GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Direttive a tutela del segreto investigativo

    Procura della Repubblica di Torino.
    Direttive a tutela del segreto investigativo conseguenti all’art. 18 (Disposizioni Transitorie e finali) n. 5 del Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 177 - Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

    PROCURA DELLA REPUBBLICA

    PRESSO IL TRIBUNALE DI TORINO

    Prot. n. 544/17/S.P. Torino, 7 febbraio 2017

    Ai MAGISTRATI DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA

    SEDE

    Al Sig. QUESTORE

    Al Sig. COMANDANTE PROVINCIALE

    DELL’ARMA DEI CARABINIERI

    Al Sig. COMANDANTE PROVINCIALE

    DELLA GUARDIA DI FINANZA

    AI RESPONSABILI DELLE ALIQUOTE DELLA SEZIONE DI P.G.

    PROCURA DELLA REPUBBLICA

    T O R I N O

    e per conoscenza:

    Al Sig. PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA

    PRESSO LA CORTE D’APPELLO di T O R I N O

    Al Sig. PREFETTO

    di T O R I N O

    OGGETTO: Direttive a tutela del segreto investigativo conseguenti all’art. 18 (Disposizioni Transitorie e finali) n. 5 del Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 177 - Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

    L’art. 18 co. 5 del Decreto Legislativo n. 177/2016, in oggetto specificato, prevede che entro sei mesi dalla sua entrata in vigore (avvenuta il 13.9.2016):

    “… al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale ”.

    Si tratta di una previsione che, al di là di altri rilievi che seguono, potrebbe determinare rischi di compromissione del segreto investigativo previsto innanzitutto dall’art. 329 c.p.p., la cui violazione da parte di pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio può dar luogo a responsabilità penale ex art. 326 c.p. . Tanto più che i componenti della “ scala gerarchica” cui fa riferimento la norma in questione non sempre rivestono la qualifica di “ufficiali di polizia giudiziaria”. Peraltro, l’art. 329 cpp non vincola solo la polizia giudiziaria ma ogni soggetto depositario del segreto investigativo, sicchè sarebbe singolare che solo la prima possa essere sciolta dall’obbligo del segreto, sia pure in parte e per il fine previsto dall’art. 18 co. n. 5 del D. Lgs.vo 177/2016.

    Desta anche perplessità il fatto che l’articolo 8, co. 1, lettera a), della Legge Delega 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, richiamato quale fonte di legittimazione della norma in discussione, ad avviso dello scrivente, non detta alcun principio che possa giustificare la previsione di un obbligo di trasmissione alla propria scala gerarchica, da parte dei responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, delle “ notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria ”, tanto più in presenza di obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale che sembra vengano di fatto ritenute irrilevanti: non altrimenti può qualificarsi la previsione secondo cui detta trasmissione di notizie deve avvenire “ indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale ”.

    I rilievi appena esposti, tra l’altro, sono stati oggetto di discussione, in vista del parere di competenza, in seno alle Commissioni riunite I (Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e IV (Difesa) della Camera sullo specifico articolo, al punto che, nel corso della discussione del 12 luglio 2016, alcuni deputati hanno chiesto di espungere dal testo in discussione la previsione in questione o, quanto meno, il rinvio della decisione, mentre altro deputato ha rilevato che comunque essa non produrrebbe “.. gli effetti paventati poiché già adesso l’obbligo di informare il superiore dell’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria non è previsto qualora il magistrato chieda di non trasmettere gli atti 1 . Un’affermazione – quest’ultima – convalidata anche dal principio di cui agli artt. 109 Cost. (“ L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” ) e 56 co. 1 cpp, secondo cui “ Le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria”.

    La previsione in oggetto indicata, a dire il vero, trova uno specifico precedente nell’art. 237 del DPR 15.3.2010, n. 90 (Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’art. 14 della Legge 28 novembre 2005, n. 246) che così recita:

    Art. 237 – Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica .

    Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri”

    Nella pratica quotidiana, peraltro, tale norma - a prescindere dal rango di “regolamento” del DPR n. 90/2010 in cui è inserita - ha trovato applicazione attenta ad opera della polizia giudiziaria appartenente all’Arma dei Carabinieri, attraverso una serie di disposizioni interne, in gran parte compendiate nella pubblicazione dell’Arma “Guida per le segnalazioni”, che disciplinano attentamente i dati da fornire, con estrema attenzione al necessario rispetto del segreto investigativo. Proprio per tale ragione, le segnalazioni si riferiscono a fatti già di massima conoscibili e incidenti sull’ordine e sulla sicurezza pubblica, locale e nazionale. Infatti, a proposito dell’oggetto di tali comunicazioni, si legge nella citata Guida 2 che “ le segnalazioni devono riportare gli elementi essenziali del fatto sulla base delle prescrizioni particolari di cui alla parte II della pubblicazione e con l’osservanza degli obblighi di cui al codice di procedura penale e delle relative norme di attuazione . Ed in altro paragrafo della stessa pubblicazione in cui si chiede di anticipare i contenuti delle “operazioni di particolare rilievo”, si precisa che ciò deve avvenire “escludendo qualsiasi aspetto di interesse prettamente investigativo”.

    Comunque, indipendentemente da tali apprezzabili indicazioni e/o dalla loro interpretazione, resta evidente che quanto previsto dall’art. 18 del Decreto Legislativo n. 177/2016, co. n. 5, non potrebbe giustificarsi con esigenze di coordinamento investigativo , funzione peraltro esercitata innanzitutto, ai sensi dell’art. 327 c.p.p., dal Pubblico Ministero, le cui disposizioni non potrebbero essere in alcun modo disattese neppure nei casi in cui la P.G. - come lo stesso art. 327 cpp e l’art. 348 co. 1 cpp prevedono – proceda di propria iniziativa: l’obbligo del segreto, infatti, è posto a tutela di valori che non sono certo recessivi rispetto a quelli della razionalizzazione degli interventi.

    Il contenuto della norma in questione, a dire il vero, fa riferimento non ad un obbligo dei responsabili di ciascun presidio di polizia interessato di trasmettere alla propria scala gerarchica le informative di reato inoltrate all’A.G., ma solo le notizie relative a tale inoltro, il cui contenuto dovrebbe, logicamente, essere “inferiore” a quello delle informative in sè: ma sia che si ritenesse l’obbligo riferito alla trasmissione per via gerarchica di copia delle informative di reato inoltrate alla A.G., sia che lo si ritenesse riferito alla trasmissione di più generali notizie sull’inoltro all’A.G. delle informative di reato (ipotesi questa che, attraverso un’interpretazione estensiva della norma, potrebbe indurre a ritenerla applicabile, addirittura, ai momenti precedenti la redazione e l’inoltro all’A.G. di tali atti), appare necessario evitare potenziali ragioni di criticità nelle indagini visto che, di solito, proprio nelle informative di reato – pur se non ancora conclusive – si compendiano e si illustrano i fatti accertati, di particolare riservatezza investigativa.

    Peraltro, anche nella fase successive all’inoltro all’A.G. delle informative di reato, il valore della segretezza investigativa va doverosamente tutelato , poiché trattasi della fase in cui normalmente si dispiegano e trovano attuazione le direttive del P.M. che possono essere anche finalizzate all’acquisizione – se non ancora intervenuta – delle prove decisive ai fini del promovimento dell’azione penale. Un diverso orientamento finirebbe con il consentire il disvelamento (sia pure in termini generici) delle deleghe investigative direttamente provenienti dal P.M. o con il vanificare la finalità del potere di segretazione riconosciuto al P.M. dall’art. 391 quinquies c.p.p. .

    Il coordinamento informativo, cui l’art. 18 del Decreto Legislativo n. 177/2016, co. n. 5 fa esplicito riferimento, è nozione diversa da quella del coordinamento investigativo (che, come si è detto, spetta innanzitutto al PM) ed esprime a sua volta un apprezzabile valore, quello di consentire alle forze di polizia l’acquisizione di conoscenze utili per l’espletamento dei propri compiti: ma appare evidente che esso non è direttamente riferito al momento in cui le indagini sono in corso (in quel caso, si deve parlare di necessità di “coordinamento investigativo” che include quello “informativo”) e ben può essere rinviato - quando ritenuto necessario - alla fase in cui le esigenze di segretezza investigativa siano cessate, così determinando la circolazione anche informatica dei dati acquisiti e l’arricchimento delle banche dati dei presidi di polizia giudiziaria.

    Le osservazioni che precedono (e le disposizioni che seguono) risultano ovviamente pertinenti anche ai casi in cui il presidio di polizia giudiziaria operante sia costituito dalla Sezione di polizia giudiziaria, direttamente operante alle dipendenze del Procuratore che ne dispone direttamente ai sensi del già citato art.109 Cost. e degli artt. 58 e 59 c.p.p. .

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    Gli orientamenti dello scrivente sin qui illustrati non hanno carattere meramente astratto, né possono essere interpretati come spia di scarsa sensibilità rispetto al doveroso principio di leale collaborazione tra istituzioni della Stato .

    Al contrario, se correttamente applicati, possono non solo rafforzare la virtuosa collaborazione tra Autorità Giudiziaria e Polizia Giudiziaria, ma anche meglio garantire l’indipendenza investigativa dei presidi di polizia giudiziaria rispetto ad immaginabili e potenziali conflitti di interesse, che potrebbero compromettere il buon esito delle indagini e l’immagine della Istituzione di appartenenza.

    E’ evidente, infatti, che i rilievi critici che precedono non possono che riferirsi, in concreto, ad indagini e notizie di particolare rilievo, nazionale ed internazionale, in ragione della tipologia dei reati per cui si procede e delle qualità soggettive degli indagati.

    In tali casi, ben più che in altri, infatti, può comprensibilmente esistere un interesse preminente e decisivo a tutelare fino all’ultimo passo dell’indagine, cioè fino ai momenti formali di cessazione del segreto investigativo ai sensi dell’art. 329 co. 1 c.p.p., le notizie acquisite durante le indagini stesse.

    Si tratta, peraltro, di tutelare non solo un “interesse” investigativo, ma anche il dovere del pubblico ministero di assicurare il buon esito del possibile promovimento dell’azione penale, un dovere desumibile dal principio di cui all’art. 109 della Costituzione ( “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” ) che consente al P.M. di vietare la diffusione – anche rispetto ai vertici delle Forze di polizia cui appartengono gli organismi che indagano sotto la sua direzione - delle informative di reato in presenza delle ragioni appena specificate.

    Occorre, allora, ricercare un bilanciamento dei “beni” in potenziale conflitto che va attuato per casi specifici e/o per gruppi di casi, partendo dall’assunto che non può in alcun modo pretermettersi – prima dell’inoltro in questione – un controllo da parte del Pubblico Ministero: il fatto che l’art. 18 n. 5 del D. Lgs.vo n. 177/2016 non preveda tale controllo è irrilevante perché quella disposizione va coordinata con l’intero sistema, non potendo configurarsi quale monade normativa.

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    Pertanto, alla luce di quanto sin qui specificato ed in conformità all’ orientamento manifestato dagli altri Procuratori della Repubblica di questo Distretto nel corso della riunione dell’1 c.m., convocata dal Procuratore Generale, si dispone che i magistrati della Procura della Repubblica di Torino, con la necessaria urgenza, comunichino motivatamente al sottoscritto i casi in cui ritengano di dover segnalare ai presidi di polizia giudiziaria delegati alle indagini preliminari da loro dirette e coordinate il rispetto assoluto del segreto investigativo anche nei confronti delle rispettive “scale gerarchiche ”.

    In particolare, i sostituti ne riferiranno innanzitutto ai Procuratori Aggiunti o ai sostituti coordinatori dei gruppi specializzati di appartenenza, in modo da consentire una preliminare loro valutazione.

    Il sottoscritto, nelle ipotesi di condivisione di tale necessità, provvederà a conseguente comunicazione formale diretta ai dirigenti o comandanti dei presidi di polizia giudiziaria interessati , inclusi servizi centrali di polizia giudiziaria. Ciò anche al fine di valutare opposte ragioni ed esigenze a sostegno della utilità di invio alle scale gerarchiche delle notizie in questione.

    Nei casi in cui i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria interessati dovessero ritenere, ai sensi dell’art. 18 co. 5 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, di non poter aderire alla richiesta di preservare il segreto investigativo, dovranno comunicarlo formalmente allo scrivente per ogni possibile iniziativa dell’ufficio (non escluso il ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, ai sensi dell’art. 37 L. 11 marzo 1953 n. 87).

    Il Sig. Questore ed i Sigg.ri Com.ti Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Torino sono pregati di volere cortesemente curare la diffusione delle presenti direttive ad Uffici e Comandi di polizia giudiziaria rispettivamente dipendenti.

    Sono ovviamente autorizzati a trasmetterne copia anche alle rispettive “scale gerarchiche”, in particolare al Sig. Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza ed ai vertici delle altre Forze di polizia

    IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA

    Armando SPATARO

    1 Si rinvia sul punto a quanto può leggersi nel verbale della predetta seduta di Commissioni riunite del 12 luglio 2016.

    2 Pubblicazione G4 dell’Arma dei Carabinieri “ Guida delle segnalazioni”, Disposizioni di carattere generale, Parte prima n. 2, lettera “A”.

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    Sul d.l. 168/2016: critica della ragion “pura” di un neo-magistrato

    Il19 ottobre 2016 il d.l. 168/2016 è stato convertito in legge.

    Si tratta di un provvedimento importante, che, apportando modifiche esternamente avvertite per lo più come insignificanti,apre, in realtà, una nuova pagina nella vita di ogni magistrato.

    Sono vari i momenti della vita professionale di ognuno che vengono toccati: dall’ingresso in magistratura (caratterizzato dal periodo del tirocinio), passando attraverso le vicissitudini che normalmente si pongono nella vita – lavorativa e non – di ciascuno (con la necessità di trasferimenti di sede, specie nell’ambito di una professione che spesso, agli esordi, costringe a spostamenti rilevanti ed a rivoluzionari mutamenti di vita), per arrivare alla pensione.

    Soprattutto i primi due aspetti oggetto di restyling (tirocinio e trasferimenti) appaiono strettamente interconnessi e rischiano di essere dati per acquisiti, quali modifiche tutto sommato non più di tanto rilevanti, laddove non se ne vedano le reali implicazioni; in particolare, le nefaste ricadute tanto sul piano della lesione di principi di matrice costituzionale (ad esempio, indipendenza ed inamovibilità dei magistrati), quanto sul piano degli effetti pratici,rischiando di ingenerare tanti maggiori problemi di quanti siano intese a risolvere.

    A ben vedere, l'imprinting della riforma pare essere, ancora una volta, la velocità; una velocità che, con connotati quasi di matrice futuristica, fagocita l’attualità in vista del cambiamento.Si tratta di una velocità che caratterizza lo strumento prescelto (la decretazione d’urgenza), il modo di provvedere (inaudita altera parte, senza attendere il confronto, pur risultando già fissato un incontro tra Governo e rappresentanti di categoria a distanza di una manciata di giorni dalla data di conversione), la ratio della riforma (l’aumento della produttività, anche negli Uffici “di confine”).

    Tralasciando di considerare i primi due aspetti, già stigmatizzati in ampi e reiterati dibattiti, preme in questa sede evidenziare alcune discrasie cui la mancata ponderazione degli effetti della riforma rischia di portare.

    Il nucleo autentico della questione risiede nel fatto che i problemi oggetto del d.l. 168/2016 vengono affrontati “a bocce ferme”.

    L’operazione, intesa ad un miglioramento dell’efficienza – in buona sostanza, questo essendo il fine ultimo della riforma – non incide, infatti, sul piano né delle risorse (umane e di mezzi), né degli strumenti giuridici disponibili, tentando, invece, correttivi ad un sistema già al limite delle proprie potenzialità. Come a dire che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia.

    Uno degli ambiti di incidenza della riforma de qua è il termine di legittimazione per il trasferimento, che da triennale diviene quadriennale. La modifica in sé non appare rivoluzionaria, attese le pregresse oscillazioni già registrate (originariamente biennale, il termine divenne quadriennale nel 1991 ed, infine, triennale nel 1998), ma risulta in stridente contrasto con gli obiettivi cui il d.l. 168/2016 apertamente si richiama. Tra questi si delinea, in particolare, la necessità di stabilizzare le sedi – nei fatti – disagiate, ponendo fine a quell’esodo di magistrati che, maturato il periodo di legittimazione, ordinariamente si affollano in direzione di sedi più ambite, o magari soltanto meno impossibili da gestire.

    Le ragioni per le quali il mezzo (l’aumento del periodo di legittimazione) appare incongruo rispetto al fine sono molteplici.

    In primis , e forse banalmente, risulta illogico ritenere che la soluzione del problema passi attraverso un prolungamento forzoso – spesso indesiderato e, francamente, indesiderabile – della permanenza del magistrato nell’Ufficio. Si tratta di un approccio punitivo del singolo, che rischia di sortire effetti contrari a quelli auspicati, quantomeno in termini di umana frustrazione.

    Non è una novità parlare di solitudine del magistrato, sovente costretto a misurarsi con una dotazione scarna di mezzi, del tutto inadeguata a fronteggiare le complesse questioni che è chiamato a risolvere; il congelamento nell’Ufficio di destinazione, quasi si trattasse di un novello sottotenente Drogo di buzzatianamemoria, risulta obiettivamente idonea ad innescare un aumento esponenziale nella percezione di questo aspetto, con inevitabili ricadute negative in termini di produttività: la sensazione dell’abbandono, quando non il vendicativo spirito di rivalsa di chi si sente dimenticato/costretto, sono dati che necessitano di essere adeguatamente ponderati prima di intraprendere riforme suscettibili di incidere in maniera così sensibile sulla libertà individuale del singolo. Non si può dimenticare, infatti, come le sedi – specie di prima nomina, ma non solo, essendo ben raro che il magistrato riesca ad arrivare a breve nella sede di elezione, dovendo più spesso accontentarsi di procedere per approssimazioni progressive – raramente corrispondano ai desiderata del neo-magistrato, implicando, anzi, rinunce ed una riorganizzazione della propria vita, quantomeno sotto il profilo della sfera degli affetti.

    In secondo luogo, l’aumento propugnato dal Governo risulta inutile nei termini in cui è proposto, atteso che, di fatto, il termine di legittimazione soffre necessariamente un prolungamento, dovuto a variabili non preventivabili (quali l’uscita del bando, la disponibilità di una sede appetibile, la presenza di sufficiente punteggio di anzianità per ottenerla, la richiesta di ritardato possesso, etc.); cosicché, il termine quadriennale si avvicina, in effetti, al quinquennio.

    Tale dato, peraltro, rischia di avere una negativa incidenza anche sul versante della mobilità dei magistrati in vista del mutamento di funzioni; se, infatti, la sussistenza di un termine triennale di legittimazione può indurre il magistrato ad optare per un ulteriore trasferimento, in attesa della maturazione del termine per il passaggio di funzioni, la modifica normativa comporterà una netta riduzione di tale eventualità, dovendo il magistrato attendere un ulteriore lustro prima di potere presentare una successiva domanda. Con ciò profilandosi, peraltro, l’ulteriore quesito se davvero la mobilità dei magistrati sia esclusivamente foriera di effetti negativi, e debba dunque essere ostacolata dal legislatore.

    Ancora, l’innalzamento del termine induce, necessariamente, una maggiore ponderazione nelle scelte dei magistrati. Non tanto da parte dei mot, i quali, avendo a disposizione esclusivamente le sedi di prima nomina, sono chiamati obbligatoriamente a scegliere tra quel ventaglio di possibilità (anche se occorre prendere atto, alla luce dell’allungamento della permanenza coatta nell’ufficio, dell’importante aggravio di disparità che si verrà a creare tra concorsi “fortunati” e non, in termini di appetibilità delle sedi disponibili), quanto piuttosto dei magistrati che abbiano già maturato il termine di legittimazione, i quali, se in presenza di un termine triennale – che, tutto sommato, consente una programmazione della propria vita su di un arco temporale di media entità – potevano essere più propensi a scegliere sedi anche disagiate per le più disparate ragioni (esemplificativamente l’avvicinamento alla famiglia o l’esperienza in territori di confine), nell’attualità saranno maggiormente restii a tale scelta, dovendo, in ipotesi, ipotecare circa un quinquennio della propria vita.

    Non convince, ancora, il prospettato beneficio dell’aumento della produttività del singolo al raggiungimento del quadriennio di permanenza: in generale, perché solo allora il magistrato avrebbe una piena conoscenza del ruolo e delle specificità dell’Ufficio; nello specifico, attesa la necessità del mot di formarsi e di acquisire maggiore dimestichezza con la professione.

    Tale affermazione risulta, per come enunciata, quantomeno apodittica, quando non fuorviante. A prescindere, infatti, dalla palese soggettività del parametro, e dalla estrema variabilità dell’indice della produttività anche nella vita professionale dello stesso individuo, non può non rilevarsi come l’affermazione sia stata cesellata con mano ferma, ma in assenza di qualsivoglia richiamo a dati statistici.

    Ma ciò che maggiormente colpisce e lascia perplessi è come questa enunciazione di principio confligga insanabilmente con un altro caposaldo del decreto 168/2016: la riduzione del tirocinio formativo da diciotto a dodici mesi.

    Vero è che l’art.3 del d.l. limita detta riduzione a due soli concorsi (quelli indetti negli anni 2014 e 2015), ma appare ragionevole ritenere che si tratti di una previsione destinata ad entrare “a regime”, secondo il profetico aforisma di Flaiano per cui in Italia “ ..nulla è più definitivo del provvisorio..”.

    Questo aspetto della riforma, passato tutto sommato sotto silenzio – forse anche in ragione della limitata voce associativa dei mot – risulta, in realtà, allarmante: la chirurgica amputazione di un terzo (cherichiama analoga, recente diminuzione, che tanto scalpore ha suscitato – i.e. in materia di ferie) investe quel percorso di formazione che dovrebbe fare del concorsista teorico un magistrato pronto a confrontarsi con la complessità tanto dell’Ufficio, quanto della realtà.

    La novellacomporta, invece, che il giovane magistrato, nel volgere di un anno soltanto, debba affrontare il tirocinio generico negli uffici sia requirenti, sia giudicanti civili e penali – con tutte le relative specificità, esemplificativamente in termini di specializzazione – il tirocinio mirato, nonchè il periodo di formazione presso la Scuola Superiore della Magistratura. Quid pluris?

    Tale modifica stupisce, invero, sotto molteplici punti di vista; a tal punto, da residuare il dubbio della effettiva sussistenza quantomeno di un aspetto positivo.

    Che la durata del tirocinio formativo abbia subìto importanti oscillazioni nel corso degli anni, non è un novum. Se il precedente c.d. uditorato consisteva, infatti, di un biennio, da trascorrere pressoché interamente presso gli uffici giudiziari, successivamente i c.d. mot hanno dovuto confrontarsi con un periodo di formazione della durata di diciotto mesi, suddivisi tra uffici giudiziari – dodici mesi, non continuativi – e tirocinio presso la sede di Scandicci della Scuola Superiore della Magistratura – sei mesi, non continuativi –

    Trascorso un decennio dal varo della riforma, è stata la Commissione Vietti ad intervenire in parte qua, traendo le mosse dall’esperienza maturata “sul campo” grazie ai mot che si erano avvicendati sui banchi della scuola.

    Dalle conclusioni sul punto riversate nella relativa Relazione, si evince che, se il c.d. uditorato peccava di un eccesso di pratica, ad avviso della Commissione il nuovo (ma ormai previgente) tirocinio formativo risultava tanto frammentario, quanto eccessivamente teorico. Dal connubio di tali esperienze, la Commissione Vietti ha ritenuto di individuare il punto di equilibrio nella previsione – meramente propositiva – di un tirocinio della durata di quindici mesi, dodici dei quali da trascorrere negli uffici giudiziari, residuandone tre da dedicare alla formazione/approfondimento nelle sessioni presso la Scuola.

    Come si inserisce in tale alveo il d.l. 168/2016? Non vi è solo una prepotente ed immotivata pretermissione dei risultati dello studio della Commissione; vi è, di più, un totale sovvertimento delle conclusioni – quelle sì motivate – raggiunte nella citata Relazione, in particolare di quella maturata sulla scorta dell’esperienza vissuta negli ultimi anni, in virtù della quale è stato ritenuto del tutto insufficiente un periodo di soli dodici mesi presso gli uffici giudiziari.

    La riforma attuale va ben oltre, comprimendo nell’arco dei citati dodici mesi, non solo tirocinio generico e tirocinio mirato, ma anche periodo di formazione presso la Scuola.

    Ancora una volta è possibile intravvedere, nelle pieghe di questa parte della riforma, l’imprinting della velocità, sotto un duplice angolo prospettico: da un lato, la novella ottiene un indubbio contenimento dei costi, attraverso una riduzione di un terzo del periodo di formazione (inteso, lapalissianamente, quale lasso temporale di non-produttività del magistrato), dall’altro, raggiunge l’obiettivo di immettere nel circuito-giustizia, con sei mesi di anticipo, centinaia di magistrati per ogni nuovo concorso bandito.

    Quali le conseguenze, dirette ed indirette?

    Certamente, una più immediata copertura di posti ed un (auspicato) incremento di produttività.

    Ma è davvero così? Si tratta di una scelta lungimirante? E soprattutto, si tratta di un’opzione coerente con gli altri capisaldi della riforma?

    Per quanto riguarda il primo dei due obiettivi strenuamente perseguiti, corre obbligo di segnalare come la tangibile copertura fisica di un posto non tenga conto della realtà dei fatti, ovvero della necessaria pregressa formazione del singolo, non solo dal punto di vista teorico e pratico, bensì pure nella sua identità di magistrato. La riforma, infatti, a ben vedere, sacrifica insanabilmente quell’unico periodo di crescita del giovane, nell’ambito del quale soltanto può estrinsecarsi e formarsi la personalità del magistrato in quanto tale; solo allora, infatti, il mot, scevro dalle preoccupazioni che ordinariamente affollano la quotidianità della professione (scadenze, urgenze, impegni da rispettare, etc.), ha la possibilità di misurarsi – e di prendere le misure – con una attività che gli richiederà, in prosieguo, decisioni vieppiù veloci ed, allo stesso tempo, ponderate.

    Dunque, da parte del legislatore, una contraddizione in termini, con il concreto rischio dell’inceppamento dell’ingranaggio. E della conseguente vanificazione di quel mito,tanto perseguito, della velocità sia del sistema, sia dei singoli che lo compongono.

    A tale dato, peraltro, necessariamente si associa la considerazione della frequente destinazione dei mot di prima nomina ad uffici c.d. “di frontiera”, ove alle ordinarie difficoltà della professione, si aggiunge la cifra (oscura) di emergenze, tanto sociali quanto criminali, di scopertura di organici, etc. Con il perverso effetto di riversare, su coloro che per ultimi hanno fatto ingresso nelle file della magistratura, sia le conseguenze di una formazione non adeguata, sia le difficoltà connaturate alle sedi (nei fatti, disagiate) cui sono destinati.

    In secondo luogo,tale aspetto della riforma non tiene il passo con un altro degli obiettivi perseguiti, ovvero la produttività.

    Per la semplice ragione che un magistrato non (sufficientemente) preparato è, fuor di metafora, lento. Irrimediabilmente.

    Perché maggiore è lo spazio dedicato allo studio di questioni mai affrontate neppure teoricamente; perché maggiore è il tempo riservato alla ponderazione; perché, non da ultimo, maggiore è il timore di sbagliare.

    Se tale è l’effetto della riduzione del tirocinio, non si può non vedere come la stessa collida, anziché incentivarla, anche con la prospettata – nonché perseguita attraverso l’innalzamento del periodo di legittimazione – maggiore produttività del magistrato al raggiungimento del quarto anno di permanenza presso il medesimo ufficio.Questo ipotetico circolo virtuoso soffre, in realtà, un vulnus in premessa, quantomeno per i magistrati di prima nomina: il magistrato impreparato non sarà affatto più produttivo al termine del quadriennio, né potrà vantare una produttività pari al mot formatosi secondo l’(ormai pre-)vigente sistema, scontando pur sempre uno svantaggio iniziale.

    Ulteriore aspetto del tirocinio sul quale la riforma interviene a gamba tesa è il periodo deputato alla formazione c.d. teorica, di competenza diretta della Scuola Superiore.

    L’intervento è a tal punto tranchant da ridurre, ipso facto, il semestre previamente dedicato a tali attività a soli trenta giorni.

    L’equivoco che acceca il legislatore consiste, in realtà, nel ritenere le sessioni presso la Scuola momenti formativi di matrice eminentemente teorica.

    In senso contrario, si evidenzia, in primis, come il predetto semestre fosse, invece, suddiviso in due tranches, l’una delle quali – pari a quattro mesi – da trascorrere presso la sede di Castelpulci, l’altra –pari ad un bimestre – già “decentrata” attraverso la previsione di una rete di stages dal taglio prettamente pratico (presso la Polizia Giudiziaria, gli Istituti di Pena, la Corte di Cassazione, etc.).

    Peraltro, la stessa impostazione della Scuola si è mossa nel segno di una crescente aderenza alle necessità via via manifestate dai mot, a volte proponendo percorsi tematici richiesti da questi ultimi, a volte introducendo specifiche esercitazioni pratiche, a volte semplicemente modificando i dettagli di quanto già proposto. Tanto è stato reso possibile anche in virtù del canale di comunicazione sempre curato (attraverso la garanzia dell’anonimato e la costanza degli interpelli rivolti alla giovane utenza della neonata Scuola) e mai disatteso (tanto nella pubblicazione dei risultati delle schede di valutazione, quanto nel feedback offerto dalla rimodulazione di alcune scelte organizzative sia formali sia sostanziali).

    L’errore, dunque, nel quale è incorso il legislatore consiste nell’avere ritenuto la Scuola un istituto erogatore di mere esperienze didattiche frontali, destituita di qualsivoglia collegamento con la realtà pratica. Nulla di tutto questo. O meglio, non solo. Perché la Scuola ha, in realtà, inteso porsi quale complemento dell’attività presso gli Uffici Giudiziari, nonché quale collettore di esperienze comuni. A Scandicci è, infatti, stato possibile confrontarsi con tutto ciò che la pratica quotidiana presso i propri affidatari ordinariamente non è in grado di fornire, per motivi contingenti, ovvero per ridotte dimensioni della sede di CdA o per carente specializzazione.

    Non ogni tirocinio è uguale all’altro, così come non lo è ogni affidatario, mot, ufficio, etc.

    L’istituzione di un centro unico nel quale far convergere centinaia di giovani ha avuto, dunque, la funzione di attrarre plurime esperienze, consentendone una fruizione condivisa da tutti.

    Con l’innegabile, duplice vantaggio, sia di dare maggiore uniformità alle esperienze dei neo-magistrati, sia di creare una rete comune tra costoro. Soprattutto quest’ultimo aspetto merita di essere valorizzato, perché, per la prima volta, magistrati provenienti da diverse latitudini hanno avuto l’occasione di trascorrere insieme periodi sufficientemente lunghi da consentire la nascita di quell’affiatamento che, solo, ha permesso una condivisione di esperienze inusitata, così veicolando una conoscenza migliore – reale e non più tralaticia – delle differenti realtà da cui è attraversata la Penisola.

    Questa esperienza, che già aveva dato buoni frutti, è stata immantinente ed immotivatamente messa al bando. Di più: al di là delle cennate carenze della scelta operata dalla riforma, ciò che ne emerge è uno scarso coordinamento con una delle più recenti novità normativein tema di reclutamento dei concorsisti.

    Costoro, infatti, possono ormai optare, quali titoli legittimanti la partecipazione al concorso, tra i due anni di Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali ed i diciotto mesi di Tirocinio Formativo presso gli uffici giudiziari; opzione, quest’ultima, che sta ottenendo la maggioranza dei consensi degli aspiranti magistrati.

    Rebus sic stantibus , risulta evidente la necessità di differenziare le esperienze formative vissute dai giovani magistrati, conferendo maggiore pregio alla presenza di una formazione che, successivamente al superamento del concorso, si svolga (anche) in una sede differente rispetto al (continuum del) tirocinio presso gli uffici.

    Luci ed ombre, dunque, di una riforma, i cui tratti essenziali, al di là delle enunciazioni di principio, non risultano ancora sufficientemente amalgamati, soprattutto nell’ottica del perseguimento di un fine ultimo, quale parrebbe – in premessa – essere la garanzia di un servizio giustizia efficiente per il cittadino.

    Ma efficienza e velocità sono concetti distinti.

    Ed il concetto di velocità, d’altra parte, non si conviene al maratoneta, quale è, a ben vedere, ogni singolo magistrato.

    Silvia Zannini

    Sostituto Procuratore

    presso la Procura della Repubblica di Lecco

    nominata con d.m. 18.06.2012

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    Formazione giuridica e selezione dei magistrati


    1. Se all’inizio del secolo XIX, la Facoltà di Giurisprudenza era considerata come posta all’incrocio fra teologia, medicina e filosofia e destinata, come le altre, all’educazione spirituale dell’individuo, già pochi decenni dopo il trionfante positivismo, la nascita delle scienze sociali, la rivoluzione industriale, l’espansione egemonica della borghesia conducevano a un nuovo rapporto tra il sapere e il fare, nel quale - poiché il lavoro va svolto efficientemente - il sapere tende a diventare saper fare tecnico-funzionale, indirizzato verso la specializzazione. Questa tendenza è oggi rafforzata dal fatto che il diritto ha perso unità interna, si è distaccato anche dalle sovranità statali e non ha più un centro: risulta contingente, frutto di volontà incoese e incostanti, spesso arbitrario. Il sapere giuridico si frantuma in una molteplicità di conoscenze settoriali e la dottrina, che avrebbe il compito di delineare e razionalizzare il sistema, è diventata timida nei riguardi della giurisprudenza e delle leggi speciali e non si cura di integrarle in un sistema: si è smembrata in piccole scuole, separate dal metodo e dall'ideologia, spesso politicizzate e tormentate da dubbi nei confronti delle finalità stesse della scienza giuridica. Si vive un periodo di incertezza e confusione metodologica. Un giurista completo è impensabile e risulta più appropriato parlare di esperti giuridici o esperti legali. Nel quadro della tecno-economia ogni funzione esige un’abilità specifcia e il sapere assume il valore di una competenza tecnica che si vende e si compra tramite testi e corsi appositamente concepiti per soddisfarecrediti/debiti formativi, competizione, efficienza, abilità, test, competenza, servizi1.

    2. Questa impostazione, che ormai permea anche le Università, è palese nei corsi di specializzazione e nei corsi privati di preparazione ai concorsi, in particolare all’esame scritto per magistratura. L'ormai mutato (e prolungato) percorso preliminare all’accesso al concorso alla magistratura ha modificato sensibilmente la formazione degli aspiranti magistrati, determinando nei fatti una convivenza tra iniziative private di formazione e Scuole di Specializzazione per le Professioni legali (SSPL) che è fonte di problemi.

    Nel 2014, per la prima volta la Scuola Superiore della Magistratura (SSM), valutando l’importanza della preparazione pre-concorsuale e le influenze del sistema di vigente sul periodo di formazione iniziale dei vincitori del concorso, ha promosso una riflessione sul sistema di accesso alla magistratura, coinvolgendo i direttori delle SPL, magistrati componenti dei relativi direttivi, formatori privati e, soprattutto, neo-magistrati e aspiranti magistrati. E’ stato analizzato anche il sistema di reclutamento, comparandolo con quello di altri ordinamenti europei, nonché l’impiego negli uffici giudiziari dei tirocinanti previsti dal decreto legislativo n. 69/2013 (convertito nella legge n. 98/2013) e le successive modifiche.

    3. Attualmente si scaricano sul concorso per la magistratura ordinaria (sia per l’eccessivo numero di laureati in giurisprudenza, sia per la scarsità di altri concorsi nella P.A., sia per le nebulose prospettive della professione di avvocato) le aspettative di migliaia di laureati in giurisprudenza privi di concrete possibilità occupazionali. In realtà, le SPL sono frequentate perché è necessario per accedere al concorso, ma risulta che in realtà il 70/% circa dei vincitori del concorso si è preparato alla prova tramite una scuola privata. Però le scuole private se possono risultare efficaci nel preparare a superare il concorso, non servono a formare un buon magistrato. I formativi tirocini presso gli uffici giudiziari, se ben svolti (e non si può sapere se e come e dove questo avviene), possono fornire una buona preparazione iniziale al futuro magistrato ma non preparano per le prove d’esame del concorso per la magistratura. La SSM interviene, in ogni caso, dopo l’ingresso in magistratura.

    4. Inoltre, negli ultimi anni, verosimilmente per ridurre il numero di quelli che consegnano le prove, la scelta dei temi delle prove privilegia spesso questioni periferiche rispetto ai nuclei fondamentali della preparazione del giurista forense. Questo aumenta il rischio di scartare candidati dalla preparazione solida, ma spiazzati da un tema anomalo, e di favorire coloro che, in qualche modo, si sono trovati nella condizione di affrontare il tema anomalo, producendo una selezione deviante, ingiusta verso gli individui coinvolti e socialmente disfunzionale.

    In generale - sia per la maggior durata del corso universitario, sia per la dilatazione temporale derivante dall’interpolarsi delle SPL nel sistema di accesso al concorso, sia per la reiterazione dei tentativi di superare la prova, avviene che - il concorso viene superato in un’età sensibilmente superiore a quella dei decenni scorsi (e pertanto per un numero di anni minore rispetto al passato sarà offerto alla società il frutto della preparazione acquisita) e una massa di laureati impiega anni, denaro e energie per approdare a un fallimento. E’ chiaro che questi meccanismi privilegiano chi beneficia di migliori condizioni economiche e di maggiori risorse temporali, magari accedendo alla magistratura dopo anni nei quali non svolto attività lavorativa, Ancora: gli anni, i denari e le energie trascorse per superare una selezione così congegnata non affinano sensibilmente la preparazione giuridica ma soltanto le tecniche e le nozioni utili per superare il concorso, diverse da quelle più specificamente utili per esercitare adeguatamente la giurisdizione.

    4. Questo sistema irrazionale va cambiato perché influisce negativamente sulla qualità dei magistrati e della Giustizia. I magistrati hanno interesse a preoccuparsene e l’ANM ha il dovere di occuparsene.

    Varie idee potrebbero svilupparsi al riguardo, ma sembra utile fissare (qui apoditticamente e in modo piuttosto succinto) alcuni punti, tenendo conto di quanto è ragionevole e concretamente fattibile modificare senza distruggere, anzi rivitalizzando le istituzioni già esistenti (SSPL e SSM).

    In primo luogo, i piani di studio universitari devono delineare, nel secondo biennio, un percorso di formazione verso le professioni forensi distinto da altri percorsi, dando adeguato spazio a materie che dovrebbero costituire, anche più che nel passato, le basi metodologiche delle professioni forensi: l’ermeneutica giudiziaria, la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria, lo studio del diritto comparato entro i confini dell’Unione Europea. Occorre insegnare a padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative imperniate sulla normazione ‘per principi’ oltre che ‘ per regole’ e del diritto giurisprudenziale.

    La successiva formazione dei magistrati e degli avvocati va mantenuta comune all’interno delle SSP per poi diversificarsi attraverso distinti meccanismi di selezione che conducano i primi alla SSM e i secondi all’accesso alla Avvocatura. Quel che pare fondamentale è che si appronti un meccanismo di selezione dei magistrati non più imperniato sulla sfida/scommessa del concorso basato sulle prove attuali, ma che si sviluppi gradualmente lungo un percorso teorico-pratico pluriennale diretto verso la Scuola Superiore della Magistratura con l’apporto dell’Ordine Giudiziario, di quello Forense e dell’Università. Occorre un meccanismo di selezione graduale che - senza traumatismi - scarti gli inidonei e - nel tempo - selezioni i più adeguati, facendo così lievitare la cultura giudiziaria, e che potrebbe incentrarsi sui punti che seguono: una percentuale dei posti andrebbe riservata a quanti (da non pochi anni) e con collaudata esperienza (da valorizzare stabilizzandone il ruolo) svolgono concretamente attività giudiziaria come magistrati onorari (g.o.t e v.p.o.); l’accesso alle SPL dovrebbe avvenire mediante selezioni su base nazionale che assegnino, poi, a ogni singola SPL un numero di corsisti sostenibile che segua un percorso di formazione delineato secondo le direttive della SSM; l’accesso alla SSM dovrebbe avvenire mediante una ulteriore selezione nazionale dotando i corsisti di borse di studio o di analoghi meccanismi retributivi (come nella fase inziale della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione) e munendo coloro che non superano il concorso finale di un titolo spendibile per i concorsi pubblici o per l’attività lavorativa privata.

    Angelo Costanzo

    1 S.Patti, Metodo e tendenze del diritto civile in Europa, in: Europa e diritto privato, fasc.3, 2011, p.647; N.Irti, La formazione del giurista, in: Rivista giuridica degli studenti dell’Università di Macerata, 2010), pp. 29-3. Sul tema i vari contributi raccolti in: C.Angelici (a cura di) La formazione del giurista: atti del Convegno, Roma, 2/7/2004. Milano, Giuffrè, 2005; La formazione del giurista nel 21° secolo: seminari dell'Istituto di esercitazioni giuridiche, a cura di Paola Olivelli, Macerata: EUM, 2009. Per una visione anche comparatistica del sistema italiano: M.A. Livingston, P.G.Montaneri, F.Parisi, The Italian Legal System. An Introduction, Second Edition, Stanford University Press, 2015

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    Rapporti tra Procure e Procure Generali

    Prospettive di riforma: nuovi rapporti tra procuratore della Repubblica e procuratore generale?  Corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale e rispetto delle norme sul giusto processo: nuove posizioni di garanzia


     

    Uno degli aspetti più delicati della discussione in atto sul futuro assetto della magistratura e sulle sue articolazioni organizzative, riguarda il rischio diesondazione” della Procura Generale presso la Corte di Cassazione e delle Procure Generali presso le Corti d’Appello.

     

    Uso la definizione in qualche modo provocatoria di “rischio di esondazione” delle Procure Generali a fini evidenti di stimolo dialettico, perché sono assolutamente convinto della necessità di riflettere collettivamente sul tema e di difendere -mantenendola operante – l’attuale struttura dell’Ufficio del Pubblico Ministero che il nostro ordinamento non prevede affatto come gerarchicamente organizzato, con una base costituita dalle Procure della Repubblica presso i Tribunali del Distretto, un vertice identificabile nella Procura Generale presso la Corte di Cassazione ed un livello intermedio identificabile nelle Procure Generali presso le Corti d’Appello, competenti a “dirigere” le Procure presso i Tribunali e/o a coordinarne l’attività investigativa.

     

    Il tema sta diventando di straordinaria attualità anche per effetto di alcune prassi “anomale” di cui si parlerà appresso, la cui diffusione si spiega soltanto – pur se nessuno vorrà ammetterlo – con una concezione gerarchico-piramidale dell’Ufficio del Pubblico Ministero, rispetto alla quale anche il Consiglio Superiore della Magistratura, con due importanti risoluzioni del marzo e dell’aprile di quest’anno, ha ritenuto di dover dare risposta adeguata per evitare ingiustificate derive.

    Non è neppure escluso che questa tendenza all’iperattivismo di vari Procuratori Generali tragga origine dal fatto che alcuni di essi hanno, in precedenti fasi della loro carriera, svolto efficacemente il ruolo di Procuratore della Repubblica e/o di coordinatore di specifiche ed importanti indagini, il che li induce a ritenere possibile la prosecuzione di quella attività nell’attuale diverso ruolo. Se così fosse – è chiaro – si tratterebbe di lodevole motivazione che, però, non può non fare i conti con il nostro sistema ordinamentale.

     

    Per esigenze di sintesi, è bene tralasciare l’elencazione di sintomi della diffusione di tale “virus” che si erano manifestati in precedenza ed illustrare le problematiche più recenti, in particolare quelle emerse nell’ultimo anno, restando ancorati a fatti concreti.

     

    La ipotesi di auto-attribuzione ai Procuratori Generali di compiti di coordinamento investigativo

    La nota dell’1 luglio 2015 del Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo sul coordinamento delle indagini in materia di terrorismo e sulle ritenute competenze dei Procuratori Generali.

     

    Con nota dell’1 luglio 2015, il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, all’esito di riunione dei Procuratori Generali delle Corti d’Appello indetta dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione (riunione cui non avevano preso parte i Procuratori Distrettuali, che pure sono titolari dell’azione penale in relazione ai reati di matrice terroristica), rivolgendosi a Procuratori Distrettuali ed ai Procuratori Generali stessi, formulava alcune proposte ritenute utili al fine di coordinare le indagini in tema di terrorismo internazionale ed auspicando a tal proposito la predisposizione di protocolli d’intesa.

     

    Tali proposte, in sintesi, riguardavano:

    l’ampliamento di fatto delle fattispecie tipiche attratte dalla competenza distrettuale, anche oltre quanto previsto dall’art. 51 co. 3 –quater cpp.

    Si ipotizzava, cioè, che, al di là della previsione di cui all’art. 51 co.3 quater cpp, le Procure ordinarie presso i vari Tribunali del Distretto debbano trasmettere per competenza alle Procure Distrettuali i procedimenti iscritti anche per una serie di altri reati (ad es., quelli di cui agli artt. 497 bis cp, 497 ter c.p. e art. 2 bis L. 2 ottobre 1967 n. 895, in tema di addestramento all’uso delle armi ed esplosivi);

    in ogni caso, anche a prescindere dall’invio per competenza del fascicolo processuale, la trasmissione per conoscenza, sempre da parte delle Procure ordinarie competenti per territorio, alla Procura distrettuale di copie di tutte le informative per una ancor più ampia lista di cd. reati- spia (in particolare, per innumerevoli delitti come quelli in tema di stupefacenti ed armi, di ricettazione di documenti di identità, di trasferimento di valori, di associazione per delinquere finalizzata a tali reati, di omicidi, tentati omicidi etc.) allo scopo di favorire l’estensione e l’utilizzo di apposite banche dati in chiave investigativa;

     

    e, venendo al punto che qui più interessa:

    la sostanziale estensione dei poteri dei Procuratori generali presso le corti d’appello con attribuzione ai medesimi di compiti di coordinamento delle indagini in materia di terrorismo (attraverso la organizzazione “riunioni tra i magistrati della procura distrettuale e i magistrati delle Procure ordinarie... per lo scambio di dati, notizie ed informazioni”).

     

    Il 21 luglio 2015, lo scrivente, quale Procuratore della Repubblica di Torino, inoltrava al PNAA, al CSM, al Procuratore Generale presso la Cassazione ed a quello presso la Corte d’Appello di Torino, una missiva con cui, oltre a dichiararsi in dissacordo sulle prime due proposte1, negava la sua disponibilità a redigere i suddetti protocolli organizzativi miranti al riconoscimento di un ruolo di coordinamento investigativo da attribuirsi al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello.

    In via preliminare, osservava anche che l’iniziativa dei “protocolli organizzativi” non possa fondarsi solo sull’intesa tra i procuratori generali presso le corti d’appello e la PNAA, ma debba necessariamente coinvolgere i procuratori distrettuali in ragione della loro titolarità dell’azione penale ai sensi dell’art. 51 co. 3 – quater cpp (che, come è noto, si trasferisce ai procuratori generali solo in casi specifici previsti per legge e presuppone comunque l’avocazione dei procedimenti penali), così come appare fuori dalle loro competenze procedurali ed ordinamentali (salvo quanto appresso si dirà) prevedere che i procuratori generali delle corti d’appello possano organizzare, in via ordinaria, riunioni tra i magistrati delle procure distrettuali e circondariali per lo scambio di dati, notizie ed informazioni in relazione a reati che potenzialmente riguardino la criminalità organizzata di tipo terroristico-eversivo. Si tratterebbe di un’attività che, per quanto noto allo scrivente, i procuratori generali delle corti d’appello non hanno mai svolto in relazione a procedimenti per reati di matrice mafiosa, di competenza delle DDA. Non si comprende, in particolare, su quale base normativa possa essere introdotta la citata funzione di coordinamento dei Procuratori Generali.

    A tal proposito, citando norme a tutti ben note, ma comunque utili ai fini della presente relazione, va ricordato che:

    - l’art. 51 cpp prevede al co. 3 quater, in relazione ai delitti tentati o consumati con finalità di terrorismo, la competenza dell’Ufficio del PM presso il Tribunale del capoluogo del distretto; al comma 3 ter la competenza del procuratore generale – solo se ne fa richiesta il procuratore distrettuale – a disporre che le funzioni di PM per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente; e infine, al comma 2, che le funzioni di PM durante le indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado possano essere svolte da magistrati della procura generale presso la corte di appello solo nei casi di avocazione (ex artt. 372, 412 e 413 cpp);

    - gli articoli da 52 a 54 quater c.p.p. prevedono l’intervento del procuratore generale della Repubblica solo nei casi di astensione (ex art. 52 cpp), di necessità di risoluzione di conflitti negativi e positivi tra uffici del PM e di contrasti (ex artt. 54, 54 bis e 54 ter cpp), e di richiesta di trasmissione degli atti ad un diverso pm (ex art. 54 quater cpp);

    - l’art. 371 cpp (Rapporti tra diversi uffici del PM) prevede che “gli uffici diversi del PM che procedono ad indagini collegate, si coordinano tra loro (ndr.: dunque senza interventi esterni) per la speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime. A tali fini procedono allo scambio di atti e di informazioni…omissis”. Le esigenze di “speditezza, economia ed efficacia” che stanno alla base di tale coordinamento investigativo vedono protagonista e responsabile il procuratore della Repubblica, mentre l’intervento, a richiesta, del procuratore generale non è configurato come obbligatorio2 e può intervenire solo per risolvere eventuali criticità;

    - l’art. 371 bis cpp (Attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo) prevede – ai fini del necessario coordinamento – rapporti tra il procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo ed i procuratori distrettuali, non tra questi ultimi ed i procuratori generali presso le corti d’appello;

    - l’art. 372 cpp limita le ipotesi di diretto intervento dei procuratori generali presso le corti d’appello ai soli casi di avocazione delle indagini preliminari per ragioni specificatamente elencate, tra cui l’ipotesi in cui non risulti effettivo il coordinamento delle indagini previste dall’art. 371 co. 1 cpp e non abbiano dato esito le riunioni di coordinamento disposte o promosse dal procuratore generale anche d’intesa con altri procuratori generali interessati (così confermandosi che il coordinamento è materia riservata agli uffici del PM di primo grado ai sensi dell’art. 371 cpp e che l’intervento del procuratore generale è previsto solo per risolvere eventuali criticità manifestatesi). Dunque, non sono autorizzate iniziative d’ufficio del procuratore generale in assenza della sollecitazione del procuratore della Repubblica che tale difettoso coordinamento lamenti. In questa prospettiva, la definizione del procuratore generale quale “promotore” del coordinamento può accettarsi solo se ed in quanto tale organo sia sollecitato in tal senso da uno dei procuratori della Repubblica interessati, che, in ipotesi, si dolgano di un mancante o difettoso coordinamento in presenza di indagini collegate.

     

    - gli artt. 412 e 413 cpp riguardano altre ipotesi di avocazione da parte del procuratore generale, ma non gli attribuiscono compiti di coordinamento investigativo;

    - l’art. 118 bis delle Norme di attuazione del CPP di cui al D. L.vo 28 luglio 1989 n. 271 (Coordinamento delle indagini) prevede al co.1 obblighi di segnalazione al procuratore generale da parte dei procuratori della repubblica quando procedono per la lista di reati indicati nella norma (delitti di cui all’art. 407 co. 2 lett. “a”, nonché di cui agli artt. 452 bis, 452 quater, 452 sexies e 452 octies c.p.) e di ulteriore segnalazione del p.g. ai procuratori generali ed ai procuratori della repubblica del distretto interessati al coordinamento. Analoga notizia va data dal procuratore della Repubblica al procuratore generale allorquando procede ad “indagini collegate” con diverso ufficio del pubblico ministero (cfr. articolo 118 bis , comma 2, disp. att. c.p.p.). In questo caso, non vi è una limitazione a reati specifici. Il contenuto della informativa non è predeterminato onde va ricostruito logicamente avendo riguardo ai principi di leale collaborazione e alle ragioni dell’informativa stessa.

    Ma è pure previsto (co. 3) – ancora una volta – che il procuratore generale può riunire i procuratori della repubblica che procedono ad indagini collegate soloquando il coordinamento…non è stato promosso o non risulta effettivo”;

    La norma giustifica l’informazione solo nella prospettiva del coordinamento investigativo, nel senso che il procuratore generale può [non deve] attivarsi solo laddove emerga che tale coordinamento non sia stato promosso o non risulti effettivo. Risulta ragionevole supporre che l’iniziativa del procuratore generale debba essere sollecitata da uno dei procuratori interessati, proprio per soddisfare detta finalità di coordinamento. Un’iniziativa di ufficio del P.G. sembra difficilmente sostenibile ove si consideri che l’obbligo di informazione si deve considerare soddisfatto dalla rappresentazione del “fatto” che si proceda ad investigazioni per uno dei reati presi in considerazione dall’articolo 118 bis , commi 1 e 2, disp. att. c.p.p.: l’informazione deve essere completa, [solo] nel senso che deve indicare i presupposti fondanti l’obbligo di informativa [numero del procedimento, indagati, capo di imputazione e, nell’ipotesi di cui al comma 2, le ragioni del collegamento investigativo].

    Non vi è un obbligo di informazione, invece, che riguardi l’iter di tali investigazioni, né vi è spazio per una ulteriore sollecitazione informativa da parte del procuratore generale, per carenza di copertura normativa.

    Ciò è necessario, ma anche sufficiente, non rinvenendosi nell’ordinamento positivo norme legittimanti il potere del procuratore generale di “procurarsi” (o di ottenere) la notizia di reato, o di iniziativa o chiedendone la trasmissione al procuratore della Repubblica. Vanno utilmente richiamati, a conforto, gli argomenti spesi dal CSM nella risposta a quesito del 6 aprile 2011, in tema di avocazione, laddove si richiama l’attenzione sull’esigenza di confinare i poteri del procuratore generale a quelli tipici attribuitigli dal codice di rito e sul segreto investigativo;

     

    - le norme ordinamentali, infine, non prevedono alcuna competenza del procuratore generale presso la corte di appello in tema di coordinamento delle indagini preliminari collegate e gli attribuiscono unicamente (art. 6 D. Lgs. 20 febbraio 2006, n. 106- Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’art. 1, co., lett. “d” della legge 25 luglio 2005, n. 150) poteri di vigilanza sull’attività dei Procuratori della Repubblica del distretto3.

     

    In relazione ai citati rilievi critici del sottoscritto, la Procura Generale di Torino, con nota del 31 luglio 2015 diretta ai Procuratori del Distretto del Piemonte e della Val d’Aosta, elaborava possibili criteri di intervento delle Procure Generali, in veste di ufficio coordinante le indagini in materia di terrorismo.

    Secondo tali tesi, l’intervento del Procuratore Generale quale coordinatore delle indagini distrettuali in tema di terrorismo, sarebbe possibile ed anzi previsto non solo – come il sottoscritto ritiene - quando tale coordinamento non sia realizzato spontaneamente (o non sia realizzato effettivamente ed efficacemente) ad opera delle Procure del Distretto (come inequivocabilmente affermano il co. 3 dell’art. 118 bis Disposizioni di Attuazione del CPP ed il co. 1 bis dell’art. 372 cpp), ma in via generale e preventiva.

     

    Si tratta di una tesi che – come si è già visto - non ha aggancio normativo ed anzi è anche formalmente contraddetta dalla pure già citata previsione di cui all’art. 371 cpp (Rapporti tra diversi uffici del PM), la quale prevede che “gli uffici diversi del PM che procedono ad indagini collegate, si coordinano tra loro (ndr.: dunque senza interventi esterni) per la speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime. A tali fini procedono allo scambio di atti e di informazioni…omissis”;

     

    Nella sua nota del 31 luglio 2015, però, la Procura Generale di Torino, partendo da due condivisibili e già citati rilievi4, perveniva alla conclusione (che non pare in linea con le premesse) secondo cui, nel campo del terrorismo, il rafforzamento del potere di vigilanza del Procuratore Generale in ordine al collegamento di indagini in un settore criminale così delicato ed attuale sarebbe ancor più opportuno alla luce “della distrettualizzazione debole della competenza antiterrorismo in capo all’ufficio del capoluogo del Distretto, non avendo la legge preveduto in capo allo stesso un organo di coordinamento ed impulso centralizzato (come invece realizzato per i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso)”. Sicchè, “in sostanza, il Procuratore Generale, con le prerogative di cui all’art. 118 bis disp.att. c.p.p., ampie per alcuni versi ma limitate per altri, evita il formarsi, in materia di reati con finalità terroristiche, di un pericoloso vuoto organizzativo.

    In proposito, il sottoscritto non ritiene che ci si trovi di fronte ad una “distrettualizzazione debole” o ad un “vuoto organizzativo”, come ritenuto dalla Procura generale di Torino : posto che, infatti, la Direzione Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo esercita le stesse competenze in relazione sia ai reati di competenza della DDA che a quelli di cui all’art. 51 co. 3 quater cpp e posto che anche nel campo del contrasto dei reati di criminalità mafiosa (e comunque di quelli di competenza della DDA) non è previsto alcun intervento di coordinamento del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, la tesi della Procura generale di Torino richiederebbe evidentemente delle precisazioni su ciò che, a suo avviso, la nuova normativa non avrebbe previsto.

    Lo scrivente, tuttavia, nel tentativo di interpretare i citati riferimenti a “distrettualizzazione debole” ed a “vuoto organizzativo”, ritiene che la Procura Generale di Torino abbia inteso riferirsi al fatto che, nel campo del contrasto del terrorismo e dell’eversione dell’ordine democratico, non sia stata creata una “Direzione Distrettuale Antiterrorismo”, al pari della esistente “Direzione Distrettuale Antimafia”. Però, se così fosse le valutazioni della Procura generale non sarebbero egualmente condivisibili: la creazione di una “Direzione Distrettuale Antiterrorismo”, infatti, è stata oggetto di approfondito e consapevole dibattito in sede parlamentare (Commissione Giustizia della Camera dei Deputati), politica (incontro con tutti i procuratori distrettuali organizzato dal Ministro della Giustizia e dell’Interno) e consiliare (riunione tra molti Procuratori Distrettuali tenutasi presso il Consiglio Superiore della Magistratura)5. Orbene, la conclusione di questo ampio e pubblico dibattito è stata quella della non necessità della creazione di una Direzione Distrettuale Antiterrorismo, essendosi ritenuto sufficiente – anche ai fini del coordinamento investigativo – l’attuale attribuzione delle competenze in tema di contrasto del terrorismo alle Procure Distrettuali: né “distrettualizzazione debole”, né “vuoto organizzativo”, dunque, possono essere individuati nell’attuale normativa antiterrorismo, sicchè anche sotto questo profilo apparirebbe illogico attribuire alle Procure Generali funzioni di coordinamento diverse da quelle che già loro competono solo in presenza delle citate criticità.

    Lo stesso componente del CSM Antonello Ardituro, all’epoca presidente della VII Commissione del CSM, ha ben spiegato la condivisione, da parte del CSM, della scelta del legislatore di non utilizzare le DDA per le competenze in materia di terrorismo (vedasi il suo intervento nel corso del citato incontro del 18/19 giugno 2015 presso la Procura Generale della Cassazione).

    E pure il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nella stessa sede, nell’elencare i risultati positivi dell’attività di coordinamento dei Procuratori Generali, ha fatto riferimento unicamente ad attività e provvedimenti di tipo organizzativo e non certo investigativo.

     

    Va qui aggiunto che il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino, sempre in data 31 luglio 2015, ha diffuso a sostegno delle sue tesi, i testi degli interventi del Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, dr. Franco Roberti, e del Sost. Procurat. Generale presso la Cassazione, dr. Alfredo Pompeo Viola, nel corso del citato incontro dei Procuratori Generali presso le Corti d’Appello, tenutosi il 18 e 19 giugno 2015 presso la Corte di Cassazione: nei due interventi, pur utili e pregevoli per la ricostruzione del quadro normativo d’interesse, non si rinvengono argomenti che possano giustificare la trasformazione delle citate competenze di tipo organizzativo dei Procuratori Generali in competenze che includano anche il coordinamento investigativo.

    Nel primo dei due interventi, si rinvengono, anzi, analisi in qualche passaggio opinabili in relazione alle modalità ed al contesto in cui opera il terrorismo internazionale, nonché interpretazioni non condivisibili dell’art. 118 bis delle norme di attuazione del C.P.P. (pag. 4 citato intervento del PNAA)6 e riferimenti a prassi che si danno per attuate e diffuse in anni passati (pagg. 6 e 7 intervento PNAA7) e che non risultano in alcun modo allo scrivente, che pure – sia consentito ricordarlo a sostegno di quanto qui affermato - è stato tra i magistrati promotori delle riunioni spontaneamente organizzate, a fine di reciproco coordinamento, dalle Procure che si occupavano di terrorismo internazionale. Nel secondo dei due citati interventi, invece, si può individuare in molti passaggi un evidente tentativo di ampliamento concettuale degli effetti dei poteri di sorveglianza e delle prerogative del Procuratore Generale fino a ricomprendervi poteri ordinari di coordinamento investigativo non previsti dal sistema.

    E’ la stessa tendenza che può leggersi nella sintesi degli interventi di altri Procuratori Generali presenti al citato incontro del 18 e 19 giugno 2015; si vedano, in particolare, gli interventi del Proc. Generale di Ancona (che ha lamentato la sottrazione ai procuratori generali, a seguito della nuova normativa antiterrorismo, di quel residuo di potere che essi avevano in questa materia, venendo così “tagliati fuori” da qualsiasi competenza in tema di coordinamento), del Proc. Generale di Genova e di quello di Brescia.

     

    Una tendenza che si manifesta, addirittura, in prassi anomale che vedono talvolta procuratori generali indire e tenere conferenze stampa (che, tra l’altro, sarebbero in assoluto da limitare a casi eccezionali) per illustrare l’esito di indagini ed operazioni di polizia giudiziaria coordinate dalle Procure della Repubblica presso i Tribunali del Distretto.

     

    Non è possibile, per queste ragioni, neppure sul piano logico-residuale, attribuire ai Procuratori Generali presso le Corti d’Appello competenze in tema di coordinamento delle indagini in materia di terrorismo, come quelle ipotizzate nella nota del PNAA dell’1 luglio 2015 e negli altri interventi menzionati.

     

    A questo punto, è comunque doveroso per chi scrive ribadire la propria assoluta convinzione circa l’irrinunciabilità del coordinamento investigativo (non solo contro il terrorismo), tra uffici del Pubblico Ministero, unitamente – però – a quella secondo cui esso debba attuarsi nell’ambito delle previsioni di legge e non per effetto di protocolli che a tali previsioni non sarebbero perfettamente aderenti. Non è un caso del resto, che anche prima della istituzione della Direzione Nazionale Antiterrorismo, invocata da tutte le Procure della Repubblica impegnate nel contrasto del terrorismo stesso, il coordinamento in questione abbia tendenzialmente funzionato in modo soddisfacente sulla base di scelte spontanee delle Procure interessate ed in assoluta assenza di protocolli.

     

    Dunque, per quanto possa rilevare in questa sede, non è stato redatto a Torino alcun protocollo investigativo, come quello auspicato dal PNAA con l’accordo dei Procuratori generali : il coordinamento continua ad essere realizzato spontaneamente dalle Procure del Distretto del Piemonte e della Valle d’Aosta, come prevede la legge.

     

    Il Consiglio Superiore della Magistratura, a sua volta, sollecitato ad intervenire dal suddetto dibattito8, affermava nella Risoluzione in materia di organizzazione degli Uffici di Procura competenti per i delitti commessi in materia o con finalità di terrorismo. Rapporti con la Procura Nazionale antiterrorismo. Coordinamento investigativo, approvata il 16 marzo 2016, che:

     

    l’art. 6 del D.l.vo 106/2006 “non attribuisce certo al Procuratore Generale un potere di coordinamento investigativo che la norma non prevede ed il complesso sistema ordinamentale non consente, ma un potere di ricognizione e di diffusione delle buone prassi...senza escludere, evidentemente, che si possa pervenire a direttive di carattere generale distrettuale anche in materia di protocolli investigativi in senso stretto e di interpretazione condivisa di norme, laddove risultino però il frutto della unanime e condivisa valutazione di tutti i Procuratori del distretto. In questo ambito si inseriscono pienamente gli specifici poteri di coordinamento nella materia del terrorismo che derivano dalle espresse e combinate previsioni dell’art. 118 bis disp. att., dell’art. 372 co. 1 bis e dell’art. 407 co.2 lett. “a” c.p.p.. Dunque il legislatore è piuttosto chiaro nel sollecitare un coordinamento spontaneo tra le procure interessate, e nell’affidare solo in caso di inerzia o di inefficacia del coordinamento, al procuratore generale un potere di coordinamento che ancora una volta ha veste organizzativa, ovvero di indizione di una o più riunioni finalizzate a rendere effettivo il coordinamento tra indagini collegate….omissis… L’attuale previsione, dunque, sembra inserirsi coerentemente, sotto il profilo sistematico, nel più generale potere di vigilanza che compete al Procuratore Generale che, nella specifica e delicata materia dell’antiterrorismo, trova ulteriore legittimazione e conferma nelle norme richiamate, oltre che nel dovere di informazione che grava sulle Procure del distretto ai sensi dell’art. 118 bis disp. att. Cpp, con riferimento alle notizie relative ai “delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale..”etc., di cui all’art. 407cpp, comma 2, lettera “a” n. 4”.

    Conferma per altro verso tale assunto la considerazione che nessun margine di intervento, nemmeno in termini generali consultivi, è riservato al procuratore generale nel caso in cui il coordinamento presenti criticità nei diversi rapporti tra il Procuratore distrettuale ed il PNAA; anzi, a ben riflettere, il potere di coordinamento del procuratore nazionale delineato dall’art. 371 bis cpp rappresenta un ulteriore limite estrinseco alle potestà del procuratore generale…”

     

    Va dunque ribadito che il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, fatta eccezione per i citati casi in cui si rilevino criticità o omissione e fatto salvo l’obbligo di informarlo dei casi di indagini collegate come previsto per legge, non possa rivestire funzioni di coordinamento di indagini in tema di reati di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale9, non possa convocare riunioni dei Procuratori del Distretto a tale fine, né possa impartire ai Procuratori presso i Tribunali ordinari disposizioni circa la trasmissione al Procuratore Distrettuale di procedimenti per specifici “reati-spia” di quelli in materia di terrorismo.

     

     

    2. Le cd. “Avocazioni collaborative”: un’altra ipotesi di attribuzione alle Procure Generali di competenze investigative non previste dalla legge

     

    In data 31 luglio 2015, la Procura Generale di Torino ha proposto ai Procuratori della Repubblica del Distretto una riflessione sulla possibilità di dar vita alla prassi delle avocazioni concordate o – come da definizione del P.G. - delle “avocazioni collaborative”: una ipotesi che – va subito affermato in premessa – lo scrivente ebbe a giudicare del tutto impraticabile.

     

    Secondo la citata proposta:

    si potrebbe in qualche caso, ad es. quelli in cui siano scaduti i termini per le indagini preliminari o in cui l’avocazione sarebbe obbligatoria ex art. 412 co. 1 cpp., instaurare una sorta di best practice per rendere il tutto meno occasionale, casuale e incerto. Nel senso che, in ipotesi di pendenza nelle Procure di procedimenti di una certa importanza e di un certo peso che non si riesca a trattare adeguatamente per gli ulteriori impegni del PM assegnatario, quest’ultimo (o il Procuratore della Repubblica) possa segnalare la situazione alla Procura generale chiedendone l’avocazione prima e indipendentemente da ogni eventuale sollecitazione delle parti o degli avvocati ;

    tale ipotesi sarebbe peraltro in linea con quanto previsto dall’art. 127 Disp. Att. Cpp secondo cui “la segreteria del pubblico ministero trasmette ogni settimana al procuratore generale presso la corte di appello un elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non sia stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice”. Si tratta di un obbligo che – ha ricordato il P.G. – non è sempre rispettato dai magistrati della Procura, ma se tali comunicazioni fossero predisposte periodicamente (anche se non settimanalmente), con la indicazione dell’ oggetto dei procedimenti, della loro rilevanza oggettiva e soggettiva e delle ragioni del ritardo, si potrebbe determinare anche un maggiore rispetto, da parte dei sostituti assegnatari, dei termini per le indagini preliminari;

    di tutti i procedimenti per cui sono scaduti i termini per le indagini preliminari, il Procuratore Generale dovrebbe - o comunque potrebbe - disporre l’avocazione “collaborativa”, che andrebbe anzi incrementata. A sostegno di questa ipotesi, il Procuratore Generale ricordava che spesso, in occasione di richieste di informazione sullo stato del procedimento (in generale formulate a seguito di istanze di avocazione), i sostituti assegnatari hanno manifestato gradimento per l’avocazione del procedimento, sollecitando anche quella dei procedimenti connessi;

    tali provvedimenti di “avocazione collaborativa” sarebbero emessi e sottoscritti solo dal Procuratore Generale o dall’Avvocato Generale e ciò renderebbe omogenee le linee dell’ intervento avocativo in questione;

    la proposta servirebbe anche a conferire efficienza al sistema, nell’ambito del quale sono anche previsti i doveri di sorveglianza del Procuratore generale e le altre prescrizioni dell’art. 6 d.lgs. 106/2006.

     

    Tanto premesso, il sottoscritto ribadisce di seguito quanto ebbe a comunicare al P.G.:

    l’obbligo citato di comunicazione settimanale di cui all’art. 127 Disp. Att. Cpp è indiscutibile, in quanto previsto dalla legge : si potrà soltanto stabilire, se ritenuto utile o opportuno dal P.G., e comunque in base a sua esclusiva decisione, di consentire una dilatazione della periodicità di queste comunicazioni in considerazione dell’impegno che richiede alle segreterie del P.M., notoriamente in grande affanno;

    le comunicazioni di cui all’art. 127 Disp. Att. Cpp non possono che essere costituite da un mero elenco “delle notizie di reato contro persone note per le quali non sia stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice”, senza che sia richiesta all’ufficio del PM alcuna altra indicazione (come specificazioni sull’oggetto dei procedimenti, della loro rilevanza oggettiva e soggettiva e delle ragioni del ritardo) non prevista dalla legge. Ciò appesantirebbe ulteriormente ed ingiustificatamente il lavoro dei PM, indipendentemente dal discutibile rilievo secondo cui, in tal modo, i magistrati assegnatari dei procedimenti segnalati sarebbero ulteriormente motivati a concludere le indagini preliminari nel rispetto dei termini previsti10;

    la scelta di avocare o meno un procedimento, nei casi previsti dalla legge, non può che essere scelta esclusiva del Procuratore Generale, rientrante nelle sue competenze;

    appare invece impraticabile l’ipotesi secondo cui possa essere il PM assegnatario del procedimento a sollecitarne l’avocazione “prima e indipendentemente da ogni eventuale sollecitazione delle parti o degli avvocati”: si tratterebbe anzi di atto non in linea con i caratteri ordinamentali del nostro lavoro, al pari della eventuale sollecitazione (al di fuori dei casi di cui all’art. 570 co. 3 cpp) indirizzata al P.G. da un magistrato di una Procura presso il Tribunale per essere applicato in un dibattimento di appello e esercitarvi le funzioni di PM. Peraltro, su questo punto, anche il PG ebbe a manifestare identica valutazione e, nel nuovo progetto organizzativo della Procura di Torino varato dallo scrivente, figura la seguente previsione:

    21.a: Ulteriori direttive per i Sostituti attinenti la possibilità di applicazione a rappresentare la Pubblica Accusa in grado di Appello

    I sostituti, inoltre. comunicheranno al Procuratore della Repubblica la propria disponibilità, al di fuori dei casi di richieste ex art. 570 co. 3 c.p.p. (che saranno vagliate con i Coordinatori dei Gruppi specializzati cui appartengono), a rappresentare la pubblica accusa nei dibattimenti in grado di appello mediante applicazione ad hoc presso la Procura Generale della Repubblica.

    Il Procuratore, ferme restando le competenze del Procuratore Generale, riserva a se stesso la valutazione dell’opportunità di comunicazione formale di tale disponibilità al Procuratore Generale stesso, tenendo conto delle necessità e vacanze di organico dell’Ufficio.”

     

    Una direttiva dello stesso significato (pur se in termini evidentemente diversi) sarebbe anche doverosa – veniva comunicato al P.G. –qualora fosse confermata la ipotesi di sollecitazioni ad avocazioni provenienti dai sostituti di questo ufficio;

     

    la scelta e la decisione del Procuratore Generale di avocazione di un procedimento, come è noto, può anche essere oggetto di reclamo ex art. 70 co. 6 bis RD 30 gennaio 1941 n. 12, proprio perché soggetta a precisi parametri di legge la cui sussistenza è di esclusiva competenza del P.G., le cui valutazioni possono però non essere condivise dal Procuratore;

     

    al di là della ratio della previsione normativa in tema di avocazione, obbligatoria o facoltativa (rispettivamente previste ex art. 412 co. 1 e 2 cpp), non si rinviene nelle regole processuali alcuna altra ragione per concordare l’ “avocazione collaborativa” posto che il termine a disposizione del Procuratore Generale, per le ulteriori indagini preliminari indispensabili, è di soli 30 giorni (ex art. 412 co. 1, ult.parte, cpp), il che rende sostanzialmente irrilevante (o quasi) qualsiasi altra attività investigativa ed illusoria la possibilità di porre rimedio a difficoltà investigative del PM derivanti dai carichi di lavoro;

    i doveri di sorveglianza del Procuratore Generale di cui all’art. 6 d.lgs. 106/2006, non hanno, all’evidenza, alcun nesso con l’ipotesi di prospettata avocazione collaborativa e non possono, comunque, legittimarla11.

     

    In definitiva, ipotizzare una avocazione collaborativa è ipotesi non autorizzata dalle norme del codice di rito.

    Contrasta con i casi tassativi in cui è prevista l’avocazione [articoli 372 e 412 c.p.p.].

    E’ pericolosamente in contrasto con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale posto a carico del pubblico ministero, che finisce con l’esporlo a profili di responsabilità disciplinare, oltre che al rischio di omissioni di rilievo finanche penale [articolo 328 c.p.].

     

    E’ in contrasto soprattutto con il disposto dell’articolo 127 disp. att. c.p.p. .

     

    2.a: Giurisprudenza in tema di avocazione da parte del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello

     

    Torna utile a questo punto, anche ai fini di quanto prima precisato in relazione alla impraticabile ipotesi di coordinamento da parte dei Procuratori Generali delle indagini in materia di terrorismo, ricordare quanto il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (nella persona del Sost. dr. Francesco Iacoviello) ha recentemente affermato, accogliendo il reclamo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo avverso il provvedimento di avocazione disposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Palermo del proc. per omicidio n. 7671/07.21 contro Scotto Gaetano e Madonia Antonio.

    Infatti, nel decreto del P.G. presso la Cassazione, n. 184/2015 del 23.7.2015, prescindendo da questioni non pertinenti a ciò di cui qui si discute, si legge quanto segue:

    4.4. Il criterio ermeneutico dei principi di diritto (art. 12 comma 2 preleggi)

    La Procura della Repubblica è istituzionalmente preposta a fare indagini.

    La Procura Generale di norma non fa indagini.

    Esiste un principio costituzionale di efficienza processuale, che – in assonanza con dottrina processualistica straniera – potremmo chiamare <>: una funzione va svolta da quell’organo processuale che dà garanzie di poterle fare al meglio.

    L’avocazione in questa prospettiva crea una perversio ordinis.

    Essa va limitata a casi eccezionali – come fa il codice – che devono essere di stretta interpretazione.

    Una dilatazione del meccanismo dell’avocazione (sia nei tempi, sia nei presupposti) delineerebbe un potere decisorio e istruttorio del Procuratore generale immanente e alternativo a quello del Procuratore della Repubblica.

    Ne risulterebbe sfigurata l’architettura concettuale del processo.

    Né una estensione dei poteri di avocazione potrebbe trovare fondamento nell’art. 6 D. L.vo n. 106 del 2006. Trattasi di norma extraprocessuale che fissa un potere di vigilanza sul corretto e uniforme esercizio dell’azione penale.

    Ma generale potere di vigilanza non significa generale potere di avocazione: le forme, i tempi e i contenuti di tale potere è il codice a fissarli.

    In sostanza, il citato art. 6 attribuisce poteri organizzatori preprocessuali che si affiancano ma non ampliano i poteri di avocazione”

     

    Analogo orientamento è stato adottato dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione in vari altri casi che hanno portato all’accoglimento dei reclami dei Procuratori della Repubblica ed alla revoca dei decreti di avocazione dei Procuratori Generale12.

    Tra questi va segnalato il provvedimento n. 393/15 del 16.12.2015 emesso in accoglimento del reclamo del Procuratore della Repubblica di Milano avverso un decreto di avocazione del locale Procuratore Generale

    Le indagini condotte dalla Procura di Milano riguardavano alcuni beni immobili di notevole valore oggetto di contratti dichiarati usurari da una sentenza non passata in giudicato. Nelle more della definitività della sentenza gli immobili venivano alienati a terzi soggetti che, secondo quanto emerso dalle indagini, erano direttamente o indirettamente riconducibili allo stesso condannato del reato di usura.

    Il Pubblico Ministero, a seguito dello svolgimento delle prime indagini, iscriveva nel registro degli indagati solo i soggetti che, quali prestanomi o fiduciari del condannato, avevano proceduto alla vendita degli immobili, ritenendo sussistente solo nei confronti di costoro la sussistenza di indizi del reato di riciclaggio.

    Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, sollecitato dai denuncianti, disponeva quindi l'avocazione delle indagini.

    Ma, affermava la Procura Generale presso la Corte di Cassazione bel citato provvedimento:

    ..l'avocazione non è ammessa fuori dalle ipotesi di legge, è un istituto eccezionale che deve essere limitato ai casi strettamente previsti e senza possibilità di interpretazione analogica, tanto che "una dilatazione del meccanismo dell'avocazione delineerebbe un potere decisorio e istruttorio immanente e alternativo a quello del Procuratore della Repubblica".

     

    In definitiva anche il potere di avocazione va esercitato senza possibilità di ampliamento alcuno dei principi previsti dall’ordinamento, ferme restando le competenze in tema di avocazione riconosciute dall’ordinamento, in via esclusiva, allo stesso Procuratore generale.

     

    Nè – aggiunge lo scrivente può essere in alcun modo essere ampliato –, oltre i casi illustrati nel par. 1, il potere di coordinamento Procuratore generale.

     

    Le avocazioni “collaborative”, ipotizzate del Procuratore Generale di Torino non sono state dunque ritenute praticabili dal sottoscritto, pur apprezzando – nella proposta - l’evidente fine di “soccorso” alla Procura gravata, come ogni analogo ufficio, di pesanti carichi di lavoro.

     

     

    3. L’inesistente potere delle Procure Generali di impartire direttive, anche solo interpretative, alla Polizia Giudiziaria

     

    A seguito dei fatti appresso descritti e su quesito formulato dallo scrivente, il CSM, in data 20 aprile 2016, ha approvato una delibera che conferma l’inesistenza del potere delle Procure Generali di impartire direttive, anche solo interpretative, alla Polizia Giudiziaria.

     

    In data 29 novembre 2015, il Procuratore Generale di Torino convocava una riunione tra i Procuratori del Distretto per pervenire – ove possibile – a condivise valutazioni interpretative della Legge 22 maggio 2015 n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente)13. Ciò a seguito di esplicita richiesta della dirigenza dell’ARPA del Piemonte, della constatazione dell’esistenza di direttive divergenti provenienti dalle singole Procure della Repubblica del Distretto e delle diversità di opinioni manifestatesi anche in dottrina. La riunione si concludeva senza che i presenti raggiungessero un orientamento comune sull’interpretazione della complessa normativa in questione ed in particolare sull’ambito della sua applicazione, discutendosi sul tipo di contravvenzioni a cui la nuova legge ed il relativo procedimento fossero applicabili, in relazione al tipo di pena prevista.

    Non importa in questa sede approfondire i punti su cui l’accordo tra i Procuratori presenti non veniva raggiunto, né le ragioni delle diverse valutazioni, quanto il fatto che il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino, con nota del 3 dicembre 2015, in ragione della divergenza d’opinioni manifestatasi nel corso della riunione, riteneva di poter trasmettere ai vertici degli organi di polizia giudiziaria del Piemonte, con richiesta di diffusione, la propria interpretazione “ad ora ritenuta corretta” di alcuni passaggi della legge citata, “al fine di evitare interpretazioni e quindi interventi preventivi e repressivi assolutamente difformi e financo contrastanti nell’ambito dello stesso Distretto” e “con riserva di diverse valutazioni al momento di futuri arresti giurisprudenziali”. Tale interpretazione era difforme, sui punti controversi, da quella della Procura della Repubblica di Torino e di altre Procure.

    L’incipit della sua missiva del 3.12.2015 spiega, secondo il Procuratore Generale, la base giuridica e la ragione della stessa: da un lato il compito (ancora una volta evocato) di “verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale” che l’art. 6 D. Lgs. 106/2006 attribuisce al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, dall’altro il dovere che il Procuratore Generale avvertiva, a seguito di esplicita richiesta della dirigenza dell’ARPA del Piemonte e della citata esistenza di direttive divergenti provenienti dalle singole Procure della Repubblica del Distretto, di rappresentare la propria interpretazione della legge 22 maggio 2015 n. 68, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”. La missiva del Procuratore Generale terminava con l’ invito rivolto ai Prefetti del Piemonte, al Presidente della giunta regionale Valle d’Aosta ed al Direttore dell’A.R.P.A. Piemonte “..di voler portare a conoscenza della presente tutte le forze di polizia giudiziaria e degli organi di vigilanza operanti nei territori di competenza”.

    Ricevuta tale direttiva interpretativa, il sottoscritto Procuratore della Repubblica, che non condivideva alcune delle interpretazioni della L. 68/2015 esposte nella missiva citata (in particolare sull’ambito di applicazione della legge), avvertiva a sua volta la necessità ed il dovere di evitare un equivoco che l’autorevolezza dell’Ufficio di Procura Generale avrebbe potuto determinare.

    Pertanto, in data 11 dicembre 2015, emetteva (in accordo con il Procuratore Aggiunto competente a coordinare il gruppo di magistrati specializzato in materia di reati ambientali) e diffondeva tra gli organi di polizia giudiziaria le proprie Linee guida in tema di prescrizioni derivanti dalla Legge n. 68/2015, contenenti interpretazioni della normativa in alcune parti difformi rispetto a quelle del Procuratore Generale.

     

    In data 14 dicembre 2015, inoltre:

    comunicava agli stessi destinatari della missiva del 3 dicembre 2015 del Procuratore Generale “che quanto comunicato dal Procuratore Generale non può e non deve considerarsi una direttiva, almeno per quanto riguarda il Circondario del Tribunale di Torino, nel cui ambito le direttive e le linee guida inerenti l’azione penale possono semmai essere impartite alla P.G. dal Procuratore della Repubblica che ne è il titolare esclusivo”, aggiungendo – unitamente alla richiesta di diffusione delle proprie linee guida - che compete al Procuratore della Repubblica, in quanto “titolare esclusivo dell’azione penale” ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo n. 106 del 2006, il dovere - ex art. 1 co. 2 stesso D.Lgs. - di “assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale..da parte del suo ufficio” (dunque, nel circondario di sua competenza), potendo egli determinare anche – ex art. 4 co. 1 e 2 stesso D. Lgs. - “i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria” e “definire criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti”;

     

    formulava il seguente quesito, con richiesta al Consiglio Superiore della magistratura di volere ulteriormente precisare:

    - i limiti delle competenze del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ai sensi dell’art. 6 D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 ;

    - se gli sia consentita dalla norma, oltre quella con i Procuratori della Repubblica del Distretto e con il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, una interlocuzione “esterna” con gli organi di polizia giudiziaria, persino con comunicazioni (e con direttive di fatto) dai contenuti non condivisi dai titolari dell’azione penale nel territorio di competenza”.

     

    Il sottoscritto rappresentava che la questione portata all’attenzione del C.S.M. non era meramente definitoria (la comunicazione del P.G. può essere denominata “direttiva”?), ma sostanziale, nel senso che se anche la missiva in questione fosse qualificabile come una “quasi direttiva” o come una mera comunicazione di opinione giuridica essa si porrebbe comunque al di fuori delle prerogative del Procuratore Generale che – come è noto – non conduce indagini (salvo i casi di avocazione obbligatoria o facoltativa14) e dunque non può affatto frapporsi, sia pure con interventi di natura interpretativa, tra il Procuratore della Repubblica titolare esclusivo dell’azione penale e gli organismi di polizia giudiziaria che da lui funzionalmente dipendono per attività investigative.

    Del resto, nella sua missiva del 3.12.2015, il P.G. di Torino, aveva affermato di “sentire il dovere.. nel rispetto dei ruoli e delle competenze di ciascuno dei destinatari” di “rappresentare” quella interpretazione di legge, utile –a suo dire - per “superare sconcertanti diversità operative”. Dunque la missiva contiene la previsione di dirette ricadute operative nelle indagini sicchè la menzione del “rispetto dei ruoli e delle competenze di ciascuno dei destinatari” non basta certo a mutarne la natura di direttiva.

     

    Con nota del 30 dicembre 2015, il Procuratore Generale replicava al sottoscritto, sostenendo, tra l’altro, che la sua nota non integrava affatto una direttiva ma conteneva solo la propria interpretazione della Legge in questione diretta a “tutte le forze di polizia giudiziaria e tutti gli organi di vigilanza operanti nei territori di rispettiva competenza”.

    Ribadiva la ragione del suo intervento citando il compito di “verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale” che l’art. 6 D. Lgs. 106/2006 gli attribuisce.

    Sosteneva pure che persino il ruolo del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sarebbe inutile secondo l’interpretazione propria del sottoscritto dell’art. 6 D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, norma alla quale, invece, egli attribuiva “una sostanza operativa”, al punto da affermare che, in caso di diversa convinzione, i compiti dei Procuratori Generali si ridurrebbero a quelli di “inutili passacarte tra gli uni (i Procuratori circondariali: ndr) e l’altro (il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: ndr), tanto più considerata la pari impotenza anche di quest’ultimo”.

    Il Procuratore Generale di Torino, infine, affermava che le posizioni espresse dallo scrivente costituiscano “anacronistiche e paralizzanti difese di posizione” e rivendicava il dovere del suo ufficio “di segnalare ai Procuratori Circondariali criticità nell’interpretazione di norme…” (ndr: così incorrendo in una clamorosa contraddizione: egli, infatti, non aveva segnalato la sua “necessaria ed utile” interpretazione della legge in tema di delitti ambientali ai Procuratori Circondariali - che con lui ne avevano già discusso pur senza raggiungere accordo unanime-, ma a tutti gli organi di polizia giudiziaria del Piemonte e della Val d’Aosta, così scavalcando le competenze dei titolari dell’azione penale).

     

    Con delibera del 20 aprile 2016, il Consiglio Superiore della Magistratura, ricostruita la vicenda nei suoi passaggi, precisato che non toccava al Procuratore Generale intervenire nella diatriba interpretativa della Legge in tema di reati ambientali, accogliendo la tesi prospettata dallo scrivente, precisava quanto segue:

     

    si tratta…di rispondere a quesiti di stretta natura ordinamentale che involgono pienamente le attribuzioni del Consiglio, anche in quanto attinenti al rapporto fra ufficio requirente di primo grado e ufficio requirente di secondo grado.

    Del resto non può sfuggire che i fatti riportati e documentati hanno potuto determinare sconcerto negli autorevoli destinatari istituzionali delle missive cui si è fatto cenno, in quanto venivano comunicati indirizzi interpretativi e, di conseguenza, operativi contrastanti provenienti dalle diverse autorità requirenti del Distretto incidenti sul medesimo circondario di Torino.

     

    Occorre tenere conto delle norme effettivamente incidenti sul tema in questione che possono così ricordarsi:

    l’art. 2 del decreto legislativo n. 106 del 2006, attribuisce al Procuratore della Repubblica, in quanto “titolare esclusivo dell’azione penale” il dovere ex art. 1 co. 2 di “assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale; il Procuratore determina fra l’altro anche “i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria” e definisce “i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti”.

    L’art. 6 D.Legs 106/2006 attribuisce al procuratore generale un potere di vigilanza e di sorveglianza al fine di “verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme del giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei Procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti”. A tal fine acquisisce dati e notizie dalle Procure della Repubblica del distretto e sul punto invia al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione una relazione almeno annuale.

     

    Ebbene, quanto al potere ex art. 6 del Procuratore generale, il Consiglio Superiore della Magistratura si è recentemente espresso con la delibera del 16 marzo 2016 che, sebbene avesse ad oggetto la materia specifica dell’antiterrorismo, contiene principi di carattere generale a cui può farsi integrale richiamo.

    In quella sede si è chiaramente escluso un potere di coordinamento investigativo del Procuratore Generale e, contestualmente, si è inteso il potere ex art. 6 come un potere di vigilanza di cui in concreto e nella prassi si è declinata una accezione positiva di ricognizione e di diffusione delle buone prassi, nonché di costante impulso e sollecitazione alla condivisione di comuni moduli organizzativi ed alla procedimentalizzazione della collaborazione fra uffici in alcuni settori strategici o in quelli che fisiologicamente esulano da competenze territoriali settoriali15.

    Tali sollecitazioni devono auspicabilmente trovare attuazione in protocolli o intese a livello distrettuale che, solo laddove risultino il frutto della unanime e condivisa valutazione di tutti i procuratori del distretto, potranno pervenire a direttive di carattere generale distrettuale anche in materia di protocolli investigativi in senso stretto e di interpretazione condivisa di norme16.

    Ancora una volta, come da ultimo nella delibera del 16 marzo 2016 in materia di coordinamento antiterrorismo, deve richiamarsi il generale dovere di collaborazione istituzionale fra le diverse autorità giudiziarie, che si declina come uno spirito di coordinamento che, prima ancora che da disposizioni cogenti o di indirizzo, deve derivare naturalmente da una avanzata e matura cultura delle indagini che fa della collaborazione istituzionale e della ricerca di soluzioni condivise, uno dei degli elementi più nitidi della professionalità del pubblico ministero nel nostro ordinamento.

    Dunque il perimetro del potere ex art. 6 D. Legs 106/2006 va in questi termini correttamente inquadrato e non consente al Procuratore generale di svolgere una funzione di coordinamento investigativo, se non nei casi e con gli stretti limiti in cui tale funzione è prevista espressamente dalla legge (cit. art. 118 bis disp.att., dell’art. 372 co. 1 bis cpp) in forma sussidiaria, organizzativa e in ultima analisi “patologica” attraverso il potere di avocazione, ed in ogni caso attinente al rapporto interno fra uffici requirenti del Distretto.

    Deve escludersi, di conseguenza, un potere di direttiva esterna - rivolta agli organi di polizia giudiziaria ed a quelli amministrativi con poteri di accertamento - che abbia ad oggetto protocolli investigativi o linee guida per l’interpretazione delle norme che incidano sullo svolgimento delle indagini, essendo tale potere demandato esclusivamente al Procuratore della Repubblica nell’ambito del più generale potere di assicurare il corretto puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nel circondario.

    Nell’esercizio delle proprie competenze di vigilanza sul corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nei circondari del Distretto, il Procuratore generale presso la Corte d’Appello ha invece il potere - dovere di richiedere informazioni, di riferire al Procuratore generale della Corte di Cassazione sull’esito delle attività ex art. 6 svolte nel Distretto, nonché un più generale potere – dovere di operare per favorire soluzioni condivise, attivandosi attraverso atti di impulso e di coordinamento volti a pervenire a tale positivo ed auspicabile risultato.

    In questi termini può rispondersi al quesito formulato ed indicato in premessa”.

     

    In conclusione, anche questa vicenda conferma che, in caso di contrasti persistenti, il nostro ordinamento non prevede interventi di tipo gerarchico per risolverli. Tale ipotesi sarebbe del tutto incompatibile con la cultura e la tradizione giuridica cui il nostro sistema si ispira. In casi come quelli in esame, il nostro ordinamento prevede e richiede solo attenzione da parte dei dirigenti delle Procure rispetto agli arresti giurisprudenziali ed alla messa a punto delle prassi operative corrette. Si tratta di affermazione nient’affatto originale poiché sono ben noti nel nostro sistema, a seguito dell’elevato numero e dei contenuti non sempre chiari degli interventi legislativi, casi di contrasto interpretativo che si manifestano anche tra diverse Sezioni della Corte di Cassazione o persino all’interno delle stesse e che talvolta neppure le SS. UU. della Cassazione, le cui decisioni – come si sa – non sono vincolanti, riescono a sanare.

     

    A supporto di tale tesi, va pure rammentato che, subito dopo un riunione tenutasi a Sirmione il 25 novembre 2011, i Procuratori Generali presso le Corti d’Appello di Ancona, Bologna, Brescia, Firenze, Genova, Torino, Trento, Trieste e Genova inoltrarono al Capo dello Stato, al Ministero della Giustizia ed al CSM, una richiesta invocando attenzione al tema del controllo “meramente ricognitivo” che l’art. 6 D. Lgs. 106/2006 attribuisce ai Procuratori Generali ed auspicando che la norma fosse oggetto – se non di intervento legislativo – di provvedimenti orientativi nel senso ampliativo dei connessi poteri. Quell’auspicio non ha mai sin qui avuto alcuna risposta. E ciò non può certo ritenersi casuale

     

    E’ pure errato sostenere che anche il ruolo del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sarebbe inutile secondo l’interpretazione dell’art. 6 D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, qui ribadita dal sottoscritto in ossequio anche alla citate risoluzione consiliari. Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione è titolare dell’azione disciplinare (che ben potrebbe esercitare in caso ritenesse che la condotta del Procuratore della Repubblica integrasse violazione disciplinare) ed i rapporti informativi dei Procuratori Generali distrettuali possono ben essere valutati nelle procedure di riconferma dei magistrati negli incarichi direttivi dopo quattro anni di esercizio di tali funzioni. E’ competente inoltre sulla risoluzione dei contrasti negativi e positivi tra pubblici ministeri, anche in materia di criminalità organizzata ai sensi degli artt. 54, 54 bis e 54 ter cpp., e diffonde – con recente pressi virtuosa – gli arresti giurisprudenziali significativi : si tratta all’evidenza di funzioni di grande rilievo che non possono certo essere minimizzate.

     

     

    4. I rischi evitati e quelli presenti nelle conclusioni della Commissione di studio per uno schema di progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario (DM 12.8.2015)

     

    In data 11 febbraio 2016, i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali di Bari, Firenze, Lecce, Milano, Napoli, Palermo, Potenza, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Trento e Venezia, inoltrando la missiva per conoscenza anche al Comitato di Presidenza del CSM, hanno chiesto al Ministro della Giustizia ed all’on.le Avv. Vietti, Presidente della Commissione sopra indicata, di essere sentiti formalmente, con la seguente motivazione:

     

    Quali Procuratori della Repubblica in sedi capoluoghi di distretto, ci rivolgiamo alle SS. LL., rappresentando quanto segue.

    Abbiamo avuto modo di apprendere che, quale componente della più ampia Commissione di studio per il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, costituita con DM 12 agosto 2015, il I^ Gruppo della Commissione stessa, competente su “Geografia giudiziaria, organizzazione pubblico ministero e specializzazione, ha elaborato un progetto di riforma dell’Ufficio del Pubblico Ministero contenente una proposta di revisione degli artt. 1 e 6 del D.lgs. n.106/2006.

    Dalle notizie apprese, però, sembra che il progetto di riforma in questione possa dar luogo, se approvato, ad un mutamento epocale del ruolo del pubblico ministero, fondato sull’attribuzione al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e ai Procuratori Generali presso le Corti di Appello di compiti attinenti le modalità di esercizio dell’azione penale (di cui sono però titolari esclusivi i Procuratori della Repubblica ai sensi dell’art. 1 co. 1 D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, come modificato dall’art. 1 L. 24 ottobre 2006, n. 269) e di conseguenti attività di coordinamento e controllo, oltre che – ai Procuratori Generali presso le Corti di Appello – di poteri di accesso informatico ai sistemi informativi di ciascuna Procura della Repubblica del distretto per acquisire tutti i dati e le notizie necessarie per l’espletamento di quei compiti.

    Nell’ovvio rispetto delle competenze della Commissione Ministeriale, pertanto, ci permettiamo di chiedere che anche i sottoscritti Procuratori della Repubblica (o altri che la Commissione intendesse interpellare) vengano convocati dinanzi alla Commissione stessa per esprimere le proprie motivate preoccupazioni e opinioni.

    La presente viene inviata per conoscenza anche al Comitato di Presidenza ed al Presidente della Settima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, in quanto ci è noto che gli stessi temi, sia pure in una diversa prospettiva, sono oggetto di analisi in seno alla Settima Commissione a seguito di quesiti rivolti al C.S.M. da uno dei sottoscritti Procuratori.

    Naturalmente, ci dichiariamo disponibili – ove ritenuto utile – anche ad una audizione dinanzi alla predetta Settima Commissione del CSM.”

     

    Le preoccupazioni in questione, dunque, traevano origine dal fatto che la “Commissione di studio incaricata di predisporre uno schema di progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario…”, includente anche l’ “Organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero”, aveva – tra l’altro - originariamente ipotizzato la modifica del citato art. 6 D.l.vo 106/2006 nel senso di prevedere il potere del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di assicurare “il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale su tutto il territorio nazionale, e di curare il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei Procuratori Generali e dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti”: un inaccettabile ribaltamento della struttura dell’Ufficio del Pubblico Ministero in Italia, dimostrato anche dal nuovo titolo che avrebbe assunto l’art. 6 D.l.vo 106/2006: non più “Attività di vigilanza del procuratore generale presso la Corte d’Appello”, ma “Attività di coordinamento e di vigilanza del procuratore generale presso la Corte d’Appello e del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione”.

     

    Il 9 marzo 2016, la Commissione di studio procedeva all’audizione dei Procuratori della Repubblica di Firenze, Napoli, Roma e Torino, anche in rappresentanza degli altri nove procuratori richiedenti.

     

    Vale la pena, a questo punto, di enunciare – con sintesi di cui il sottoscritto assume responsabilità (e che potrebbe non rispecchiare in toto le convinzioni dei Procuratori citati) - le osservazioni critiche che, fino a quel momento, potevano essere formulate a proposito del progetto di riforma dell’organizzazione del PM (fortunatamente modificato anche a seguito dell’audizione predetta).17

     

    Quali le ragioni della modifica?

    La originaria proposta di modifica normativa appariva integrare un cambiamento radicale di prospettiva, non compiutamente giustificato nelle ragioni, rispetto alla impostazione della legge delega 25 luglio 2005, n. 150 (delega “attuata” dapprima con il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 e, poi, con correzioni sostanzialmente non radicali, con la legge 24 ottobre 2006, n. 269), la quale, come è noto, ha cambiato radicalmente l'assetto dell'ufficio del pubblico ministero.

    Non sono chiari, né risultano esplicitati, gli inconvenienti e/o le carenze del sistema attualmente in essere, che anzi vede molte procure della Repubblica attente ed in prima fila nell’attuazione dei principi del giusto processo e nella più effettiva e rapida applicazione delle importanti modifiche normative sostanziali e processuali succedutesi negli ultimi anni.

     

    Il tutto nella cornice di un sistema virtuoso che non rinnega il ruolo delle Procure Generali presso le Corti d’appello e presso la Corte di Cassazione, secondo le indicazioni dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006.

    E’ sufficiente osservare che sono state proprio le procure della Repubblica, direttamente impegnate ad affrontare le novità normative, che, nel tempo, hanno saputo fornire le prime indicazioni operative, per esempio sul novum normativo in materia di sospensione e messa alla prova, di fatto di particolare tenuità, di revisione dei reati fiscali, di depenalizzazione e di altro ancora. Le circolari/direttive di maggior rilievo sono state anche pubblicate sulle migliori riviste di settore.

    Le riforme in questione, peraltro, per essere applicate coerentemente ed efficacemente, presuppongono proprio l’esperienza effettiva sul campo e la conoscenza della specificità del territorio, oltreché la consapevolezza dello stato degli uffici di primo grado di riferimento (procura e tribunale): basti pensare, solo esemplificando, che le scelte operative in tema di particolare tenuità sono condizionate dalla conoscenza specifica dei reati commessi nel territorio, dalla tempistica di definizione, dalla conoscenza della giurisprudenza dei giudici del territorio; analogamente, ancora per esemplificare, è l’esperienza operativa che consente di far fronte alle problematiche indotte, in tema di confisca del profitto del reato tributario, dal nuovo articolo 12 bis del decreto legislativo n. 74 del 2000.

     

    Il mantenimento del ruolo del procuratore della Repubblica.

    E’ in questa prospettiva che si giustifica e si apprezza l’indicazione normativa vigente in forza della quale il procuratore della Repubblica è il titolare esclusivo dell’azione penale ed è tenuto ad assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale, nonchè il rispetto delle norme sul giusto processo (articolo 1, commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 106 del 2006).

    L’attribuzione di tali poteri sono spiegabili in termini di assunzione di responsabilità: il procuratore della Repubblica è valutato per le scelte concrete assunte e per la capacità di sapere soddisfare le indicazioni di norma primaria. Ciò ai fini della conferma nel suo ruolo direttivo, della progressione in carriera, delle eventuali nuove domande per altri incarichi.

     

    Il nuovo ruolo del procuratore generale.

    La proposta di modifica originariamente ipotizzata nella Commissione costituita con DM 12.8.2015 non rinnegava tale ricostruzione del ruolo del procuratore della Repubblica, ma adottava una prospettiva secondo la quale il collegamento tra l’attribuzione di poteri funzionali all’assolvimento delle finalità suindicate e la responsabilità del Procuratore della Repubblica per i risultati conseguiti trovava un vulnus non certo marginale nell’innovato - e per certi versi sorprendente - ruolo attribuito al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ed al Procuratore Generale presso la Corte di appello.

    L’articolo 6 del decreto legislativo n. 106/2006, nel testo vigente, infatti, attribuisce al procuratore generale presso la Corte di appello un compito importante ed essenziale di “verifica” circa il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale e del rispetto delle norme sul giusto processo (esercitabile anche mediante l’acquisizione di dati e notizie dalle procure della Repubblica).

    Tale verifica, avendo come destinatario finale il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (ergo, il titolare dell’azione disciplinare), ha (o può avere) un ruolo pregnante e significativo, ma lascia intatto il potere di discrezionale valutazione ed apprezzamento che è proprio del procuratore della Repubblica, onerato di organizzare l’ufficio nei modi ritenuti opportuni (assumendosene la responsabilità).

     

    La concorrenza di poteri nella proposta originaria.

    Nella proposta originariamente formulata in Commissione, si attribuiva invece tout court al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, come si è detto, il potere di “assicurare” il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale su tutto il territorio nazionale e di curare il rispetto delle norme sul giusto processo.

    Si sarebbe determinato così una evidente concorrenza di poteri con il rischio di vulnerare ab imis il ruolo del procuratore della Repubblica, finendo con il costruire un sistema gerarchico finora sconosciuto al nostro ordinamento.

    Infatti, l’attribuzione al procuratore generale presso la Corte di cassazione del potere non più di verificare, ma di direttamente assicurare la soddisfazione delle finalità suindicate (corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale e rispetto delle norme sul giusto processo) implica (non può non implicare, pena lo svuotamento sostanziale) l’attribuzione (implicita) del potere di adottare ordini e direttive, in grado di neutralizzare le diverse determinazioni organizzative adottate dal procuratore della Repubblica: il quale finirebbe con il dovere anch’egli assicurare la soddisfazione delle anzidette finalità, ma rimanendo privo di poteri di autonoma determinazione. Residuerebbe per lui un ruolo “tributario£ ed esecutivo delle determinazioni assunte dal procuratore generale. Non era previsto, nella proposta originaria di intervento normativo, neppure spazio per un dissenso giustificato e motivato.

     

    Il condizionamento interpretativo.

    La proposta originariamente in discussione autorizzava finanche la conclusione che le iniziative del procuratore generale potrebbero estendersi anche alla interpretazione e/o applicazione della disciplina sostanziale o processuale, in termini particolarmente delicati in caso di nuove disposizioni (non ancora esaminate dalla giurisprudenza) ovvero in caso di indicazioni che fossero consapevolmente adesive ad una tra le diverse interpretazioni possibili e comunque patrocinate dalla giurisprudenza.

    E ciò sarebbe potuto avvenire persino in modo difforme rispetto agli indirizzi adottati dal procuratore della Repubblica, così determinandone una evidente delegittimazione di fronte alla polizia giudiziaria operante nel territorio di competenza18.

     

    La previsione di tale potere o competenza in capo al Procuratore Generale non potrebbe neppure essere giustificata con la opportunità di una tendenziale uniformità di interpretazione della legge a livello nazionale: tale condivisibile auspicio, infatti, deve necessariamente tenere in debito conto le caratteristiche del nostro ordinamento costituzionale (che prevede indipendenza di giudici e pubblici ministeri) e, comunque, la ben nota possibilità che siano gli arresti giurisprudenziali delle SS. UU. della Cassazione – peraltro non vincolanti - a risolvere i dubbi di interpretazione giuridica della norma e non certo le indicazione di un organo gerarchicamente sovraordinato.

     

    La gestione delle risorse.

    L’innovato ruolo attribuito al procuratore generale non si concilierebbe poi con il disposto dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 106/2006, la cui rubrica recita: "impiego della polizia giudiziaria, delle risorse finanziarie e tecnologiche", che attesta le importanti competenze del procuratore anche in materia economica e di gestione delle risorse, quali ulteriori momenti significanti e qualificanti l’organizzazione dell’ufficio. Secondo tale vigente disposizione, per assicurare l'efficienza dell'attività dell'ufficio, il procuratore della Repubblica può determinare i criteri generali ai quali i magistrati addetti all'ufficio stesso devono attenersi – anche per l’impostazione delle indagini- nell'impiego della polizia giudiziaria, nell'uso delle risorse tecnologiche assegnate e nella utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l'ufficio può disporre.

    La finalità della previsione è – in tutta evidenza- quella di assicurare "l'efficienza" dell'attività dell'ufficio. Peraltro, dalla lettura complessiva della norma vigente emerge che particolare attenzione deve porsi (anche) alle esigenze del "risparmio". Nella prospettiva del legislatore si vorrebbe, infatti, in tutta evidenza, che il capo dell'ufficio, nell'organizzazione della procura, adottasse criteri per un sapiente (nel senso di parsimonioso) uso delle risorse finanziarie e ciò con specifico riguardo alle intercettazioni, alle consulenze, all'impiego della polizia giudiziaria etc.: che questa sia la finalità lo si ricava, in maniera sufficientemente chiara, dalla relazione di accompagnamento al decreto, laddove non ci si preoccupa tanto dei protocolli investigativi, quanto piuttosto dell'esigenza di evitare il ricorso a metodiche dispendiose (significativo, in tal senso, è l'accenno alla previsione di "soglie minime di valore" per l'affidamento di incarichi di consulenza, ed altrettanto significativo è quello al ricorso all'utilizzo della documentazione del traffico telefonico, piuttosto che allo strumento dell'intercettazione telefonica, per i reati commessi a mezzo del telefono).

    E’ da ritenere, peraltro, che la norma, pur dettata per soddisfare finalità organizzative e di bilancio, non possa essere interpretata (ed applicata) in termini tali da determinare ricadute sull'attività (principalmente investigativa) dell'ufficio di procura, pena un inevitabile rischio di condizionamento delle concrete modalità di soddisfazione degli obblighi costituzionali (tra cui, quello del giusto processo di cui all’articolo 111 e quello dell'obbligatorietà dell'azione penale dettato dall'articolo 112).

    In questa prospettiva, la previsione normativa de qua va correttamente intesa solo come richiamo – in occasione delle determinazioni del magistrato del pubblico ministero- ad una particolare attenzione all’effettiva utilità dello strumento investigativo ed alla scelta della metodica più conveniente sotto il profilo dei costi (economici) e degli (sperabili) vantaggi (investigativi). La legittimità di tale interpretazione, come anticipato, la si può trovare richiamando le finalità di ordine generale che il procuratore deve sempre perseguire. La soddisfazione dei principi del giusto processo e del corretto esercizio dell’azione penale, evocati espressamente nell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo, n. 106 del 2006 (e, a monte, ovviamente, dai ricordati articoli 111 e 112 della Costituzione) deve essere il parametro di riferimento anche di tali scelte organizzative.

     

    Il programma organizzativo – infatti – non può essere considerato oggetto di scelte indifferenti rispetto alla qualità dell’azione investigativa propria degli Uffici del PM.

     

    Ebbene, tutto ciò che è alla base dell’apprezzamento che il procuratore deve effettuare ai fini e per gli effetti dell’articolo 4 sarebbe stato anch’esso vulnerato dal nuovo ruolo che si intendeva attribuire al procuratore generale della Cassazione, ove si consideri che le determinazioni assunte da quest’ultimo (nei termini imperativi di cui si è detto) potrebbero finire con il condizionare l’esercizio dei poteri organizzativi di cui all’articolo 4, peraltro senza che il procuratore generale possa essere in grado di conoscere la specificità di ogni singolo ufficio.

     

    La procedura .

    La predetta impostazione gerarchizzata, era anche rafforzata dalla contestuale ipotesi di modifica della disciplina procedimentale prevista per l’adozione dei progetti organizzativi19.

    Tale ipotizzata disciplina appariva decisamente criticabile perchè, con scelta impegnativa, lasciava del tutto fuori il consiglio giudiziario (e ciò inspiegabilmente perché l’apprezzamento del consiglio giudiziario assume particolare rilievo, costituendo il momento unico in cui le scelte organizzative della procura possono essere considerate in parallelo con la disciplina tabellare e organizzativa dell’ufficio giudicante corrispondente).

    Non solo. La previsione che il progetto organizzativo dovesse essere trasmesso al procuratore generale per l’ulteriore trasmissione, con il suo parere, al CSM, appariva sostanzialmente inutile ove si consideri che oggi il parere del procuratore generale può e deve comunque essere espresso e valutato in sede di consiglio giudiziario.

    Questa ipotizzata previsione sarebbe stata poi criticabile anche per la disciplina procedimentale interna all’ufficio della procura della Repubblica, laddove prevedeva che il progetto debba essere adottato “sentiti i procuratori aggiunti”. Ne risulterebbe accreditata una lettura restrittiva (nonché contrastante con la prassi e con le indicazioni consiliari) della interlocuzione interna che è necessaria e doverosa con tutti i magistrati dell’ufficio.

     

    Le linee guida.

    Qualche riflessione ulteriore suscitava anche l’innovativa previsione secondo cui sarebbe stato il procuratore generale presso la Cassazione a proporre “per ciascun anno giudiziario”20 al CSM l’adozione di linee guida per la predisposizione dei progetti organizzativi.

    Questo ruolo propositivo – che evoca quello dell’Attorney General nel ben diverso sistema statunitense - unito al potere che si voleva attribuire al procuratore generale presso la Cassazione di “assicurare” il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale su tutto il territorio e di “curare” il rispetto delle norme sul giusto processo avrebbe prefigurato una nuova valenza delle linee guida e una significativa riduzione degli spazi di autonomia responsabile del procuratore della Repubblica.

    Vi era anzi da chiedersi se potesse valere ancora – in presenza di tale novità - la determinazione consiliare secondo cui il CSM deve limitarsi in sostanza ad una mera “presa d’atto” del progetto organizzativo, con eventuali osservazioni, non vincolante per il dirigente (cfr. risoluzione del CSM del 21 luglio 2009).

     

    Tra l’altro, un simile sistema di “linee guida” valide per l’intero territorio nazionale non potrebbe in alcun modo risultare idoneo rispetto ai fini ipotizzati, in quanto non potrebbe considerare le esigenze proprie di determinate fette di territorio e le conseguenti emergenze locali che solo chi vi esercita in concreto le funzioni di titolare dell’azione penale può ben conoscere e valutare anche ai fini della selezione delle conseguenti linee guida. E finirebbe anche con il trascurare le problematiche di varia natura, ma organizzative in primis, discusse nelle tanto auspicate assemblee degli uffici e che specie il Procuratore generale della Cassazione non potrebbe conoscere.

    Secondo la citata proposta di modifica dell’attuale sistema di elaborazione delle linee guida, peraltro, potrebbero frequentemente verificarsi casi di dissenso - anche marcato - tra le valutazioni del procuratore generale presso la Corte di Cassazione e quelle dei procuratori della Repubblica con un ulteriore rilievo non trascurabile, quello – cioè – della titolarità dell’azione disciplinare spettante al procuratore generale.

     

    Va ancora osservato che la proposta di siffatta “linee guida”, nella originaria ipotesi di riforma, veniva prevista come annuale (vedasi precedente nota a pie’ di pagina n. 19), con la conseguenza di obbligare le Procure ad una continua operazione di modifica ed aggiornamento dei progetti organizzativi, con aggravi procedimentali di non poco momento, comunque tali da appesantire gli oneri degli uffici giudiziari coinvolti, compromettendone la efficienza.

     

    Il ruolo del Procuratore Generale presso la Corte di Appello.-

    Ulteriore dubbi suscitava la disciplina dettata per il ruolo del procuratore generale presso la corte di appello, ben al di là dei problemi interpretativi che suscita il riferimento ai “poteri di coordinamento organizzativo” che gli si vogliono attribuire, senza che l’espressione sia meglio specificata.

    Il potere di vigilanza e di sorveglianza, indiscutibile, veniva confermato. Ma venivano attribuiti al Procuratore Generale poteri di accesso informatico diretto ai sistemi informativi di ciascuna Procura della Repubblica21, tali da suscitare perplessità anche perché ciò avrebbe determinato un ruolo del procuratore generale contrastante con quello previsto nel codice di procedura penale, che lo qualifica e valorizza per promuovere il coordinamento investigativo, come si è detto, solo quando esso non viene spontaneamente realizzato dalle procure competenti o quando risulta carente (si rimanda sul punto a quanto precisato sub par. 1).

    Ciò è confermato dal fatto che lo stesso CSM, in una risposta a quesito del 6 aprile 2011, in tema di avocazione, ha posto l’attenzione sulla concorrente esigenza di confinare i poteri del procuratore generale a quelli tipici attribuitigli dal codice di rito e di tutelare il segreto investigativo.

    Tanto più ove si consideri che l’accesso incondizionato del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello ai registri notizie di reato è del tutto inconferente anche con riferimento all’esigenza di verificare i procedimenti con termini per le indagini preliminari (spesso solo apparentemente) “scaduti”. E’ prassi comune, infatti, che in un procedimento, specie in quelli complessi, le iscrizioni avvengano in tempi diversi; con la conseguenza che i termini possono essere scaduti per alcuni ma non per altri. E, da ciò, l’ulteriore conseguenza che se il PG potesse avere accesso al SICP, finirebbe con il conoscere non solo i nominativi degli indagati per cui i termini di indagini sono scaduti, ma anche quelli degli altri; il che è contrario al sistema vigente.

     

    Il rischio di gerarchizzazione della struttura ordinamentale del Pubblico Ministero

    Non si vede alcuna ragione, in definitiva, per la quale, superando l’attuale previsione che attribuisce al solo Procuratore della Repubblica, in quanto “titolare esclusivo dell’azione penale” ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo n. 106 del 2006, il dovere - ex art. 1 co. 2 stesso D.Lgs. - di “assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale..da parte del suo ufficio” (dunque, nel circondario di sua competenza), si debba attribuire una tale competenza – su tutto il territorio nazionale – al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, con le ricadute “a pioggia” sulle competenze in materia di controllo attribuite ai Procuratori generali presso le Corti d’Appello nei confronti dei Procuratori della Repubblica.

     

    Una tale scelta, oltre che immotivata ed inspiegabile, sarebbe del tutto incompatibile con la cultura e la tradizione giuridica cui il nostro sistema si ispira. Un sistema che non prevede un assetto gerarchizzato degli Uffici del Pubblico Ministero e che proprio per questa ragione costituisce un modello verso cui l’Europa tende e di cui le Corti internazionali valorizzano le caratteristiche di indipendenza.

     

    - - = = = o O o = = = - -

     

    L’audizione avvenuta in data 9 marzo 2016 dei Procuratori della Repubblica di Firenze, Napoli, Roma e Torino, richiesta dai medesimi anche a nome di vari altri Procuratori Distrettuali, ha però prodotto risultati in buona parte positivi.

     

    Intanto, in apertura di seduta, il relatore dr. Luigi BIRRITTERI ha esordito spiegando ai quattro Procuratori citati che la Commissione, originariamente, aveva preso in esame la ipotesi di cancellazione della stessa esistenza Procure Generali presso le Corti d’Appello e, quindi, delle loro competenze dal nostro ordinamento (per dar vita alla distrettualizzazione delle Procure), pervenendo poi alla opposta scelta di accrescerne poteri e settori di intervento: un ben strano iter propositivo – sia consentito affermarlo – che si era evidentemente articolato su due valutazioni opposte ed entrambe criticabili, privilegiando alla fine la seconda :

    le Procure Generali non servono;

    le Procure Generali devono assumere un ruolo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello delle Procure presso i Tribunali.

     

    Ma la Commissione stessa, dopo l’audizione dei quattro procuratori che hanno esposto i rilievi critici prima enunciati, audizione peraltro avvenuta dopo quella di alcuni Procuratori generali, ha finito fortunatamente con l’escludere l’originaria ipotesi di modifica dell’ art. 6 D.l.vo 106/2006 nel senso di prevedere il potere del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e dei Procuratori generali presso le Corti d’Appello di assicurare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale . E sono stati esclusi dal testo finale della proposta anche altri punti criticabili prima illustrati.

     

    Ai fini che qui interessano, le linee di fondo approvate dalla Commissione (ed in ordine alle quali dovranno intervenire le decisioni conseguenti del Ministro della Giustizia), senza il consenso motivato di un qualificato numero di Commissari, consistono nella revisione degli artt. 1 e 6 del D.lgs. n.106/2006 in tema di attribuzioni del Procuratore della Repubblica e attività di coordinamento e vigilanza del Procuratore generale presso la Corte di appello. Esse riguardano22:

    la previsione di provvedimenti organizzativi con i quali le figure apicali degli uffici requirenti stabiliscono criteri di organizzazione dell'ufficio; criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai magistrati del proprio ufficio, individuando eventualmente settori di affari da assegnare ad un gruppo di magistrati al cui coordinamento sia preposto un procuratore aggiunto o altro magistrato; tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento siano di natura automatica23;

    l’eliminazione della discrezionalità del procuratore capo nell’assegnare la delega al procuratore aggiunto o in sua mancanza, ad altro magistrato per la cura di specifici settori di affari;

    l’innovazione del ruolo di coordinamento e vigilanza del Procuratore generale della Corte di cassazione, che, al fine di favorire l’adozione di criteri organizzativi omogenei e funzionali da parte dei procuratori della Repubblica e la diffusione di buone prassi negli uffici requirenti, è chiamato a coordinare periodiche riunioni tra i procuratori generali presso le Corti di appello all’esito delle quali vengono formulate linee guida organizzative da trasmettere al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione24;

    l’attribuzione al procuratore generale presso la Corte di appello, nell’ambito del potere di vigilanza, della facoltà di acquisire dati e richiedere notizie alla Procura della Repubblica, che è tenuta a rispondere tempestivamente.

     

    Ad avviso dello scrivente, quanto precisato sub lett. “c” ove si fa riferimento ad un “ruolo di coordinamento” del Procuratore Generale della Corte di Cassazione è frutto di formulazione ancora ambigua, che si spera possa essere precisata in sede di eventuale predisposizione di un disegno di legge: parlare anche solo di coordinamento organizzativo, infatti, per le ragioni già elencate, non esclude affatto ricadute sulla titolarità dell’azione penale – e sulle modalità del suo esercizio – che è competenza propria, in via esclusiva, del Procuratore della Repubblica.

     

    A tal fine – ed a conferma dell’equivoco che ancora non è stato chiarito (sia pure con riferimento alla normativa vigente) - non si può non citare testualmente un passaggio di un comunicato stampa rilasciato dalla Procura generale della Cassazione, in data 15 aprile 2016 all’esito dell’incontro svoltosi in quella data presso la Cassazione stessa, presieduto dal Procuratore Generale, cui avevano partecipato il Ministro della Giustizia, il Vice Presidente del CSM, il primo Presidente della Corte di cassazione, il presidente della Settima Commissione del CSM, il Procuratore Generale Aggiunto e gli Avvocati generali della Cassazione, il Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo, il Capo di Gabinetto del Ministro, i capi del DAP, Affari Giustizia ed Ispettorato Generale del Ministero della giustizia.

    Nel comunicato si legge, infatti, che:

    Al centro della riflessione…sono stati posti i poteri di coordinamento attribuiti al Procuratore Generale dall’art. 6 Decreto Legislativo 106 del 2006, al fine di definire un quadro di insieme nazionale adeguato a stimolare il corretto e uniforme esercizio dell’azione penale...”.

     

    Ma tali poteri di coordinamento, come si è ampiamente documentato, non sono affatto attribuiti al Procuratore Generale dalla predetta previsione ordinamentale !

    E ciò vale anche quando si discute del cd. “coordinamento organizzativo” che, sia pure entro certi limiti, si intenderebbe attribuire ai Procuratori generali25. Tra l’altro, anche all’interno di un ufficio di Procura di modeste dimensioni, chi lo dirige ha necessità di studiare a fondo – e per molto tempo – la situazione esistente prima di dettare direttive di tipo organizzativo. Non si può dunque pensare che chi – come il Procuratore Generale – non opera all’interno di un ufficio sia in grado di dettare linee guida per renderlo più funzionale. Meglio implementare, dunque, il suo ruolo di controllo di patologie e gravi criticità nella direzione delle Procure, allo scopo di rimuoverle e/o intervenire disciplinarmente o attraverso diniego di riconferma dei Procuratori che ne risultassero responsabili.

    Per concludere – e per rafforzare la convinzione della magistratura di dover contrastare qualsiasi progetto e rischio di gerarchizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero - è probabilmente utile ricordare che Giovanni Falcone elaborò, mentre lavorava al ministero della Giustizia, un primo progetto di costituzione della Direzione nazionale antimafia che determinò critiche motivate per la sua originaria impostazione (appare qui superfluo citarne in dettaglio le caratteristiche): il 28 ot­tobre del 1991, infatti, circa sessanta di magistrati (tra cui chi scrive) firmarono un documento contenente le critiche e le preoccupa­zioni riguardanti proprio il paventato rischio di gerarchizzazione delle indagini nel settore dell’Antimafia. Qualcuno ancora oggi, probabilmente senza ri­cordare o voler capire, attribuisce a quell’appello il significato di un attacco personale a Giovanni Falcone. Per smentire questa tesi, basta citare tra le tante firme sotto quel testo, quelle di Paolo Borsellino, Antonino Ca­ponnetto e Gian Carlo Caselli. Il progetto di costituzione della DNA fu conseguentemente modificato. La circostanza che siano trascorsi circa 25 anni da quell’episodio non comporta affatto l’attenuarsi della esigenza di “avversione” nei confronti della tendenza alla gerarchizzazione degli uffici del P.M. : anzi ricordandone la specificità, il contesto e la materia allora in discussione, quella esigenza si rafforza.

    La difesa delle prerogative di indipendenza ed autonomia delle Procure della Repubblica (non dei Procuratori) dal rischio di esondazione delle Procure Generali (o di alcuni Procuratori Generali) deve ancora oggi, come avvenne nel 1991, impegnare l’intera magistratura: occorre difendere i solidi ed irrinunciabili principi su cui si fonda il nostro sistema. Gli stessi – sia ben chiaro – cui devono ispirarsi i poteri organizzativi dei Procuratori della Repubblica all’interno degli uffici che dirigono, poteri che devono essere esercitati nel rispetto delle prerogative di autonomia costituzionale dei magistrati del Pubblico Ministero.

     

    Segue, in allegato, il testo della proposta in materia di organizzazione degli Uffici del PM, licenziata dalla Commissione di studio incaricata di predisporre un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, con pochi, telegrafici (e certamente insufficienti) rilievi in note a pie’ di pagina.

    Non appare utile diffondersi in ulteriori o più approfonditi rilievi almeno finchè non sarà noto l’orientamento del Ministro della Giustizia.

    ALLEGATO

    Testo della proposta licenziata dalla Commissione di studio incaricata di predisporre un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario limitatamente a :

     

    MODIFICHE IN MATERIA ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI DEL PUBBLICO MINISTERO

     

    D.LGS. 20 febbraio 2006, n. 106

    (Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150)

    Testo vigente Proposta di modifica (in grassetto)

    Art. 1

    (Attribuzioni del procuratore della Repubblica)

     

    Art. 126

    (Attribuzioni del procuratore della Repubblica)

    1. Il procuratore della Repubblica, quale preposto all'ufficio del pubblico ministero, è titolare esclusivo dell'azione penale e la esercita nei modi e nei termini fissati dalla legge.

     

    2. Il procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio.

     

    3. Il procuratore della Repubblica può designare, tra i procuratori aggiunti, il vicario, il quale esercita le medesime funzioni del procuratore della Repubblica per il caso in cui sia assente o impedito ovvero l'incarico sia rimasto vacante.

     

    4. Il procuratore della Repubblica può delegare ad uno o più procuratori aggiunti ovvero anche ad uno o più magistrati addetti all'ufficio la cura di specifici settori di affari, individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell'ufficio che necessitano di uniforme indirizzo.

     

     

    5. Nella designazione di cui al comma 3 e nella attribuzione della delega di cui al comma 4, il procuratore della Repubblica può stabilire, in via generale ovvero con singoli atti, i criteri ai quali i procuratori aggiunti ed i magistrati dell'ufficio devono attenersi nell'esercizio delle funzioni vicarie o della delega.

     

    6. Il procuratore della Repubblica determina:

    a) i criteri di organizzazione dell'ufficio;

    b) i criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai magistrati del suo ufficio, individuando eventualmente settori di affari da assegnare ad un gruppo di magistrati al cui coordinamento sia preposto un procuratore aggiunto o un magistrato dell'ufficio;

    c) le tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento siano di natura automatica.

    7. I provvedimenti con cui il procuratore della Repubblica adotta o modifica i criteri di cui al comma 6 devono essere trasmessi al Consiglio superiore della magistratura.

     

    1. Il procuratore della Repubblica, quale preposto all'ufficio del pubblico ministero, è titolare esclusivo dell'azione penale e la esercita nei modi e nei termini fissati dalla legge.

     

    2. Il procuratore della Repubblica assicura il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio.

     

    3. Il procuratore della Repubblica designa, tra i procuratori aggiunti, il vicario, il quale esercita le medesime funzioni del procuratore della Repubblica per il caso in cui sia assente o impedito ovvero l'incarico sia rimasto vacante.

     

    4. Il procuratore della Repubblica, con il provvedimento organizzativo di cui all’articolo 1-bis, delega a ciascuno dei procuratori aggiunti ovvero ad uno o più magistrati addetti all’ufficio la cura di specifici settori di affari, individuati con riguardo ad aree omogenee di procedimenti ovvero ad ambiti di attività dell'ufficio che necessitano di uniforme indirizzo.

     

    5. Nella designazione di cui al comma 3 e nella attribuzione della delega di cui al comma 4, il procuratore della Repubblica, stabilisce, in via generale con apposito provvedimento atti, i criteri ai quali i procuratori aggiunti ed i magistrati dell'ufficio devono attenersi nell'esercizio delle funzioni vicarie o della delega.

     

     

     

    Art. 1-bis.

    (Organizzazione degli uffici requirenti)

     

     

    1. I procuratori generali presso le Corti di appello e i Procuratori della Repubblica determinano:

    a) i criteri di organizzazione dell'ufficio27;

    b) i criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai magistrati del proprio ufficio, individuando eventualmente settori di affari da assegnare ad un gruppo di magistrati al cui coordinamento sia preposto un procuratore aggiunto o altro magistrato28;

    c) le tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione del procedimento siano di natura automatica.

    2. I provvedimenti di cui al comma 1 sono adottati dai procuratori generali presso le Corti di appello o dai procuratori della Repubblica sentiti i magistrati del proprio ufficio.

    3. I provvedimenti adottati dal procuratore generale sono trasmessi al presidente della Corte di appello e successivamente al Consiglio superiore della magistratura.

    4. I provvedimenti adottati dal procuratore della Repubblica sono trasmessi al presidente del tribunale, al presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati ed al procuratore generale presso la Corte di appello. Il procuratore generale può restituirli con osservazioni, cui il procuratore della Repubblica è tenuto a rispondere. Il procuratore della Repubblica trasmette i provvedimenti al Consiglio superiore della magistratura unitamente alle osservazioni del procuratore generale29.

    5. Il Consiglio superiore della magistratura prende atto o formula osservazioni sui provvedimenti trasmessi. Alle osservazioni il capo dà risposta entro trenta giorni dalla comunicazione.

     

    Art. 6.

    (Attività di vigilanza del procuratore generale presso la corte di appello)

     

    Art. 630

    (Attività di coordinamento e vigilanza dei procuratori generali)

    1. Il procuratore generale presso la corte di appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale.

    1. Il procuratore generale presso la Corte di cassazione, al fine di favorire l’adozione di criteri organizzativi omogenei e funzionali da parte dei procuratori della Repubblica e la diffusione di buone prassi negli uffici requirenti, coordina periodiche riunioni tra i procuratori generali presso le Corti di appello all’esito delle quali vengono formulate linee guida organizzative da trasmettere al Consiglio superiore della magistratura per l’approvazione.


    2. Il procuratore generale presso la Corte di appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto, che devono rispondere tempestivamente, ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale, segnalando quanto rilevato nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza31.

     

     

     

     

    - - = = = o O o = = = - -

     

     

    1 In sintesi, in ordine a quella sub “a”, osservava che la previsione secondo cui le procure circondariali debbano sempre, in caso di iscrizione di procedimenti per i reati elencati dal PNAA, ed al di fuori di una connessione con la finalità di terrorismo, trasmettere i relativi procedimenti alle Procure Distrettuali per competenza avrebbe determinato insopportabili ingolfamenti di tali uffici e, soprattutto, avrebbe costituito una scelta impropria, finendo con il riguardare previsioni ulteriori rispetto a quelle di cui all’art. 51 co. 3-quater. Anche in ordine alla proposta sub “b”, lo scrivente rilevava la sua incongruità rispetto al fine dichiarato della trasmissione – anche se in supporto informatico - di copia di informative relative ai reati ipotizzati, sempre al di fuori di una specifica emersione di possibile finalizzazione di tali reati a condotte di matrice terroristica, non potendosi dedurre la medesima solo dalla “personalità degli autori” e dalle “circostanze del fatto” citate nella nota del PNAA. Ciò anche a prescindere, dalla carenza di personale da adibire in sede distrettuale alla gestione di una così impegnativa banca dati e dalla esistenza delle banche dati delle forze di polizia giudiziaria, che sono già in grado di captare la eventuale rilevanza di notizie ed informative ai fini del contrasto del terrorismo e dell’eversione.

    Appare invece utile – precisava lo scrivente – che il suddetto invio di procedimenti per competenza, di copie di informative per conoscenza e ogni altra forma di coordinamento a livello distrettuale si realizzino solo quando l’ipotesi di finalità di terrorismo prenda corpo concretamente, sulla base di elementi fattuali (e non presunte in astratto) : ciò in relazione a qualsiasi tipo di reato (non solo rispetto a quelli inclusi nelle liste ipotizzate nel corso della riunione tra PNAA e Procuratori Generali).


    2 Il comma 3 dell’art. 118 bis bis cpp, infatti, dice che “Quando il coordinamento di cui ai commi precedenti non è stato promosso non risulta effettivo, il procuratore generale presso la Corte d’Appello può riunire i procuratori della Repubblica che procedono ad indagini collegate…”

    3 Su questo punto e sulla interpretazione estensiva che si vuol dare da parte di alcuni uffici dell’art. 6 D. Lgs. 106/2006, si rimanda alle pagine seguenti.

     

    4 Si tratta dei seguenti rilievi:

    le Procure del Distretto sono tenute ad informare i rispettivi procuratori generali, ai sensi dell’art. 118 bis co. 1 Disp. Att. Cpp., delle notizie relative ai “delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale…” etc. di cui all’art. 407 cpp, comma 2, lett. “a”, n. 4;

    destinatario di quest’obbligo è l’ufficio del pubblico ministero del capoluogo del Distretto, competente (ex art. 51 comma 3 quater c.p.p.) per i delitti tentati o consumanti con finalità di terrorismo ma lo sono anche gli altri Procuratori della Repubblica del distretto, quanto meno per i c.d. reati spia quali quelli, tentati o consumati, di omicidio, rapina aggravata (ex art. 407 cpp, comma 2, lett. “a”, n.2), in materia di armi ex art. 407 cpp, comma 2, lett. “a”, n.5), associazione per delinquere (ex art. 407 cpp, comma 2, lett. “a”, n.7).

     

    5 Sia consentito di precisare che lo scrivente è stato convocato ed ha personalmente partecipato ad audizioni dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, nonché alle riunioni tra i Procuratori Distrettuali organizzate, da un lato, dal Ministro della Giustizia e dal Ministro dell’Interno e, dall’altro, dal Consiglio Superiore della Magistratura

    6 Ancora una voolta va ripetuto che la norma in questione, infatti, non attribuisce ai P.G. competenze generali per il coordinamento delle indagini collegate, ma le riconosce – vedi co. 3 – solo quando il coordinamento non è stato promosso dai Procuratori interessati o non è effettivo.

    7 In particolare, il PNAA ha citato i protocolli organizzativi che sarebbero stati stipulati anni fa tra Procure Distrettuali e Procuratori generali, in base ai quali questi ultimi “organizzavano riunioni tra i magistrati della procura distrettuale e i magistrati delle Procure ordinarie designati alla trattazione dei procedimenti per i reati che potenzialmente riguardano la criminalità organizzata di tipo terroristico-eversivo, per lo scambio di dati, notizie ed informazioni”. Ma di tali protocolli non sono specificati estremi temporali e territoriali .

    8 La missiva del 21 luglio 2015 dello scrivente era indirizzata anche al CSM – Presidenza della Settima Commissione

    9 In una comunicazione inviata il 17 ottobre 2015 ai Procuratori della Repubblica presso i Tribunali del Distretto, il Procuratore Generale di Torino ipotizzava la formulazione di un protocollo – poi non approvato – in cui si faceva riferimento ad un suo “obbligo di ufficio propulsore del coordinamento delle indagini collegate svolte da diversi uffici di Procura”.

    10 E’ noto che, ai fini del compiuto rispetto dell’incombente di legge previsto da detta norma [comunicazione al procuratore generale delle notizie di reato per le quali non è stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione entro il termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice], la disposizione in esame va letta in combinazione con l’articolo 412 c.p.p., laddove si correla l’avocazione del procuratore generale all’inerzia del pubblico ministero, dovendosi così intendere il contenuto della segnalazione settimanale come riferita ai fascicoli non definiti rispetto ai quali devono ancora compiersi atti di indagine [che, nel caso, sarebbe inutilizzabili]; con esclusione, quindi, di quelli per cui non devono o non devono più compiersi attività di indagine, la cui definizione quindi dipende solo dallo svolgimento degli incombenti di legge [ad esempio, avvisi ex articoli 408 e 415 bis c.p.p.; richiesta di fissazione di udienza; trasmissione degli atti al giudice dibattimentale] o dall’adozione del provvedimento definitorio da parte del magistrato.


    11 Ancora una volta, dunque l’art. 6 del d. lgs. 106/2006 viene invocato come fonte di poteri in esso non previsti.

    12 Non sono noti, invece, casi di opposto orientamento.

    13 Questo l’o.d.g. della riunione: “Adozione di eventuali linee guide in applicazione a seguito dell’entrata in vigore il 29 maggio 2015 della L. 22 maggio 2015 n. 68, inerente Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.

    14 Ci si riferisce alle previsioni normative in tema di avocazione, obbligatoria o facoltativa ed alle precisazioni del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di cui al precedente par. 2.a, che non consentono una dilatazione del relativo meccanismo (sia nei tempi, sia nei presupposti), nè una estensione dei connessi poteri ai sensi dell’art. 6 D. L.vo n. 106 del 2006 (norma extraprocessuale che fissa solo un potere di vigilanza sul corretto e uniforme esercizio dell’azione penale).

     


    15 Così testualmente nella delibera del 16 marzo 2016: Si tratta, invero di poteri che vanno riconosciuti al procuratore generale nell’ambito della migliore interpretazione dell’art. 6 del D.l.vo 106/2006, che ha visto nel tempo stratificarsi, per effetto dell’azione del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, e con l’osservazione attenta della settima commissione consiliare, più che una interpretazione del contenuto di una norma apparsa inizialmente come una sorta di cuneo nelle maglie dell’autonomia degli uffici di primo grado, un vero e proprio metodo di lavoro, fatto della paziente e diffusa attività di armonizzazione, prima a livello distrettuale e poi a livello nazionale, delle migliori prassi di organizzazione applicate al settore investigativo e requirente.

    16 Ancora dalla citata delibera: Si tratta dunque di un compendio normativo che va maneggiato con cura in una doppia direzione, solo apparentemente antitetica e che invece, a ben guardare, rappresenta la corretta lente di osservazione di un delicato meccanismo nell’architettura dell’ordinamento: da un lato quella della precisa e puntuale interpretazione delle norme, che affidano al procuratore generale poteri circoscritti e procedimentalizzati, da interpretarsi senza tentazioni estensive che apparirebbero una forzatura rispetto al sistema; dall’altro quella della prassi virtuosa dell’applicazione dell’art. 6 e dei poteri di impulso e di vigilanza che, ben lungi dall’utilizzare la spuntata arma del principio di autorità e di gerarchia, affida all’autorevolezza del lavoro di coordinamento organizzativo il metodo per puntare all’uniformità dell’azione penale nel rispetto dell’autonomia dell’ufficio del pubblico ministero di primo grado.


    17 Un particolare ed analitico contributo alla elaborazione dei rilievi che seguono è stato fornito dal dr. Giuseppe Amato, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento.

    18 Trattasi di una ipotesi illustrata nel precedente paragrafo n. 3.

    19 L’articolo 1, comma 7, del D. Lgs. n. 106/2006, sarebbe stato così riformulato: “I provvedimenti con cui il procuratore della Repubblica adotta o modifica i criteri di cui al comma 6 sono adottati, sentiti i procuratori aggiunti che hanno facoltà di presentare osservazioni. Tali provvedimenti devono essere trasmessi al Procuratore generale per l’ulteriore trasmissione, con il suo parere, al C.S.M.. Il Procuratore generale ha facoltà di restituire detti provvedimenti formulando osservazioni e proposte di modifica. Il procuratore della Repubblica, sentiti i procuratori aggiunti, ove non ritenga di condividere le modifiche proposte dal Procuratore generale, trasmette gli atti al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.

    Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione formula le proprie osservazioni e proposte di modifica restituendo gli atti al Procuratore della Repubblica che, sentiti i procuratori aggiunti, procede all’approvazione finale dei provvedimenti che trasmette al CSM”.



    20 L’articolo 6, comma 2, del D. Lgs. n. 106/2006, sarebbe stato così riformulato: “Ai soli fini di cui al comma primo (ndr.: quello con cui si intendeva attribuire al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione il potere di assicurare “il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale su tutto il territorio nazionale..), il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione predispone, per ciascun anno giudiziario, apposite linee guida per l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 1 comma 7 del presente decreto legislativo. Tale documento è comunicato al CSM.”

    21 Questa la prevista formulazione dell’articolo 6, comma 3, del D. Lgs. n. 106/2006: “Procuratore Generale presso la Corte di Appello verifica l’attuazione delle linee guida di cui al comma precedente nell’ambito del distretto di sua competenza al fine di assicurare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti. A tali fini il procuratore generale acquisisce, direttamente ed anche a mezzo di accesso informatico ai sistemi informativi di ciascuna procura della Repubblica del distretto, tutti i dati e notizie necessarie dalle procura della Repubblica del distretto”.

    22 Le precisazioni che seguono, da lett. “a” e “b” ed il prospetto delle modifiche proposte in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero sono tratti dalla “Relazione illustrativa” finale della Commissione di studio incaricata di predisporre un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario”… con riferimento, tra l’altro, “F) all’organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero

    23 Si tratta dunque di previsioni volte a contenere – comprensibilmente, ad avviso di chi scrive – la discrezionalità del Procuratore della Repubblica.

    24 Si tratta, in questo caso, di una previsione che consente di recuperare un ruolo del C.S.M. .

    25 Si veda nel documento in Allegato la proposta di modifica dell’art. 6, co. 1 e 2 del D. Lgs. 106/2006

    26 Le novità in grassetto contenute nei commi 3, 4 e 5 dell’art. 1 sono sicuramente accettabili e corrispondono ampiamente a prassi già attuate nella maggioranza delle Procure della Repubblica

    27 Sarebbe stato probabilmente opportuno specificare che la previsione si riferisce agli uffici rispettivamente diretti dal Procuratore Generale e dal Procuratore presso il Tribunale, con conseguente citazione – sub lett. “b” – anche degli avvocati generali nelle Procure Generali, quali magistrati di cui precisare i compiti.

     

    28 Anche le novità in grassetto contenute sub “b” e “c” sono sicuramente accettabili e corrispondono ampiamente a prassi già attuate nella maggioranza delle Procure della Repubblica

    29 La “quasi – tabellarizzazione” dei provvedimenti adottati dal Procuratore della Repubblica, secondo quanto previsto sub nn. 4 e 5, è in linea di massima accettabile e la procedura prevista corrisponde anch’essa a prassi da tempo attuate in molte Procure. Sarà necessario, però, prevederne la possibilità di elastica applicazione. Sarebbe stato opportuno prevedere anche il passaggio attraverso il Consiglio Giudiziario (per le valutazioni di competenza) dei provvedimenti adottati dal Procuratore, con possibilità per i Procuratori Generali di interloquire in quella sede.

     

    30 La proposta di nuova formulazione dell’art. 6 non prevede, dunque, alcun potere di coordinamento investigativo. Ciò costituisce scelta positiva e dovrebbe impedire il protrarsi della invocazione di questa norma – come attualmente vigente - a sostegno della sin qui più volte criticata aspirazione di vari Procuratori generali ad esercitare tale inesistente potere. La formulazione di cui al co. 2, tuttavia, andrebbe rivista per evitare che, attraverso qualche passaggio ambiguo, possa ripresentarsi il rischio della predetta “esondazione”.

    31 In relazione a questo passaggio finale dell’attività di controllo dei Procuratori generali sarebbe stato utile prevedere l’invio delle osservazioni anche ai Procuratori della Repubblica per consentire loro eventuali controdeduzioni.

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