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GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La lezione di Gabriella Luccioli:  dalla discriminazione all’uguaglianza

    Gabriella Luccioli,

    Diario di una Giudice i miei cinquant’anni in magistratura

    Forum 2016 (pagg.162).

    “..senza distinzione di sesso..” Costituzione, articolo 3

    Siccome la memoria è un corpo vivo, più che un diario questo di Gabriella Luccioli potrebbe definirsi un manuale di volo perché lo sguardo lucido di chi lo ha scritto apre squarci impensati sulla magistratura nell’arco di tempo che va da metà anni sessanta a metà anni ottanta descrivendo, con i colori vivi di una pennellata d’acquerello, uno scenario di ineguagliabile discriminazione  verso la donna magistrato.
    Nel racconto non vi è recriminazione, ma un  pudore trattenuto dal quale emerge, forte, la percezione dello stereotipo maschile e delle sue irritanti agiografie sul ruolo femminile confinato in quello di moglie e di madre e che l’Autrice descrive così bene, fin dalle prime battute della carriera, così come scolpisce quella lingua imbalsamata di un ordine giudiziario pensato per i soli maschi,  scandita con determinazione fino all’umiliazione del discorso del Procuratore Generale pronunciato –con prevedibile evidenza fenomenica- nel momento nel quale accoglienza ed apertura ai nuovi ingressi dovrebbe esprimersi al meglio, ossia al momento del benvenuto dei vincitori del concorso.
    Siamo nel 1965, Gabriella Luccioli unica donna magistrato del distretto di Corte d’Appello di  Roma ne ricorda il viatico e lo consegna alla memoria “ ..il gravissimo errore commesso dal legislatore nell’ammettere le donne in magistratura..”  dice il Procuratore Generale, insomma, un aedo dell’esclusione femminile, quasi un re spodestato dall’art. 3 della Costituzione.
    Da qui, ma forse anche prima, in attesa di espletare gli orali : “ Mia moglie non lavorerà..” sottolinea alla protagonista un futuro collega nell’attesa della prova, questo libro diventa percorso di conoscenza ed insieme l’impietosa fotografia  di una trincea d’ isolamento verso la presenza femminile nell’ordinamento giudiziario.
    Una discriminazione che, a pensarci adesso, sembra lontana e irragionevole, ma che sa essere crudele tanta è l'insensatezza acuminata, nella prima sede di destinazione della protagonista, di uno strappo capace di creare un pregiudizio anche nello svago dei colleghi maschi “..Talvolta, mentre sono chiusa nella mia stanza a lavorare, mi capita di sentire le loro voci allegre mentre concordano appuntamenti conviviali..”.. Grida gioiose che nel ricordo assomigliano allo stridìo del gesso sulla lavagna, suono come carta vetrata a risentirlo adesso, nell’eco dell’ esclusione.
    Glissa soavemente Gabriella su questa discriminazione mal celata e su quelle successive perché, come dice Italo Calvino: “..anche ad essere s’impara”  se, quella stessa esclusione, ritorna puntuale anche nel non lontanissimo anno 1983 dove l’assegnazione di Gabriella ad una sezione della Corte d’Appello penale si presenta al Presidente della Corte, con  il solito carico di diffidenza maschile: “..Vorremmo stare .. per conto nostro..”.
    Si avverte, nel racconto,  la fatica quotidiana del confronto con i colleghi maschi nel segno di una  perenne  giustificazione sempre auto inflitta: “ Io ci sono.. sono qui…”. Però, è quell’esserci, comunque,  che, alla fine, propizia gli incontri più felici con chi, tra i colleghi,  per cultura e competenza non conosce la discriminazione sessuofoba.
    Incontri rari ma determinanti per le scelte di Gabriella Luccioli nelle decisioni più innovative e coraggiose.
    Parlare alla contemporaneità è difficile ma nella ricerca di Gabriella ci sono già radici e fiori perché è in questo momento esatto che studio, impegno e conoscenza unite a cultura associativa testimoniata dalla felice intuizione sull’Associazione Donne Magistrato,  proiettano la protagonista fuori dai recinti prevedibili del pensiero maschile e da quel ciarpame culturale che vorrebbe, in ogni occasione, riconoscerla solo nel suo ruolo madre/ figlia esperta di problemi minorili come se fosse un fragile corpo estraneo in un universo non pensato per le donne.
    La giurista ascolta chi chiede la somministrazione di una regola concreta ed adattabile, ed, insieme, elabora la solitudine nello studio e nella riflessione, trasformando in positivo il ricordo doloroso dell’esclusione maschile che la emargina per imbarazzo e incultura  e tutto, però, recupera nell’entusiasmo dei  veri cambiamenti sociali che la interrogano come donna dietro una toga non anonima, come lei stessa dice.  
    Così,  lo sguardo della protagonista penetra nel disagio del mancato riconoscimento e si avvicina alla verità delle cose in nome dell’uguaglianza e della dignità nell’applicazione della regola di diritto.
    Tante le intuizioni giurisprudenziali di Gabriella Luccioli nell’attuazione quotidiana del principio di uguaglianza: dalla tutela della parte più debole della coppia fino alla libera scelta di morire con dignità.
    Così, in nome della solidarietà coniugale o postconiugale la sua giurisprudenza potenzia la posizione giuridica del coniuge assegnatario della casa familiare concessa in comodato a tutela della prole non autosufficiente, rimedita l’assegno di mantenimento in sede di separazione per renderlo idoneo a garantire la conservazione del tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, rivaluta il contributo apportato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell'altro, ai fini della quantificazione dell'assegno divorzile,  disvela l’incongruenza, ai fini dell’addebito, di quanto avvenuto dopo la crisi familiare cristallizzata dalla separazione, insomma, costruisce un modello diverso di giudice, non anemico e insensibile ma che sa rispondere alle domande della storia.
     Alla sua giurisprudenza dobbiamo il riconoscimento del diritto alla sessualità della donna nel progetto di maternità legato al matrimonio e il conseguente danno ingiusto risarcibile collegato alla lesione grave di un diritto inviolabile nel caso di mancata informazione da parte del futuro marito della propria "impotentia coeundi" ed, ancora, la tutela del diritto del paziente a conoscere e scegliere di curarsi attraverso il consenso informato e consapevole, dove il giudice verifica e compone  il contrasto possibile tra malattia e scelte terapeutiche.
    Libertà e uguaglianza vivono anche nelle decisioni più difficili che impegnano Gabriella Luccioli  come quelle sul  diritto di vivere e in quello  di morire con dignità in un percorso culturale sempre più rigoroso fino al caso più celebre della sentenza sul caso Englaro, in una pratica inesausta d’indipendenza di giudizio e di cura del diritto inteso come studio continuo di adattamento rispetto ad un germinare perenne di trasformazioni sociali in tormentato equilibrio.
    La cura di un diritto moderno ed attento ritorna in Gabriella Luccioli  anche nella affermazioni della libertà di  ciascuno di vivere le proprie inclinazioni sessuali. Anche in questa scelta riemerge prepotente la cultura della dignità e dell’uguaglianza, ossia i valori più in pericolo nell’oggi del pensiero globalizzato e dei diritti senza terra, come lei stessa ricorda, pensando a Stefano Rodotà.
    Gabriella Luccioli ci racconta, perciò, attraverso il suo diario, come lo sguardo lucido del giurista in uno scenario così complesso non possa retrocedere al gesto labiale di una regola recitata meccanicamente e sospinta dal formalismo del Giudice bocca della legge, ma deve  sapere dialogare con la post modernità e rispondere alle domande della storia.
    A lei tra le poche donne magistrato che nel 2008 diventa anche la prima donna nominata Presidente di sezione della Cassazione,  il compito più arduo del rovesciamento di un intero immaginario sull’idea della reale parità dei diritti e sull’uguaglianza senza distinzione di sesso, alla luce dei principi costituzionali, che può leggersi in controluce nelle parole di Giovanni Leone nel dibattito dell’Assemblea Costituente e che sembrano, oggi, quasi un cimitero delle idee: “..Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’ equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.
    Testimonianza di questo nuovo modello di giudice che dobbiamo a Gabriella Luccioli e che si rivela tanto più preziosa quanto più il formalismo giuridico, lo stesso che, come dice Salvatore Satta, si rivela una ripulsa di aiuto a chi interroga il Giudice, rischia di travolgerci proprio ora, con la mosca cocchiera della tecnocrazia e della velocità futurista che s’insinua nelle pieghe della storia, mentre il sindacalismo ne riempie gli interstizi.
    Alla fine della lettura che c’intriga e che si fa percorrere tutta d’un fiato sentiamo di essere legati a Gabriella Luccioli da un debito inestinguibile di riconoscenza per quello sguardo che ha attraversato il futuro nella tutela dei diritti e per il richiamo fermo ai limiti di un “io” che tende a diventare, in questa contemporaneità difficile e contraddittoria, invadente e narcisistico quando, per avventura, rischia di trasmodare nello sfruttamento mercificato del corpo altrui, come il racconto evoca nella vicenda della scelta difficile sulla maternità surrogata.  
    Siamo in debito con l’Autrice perché la Sua lezione diventa l’unica risposta possibile - oltre e prima della politica linguistica - di fronte, non solo ai deprimenti stereotipi maschili, ma anche all’arretratezza di quelli femminili che li mimano e li assecondano: “ Ho incontrato piccoli uomini e figure di donne del tutto negative per il loro narcisismo e rampantismo che hanno assimilato gli aspetti meno esaltanti del modello maschile..”.
    La linea di resistenza per il futuro che il diario ci propone sta proprio qui:  nel rischio di restare noi stesse avviluppate in prevedibili modelli che rischiano d’imprigionarci censurando la vera uguaglianza dei diritti, quella che si conquista con lo studio e la cultura della dignità di ciascun individuo.

    di Donatella SALARI
    Giudice presso la Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario

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    La parola bellicosa e i social:  quanto siamo liberi di esprimerci?

    A chi si potrebbe rimproverare un sincero amore per il testo e per la cura delle parole? E come si potrebbe depurare il testo stesso da certi populismi che allontanano il pensiero critico e trascinano il testo amato verso l’odiato abisso della demagogia del governo dei tweet?

    Ed a chi ama appassionatamente il testo si potrebbe forse rimproverare di aborrire le banalizzazioni?
    Si dirà ..ma bisogna farsi capire..la metafora aiuta e propizia.
    Sarà!..   

    Il fatto è che le piattaforme dei c.d. “social” sono diventati luoghi un po' selvaggi nella loro vischiosità caotica soprattutto quando spinge a pericolose semplificazioni.

     Forse lo strumento tecnologico di amplificazione del dibattito e di celerità del confronto ha progressivamente perso la sua originaria carica di comunità spontanea e libera per avvicinarsi pericolosamente a quella di via surrettizia verso l’omologazione, per non dire di brutalità del linguaggio, esattamente come sta avvenendo per le nostre mailing list  infestate da “troll” di ogni ordine e grado ai quali si dà da mangiare ignorando la regola comunicativa  delle comunità di internauti che sconsiglia di nutrirli (please don't feed the troll).

     Certo è che in alcuni episodi recenti della campagna referendaria le parole e la storia sono state maltrattate e spinte ai margini del discorso pubblico fagocitando, rispetto degli interlocutori, quel po’ di continenza che può neutralizzare la pervasività del mezzo comunicativo da piattaforma.

    In questo scenario assertivo va riconosciuto che anche la politica ha fatto la sua parte nello spaziare, con retorica spicciola, dalla storia del buon partigiano che vota SI’ fino a casa Pound  che vota NO al referendum, magari senza neanche sapere che cosa veramente è stato  Ezra Pound  per la letteratura e che  cosa c‘entra Casa Pound  con il grande Poeta.

    Ma tant'è ..  la velocità della similitudine affascina mentre appiattisce in funzione della comunicazione immediata e veloce tanto propiziata dai social e dai media, ossia tutti luoghi che rendono possibile una certa massimazione del discorso e una certa rudezza del linguaggio.

    Tuttavia, una riflessione s’impone perché dietro l’angolo s’affaccia inesorabile la sanzione per chi fa delle parole e della storia una cattiva manutenzione, ossia il rischio serio di non farsi capire.

    Si consuma, in questi momenti comunicativi concitati ed amplificati dalla presenza di quello che Carlo Collodi avrebbe chiamato “ intelligente e cospicuo uditorio”, una grande rinuncia culturale ovvero la marginalizzazione dei concetti intesi come unica via verso la conoscenza, ossia gli strumenti irrinunciabili che elidono lo spazio tra pensiero e parola.

    Può accadere, allora, che noi stessi sinceri democratici ci facciamo irretire proprio da ciò che combattiamo ogni giorno, ossia l’abbandono del pensiero critico e il rispetto della storia.

    Tutto questo forse non ha niente a che vedere con la libertà di parola che non è in discussione e che  tutti intendiamo difendere, ma si tratta di capire quale parola vogliamo difendere ? Anche quella inopportuna ? Ossia proprio quella che c’ allontana dal confronto dialettico come veicolo fondamentale di crescita culturale se la parola buttata nel marasma astorico del web diventa irrispettosa della conoscenza, o semplicemente, crea malintesi umiliando la storia, mentre  il pensiero si avvicina  pericolosamente ad un cliché tra i più pervasivi, ossia quelli che sottovalutano l’interlocutore il quale non è meno degno di rispetto ancorché confuso nella comunità virtuale indistinta.

    Qualche riflessione, allora, s’impone.

    Ma non si era detto che la democrazia serviva a contrastare anche la dittatura degli algoritmi (dove un SI’ nella compulsiva campagna referendaria diventa la panacea di tutti i mali che affliggono una società esausta) e a combattere le platee mediatiche dove il discorso pubblico si riduce a poche parole chiave e slogan prêt-à-porter mentre i veri problemi c’incalzano nella loro testarda ed irrisolta realtà?

    E non si era detto che non convincevano le agiografie facili e le allegre fascinazioni delle parole usate come armi contundenti  da chi privilegia il web come luogo esclusivo del dibattito pubblico a colpi di tweet?

    Forse, allora, davanti alla parola inopportuna e bellicosa più che alla libertà d’espressione verrebbe da pensare ad un’avventura culturale non esaltante che evoca più che un deficit di libertà, un deficit di stile se, come è da credere, i social non sono un luogo maligno, ma qualcosa che ci costringe a marcare la nostra finitezza allontanandoci,  nel frastuono comunicativo, dalla  fondamentale responsabilità delle parole che utilizziamo.

    Insomma ..di parole abbiamo solo quelle, non le maltrattiamo e, soprattutto, non maltrattiamo la storia, con cornucopie universali di stereotipi.

    Qui la libertà di espressione non c’entra, anzi, quel diritto non deve diventare la foglia di fico della parola  inopportuna.


    di Donatella SALARI
    Giudice presso la Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario

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