e non ancora impugnati, impugnati e non ancora decisi, decisi ma non ancora definitivi nonché definitivi ed affidati alla riscossione.

    Si è trattato, tuttavia, di definizioni tendenzialmente assai onerose per essere dovuto l’intero tributo, con l’eccezione delle controversie che avevano visto soccombente l’Agenzia delle Entrate, dovendone in tal caso essere corrisposta una frazione (ultimamente, il 40% se soccombente in CTP, il 15% se soccombente in CTR e il 5% se soccombente in entrambi i giudizi di merito).

    Se si considera che in CTP i giudizi favorevoli al contribuente si attestano intorno al 30%, cui si aggiunge l’11% di giudizi intermedi, e che tali percentuali sono pari, in CTR, rispettivamente al 31% e all’8%, ne deriva che la platea di soggetti potenzialmente interessati da uno sconto anche sul tributo non è molto vasta.

    Una parte di questi contenziosi non è poi neanche definibile: ad es., nel 2019 sono stati iscritti in Cassazione 746 ricorsi in materia di catasto e ca. 500 ricorsi in materia di rimborso, complessivamente pari al 13% dei ricorsi iscritti.

    In conclusione, da un lato non appaiono percorribili strade condonistiche “ex ante” e “tombali” idonee a precludere la nascita di futuri contenziosi – salvo imprevedibili deroghe Ue dovute alla situazione eccezionale – dall’altro i provvedimenti di definizione degli atti impositivi si sono rivelati sinora troppo onerosi per conseguire un effetto significativo. Se si vuole un vero sfoltimento, andrebbe pertanto prevista una riduzione del tributo anche per i ricorsi non accolti (apparendo le indicate percentuali di abbattimento per i ricorsi accolti già sufficientemente generose).

    Tutto ciò tenendo presente che il valore delle controversie pendenti in CTP e CTR al 31.12.2017 (sanzioni ed interessi esclusi) era di ca. 50 mld di euro e quello delle pendenze in Cassazione essendo stimabile nell’ordine almeno 30 mld di euro, variando il “pervenuto” di ogni anno tra 6 e 8 mld di euro.

     

     

    Alberto Marcheselli

    Sono soffertamente favorevole alla ipotesi di un condono, limitato alle cause pendenti avanti la Suprema Corte, considerato l’andamento della pendenza, in netto calo nei gradi di merito.

      Le controindicazioni al condono come strumento di eliminazione dell’arretrato giudiziale sono essenzialmente due, e non lievi. Una etica e una logica.

    Quella etica insiste nella sua intrinseca, potenziale, ma concreta ingiustizia: l’effetto premiale nei confronti dei disonesti. Si afferma e percepisce nitidamente che chi non paga il dovuto e resiste proditoriamente verrebbe paradossalmente a ricevere un vantaggio dalla sua non lodevole condotta. Ciò è indubbiamente vero. Potrebbe anche dirsi che lo scenario è aggravato da un ulteriore aspetto, meno evidente. In un contesto di affollamento della giustizia, ritarda anche la risposta nei confronti del contribuente che ha ragione e non è affatto vero, in assoluto, che chi ha ragione non è danneggiato dal condono. Il tempo del processo, per quanto sia bassa (e non è mai bassissima) la probabilità di un esito sfavorevole (vista la incertezza del quadro), è una variabile che pesa molto più di quanto non si pensi anche nella vita e nelle scelte del contribuente onesto. Per esso, sorprendentemente, può essere preferibile assoggettarsi al pagamento della cifra richiesta nel condono, anche in presenza della piena e diligente convinzione di aver ragione. Per quanto sia modesta la cifra, essa è sempre e comunque ingiusta (e dipende da colpe di altri), rispetto allo zero che sarebbe dovuto, ma può essere ragionevole soggiacere a questa ingiustizia ulteriore, per sterilizzare il costo e i rischi della attesa di un esito non completamente certo. Non è mai adeguatamente colto, infatti, che il difetto peggiore di un ordinamento tributario non è la sua onerosità e, forse, neppure, per paradosso, la sua ingiustizia, ma la sua incertezza. L’imprevedibilità è una negazione del diritto forse ancora peggiore che l’ingiustizia, posto che quest’ultima presuppone almeno un quadro nitido, prevedibile ed emendabile.

    Del resto, ciò che più di ogni altra cosa del diritto tributario rende inefficiente l’Italia nell’agone internazionale non è che si debbano pagare troppe tasse, e l’abusato tema della pressione fiscale (che è un problema di livelli di solidarietà ed equità), ma che non è chiaro quante tasse si debbano pagare. A chi voglia creare ricchezza in Italia interessa poter fare un progetto affidabile prima ancora della prospettiva di poter conservare una ricchezza maggiore.

    L’ostacolo logico, invece, al condono come arma razionale contro l’arretrato è che un condono senza riforma strutturale crea l’aspettativa di nuovi condoni nel futuro e, quindi, l’appetibilità anche per il futuro di un ricorso eccessivo al contenzioso. In questa prospettiva il condono è rimedio contingente, ma con un potenziale feedback negativo.

    Tali due non piccoli, anzi grandi, ostacoli sono però a mio avviso superati da una considerazione, crudele ma realistica, ulteriore.

    Ritengo che le alternative siano addirittura peggiori.

    Esse sarebbero o un irrealistico schizzare dei tempi della giustizia tributaria verso termini ultra o pluridecennali, in un circolo vizioso autoalimentante, o il decisivo sacrificio della qualità della giurisdizione.

    L’unica alternativa, insomma, sarebbero decisioni sommarie, frettolose, improvvide e definitivamente squalificate.

    Questo approdo, a mio avviso, e qui parla il mio cuore di devoto della Giurisdizione, è il peggiore dei mondi possibili. Anche a tralasciare la funzione nomofilattica della Suprema Corte, va detto che mi suona, semplicemente, inaccettabile che una istituzione così nobile venga trascinata così in basso. E, ciò, non solo per questioni di decoro ordinamentale, pure essenziali nel declino generalizzato delle istituzioni, ma per gli effetti assolutamente letali che ciò avrebbe sulla civiltà giuridica. Significherebbe il definitivo sterminio della cultura giurisdizionale tributaria, la perdita dei (non molti) riferimenti concettuali possibili, faticosamente costruiti e acquisiti, in un percorso che appare sostanzialmente senza ritorno.

    Se pure la Suprema Corte fosse trascinata in quel metaforico fango, sul campo resterebbe come vittima la stessa idea di civiltà giuridica tributaria. Per restare nell’ambito di una metafora tragicamente di attualità, il virus della ignoranza, della approssimazione e, sostanzialmente, del caso, raggiungerebbe anche il sano presidio ospedaliero della Suprema Corte, per poi diffondersi, completamente senza controllo, per tutto l’ordinamento giuridico.

    La Corte di Cassazione è un presidio troppo vitale e prezioso contro il ritorno al Medio Evo degli statuti particolari del più forte o al Seicento delle Grida del Manzoni, e deve rimanere assolutamente protetta e immune.

    In questo quadro, a mio avviso, un doloroso condono è, purtroppo il male minore (oltre che, un po’ meschinamente, ma efficacemente, potenziale fonte di un qualche gettito immediato, tutto da determinare, per le disastrate finanze dello Stato).

    Considerato l’andamento della pendenza, in netto calo nei gradi di merito, ritengo che il condono andrebbe limitato alle cause pendenti nanti la Suprema Corte.

     

    Raffaello Lupi

    Sulle premesse indicate al punto precedente, una diminuzione delle liti tramite una definizione deflativa è un classico palliativo non strutturale, anche se con una qualche utilità di breve periodo. Penso soprattutto a una massa enorme di contenziosi ventennali, che vivono di vita propria per forza d’inerzia, di cui nessuno ricorda nulla ed ai quali si addice più la seduta spiritica della camera di consiglio. Ne riparlerò tra un attimo dopo aver commentato l’idea generale di istituti deflattivi regolati ex lege.

    In relazione ad essi escludo che si possa fare molto più di quanto è stato fatto con rottamazione dei ruoli e “pace fiscale”. Sarebbero infatti politicamente improponibili abbattimenti superiori a quelli già concessi con tali istituti, che hanno già fatto spesso parlare di condono, proprio in vasti settori delle forze politiche che appoggiano l’attuale governo. Si potrebbero al massimo riprendere questi istituti, in quanto in sé opportuni, senza però particolari effetti deflattivi ulteriori in termini di numero di processi; un miglioramento potrebbe essere quello di consentire la definizione “senza termini” perentori, fino alla convocazione dell’udienza di cassazione.

    Un ulteriore miglioramento, a regime, conforme all’idea che le imposte si determinano negli uffici, e non in tribunale, è la possibilità di conciliare anche controversie pendenti in cassazione, dopo l’opportuna estensione della conciliazione in secondo grado. Sul piano dei criteri meccanici, previsti ex lege, però, non credo si possano proporre ai contribuenti condizioni più appetibili di quelle del 2018, salvo forse ammettere un conguaglio “a favore” dei contribuenti rispetto alle riscossioni provvisorie medio tempore effettuate.

    Anche gli interventi nella fase di cassazione, insomma, dovrebbero tendere a superare l’atteggiamento mentale facciamolo decidere al giudice, diffuso tra uffici e parte dei consulenti; anche qui va insomma contrastato l’equilibrio di squilibri che si è autoprodotto all’interno degli uffici tributari, soprattutto per le pratiche di importo non abbastanza grande da “fare budget” e non abbastanza piccolo da essere definite in mediazione, secondo criteri sostanzialmente forfettari.

       

    3.Quali misure vi sembrano doversi adottare sul piano della giurisdizione, del suo ordinamento e delle sue regole processuali ?  

    Giuseppe Melis

    Venendo adesso alle questioni relative alla giurisdizione e al processo, esse sono molteplici.

    Iniziamo dagli attori, tutti a vario modo responsabili di questa situazione.

    In primo luogo, i difensori. Non v’è dubbio che la loro estrazione variopinta, frutto di scelte politiche disgraziate, si ripercuota sulla qualità degli atti, condizionando tutto il giudizio ivi compresa la qualità delle sentenze, che, a loro volta, è la premessa per le impugnazioni. Una “stretta” sarebbe pertanto indispensabile, ma sappiamo non si farà mai perché sono … voti. Basta pensare che la legge delega n. 23/2014 sulla revisione del contenzioso tributario prevedeva … l’eventuale ampliamento (sic) dei soggetti abilitati a rappresentare i contribuenti dinanzi alle Commissioni tributarie (art. 10, co. 1, lett. b), n. 3), mentre la proposta di legge delega n. 3734 del 2016 restringeva solo in grado di appello il novero dei soggetti legittimati a patrocinare, quando il buon esito del giudizio dipende quasi interamente dalla qualità del ricorso in CTP.

    In secondo luogo, i giudici. Il processo tributario è l’unico in cui, per fare un paragone, anziché rivolgersi al medico specialista, il contribuente è costretto a rivolgersi al medico generico! Il diritto tributario è una materia tremendamente complessa: ritenere che di tale materia se ne possano tranquillamente occupare giudici delle più diverse estrazioni solo perché … giudici, è quanto meno ingenuo. Sicché, va detto chiaramente, la questione non è tra giudici togati e non: è tra chi la materia la conosce e chi non la conosce! Inutile dunque ritenere che il problema si risolva tout court con la giustizia togata, che certamente ha dalla sua la conoscenza delle tecniche redazionali della sentenza e, più in generale, delle regole del processo, ma che si trova non di rado “catapultata” in questo secondo lavoro part time dovendo di regola imparare la materia via via giudicando; o, ancora, reclutando in Cassazione giudici in quiescenza precedentemente applicati alle sezioni penali o lavoro! Nessuno ambisce ad una pessima sentenza … in poco tempo! Chi svolge attività professionale trova eccellenti e pessime sentenze sia tra i togati che tra i non togati. In tempi recenti è capitato a chi scrive di leggere in sentenze di una CTR (relatore giudice non togato), espressioni quali “la scrivente Direzione provinciale”, “le controdeduzioni che qui si intendono integralmente richiamate” e, nella foga della ricopiatura degli atti dell’Ufficio (ammessa dalle Sezioni Unite), persino concludere … “con vittoria di spese”; ma anche, di leggere più sentenze dello stesso giudice relatore (togato) in materia di accertamenti catastali ex comma 335 – la stessa mezza pagina per tutte – in cui gli immobili venivano ascritti alla microzona Esquilino (pur altrove ubicati) e si respingevano motivi di ricorso (il mancato sopralluogo e il mancato contraddittorio) mai sollevati! E’ chiaro che sentenze del genere spalancano le porte alle impugnazioni. Viste le scarse risorse a disposizione, si partisse almeno da una seria formazione periodica obbligatoria dei giudici, anche su materie aziendalistiche collegate alla materia, con valutazione degli esiti, per poi, in una prospettiva temporale che si auspica breve, avere giudici specializzati che, a seguito di un percorso selettivo ad hoc, si occupino nella loro vita professionale solo del processo tributario (con remunerazione corrispondente) e che nelle questioni tecniche abbiano l’umiltà di far ampio utilizzo di CTU come nel processo civile. Nessuno si deve beare della velocità del processo tributario se non si producono sentenze giuste.

    In terzo luogo, la stessa Amministrazione finanziaria e l’Avvocatura. Succede di veder talvolta un’ostinazione su vicende bagatellari o perse in partenza, sovente su vicende di rimborso, che rasenta l’incredibile. Solo per fare un esempio, sempre a chi scrive è capitato di vedere un ricorso in Cassazione su un incremento della rendita catastale “ex comma 335” di 200 euro e ciò nonostante la granitica giurisprudenza contraria della Cassazione (con l’eccezione del grave infortunio rappresentato dalla sentenza n. 21176/2016 fortunatamente rimasta, nelle parole della Cassazione, “precedente isolato”, ma in modo quasi unanime accolta “a modello” dalla CTR Lazio).

     Per quanto riguarda le regole processuali, si tratta di una vasta congerie di profili, collegati alle più diverse esigenze, tra loro anche conflittuali: la velocità del processo, la qualità delle sentenze, il rispetto delle regole del giusto processo e via dicendo (cfr. F. Gallo, voce Giusto processo, III) Diritto tributario, in “Enc. giur.”, Roma, 2003).

    Sappiamo che la velocità del processo tributario è indubbiamente dovuta in gran parte alla sua ipersemplificazione: divieto di prova testimoniale e CTU disposte in casi rarissimi. Altrimenti avremmo gli stessi tempi dei giudizi civili! Entrambe costituiscono un punto critico, in cui la velocità rischia di andare a scapito della qualità, come emerge in tutti quei casi in cui il Fisco ricorre alla formidabile arma delle presunzioni, anche semplicissime, o a dichiarazioni raccolte dagli organi verificatori in sede di istruttoria; ci sarà un motivo per il quale l’art. 2729, co. 2, c.c., prevede che “le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”! La giurisprudenza di legittimità, anche in omaggio al principio del giusto processo di fonte CEDU, ha ormai definitivamente avallato la produzione da parte del contribuente di dichiarazioni di atto notorio con il medesimo valore probatorio delle dichiarazioni rese in sede extraprocessuale introdotte nel giudizio dall’Amministrazione finanziaria, il che è già un importante passo in avanti. Ma sulle CTU andrebbe fatto un maggiore sforzo (si pensi, ad es., alle questioni relative a fatture soggettivamente inesistenti, alle questioni estimative del valore di un bene o di un reddito determinato in via induttiva, ecc.). Insomma, la velocità delle decisioni è inversamente proporzionale alla qualità dell’istruttoria, il che se velocizza il giudizio di merito – non obbligando i giudici tributari, a fronte del modesto compenso ricevuto, a sentir testimoni ed assistere agli interrogatori dei funzionari o dei militari che hanno redatto il processo verbale di constatazione – crea però le premesse per le impugnazioni.

    Si discute poi molto sulla composizione delle Commissioni, insistendo tutte le proposte di riforma su una valorizzazione di quella monocratica per controversie di modesto ammontare. Si tratta di una posizione osteggiata da diverse parti sindacali. A parte, tuttavia, la constatazione che nei vari gradi di giudizio, con la mole di lavoro esistente, appare difficile credere che le decisioni in CTP, CTR e Cassazione siano davvero “collegiali”, la composizione delle controversie in gran parte (44% in CTP, 29% in CTR) da questioni entro i 3.000 euro, avvalora questa ipotesi lavorativa.

    C’è poi il tema delle limitazioni all’accesso.

    Iniziando dall’eliminazione di un grado di giudizio, essa appare malsana alla luce di quanto si è sopra detto: in disparte la violazione dei principi del giusto processo e la sua inutilità in considerazione della velocità degli attuali giudizi tributari, essa eliminerebbe pure la speranza di trovare nel doppio grado un relatore che ben conosca la materia. Da scenario apocalittico l’ipotesi di realizzare tale risultato attraverso l’attribuzione della giurisdizione tributaria in via esclusiva alla Corte dei conti, sopprimendo la sezione tributaria della Corte di Cassazione e trasformandola in sezione ordinaria. Al di là della perdita di un patrimonio e una tradizione di competenze, che si sta rivelando fondamentale anche per lo sviluppo della materia, non si vede come un organo possa contestualmente presidiare il bilancio pubblico, giudicare della spesa e trattare questioni dal cui esito favorevole per il Fisco dipende l’andamento del bilancio medesimo. Già è capitato di sentire in commissione tributaria se … l’imputato fosse presente; manca solo che lo stesso sia visto sistematicamente attraverso le lenti di chi si occupa di danno erariale. L’espressione contenuta nella nota risoluzione del Consiglio di presidenza della Corte dei conti di “concentrare in un’unica magistratura la salvaguardia degli interessi dell’Erario e del Fisco” ne è la testimonianza più limpida.

    Sui possibili filtri in appello, le tesi sono diverse. Si va da chi, guardando a ciò che accade, ritiene che “l’appello ha un ruolo di essenziale rilievo per l’attuazione del giusto processo, consentendo, attraverso un moderato allentamento delle preclusioni processualcivilistiche, pur nel mantenuto rigore delle forme, di rimediare a lacune verificatesi nel giudizio di primo grado, molte anche attribuibili ai giudici o ai difensori” (Relazione al d.d.l. n. 714 Caliendo); a chi, invece, propone di inserire in un processo riformato, sia pure con talune eccezioni (abuso del diritto, ecc.), un filtro in appello sul modello dell’art. 348-bis c.p.c., in cui il giudice deve valutare se vi sia una ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello medesimo (d.d.l. n. 759 Nannicini, art. 95).

    Quanto poi all’accesso al giudizio di cassazione, esso è diventato ormai molto oneroso, ma anche assai complesso a seguito della riforma del motivo di ricorso di cui all’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c.; sicché, anche considerata la rilevante percentuale di accoglimento dei ricorsi, non sembra davvero il caso di porre ulteriori filtri. A ciò si aggiungono i formalismi da “autodifesa”, che non aiutano di certo la giustizia, e la criticatissima eliminazione della pubblicità e della discussione delle udienze davanti alla Corte.

    Quanto, infine, alle regole organizzative, occorre insistere sulla rilevazione degli indirizzi interpretativi mediante i Massimari, su cui si sta facendo un importante lavoro a livello sia di merito che di legittimità, nonché sulla formazione di indirizzi univoci e sistematici in funzione nomofilattica, i cui rilevanti sforzi, frutto sia di processi organizzativi sia della fatica nello scrivere sentenze “di peso” su questioni centrali per la materia (si pensi, ad es., alle importanti sentenze 2018/2019 in tema di inerenza, tra le principali fonti di contestazione in sede di accertamento, ma gli esempi di eccellente giurisprudenza potrebbero essere moltissimi), sono evidenti e chiaramente percepibili all’esterno. La conoscenza degli indirizzi interpretativi e la loro uniformità è tra i migliori mezzi per scoraggiare inutili accessi alla giurisdizione. Purché, naturalmente, questi indirizzi siano idonei ad essere accettati per la forza e il rigore delle loro argomentazioni (come prevalentemente accade, ma non sempre: per tutti, la giurisprudenza sull’inesistenza di termini per contestare il diritto al rimborso, giuridicamente inconsistente).

    Occorre inoltre proseguire sulla strada delle udienze monotematiche e/o pilota (tra le più importanti, quella riguardante gli accertamenti catastali “romani” ex comma 335, avente ad oggetto diverse migliaia di casi provenienti dalla CTR Lazio), l’attività di filtro svolta dall’articolazione tributaria della sesta sezione, l’applicazione dei magistrati addetti al Massimario che la materia hanno modo di studiarla e conoscerla per il lavoro da essi svolto.

    E’ chiaro, naturalmente, che la misura organizzativa più semplice è di incrementare le dotazioni organiche in Cassazione, come peraltro espressamente previsto nel ddl n. 714 c.d. Caliendo (art. 97) e in altri. A tal fine, è stato anche autorevolmente proposto di attingere dai giudici di appello ritenuti idonei alle funzioni di legittimità, previa specifica formazione sulla materia tributaria.

    Il grande assente, tuttavia – e qui il COVID ha portato i nodi al pettine – è la “digitalizzazione” in Cassazione. Non si tratta solo della disponibilità dei fascicoli dei gradi di merito, quanto dell’instaurazione di un vero e proprio processo telematico, che nel grado di Cassazione manca completamente.

    Infine, è da considerarsi al livello di boutade quanto indicato nella proposta di riforma degli organi speciali di giurisdizione tributaria del CNDCEC del 22.11.2018, di “trasferire il terzo grado di giudizio di legittimità dalla Corte di cassazione ad una rinnovata Commissione tributaria centrale”, che può spiegarsi solo con la frase che segue, secondo cui dinanzi ad essa … “i soggetti abilitati alla difesa in giudizio devono avere i medesimi requisiti previsti per la difesa in giudizio nei due gradi di merito”, nonché con la definitiva precisazione, per chi ancora non avesse capito, secondo cui la difesa tecnica, in tutti i gradi di giudizio (anche di legittimità), andrebbe riservata agli avvocati, ai commercialisti e ai consulenti del lavoro! Tale proposta, che denota (comprensibilmente, giusta la provenienza) mancata conoscenza della rilevante difficoltà tecnica di un giudizio in Cassazione, potrebbe essere paragonata a quella degli avvocati che, con la giustificazione che la contabilità è disciplinata dal codice civile, pretendessero di potersene occupare.

     

    Alberto Marcheselli

    Le cause possibili dei fenomeni disfunzionali descritti sopra, sembrano doversi cercare, in una delle tre seguenti direzioni: il diritto processuale, il diritto sostanziale, e l’ordinamento giudiziario.

    Per quanto le regole di svolgimento del processo possano indubbiamente incidere sulla qualità del suo esito, non sembrano essere individuabili fattori patologici al riguardo nella giustizia tributaria: il processo tributario è il giudizio sulla legittimità e fondatezza di una pretesa veicolata in un atto autoritativo, che si svolge essenzialmente su fonti scritte: i temi processuali sono, per definizione, secondari, in un tale contesto, anche se certamente esistono profili emendabili. Ne costituisce indiretta conferma, meramente indiziaria ma significativa, il fatto che le ipotesi di riforma che vengono avanzate per il rito tributario sono, tendenzialmente, nell’ottica della deformalizzazione ulteriore o semplificazione (abolizione dell’appello e sostituzione con un reclamo, riduzione delle ipotesi di collegialità, e simili). Ma la deformalizzazione o la riduzione di collegialità non sembrano, per vero, rafforzare la qualità del contenuto della decisione (evidentemente, sono interventi neutrali o, al limite, rischiano di ridurla), con la logica conseguenza che l’assunto di fondo è che la qualità delle decisioni non dipenda dal rito processuale.

    Sono sì ipotizzabili degli interventi, ma di poca complessità e facile attuazione.

    Per esempio, a mio avviso, per favorire la celerità concentrazione e speditezza del processo tributario, per esempio, si potrebbero apportare al Decreto legislativo 31/12/1992 n. 546 le seguenti, semplici, modifiche:

     a) All'Art. 7  Poteri delle commissioni tributarie, sostituire il comma 1 come segue

    1 Oggetto del processo tributario è, nei giudizi di impugnazione di atti impositivi,  la pretesa per come delineata, anche quanto ai fatti costitutivi e alle relative prove, nell’atto impugnato e nei limiti dei motivi di impugnazione, senza possibilità di modifica o integrazione successiva in giudizio. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all' ente locale da ciascuna legge d'imposta soltanto nel caso e nei limiti in cui le parti non abbiano potuto assolvere per ragioni oggettive e cogenti ai propri oneri probatori.

    b) all’art. 23, costituzione in giudizio della parte resistente

    sostituire il comma 1 come segue

    L'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti all'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale

    sostituire il comma 3 come segue

    3.  Nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente in ossequio al principio di contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., proponendo altresì, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d' ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa.

    c) all’art. art. 24, produzione di documenti e motivi aggiunti

    sostituire il comma 2 come segue

    2.  L'integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, nei limiti di cui al comma 1 dell’art. 7, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l'interessato ha notizia di tale deposito.

    d) all’art. 34, discussione in pubblica udienza

    sostituire il comma 1 come segue

    1.  All'udienza pubblica il relatore espone al collegio i fatti e le questioni della controversia e quindi il presidente ammette le parti presenti alla discussione. Il difensore della parte privata ha il diritto di parlare per ultimo, nei giudizi relativi ad atti in cui siano applicate sanzioni

    e) all'art. 58, nuove prove in appello

    Il comma 2 è abrogato

    Altra via da valutare, in astratto, è il restringimento della via di accesso alla giustizia tributaria.

    Questa via mi trova, umilmente, ma fermamente contrario.

    Intanto, ribadito che un diniego di accesso alla giustizia è sbarrato dai principi costituzionali (art. 113 e indirettamente 24 Cost.), resta da stabilire se esso possa essere reso meno necessario, o più difficile, o più costoso.

    La prima direzione, con l’inserimento di strumenti precontenziosi efficaci e imparziali (ad esempio una fase conciliativa avanti un soggetto terzo) non pare avrebbe controindicazioni e sembra avere ancora margini di ampliamento (non è certo adeguata allo scopo né la previsione della adesione, né la c.d. mediazione, per la evidente mancanza di terzietà, ancorché essa un risultato lo produca: nel 2016, su 113 mila istanze, solo per 54 mila (il 48,1%) è seguito il ricorso: per una parte delle altre può ipotizzarsi che vi sia stato un effetto di decongestionamento della fase processuale, cioè che ne sia risultata una soddisfazione delle ragioni cui avrebbe teso il processo).

    La seconda direzione, la restrizione dell’accesso alla giustizia, oltre un certo limite, può infrangersi con limiti di principio invalicabili (perché può ledere il diritto, costituzionale, eurounitario e internazionale, alla effettività del diritto a un ricorso effettivo, ovvero, oltre certi limiti, infrangere il divieto di sottrazione al giudice naturale di cui all’art. 25 Cost. ovvero il principio del giusto processo o le prerogative della Corte di Cassazione, art. 111 Cost.). Essa è già stata battuta (per esempio con la riforma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.,) e appare per certi versi, eufemisticamente, contraddittoria: a incentivare la litigiosità concorrono, in un circolo vizioso, per primi una legislazione sostanziale di pessima qualità e di nessuna stabilità e una cattiva amministrazione, che determinano una giurisprudenza supplente, ipertrofica e incerta e, a cascata, un incentivo… alla lite.

    A fronte di ciò, colui che provoca il danno pretenderebbe di limitarlo… razionando l’accesso ai rimedi. Si tratta di una assurdità pari a quella della Amministrazione Comunale che, mal gestendo i corsi d’acqua, provocasse ricorrenti inondazioni e, a fronte dell’onere ritenuto eccessivo delle spese di recupero dei superstiti, ricorresse allo strampalato – per non dire poco civile – “rimedio” di limitare gli accessi al soccorso.

    La terza direzione (aumentare il costo della giustizia) ha, ugualmente, potenziali controindicazioni, oltre un certo limite perché può infrangersi contro le stesse obiezioni appena viste (lesione del diritto a un ricorso effettivo, giusto, processo, ecc.) e, ugualmente, è già stata battuta piuttosto intensamente, in particolare dalle regole sul contributo unificato.

    Ma c’è di più: un ulteriore - e a mio avviso - pesante argomento contro la restrizione dell’accesso alla giustizia.

    Ammesso che si processi troppo, il fatto che il problema non stia nelle regole di accesso al processo è reso evidente da un dato: il tasso di accoglimento dei ricorsi, in tutti i gradi, è decisamente alto: il problema non è pertanto, che è troppo facile fare ricorsi pretestuosi (che quindi vanno scoraggiati), ma, al contrario, che c’è troppo bisogno, oggettivo, di fare ricorso perché ci sono troppo errori da correggere.

    Sul punto, e in particolare per quanto riguarda l’accesso al primo grado, mi paiono significativamente deviate da un bias cognitivo le statistiche ufficiali delle Agenzie Fiscali. Esse in effetti catalogano tra gli esiti vittoriosi anche le ipotesi di soccombenza reciproca. È facile osservare che, se un avviso di accertamento è parzialmente annullato in giudizio, (e non ritirato prima), quei casi non possono essere catalogati come ipotesi in cui il ricorso al giudice è stato inutile.

    In definitiva, e parlerà qui forse la persistente e fiera cultura della giurisdizione che proviene dal mio passato professionale, pensare di limitare l’accesso al rimedio supremo della giurisdizione è come risolvere il problema della salute pubblica, rilevato il sovraffollamento di malati negli ospedali, limitando l’accesso alle cure. Bisogna prevenire le malattie, e, dove l’obiettivo fallisca, non limitare le cure, ma al limite organizzarle e dislocarle meglio. Ciò che in definitiva consuma la risorsa scarsa della giustizia è la malattia non prevenuta, non la cura, quando il saggio indica la luna, non bisogna guardare il dito, ma il satellite.

     

    Raffaello Lupi

    Processualmente,   l’intervento strutturale più efficace e necessario sarebbe avvicinare la giurisdizione tributaria all’ormai solida tradizione della giurisdizione amministrativa, introducendo l’annullamento-rinvio all’ufficio tributario, con indicazione dei principi cui esso dovrà “conformarsi” nelle rideterminazioni dell’imposta troppo complesse per essere effettuate in sede giurisdizionale; si tratta del c.d. “effetto conformativo” tipico delle giurisdizioni di impugnazione, per loro natura  non sostitutive”, e che forse neppure de iure condito è formalmente vietato al giudice tributario;  visto infatti che “il più contiene il meno”, annullare l’atto e rinviare all’ufficio nei limiti quali-quantitativi della pretesa, definiti dall’atto originario, è un minus rispetto all’attuale rideterminazione, sempre in quei limiti, del presupposto economico dell’imposta.

    Tutto ciò, de iure condito come de iure condendo, dovrebbe muoversi nell’ambito della motivazione della pretesa, mentre ove essa manchi scatterebbe il puro e semplice annullamento dell’atto impugnato. Sarebbe più omogenea, rispetto alla situazione attuale, la facoltà di annullamento rinvio, senza un obbligo, contrario ad esigenze di economicità per un’ampia serie di atti liquidatori, con specifiche questioni di fatto o di diritto inquadrate in modo puntuale. La facoltà di annullamento rinvio servirebbe invece ai casi complessi, sia di fatto sia di diritto (punto 1), in cui le sfaccettature sono molteplici, non gestibili nei tempi stringati del processo. Mi riferisco alle questioni di fatto suscettibili di essere risolte con una pluralità di parametri di stima, o migliaia di documenti, riversati dalle parti in un processo sommario; il rinvio sarebbe opportuno anche per le questioni di diritto che risentono delle complesse simmetrie su altri soggetti o altri periodi di imposta, trattate in calce al primo quesito e alla cui soluzione il processo non si presta, in quanto molte sono condizionate dalla sentenza, e allo stato ancora potenziale.

    In questi casi la situazione attuale presenta il rischio che il giudice superi l’imbarazzo respingendo puramente e semplicemente il ricorso o emetta istintive sentenze a sorpresa; l’impugnazione merito costringe infatti il giudice a improvvisare determinazioni dell’imponibile sostituendosi all’amministrazione di riferimento, un po' come se le sentenze dei giudici amministrativi si sostituissero  agli uffici comunali nel rilasciare licenze edilizie, alle commissioni esaminatrici nel promuovere gli studenti, ai medici nell’accertare infermità, ai committenti nell’assegnare lavori pubblici.

    Ciò comporta anche un pregiudizio rispetto all’indipendenza dei giudici, che spesso cede alle proprie percezioni istintive preliminari[1], riducendone il senso critico, con apertura o chiusura preconcetta, verso le argomentazioni delle parti, rispetto alla soluzione che il giudice sta prefigurando nella sua mente (lo conferma anche la distinzione tra magistratura inquirente e giudicante nel processo penale).

    Questa possibilità di rinvio consentirebbe anche di valorizzare i vizi formali, come i difetti procedimentali, che oggi giustamente la giurisprudenza, quando non gravi, svaluta nel timore di vanificare pretese tributarie per altri versi fondate.  Qui si inserisce anche una possibile riforma, culturale prima che legislativa, sulla concezione dei termini di decadenza nell’emissione di atti vincolati, che amministrativisticamente non è solo possibile, ma doveroso riemettere, emendati dal vizio, anche dopo il termine di decadenza. Questi ultimi sono un limite per l’esercizio di poteri istruttori e per l’inquadramento, argomentato in fatto e in diritto, di una pretesa tributaria. Non ci sarebbero però ostacoli logici che, entro questi limiti, l’atto emesso tempestivamente, ma con qualche vizio formale, fosse sanato anche dopo la decorrenza di tali termini. Si cristallizzerebbe cioè la pretesa motivazionale contenuta nell’avviso di accertamento tempestivo, senza possibilità di estenderla, ma riaprendo il procedimento per sanare un vizio formale, come la carenza di contraddittorio amministrativo, di cui il contribuente lamenta la mancanza.

    Prima di indicare, alla domanda successiva, interventi pre-processuali, è il caso di richiamare le disfunzioni amministrative indotte da atteggiamenti giurisdizionali pro fisco, indotti dal contrasto all’evasione. Se infatti vengono avallate contestazioni interpretative formalistiche si spingeranno sempre più gli uffici a rilievi di questo genere, distogliendoli dalle valutazioni dei presupposti economici non registrati, nella cosiddetta evasione in senso materiale, cui esclusivamente si riferiscono le stime di 110 miliardi circa riportate dai mezzi di informazione.

    In un certo senso la giurisprudenza sulle pubbliche funzioni, come quella tributaria (che è “amministrativa” qualunque sia l’estrazione del giudice coinvolto) serve anche all’interesse pubblico di indirizzare correttamente l’amministrazione sottostante. Ciò non tanto in senso “nomofilattico”, sulle questioni di diritto, dove l’intervento giurisprudenziale sarà sempre minimale, su pochissime questioni di principio, rispetto alla vastità dell’interpretazione amministrativa. Si tratta piuttosto di un influsso comportamentale verso un impiego efficiente delle risorse amministrative rispetto alla funzione svolta. Confermando accertamenti mal indirizzati, verso capziose contestazioni interpretative, le sentenze assecondano un comportamento disfunzionale di uffici cui, invece,  servono i no che aiutano la funzione tributaria a crescere.

     

    4.      ancora più “a monte”, quali nuove idee per il funzionamento del sistema fiscale che questo contenzioso produce pensate che siano anche necessarie ?

     

    Giuseppe Melis

    Le possibili linee di intervento sul sistema sono quelle tradizionali.

    C’è in primo luogo un problema delle modalità con cui le leggi tributarie sono redatte. Problema questo non certo nuovo, sol che si pensi che l’esimente delle obiettive incertezze sull’ambito di applicazione delle norme tributarie risale agli anni Trenta dello scorso secolo. Il problema è, tuttavia, di non poco conto, perché il contenzioso relativo a questioni meramente interpretative è tutt’altro che irrilevante in termini di frequenza ed è anzi spesso quello più importante in termini di valore, per una tendenza a cercare il “pelo nell’uovo” in fase di verifica, anche sostenendo tesi che nessuno avrebbe mai neanche immaginato ma che magari hanno dalla loro la forza della suggestione.

    Si tratta di problemi che solo un ingenuo potrebbe pensare di risolvere a livello legislativo – salvo introdurre una disposizione, presente in qualche ordinamento straniero, secondo cui nel dubbio interpretativo si decide pro contribuente – e che va contrastata con il rafforzamento delle procedure di compliance “ex ante”, volte a fornire al contribuente un quadro interpretativo, generale o “su misura”, che vincoli poi l’amministrazione (e non come recentemente capitato, sempre a chi scrive, di vedere la DRE Marche indirizzarsi agli uffici periferici per invitarli a contestare “a tappeto” la mancata applicazione dell’IVA da parte dei chirurghi estetici e ciò nonostante la perdurante vigenza della Circolare n. 4/E/2005 dell’Agenzia delle Entrate che ne afferma espressamente ed incondizionatamente l’esenzione!). Purtroppo, la giurisprudenza di legittimità, ingiustamente svalutativa dell’art. 10 dello Statuto, non aiuta, soccorrendo, ma ai soli fini IVA, la giurisprudenza della Corte di giustizia UE sull’illegittimità degli atti impositivi adottati in contrasto con le indicazioni provenienti dalle autorità fiscali competenti cui il contribuente si sia attenuto.

    Considerata poi l’enorme mole di controversie bagatellari che si riversano sulla giustizia tributaria, va anche valutato un ulteriore rafforzamento delle procedure deflative “a regime” (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, ecc.), ivi compresa la mediazione, il cui limite è stato opportunamente elevato da € 20.000 a € 50.000, ma che potrebbe essere ulteriormente innalzato. Si segnala, al riguardo, il d.d.l. n. 759 Nannicini, che propone un innalzamento sino a € 250.000, prevedendo peraltro che della mediazione debba occuparsi un organo non giurisdizionale, denominato sezione mediazione, composto da un collegio di tre membri, di cui un giudice tributario in funzione di presidente, un funzionario delle agenzie fiscali e un avvocato tributarista o dottore commercialista, così da realizzare quella situazione di terzietà oggi mancante.

    Le procedure deflative e la mediazione sono state sicuramente tra i fattori che hanno più concorso alla consistente riduzione del contenzioso in CTP, passato da 189.000 nuovi ricorsi del 2015 ai 142.000 nuovi ricorsi del 2019. Sappiamo tutti che il maggior incentivo al ricorso a tali procedure, anche laddove il contribuente ne percepisca la chiara ingiustizia, è rappresentato sia dalle sanzioni spropositate, che all’esito di queste procedure non solo vengono rese “normali” ma trovano applicazione ad una base imponibile ridotta – riducendo così ampiamente il potenziale rischio della lite – sia dall’alea (e solo in subordine dei costi) del giudizio tributario, sia, infine, dai tempi complessivi di tale giudizio. Un giudizio in prospettiva migliore e più veloce, restituendo fiducia nella giustizia, sicuramente disincentiverebbe il contribuente a coltivare questi istituti, ma al tempo stesso responsabilizzerebbe l’Amministrazione nell’esercizio dell’attività di accertamento, consapevole dell’analisi approfondita cui i propri atti sarebbero sottoposti in sede giudiziale.

     

    Alberto Marcheselli

    Non vi è, invero, alcun dubbio circa il fatto che la qualità tecnica del diritto finanziario sia gravemente deficitaria e che questa sia la causa prima e fondamentale del problema, anzi di un problema che nella sede processuale mostra solo la piccola punta di un iceberg assai più grande e, come si diceva, formatosi da tutt’altra parte (che è la inadeguatezza di non pochi profili del sistema tributario italiano e della sua cultura rispetto alle sfide della attualità, che comporta una nuova idea di economia ma una sempre uguale esigenza di giustizia).

    Ciò dipende da molti fattori, uno dei meno trascurabili dei quali è la decisa prevalenza di un ragionare e progettare regole sulla spinta emergenziale, vera o presunta, della sola contingenza economica. Un doppio errore, sia perché implica una costante rinuncia al ragionamento di sistema, sia perché comporta l’altrettanto costante appiattimento del diritto sulla contingenza economica, invece che la necessaria dialettica.

    Non è difficile ipotizzare che non pochi dei difetti degli odierni assetti economici (e probabilmente anche la stessa crisi economica, che è certamente collegata a modelli econometrici risultati errati), prima ancora che della pessima qualità del diritto tributario odierno derivino dall’eclisse della cultura giuridica finanziaria.

    L’incertezza (di tutti gli utenti del diritto tributario, cioè di tutti, visto che tutti pagano tasse e consumano pubblici servizi) è poi moltiplicata dalla circostanza che un dato normativo soggetto a continuo mutamento e di pessima qualità quale quello descritto finisce per concentrare le risorse degli operatori (contribuenti, funzionari, giudici) su questioni esegetiche e formali, sempre nuove, e sempre opinabili e per distogliere l’attenzione dalla giusta e preminente attenzione sui temi di fatto (investigativi e istruttori). Ne risulta un diritto tributario applicato capzioso, formale, labirintico, con un netto prevalere di contestazioni meramente interpretative e correlata debolezza e incertezza dei profili probatori. Provvedimenti che applicano norme mutevoli ed oscure, che assorbono risorse rispetto all’istruttoria sono intrinsecamente tali da incentivare il contenzioso, sia perché aventi ad oggetto questioni per definizione opinabili, sia perché spesso deboli sul piano fattuale.

    Un diritto con queste caratteristiche è un diritto incerto che, patologicamente, rinvia alla fase processuale la ricerca di un – impossibile - punto di stabilità. La prima patologia si registra già nell’accesso alla giustizia: nella fisiologia l’attuazione del tributo dovrebbe esaurirsi nella fase dell’adempimento spontaneo o amministrativa.

    Degli atti emessi dalle Agenzie fiscali, invece, 1 su 11 circa viene impugnato davanti al giudice.

    Per restare nel campo di interesse della presente riflessione, che non concerne temi di diritto sostanziale ed è limitato alla giustizia tributaria, possiamo ora interrogarci circa quale giudice occorra per far fronte a tale realtà.

    In proposito, non si può sottacere che, nell’ultimo secolo, approssimativamente, si è verificata una evoluzione epocale: essa ha riguardato la realtà economica, prima, e, al seguito, la funzione amministrativa tributaria. A tale evoluzione tiene dietro, la funzione giurisdizionale.

    Schematizzando, per ragioni di sintesi, argomenti che meglio di me immagino valorizzerà Raffaello Lupi, in economia si è partiti dalla struttura economica tradizionale, incentrata, per larga parte, sulla ricchezza fondiaria e attività individuali o comunque poco organizzate sul piano amministrativo (la coltivazione dei terreni, le attività artigiane, le attività commerciali a struttura semplice e le prime realtà industriali).

    Rispetto ad esse, l’applicazione del tributo avveniva essenzialmente nella forma di una stima esteriore. I tributi non venivano autoliquidati, ma determinati dall’ente impositore, stimando la ricchezza prodotta.

    Il progresso tecnologico ha stravolto la struttura della economia, creandosi strutture complesse (industrie, grande distribuzione), relazioni complesse (datori di lavoro con migliaia di salariati e fornitori) e consolidando anche le strutture organizzative interne (uffici amministrativi e contabili) delle realtà produttive (che sono forme di tracciamento interno della ricchezza), affiancando ad esse anche innovazioni tecnologiche idonee a tracciare la ricchezza (basti pensare ai dati dei conti correnti bancari).

    Diviene possibile quantomeno ipotizzare non più di stimare la ricchezza, ma fotografarla con esattezza: è possibile farlo per il lavoratore dipendente o autonomo che subisca la ritenuta d’acconto, per la struttura molto organizzata che è costretta a tenere una contabilità, ecc.

    Diviene possibile passare da una funzione amministrativa di stima a una funzione amministrativa di controllo (della ricchezza contabilizzata e dichiarata direttamente dal contribuente).

    Da una funzione amministrativa il cui compito precipuo è valutare si passa a una funzione amministrativa il cui compito precipuo è controllare. Nasce una Agenzia delle Entrate come, doveroso, organo di indagine, cui via via sono, opportunamente, attribuiti sempre maggiori poteri. Attualmente, la funzione di accertamento riassume in sé, nella fase preparatoria, molte caratteristiche della funzione di un Pubblico Ministero, privo in pratica, soltanto del potere di fare richieste limitative della libertà personale o di captazione di comunicazioni riservate.

    A tale evoluzione corrisponde, anche se non sempre avvertita, la evoluzione della figura del giudice.

    Nell’era delle stime, le Commissioni tributarie erano organi amministrativi, cui ci si rivolgeva per rivedere o completare l’operazione di valutazione. L’intervento del giudice, ordinario, era solo a valle e diverso: al giudice erano precluse proprio le questioni di semplice estimazione.

     Ma nella transizione al nuovo sistema, con il trasformarsi della funzione amministrativa in un potere di controllo, emanazione di provvedimenti amministrativi (dal 2011 anche direttamente esecutivi), la giurisdizione ha dovuto effettuare, quale pianeta gemello, un movimento di rivoluzione esattamente simmetrico.

    Tralasciando i passaggi intermedi, è divenuto patrimonio comune della giurisprudenza della Suprema Corte la massima secondo cui la funzione della giurisdizione tributaria è il controllo sul corretto esercizio del potere tributario.  L’attuazione dell’art. 53 della Costituzione e dei doveri di solidarietà è affidato, in prima battuta alla Pubblica Amministrazione, con la attribuzione di rilevanti poteri, istruttori e provvedimentali e la giurisdizione tributaria è una sovrana giurisdizione di controllo sull’esercizio di tali poteri. In essa si valuta sia la legittimità che il merito, sia la conformità della serie procedimentale e provvedimentale alla legge, sia la fondatezza della pretesa, ma alla luce dell’esercizio amministrativo del potere. Così, insegna la Suprema Corte: l’oggetto del processo è l’accertamento della legittimità della pretesa in quanto avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati: sia nelle impugnazioni degli avvisi di accertamento che dei dinieghi di rimborso la posizione della Amministrazione è quella, non modificabile né integrabile (se non attraverso il ritiro dell’atto e la sua sostituzione in autotutela), espressa nel provvedimento impugnato.

    Il giudice tributario deve essere, a mio avviso, il garante e guardiano del corretto esercizio della funzione tributaria.

    È appena il caso di notare che tale assetto, oltre che determinato da (e coerente con) l’evoluzione dell’ordinamento, ha anche un valore prezioso in termini sistematici e potrebbe essere un balsamo prezioso quanto al problema dell’efficienza del processo e contenimento dell’arretrato.

    Solo una giurisdizione di controllo è in grado di assicurare un corretto e adeguato esercizio della funzione amministrativa: ove il giudice tributario regredisse alla antica funzione delle Commissioni tributarie (completare la determinazione del tributo) non solo mortificherebbe l’evoluzione storica, non solo regredirebbe alla antica funzione amministrativa, di evidente dubbia compatibilità con l’assetto giurisdizionale del giusto processo (che richiede un giudice indipendente e imparziale e non un giudice che completi la funzione amministrativa di una delle parti in giudizio), ma abdicherebbe anche al ruolo di guardiano della Amministrazione, con evidente lesione, indiretta, del principio di imparzialità e buon andamento. Se un provvedimento amministrativo tributario illegittimo o infondato potesse essere salvato perché integrato in giudizio, la funzione amministrativa potrebbe continuare a essere esercitata in forma patologica, senza andare incontro a nessuna responsabilità, grazie al paracadute giudiziario: un siffatto giudice sarebbe, a mio modestissimo avviso, non adeguato all’evoluzione del sistema giuridico, al modello del giusto processo e alla sua funzione di propulsione verso una sana ed efficiente amministrazione.

    È appena il caso di notare che ciò avrebbe dei formidabili effetti anche sul tema della efficienza del processo.

    Un processo tributario dall’oggetto definito e immutabile fin dall’inizio e che segue a una fase amministrativa necessariamente efficiente e completa, è un processo concentrato, immediato e dal massimo rendimento.

    Consentire l’integrazione giudiziale del presupposto dell’accertamento o un continuo mutamento del perimetro del campo di gioco ha un effetto virale perverso: che accertamenti tributari incompleti o difformi dal modello legale possano sanarsi in giudizio, ne consente la perpetuazione e, quindi la perpetuazione della necessità di ricorrere al giudice, perché “aggiusti le cose” nel consueto ruolo di supplenza giudiziaria di tutte le inefficienze degli altri plessi dello Stato.

    Ma consentire che tutti i detriti della cattiva amministrazione (e inadempimento degli obblighi di solidarietà dei cittadini) vengano trascinati in giudizio significa, negli anni, aumentare esponenzialmente il carico di lavoro e pregiudicare la stessa capacità della Giurisdizione, capacità che non le dovrebbe neppure esser propria, in un contesto fisiologico, di Guaritore.

    Si impone, anche sotto questo aspetto, un deciso cambio di rotta.

     

    Raffaello Lupi

    Dietro le innovazioni processuali di cui al punto precedente dovrebbe essere potenziato il rilancio del contenzioso amministrativo, chiaramente sostitutivo e rideterminativo. Penso ad esempio a collegi arbitrali formati da un funzionario dell’ufficio “edotto” della pratica, un rappresentante del contribuente, e un terzo scelto di comune accordo o designato da enti esterni, come un giudice tributario, designato dal presidente della relativa commissione tributaria. Il contenzioso amministrativo è infatti la sede ideale dove gestire le stime valutative di redditi e consumi non determinabili attraverso la contabilità di aziende e uffici pubblici; torniamo a piccolo commercio, artigianato, servizi professionali al consumo finale, piccole organizzazioni a matrice “padronale”.  

    Le innovazioni processuali, indicate al punto precedente, dovrebbero integrarsi con l’intervento massivo di stima, diretto a spingere all’adempimento, anziché al recupero di gettito, descritto al par.5.7 del mio suddetto diritto amministrativo dei tributi. Si tratterebbe di una serena stima valutativa, che prenderebbe il posto della controproducente “lotta all’evasione”; essa infatti spinge gli uffici ad accertamenti economicamente irragionevoli, poi scaricando la decisione sul giudice.

    Bisogna anche modificare i calcoli dei risultati di servizio dell’agenzia delle entrate e della guardia di finanza, con algoritmi che ne valorizzino l’impatto sulla tax compliance anziché il gettito immediatamente recuperato dall’attività degli uffici. La presenza di questi ultimi deve infatti essere avvertita più direttamente sul territorio, nel quadro di un monitoraggio valutativo della credibilità dei presupposti economici dichiarati dai contribuenti estranei al circuito della determinazione documentale attraverso le aziende.

    Bisogna capire, prima di tutto, che il problema non è la cooperative compliance di poche migliaia di  grandi contribuenti,  o il controllo ragionieristico formale di decine di milioni di 730, modelli Unico e atti del registro. La priorità è invece il monitoraggio valutativo di alcuni milioni dei suddetti piccoli operatori al consumo finale, conseguentemente riposizionando le risorse di personale dell’Agenzia e della Guardia di Finanza. Si tratta di far avvertire a questi contribuenti la presenza valutativa del fisco sul territorio, nelle loro conoscenze territoriali, amicali e d’affari.

    E’ dunque questa la strada per processare meno e processare meglio, spostando una parte rilevante dell’intervento professionale dalle commissioni tributarie agli uffici dell’Agenzia delle entrate e alle eventuali sedi di contenzioso amministrativo.    
       

    Repliche  

    Raffaello Lupi

    Mi sembra che tutti e tre gli intervistati convengano sul fatto che la sede naturale per gestire la funzione tributaria non sia quella processuale, e che il processo rappresenti un correttivo a disfunzioni dell’azione amministrativa.

    Insomma, mi ripeto, il vero oggetto del processo tributario è stabilire se, e dove, gli uffici tributari hanno commesso errori, non rideterminare l’imposta. Questa rideterminazione, ribadisco, contrasta con la logica della tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi, come ho spiegato in altra sede (Lupi, Studi sociali e diritto, in corso di pubblicazione in open access dal Roma3press, par.3.13 dal titolo “principio di non sostitutività della funzione giurisdizionale alle altre”).

    Si dovrebbe quindi almeno consentire, da parte del giudice tributario che ha individuato l’errore, un rinvio agli uffici per una nuova determinazione dell’imposta secondo i principi generali della giurisdizione amministrativa, allentando l’attuale meccanicismo dell’impugnazione merito a tutti i costi.

    Sul ruolo della giurisdizione vorrei solo contestualizzare un’affermazione di Giuseppe Melis secondo cui un giudizio in prospettiva migliore e più veloce, restituendo fiducia nella giustizia, sicuramente disincentiverebbe il contribuente a coltivare le adesioni, e al tempo stesso responsabilizzerebbe l’Amministrazione nell’esercizio dell’attività di accertamento, consapevole dell’analisi approfondita cui i propri atti sarebbero sottoposti in sede giudiziale. Con essa il collega non intende a mio avviso sostenere la sistematica determinazione processuale dell’imposta, ma evitare che un imprevedibile esito giudiziale del ricorso spinga i contribuenti ad accettare definizioni sostanzialmente ingiuste.

    La prospettiva di un buon processo deve insomma dissuadere  gli uffici tributari dal proporre al contribuente accordi capestro contando sulla sfiducia del contribuente nella successiva fase processuale.

    L’affermazione si ricollega poi alla mia prospettiva secondo cui la giurisprudenza deve aiutare l’amministrazione finanziaria a crescere, dicendole anche di no. Questo però implica, nei giudici, una prospettiva “di sistema”, diversa dal giudizio di valore sulla singola causa, tipico della tradizionale concezione privatistico-giurisdizionale del diritto, che ha la sua matrice nella risoluzione delle liti tra privati. La giurisprudenza dovrebbe certamente imparare che “dire di no” ad alcuni atti impositivi, giova alla funzione impositiva nel suo complesso, ma come si fa -quando dal contesto è fortemente sospettabile la presenza di un’evasione tributaria- ad annullare l’accertamento solo perché mal costruito?

    E’ comprensibile quindi la tendenza dei giudici, davanti a un fumus  di fondatezza della pretesa erariale, a respingere il ricorso del contribuente, essendo privi dell’alternativa di un rinvio all’ufficio, per una migliore motivazione nei limiti (ovvi) della pretesa originaria, oppure ridefiniti dal giudice stesso.

    Torna insomma il modello amministrativo, semplicemente perché la funzione tributaria rientra in quelle amministrative, e vi dovrebbe essere riportata anche in sede accademica. In quanto, al di là dell’accordo sostanziale tra i tre professori interpellati in questa intervista, la visione panprocessualistica della funzione tributaria, di matrice privatistico-processuale, vi è ancora molto radicata, con gli esiti deludenti cui siamo abituati da decenni. 

     

    Alberto Marcheselli

    Nelle riflessioni dei miei due valenti colleghi trovo principalmente uno spunto di riflessione e, poi, di franca digressione, di carattere generale, che spero verrà tollerata e, se possibile, perdonata dal lettore.

    Per il resto condivido toto corde l’idea di Raffaello Lupi di una giustizia tributaria di controllo della corretta funzione amministrativa tributaria (volta al controllo dell’adempimento dei fondamentali doveri di solidarietà sociale). A mio avviso, ribadisco umilmente, è l’unica impostazione in grado di assicurare congiuntamente: a) un processo concentrato ed efficiente e b) un feedback preziosissimo a livello ordinamentale e di giustizia sociale.

    Un giudice tributario che, per apprezzabile zelo e nella consueta opera di supplenza, propria della Magistratura italiana, delle inefficienze altrui, aggiusti gli accertamenti illegittimi, tacendo del fatto che la supplenza delle inerzie di una delle parti è nemica della imparzialità, produce gli stessi effetti di un genitore che perseveri a rimettere in ordine la stanza del figlio maggiorenne: fa danno a sé stesso e al figlio: si rompe la schiena e il figlio non imparerà mai. Annullare un avviso illegittimo o non rettamente prodotto evita che ne siano emanate decine di migliaia dopo con lo stesso vizio e che le aule di giustizia siano intasate dai tentativi del contribuente di farlo annullare e del Fisco di farselo riparare.

    Beneficio per le Corti, e beneficio per la società.

    Lo spunto per la riflessione/digressione, lo traggo, invece, dal giustificatissimo richiamo del Prof. Melis alla giurisprudenza UE in materia di condoni fiscali.

    Ciò che voglio dire trascenderà ben presto, in realtà, il tema specifico e muove i passi da una mia ammissione di colpevolezza. Ammetto di aver per lungo tempo, negli anni remoti, approcciato la giurisprudenza della Corte di Giustizia con un atteggiamento di appassionata curiosità, passione ma anche implicita deferenza, non accompagnata dal tasso di scetticismo e spirito critico che, forse, avrei dovuto maggiormente coltivare come studioso.

    In effetti, tale giurisprudenza presta – non di rado negli ultimi tempi, a mio avviso – qualche segnale di debolezza rispetto alle categorie generali. Nella fattispecie (e un discorso simile potrei fare quanto alla nota decisione circa il possibile superamento del giudicato) non mi convince punto l’affermazione, tout court, secondo cui i condoni comporterebbero una non consentita generalizzata rinuncia all’accertamento e riscossione dei tributi che, in quanto corrispondenti all’interesse finanziario pubblico, non sarebbero negoziabili.

    Ribadito il mio giudizio severamente contrario, sul piano etico generale, alle scelte condonistiche e, pertanto, un po’ paradossalmente, esercitandomi nella difesa, in posizione minoritaria, di un istituto che, in quanto tale, visceralmente aborro, comincerei con osservare che, se si guarda all’oggetto della pretesa “rinuncia”, esiste una ampissima prateria che corre tra due estremi. A un estremo è la non riscossione di somme recate da un titolo definitivo (esempio, un accertamento definitivamente confermato in sede giurisdizionale). All’altro, l’arresto della procedura relativa a un titolo già annullato plurime volte dal giudice, con provvedimento non ancora definitivo.  Mi pare che di “rinuncia” alla riscossione in senso pieno si possa parlare solo nel primo (peraltro inverosimile) caso. In tutti gli altri, casi, che sono una miriade e sostanzialmente tutti quelli che interessano, potrebbe ben trattarsi di una valutazione prognostica sull’esito della lite. Del resto, l’argomento proverebbe troppo: se di rinunce si trattasse, dovrebbe essere illegittimo qualsiasi accertamento con adesione o accoglimento delle istanze di mediazione, o conciliazione. Ciò che un condono (adesione, conciliazione, ecc.) potrebbe bilanciare, eventualmente con una delibazione incidentale, non sono contrapposti interessi da mercanteggiare discrezionalmente, cosa certo vietata, ma le correlative chances di vittoria.

    In questo senso la rinuncia è a una chance di vittoria (che deve essere controbilanciata dalla eliminazione di una chance di sconfitta). E non è chi non veda che rinunciare al 50% di possibilità di pagare 100 pagando 50 non equivale affatto né a rinunciare a 100, né a pagare 0.

    Non solo, sul piatto potrebbe (e dovrebbe, a mio avviso) anche mettersi – in teoria - almeno un’altra coppia di considerazioni.

    La prima è la proporzione costi-benefici, in senso reale: ponderando quanto è ragionevole che si possa riscuotere attendendo l’esito del giudizio, e quanto “costi” attenderne l’esito. La circostanza, in tempi di emergenza finanziaria potrebbe anche avere il suo peso: a Genova si dice “pochi, maledetti e subito”, per segnalare il vantaggio finanziario e la preferenza per i pagamenti tempestivi. Condivido anche il dubbio circa il fatto che non è detto che dal condono possano scaturire fiumi di denaro ma osservo che anche questa obiezione mi pare obliqua. Il condono, cinicamente, è un prezzo. Per la parte privata, il prezzo dell’ eliminazione del rischio di soccombenza. Ne consegue, logicamente mi pare, che se un condono ben ponderato rende poco perché pochi vi accedono, è probabile che valesse anche poco, rispetto ad esso, il rischio, cioè, fossero anche pochi i danni della soccombenza. Fuor di metafora: se la parte non …paga (il condono) per .. evitare di pagare (alla fine del processo), è perché pensa che comunque non avrebbe pagato o pagato poco anche se il processo fosse arrivato a conclusione: cioè che fosse conveniente resistere. Ma, se è conveniente resistere, in termini sostanziali il condono, nell’ottica UE… comporta una rinuncia poco significativa: dal completamento della faticosa vicenda contenziosa non si sarebbe comunque ottenuto un risultato diverso, e, soprattutto proporzionato agli oneri della prosecuzione dei giudizi.

    A questo poi aggiungerei, e per me è veramente importante, più di qualsiasi considerazione ragionieristica e contabile, il collateral damage rappresentato dai rischi, a mio giudizio esiziali, di una decadenza profonda (se non il collasso) della Suprema Corte: ribadisco che, se trovo immorale un condono, trovo ancora più immorali, strutturali e irrimediabili le conseguenze del soffocamento di essa da arretrato, su cui molto mi sono speso nel mio intervento principale.

    Non sarà un dato immediatamente monetizzabile, secondo gli standard dell’interesse finanziario, ma è un interesse ordinamentale fondamentale e il diritto non è fatto solo di interessi finanziari.

    Potrebbero quindi esplorarsi solide giustificazioni per una iniziativa in tal senso, a mio avviso.

    Sul punto soggiungo, allora, una riflessione, abbandonando definitivamente la questione, contingente, del condono, per una digressione, più ampia, ma non meno attuale, anche per la Giurisdizione.

    Penso, infatti, che una delle sfide strutturali cui la cultura e la pratica tributaria e finanziaria sarà presto chiamata, covi sotto la cenere, segnalata dai timidi bagliori di queste decisioni.

    Voglio qui proseguire nella autocritica, rilevando come si può plasticamente notare una certa debolezza della cultura tributaria nella nota vicenda Taricco. Tale sentenza ha raccolto molte critiche – che, incidentalmente, e per quel che vale, solo parzialmente condivido - da parte della dottrina penalistica, per ritenuti profili di contrasto con i canoni di certezza e irretroattività.

    Pressoché nessuna eco ha invece avuto la (per vero piuttosto sparuta) voce critica che si è levata dal recinto tributario.

    In effetti, la sentenza originaria a mio avviso presentava una significativa lacuna concettuale, nel tessuto motivazionale, simbolica ma molto interessante in prospettiva futura: nella sua motivazione, sostanzialmente, l’interesse finanziario pareva muoversi in una sorta di “vuoto”: l’efficienza della realizzazione degli interessi finanziari della Unione Europea sembrava costituire una sorta di “asso pigliatutto” rispetto ai profili nazionali e ai diritti fondamentali privati.

    Ebbene, tale impostazione, di cui è eco anche nella giurisprudenza sui condoni (di qui lo spunto), a me pare, francamente, preoccupante e frutto ancora una volta della perniciosa prevalenza delle …valute sui… valori.

    Che si possa procedere “senza bilanciamenti e contrappesi” è cosa molto diversa dal ponderare i valori contrapposti. Ancora di più, a me pare che non possa negoziarsi sui principi fondamentali e sulle garanzie strutturali e che l’enfasi sull’importanza del valore contrapposto, sul “fine da realizzare efficientemente” sia quanto mai fuorviante (e allarmante, in prospettiva).

    Se il diritto diventa un problema di forze prevalenti, e non di regole da applicare per regolare i conflitti, ovvero, per dirla in un altro modo, si riduce a un continuo scrutinio di un (reale o artatamente supposto) stato di necessità, che, per di più, trascura il requisito della proporzione della condotta al danno da evitare, i parametri della inevitabilità e della proporzione, si entra in un vero campo minato.

    I principi fondamentali – formali - vanno ribaditi e tutelati, anche di fronte all’interesse finanziario (e qualsiasi altro interesse, direi).

    Altrimenti, non è sempre detto che a rischio siano valori “altri”.

    Se si può asfaltare qualsiasi cosa, senza il rispetto delle regole giuridiche di garanzia e un severo scrutinio della proporzionalità, per realizzare interessi finanziari, domani potrebbero essere a rischio le pensioni e dopodomani i livelli minimi di assistenza: riconoscere che i principi fondamentali sono expendable crea il rischio che non si sappia più mettere a freno alla deroga e all’arbitrio.

    E che, invece che avere come stella polare, condivisa e indiscussa, la tutela nei principi fondamentali, ci si debba tutelare con la forza della ideologia prevalente nel momento, o con la difesa corporativa, come era proprio della parcellizzazione degli statuti medievali.

    Se i principi di garanzia valgono solo per i valori forti del momento, chi garantisce le modalità di scelta di tali valori?

    Un grosso rischio, a sintetizzare il quale viene bene la nota poesia, che amo citare, di Martin Niemöller: “Prima vennero per i comunisti | e io non alzai la voce | perché non ero un comunista. | Poi vennero per i socialdemocratici | e io non alzai la voce | perché non ero un socialdemocratico. | Poi vennero per i sindacalisti | e io non alzai la voce | perché non ero un sindacalista. | Poi vennero per gli ebrei | e io non alzai la voce | perché non ero un ebreo. | Poi vennero per me | e allora non era rimasto nessuno | ad alzare la voce per me.”

    Il diritto finanziario è certamente… finanziario ma è pur sempre, e prima di tutto, un “diritto”.

    E dobbiamo tutti sorvegliare perché non perda tale caratteristica.

    Forse, prima e più che dire che la politica deve tornare a prevalere sulla Finanza, dovremmo rimettere al centro il Diritto.

    E per avere un sano Diritto occorre preservare la salute della Suprema Corte.

       

    Giuseppe Melis

    Non vi è dubbio che un qualsivoglia tentativo di risolvere le questioni qualitative (una “buona” sentenza) e “quantitative” (lo smaltimento dell’arretrato e così l’ottenimento di una giustizia rapida) del contenzioso tributario richieda scelte radicali.

    Talune sono più facili e quindi adottabili nel breve periodo, altre richiedono tempi più lunghi (ma neanche troppo).

    Tra quelli più facili ed “emergenziali”, svettano i soliti provvedimenti condonistici, certamente discutibili, ma indispensabili per smaltire una accumulazione di contenzioso nel grado di legittimità che, anche per effetto dei recenti drammatici avvenimenti, è ai suoi livelli storici massimi. Provvedimenti, questi, che dovranno necessariamente prevedere uno sconto sul tributo anche per chi nei gradi di merito è risultato soccombente: del resto, se la metà delle sentenze tributarie di appello viene riformata in Cassazione, tutto può affermarsi tranne l’equivalenza teorica tra ricorsi rigettati e … torto “sostanziale” (ciò che vale, specularmente, per coloro che nei gradi di merito siano risultati vittoriosi e pur beneficiano della riduzione anche del tributo). Sono decenni che i provvedimenti condonistici vengono sistematicamente giustificati dal legislatore con la necessità di rimediare ad una “ingiustizia” del passato che la “Riforma” di turno sarà in grado di eliminare sì che i contribuenti potranno scordarsi altri condoni (sarà l’ultimo!). Fatto sta che questo ormai decennale ritornello calza “a pennello” con l’attuale momento storico, in cui i mali del sistema tributario sono sempre gli stessi e la Riforma tributaria è stata appena pubblicamente annunciata dal Premier (il sistema tributario è iniquo e va riformato!), forse quale possibile anticipazione delle “condizioni” cui sarà verosimilmente subordinato l’ottenimento degli indispensabili fondi da Bruxelles.

    Provvedimenti “facili” sono anche il rafforzamento delle procedure deflative “a regime” – e qui va forse rimeditata la natura di questi procedimenti, tenuto conto che alla conciliazione giudiziale la giurisprudenza riconosce pacificamente natura “transattiva”, ciò che potrebbe aprire le porte ad una maggiore flessibilità anche in sede di adesione (lo spauracchio della Corte dei Conti è sempre presente) – ivi compresa la mediazione, con un ritocco ulteriore del limite quantitativo, oltre a ragionare, dati alla mano, se l’attuale collocazione sia quella ottimale o, come proposto da Raffaello Lupi, debba essere ripensata anche sotto questo profilo.

    Ci sono poi i provvedimenti più “difficili”, che riguardano il sistema tributario sostanziale, procedimentale e processuale nel suo complesso.

    Personalmente sono contrario a riforme radicali dell’ordinamento tributario. Se esse possono certamente contribuire ad aumentarne il livello di “giustizia”, ne aumentano anche il livello di “incertezza” nel corso del periodo di assestamento, di regola non breve, che la relativa implementazione comporta. Ciò a maggior ragione in un sistema, qual è quello attuale, che pare ormai aver raggiunto una discreta completezza e coerenza di fondo, oltreché un sostanziale allineamento, almeno a livello di istituti giuridici, con gli ordinamenti tributari dei principali Stati europei; e nel quale, la dimensione “agevolativa”, Leitmotiv di ogni dichiarazione di riforma, non va sopravvalutata, poiché spesse volte attuazione di principi costituzionali meritevoli di tutela.

    Appare pertanto più opportuna una politica tributaria di fine adjustment, qual è quella adottata nel corso del Ministero Padoan, volta a incrementare il livello di certezza e di trasparenza del sistema, soprattutto sul fronte del reddito di impresa (fortemente appesantito da una quasi generalizzata applicazione del principio di derivazione rafforzata) e degli strumenti di compliance. Si pensi alla riforma degli interpelli, con la generalizzazione della sanzione di nullità degli atti impositivi adottati in difformità della risposta; l’interpello “rafforzato” per i nuovi investimenti, che preclude sin anche il revirement dell’Agenzia; la riforma delle sanzioni penali, che ha sottratto al regime sanzionatorio penale fattispecie connotate da ampi margini di indeterminatezza o dall’assenza di danni erariali (ad es., l’abuso del diritto, le valutazioni, gli errori sulla competenza); la “codificazione” e l’unificazione con l’elusione fiscale, del principio dell’abuso del diritto; l’individuazione e soluzione di una serie di problematiche specifiche relative alla determinazione del reddito di impresa (perdite su crediti, prezzi di trasferimento tra imprese residenti, ecc.); infine, l’intervento sull’art. 20 della legge sul registro, ambito in cui l’incertezza regnava sovrana (e della cui legittimità costituzionale personalmente non dubito, non potendosi considerare la scelta del legislatore di precludere l’utilizzo di elementi extra testuali irragionevole e ingiustificata).

    Il tema, ineludibile, del recupero delle risorse tramite un adeguato contrasto all’evasione va perseguito con determinazione avvalendosi degli strumenti sempre più efficaci di cui l’amministrazione finanziaria dispone, cercando tuttavia di giustificarlo, prima ancora che in un’ottica repressiva, con la restituzione di piena legittimità all’imposizione tributaria. Il cittadino deve avere la chiara percezione di essere un “contribuente” nel senso autentico del termine e non un mero “soggetto passivo” di un prelievo esercitato coercitivamente e sotto minaccia di sanzioni da parte dell’autorità fiscale, per lo più destinato ad essere speso male o addirittura frutto di appropriazione altrui. Quanto maggiore sarà la contrapposizione e la distanza tra l’essere un “contribuente” e l’essere un “mero soggetto passivo”, tanto minore sarà la volontà del soggetto di adempiere spontaneamente. Fondamentale è inoltre quanto suggerito da Raffaello Lupi sulla necessità di implementare il monitoraggio valutativo dei piccoli contribuenti.

    Piuttosto, se qualcosa di ottimo si può fare ed in breve tempo, è sulla “codificazione”. Tema, questo, sul tappeto da oltre ottant’anni, ma che potrebbe oggi avvalersi dell’ampio articolato normativo, già disponibile, confezionato in quasi due anni di lavoro dalla autorevole Commissione voluta dal compianto Prof. Victor Uckmar e già recepito dal CNEL. Personalmente, lo chiamerei il “Codice Uckmar”, ad imperitura memoria di Colui che in tale progetto ha sempre fermamente creduto, senza ricevere la soddisfazione che avrebbe meritato. Gli effetti “pratici” sarebbero peraltro notevolissimi, dovendosi occupare una buona parte del contenzioso tributario di questioni relative all’obbligazione e al procedimento prive di una diretta risposta normativa.

    Vi, è, infine il processo, che deve essere migliore e più rapido. Migliore è il processo che si avvale: di un’assistenza tecnica qualificata; di giudici che conoscano perfettamente la materia, che non se ne occupino nel tempo libero e su di essa si aggiornino (e siano valutati) periodicamente; dei mezzi istruttori per risolvere al meglio le questioni valutative e di fatto che li richiedano; di due gradi di merito e del giudizio di legittimità (estendendo in via interpretativa quanto più possibile il sindacato sulla “motivazione” della sentenza, sovente l’unico in grado di fornire una vera risposta di giustizia in sede di legittimità dinanzi a motivazioni approssimative). Tutte poi condivisibili le modifiche normative suggerite da Marcheselli. Quanto, infine, alla rapidità, digitalizzazione e rafforzamento degli organici in sede di legittimità sono all’evidenza imprescindibili.

    Speriamo di poter ricordare questo drammatico momento storico almeno quale fonte di innesco di una rinnovata giustizia tributaria.

     Le conclusioni

    Enrico Manzon

    Missione compiuta ? Serenamente si può dire di sì.

    Tre visioni autorevoli, diverse, ma complementari; complessivamente uno spettro di idee ampio ed allo stesso tempo profondo, come del resto era nelle ragionevoli attese, dato il valore degli accademici intervistati. Dalla rigorosa analisi causale/conseguenziale dei “numeri” di Melis alle suggestioni teoriche cui Lupi ci ha abituato con la sua variegata ed innovativa pubblicistica, passando per l’appassionata e ficcante argomentazione di Marcheselli, nessuno dei graditi ospiti si è sottratto all’onere di rispondere alle questioni loro poste. E tutti lo hanno fatto con generoso impegno, per il quale non possiamo che ringraziarli, anche pubblicamente.

    Ci è stato così consegnato un “tesoretto” di idee e di proposte, che mettiamo a disposizione degli attenti lettori di questa Rivista e che peraltro possono essere utili spunti di riflessione per la comunità dei giuristi, ma anche per la pubblica opinione.

    Del resto il tema sviluppato questa considerazione senza dubbio se la merita.

    La giustizia fiscale in Cassazione pone infatti questioni di rilevante interesse generale, ben oltre il “recinto” degli addetti ai lavori, per tutti gli stakeholders e per l’intera comunità nazionale.

    In ultima analisi, i tempi ed i modi della giurisprudenza tributaria di legittimità riguardano il canone della certezza del diritto, la costante ricerca e fissazione dei “punti di equilibrio” tra gli jura litigatorum e lo jus constitutionis. La “crasi giuridica” di questi due aspetti implica il dare attuazione, diretta, del principio -generale- di capacità contributiva ex art. 53, primo comma, Cost., che a sua volta deve considerarsi espressione “specifica” dei principi –supremi- di cui all’art. 2, (adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale) e 3, primo comma, (eguaglianza di fronte alla legge) della Costituzione medesima. In sintesi, si può quindi affermare che la mission specifica della nomofilachia tributaria è la concretizzazione della giusta imposta.

    Il che appunto rende della massima importanza occuparsi (e preoccuparsi) della sua “salute”.  

     

    [1] Precomprensioni, come le chiamano Gadamer e Essers nella teoria della conoscenza.

     

     

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